N. 232 ORDINANZA (Atto di promovimento) 20 novembre 2002

Ordinanza  emessa  il  20 novembre  2002  dal G.U.P. del Tribunale di
Palermo  nel  procedimento  penale a carico di Bonanno Elio Angelo ed
altri

Reati  e  pene  -  False  comunicazioni  sociali - Nuova disciplina -
  Conseguente  riduzione del termine di prescrizione - Impossibilita'
  di garantire l'effettivita' della sanzione (in contrasto con quanto
  imposto   dalla   direttiva  comunitaria  n. 68/151)  -  Violazione
  dell'obbligo  di  rispettare  i  vincoli derivanti dall'ordinamento
  comunitario.
- Codice  civile,  artt. 2621 e 2622 (modificati dal d.lgs. 11 aprile
  2002, n. 61).
- Costituzione art. 117.
Reati  e  pene  -  False  comunicazioni  sociali - Nuova disciplina -
  Conseguente   riduzione  del  termine  di  prescrizione  -  Mancata
  previsione  di un adeguato mezzo processuale in grado di consentire
  la  celebrazione  del  processo  entro  i  termini  di prescrizione
  stabiliti   (con   riguardo   a   quanto  imposto  dalla  direttiva
  comunitaria  n. 68/151) - Contrasto con la normativa comunitaria in
  materia.
- Codice  civile,  artt. 2621 e 2622 (modificati dal d.lgs. 11 aprile
  2002, n. 61).
- Costituzione artt. 10 e 11.
(GU n.18 del 7-5-2003 )
                 IL GIUDICE DELL'UDIENZA PRELIMINARE

    Ha   emesso   la   seguente  ordinanza  nel  procedimento  penale
n. 926/1998 R.G.N.R. n. 4642/1998 RG.GIP.
    Decidendo  sulla  questione  di legittimita' costituzionale degli
artt. 2621  e  2622  c.c.  come  novellati  dal recente decreto-legge
n. 61,  11 aprile 2002 in relazione agli artt. 3, 10, 11 e 117 Cost.,
avuto  riguardo  alla direttiva CEE n. 68/151, sollevata dall'Ufficio
del  pubblico ministero nel corso dell'udienza del 24 settembre 2002,
limitatamente agli articoli 3, 10 e 11 Cost.;

                            O s s e r v a

    Va  preliminarmente  valutata  la  rilevanza  della  questione di
legittimita'   costituzionale   nel   presente   procedimento   degli
artt. 2621  e  2622  c.c.  come novellati dalla legge n. 61/2002, per
violazione  degli  artt. 10 e 11 della Costituzione in relazione alla
direttiva CEE n. 68/151, nonche' dell'articolo 3 della Costituzione.
    All'uopo   e'  opportuno  specificare  che  nei  confronti  degli
imputati  di  questo procedimento il pubblico ministero ha chiesto il
decreto  che  dispone  il  giudizio per numerose fattispecie sussunte
negli  articoli  2621  e  2622  cod.  civ.  commesse  in  Palermo  il
28 ottobre 1991 (capo a)); 28 ottobre 1992 (capo b)); 29 ottobre 1993
(capo  c));  il  29 ottobre  1994 (capo d)); il 31 ottobre 1995 (capo
e)); il 31 ottobre 1996 (capo f)).
    Il  pubblico  ministero  ha  esercitato  l'azione penale sotto la
vigenza  della  abrogata  previsione  normativa  del  reato  di false
comunicazioni sociali.
    Esso  prevedeva  all'art. 2621  cod.  civ.  salvo  che  il  fatto
costituisse  reato  piu' grave «... la pena della reclusione da uno a
cinquanni e la multa da lire due milioni a venti milioni».
    A mente dell'art. 157 c.p. questo delitto si prescriveva in dieci
anni  in via ordinaria ed in quindici anni se prorogato il termine di
prescrizione.
    La  novella sopra menzionata, la n. 61 del 2002, ha modificato la
figura  del  reato  scindendola  in  due  diversi articoli del codice
civile:
        l'art. 2621  c.c.  che punisce a titolo di contravvenzione il
di  reato  di false comunicazioni sociali, con pena fino ad un anno e
sei  mesi  di  arresto,  se  dal  fatto  non  deriva  danno  a soci e
creditori;
        l'art. 2622  c.c. che punisce i soggetti in esso specificati,
a  querela  del  socio  o  creditore, laddove costoro hanno subito un
danno  patrimoniale dalla condotta tipica, alla pena della reclusione
da sei mesi a tre anni.
    Il termine di prescrizione, pertanto, nelle ipotesi modificate e'
ovviamente di molto ridotto.
    Ora,  il  pubblico ministero, nella eccezione sollevata, sostiene
la  violazione  da  parte  del  legislatore delle disposizioni di cui
all'art. 10  e  11 della Costituzione in relazione al contenuto della
direttiva  CEE  n. 68/151  in quanto tale ultima norma vincolante per
gli  Stati membri, impone «adeguata sanzione nelle ipotesi di mancata
pubblicazione del bilancio e del conto profitti e perdite».
    Le norme incriminatrici, come sopra modificate, sempre secondo il
pubblico  ministero, sostanzialmente non garantiscono per, i tempi di
prescrizione   estremamente   brevi   non   solo   l'adeguatezza   ma
l'effettivita',  la  proporzionalita' e la capacita' dissuasiva della
sanzione  di  essa  (avuto  riguardo  anche  alla  complessita' degli
accertamenti  da  svolgere per accertare il delitto e la sua entita',
in  relazione  ai  parametri  dagli  stessi  articoli  dettati per la
rilevanza penale della condotta - si veda Corte di giustizia sentenza
del 21 settembre 1989, C-68/88).
    Sempre  al  fine  di  esprimere il giudizio sulla rilevanza delle
questioni  sollevate,  per  ordine  espositivo, va ricordato che agli
articoli 10 e 11 Cost. prevedono e sanciscono l'autolimitazione della
sovranita' nazionale in condizione di parita' con gli altri stati per
assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni, e che l'ordinamento
giuridico  italiano  si conforma alle norme di diritto internazionale
generalmente riconosciute.
    La  questione,  cosi'  posta,  in relazione ai due principi sopra
formulati, non puo' prescindere dal dettato di cui all'art. 117 della
Costituzione  che,  rispetto a quanto statuito dagli articoli 10 e 11
della   Costituzione,   sono,  gia'  nel  corpo  della  stessa  Carta
costituzionale, immediata e diretta specificazione.
    Infatti  la  norma,  siccome  innovata dalla legge costituzionale
art. 3   del   18 ottobre  2001,  all'art. 3  afferma:  «La  potesta'
legislativa  e'  esercitata  dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto
della  Costituzione,  nonche'  dei vincoli derivanti dall'ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali».
    La  norma  fissa  pertanto  nella  Costituzione  l'obbligo per il
legislatore   di   conformarsi,oltre   che  alle  disposizioni  della
Costituzione  medesima,  ai principi dell'ordinamento comunitario; se
il  legislatore  non  rispetta  tale  obbligo  nel legiferare ha gia'
violato la relativa disposizione costituzionale.
    La direttiva CEE n. 68/151 - che come di seguito si specifichera'
-  opera nel nostro ordinamento grazie ai principi di autolimitazione
della sovranita' (artt. 10, 11 nonche' 117 Cost.) in materia di falso
in  bilancio  all'art. 6  prevede  che «gli Stati membri stabiliscono
adeguate  sanzioni  per  i casi di mancata pubblicita' del bilancio e
del   conto   profitti   e   perdite,   come  prescritta  dall'art. 2
paragrafo 1,  lettera  F  -  mancanza nei documenti commerciali delle
indicazioni  obbligatorie  di  cui  all'art. 4», e cio' per attuare e
rendere  efficaci  e  proteggere  gli interessi dei soci e dei terzi,
cosi'  come  e'  previsto  negli  Stati membri, a mente dell'art. 58,
secondo comma del trattato CEE.
    Cio'   posto,   per   il   giudizio  di  rilevanza  nel  presente
procedimento,  e'  da chiedersi prima se la Corte costituzionale puo'
avere  spazi  decisionali  allorche'  le si chieda una abrogazione di
norme  penali  piu'  favorevoli  al  reo  - come nel caso in specie -
rispetto alla previgenza di norme della stessa natura penale, ma meno
favorevoli   quanto  al  regime  sanzionatorio.  Opera,  infatti,  il
principio di cui all'art. 25 Costituzione.
    In  linea  generale la giurisprudenza costituzionale presenta due
fondamentali arresti circa gli effetti delle proprie decisioni:
        1) in  caso  di dichiarazione di incostituzionalita' di legge
abrogante,   «...ridiventano   operanti   le   norme  abrogate  dalle
disposizioni  dichiarate  illegittime»  (si  vedano,  per  tutte,  le
sentenze  n. 107/74  e 108/86). E comunque rimanendo - per il dettato
dell'art. 136  Cost.  -  «proibito  applicare  norme  che siano state
dichiarate  costituzionalmente illegittime», atteso che le norme «che
per  effetto delle dichiarazioni di illegittimita' hanno perso vigore
e  sono  state eliminate dall'ordinamento, non possono di conseguenza
nemmeno piu' trovare applicazione in sede giudiziaria (nel giudizio a
quo  come negli altri procedimenti pendenti). Corte cost. n. 127/66 e
n. 48/70;
        2) secondo  altre decisioni invece si determinerebbe un vuoto
normativo  che  il  legislatore  dovrebbe,  a seguito della pronuncia
della  Suprema  Corte,  affrontare  e  risolvere  in  osservanza  dei
principi  della  Costituzione.  Quanto  alla  configurabilita' di una
decisione,  come  nel  caso che trattiamo, e dunque alla possibilita'
che   a   seguito   della   abrogazione  di  una  norma  penale,  per
incostituzionalita'  della  stessa,  possa rivivere altra fattispecie
incriminatrice,    piu'    grave   rispetto   alla   abrogata   norma
incostituzionale,  la  Corte, nella sentenza n. 148 del 1983 ha cosi'
statuito:  «...  Una e' la garanzia che i principi del diritto penale
costituzionale   possono   offrire   agli   imputati   circoscrivendo
l'efficacia  spettante  a dichiarazioni di illegittimita' delle norme
penali  di  favore,  altro e' il sindacato cui le norme stesse devono
pur  sempre  sottostare,  a  pena di istituire zone franche del tutto
impreviste dalla Costituzione all'interno delle quali la legislazione
stessa  diverrebbe  incontrollabile. In secondo luogo le norme penali
di  favore  fanno  anche  esse parte del sistema al pari di qualunque
altra  norma  costitutiva dell'ordinamento. «Esse devono, pertanto, e
come tutte le altre, ispirarsi al piu' generale e superiore principio
di  ragionevolezza  tutelato  dall'art. 3  Cost.  che  si vuole debba
sottendere la produzione e formazione delle leggi.
    Soccorre  all'uopo  quanto dalla stessa Corte deciso in relazione
al  generale ed astratto principio cui deve sempre ispirarsi l'intero
nostro ordinamento giuridico: «Nel giudizio sulla razionalita' di una
certa disciplina non si deve guardare soltanto alla posizione formale
di  chi  ne  e' destinatario, ma anche alla funzione e allo scopo cui
essa e' preordinata» (sentenze n. 132/84; 53/87; 55/89).
    Pertanto, deve ritenersi inammissibile che vi siano norme emanate
dal  legislatore  che possano sfuggire al controllo dei giudici delle
leggi,   per   ragioni   di   tutela   degli   interessi  dell'intera
collettivita'.
    Cio'  posto  ne discende - anche alla luce di quanto dalla stessa
Corte  affermato  - che puo' essere chiesto al giudice delle leggi un
intervento  sulla norma penale di maggior favore per il reo, rispetto
al dettato di una legge precedente meno favorevole.
    Il  giudice  ben  sa - tuttavia - che la Corte costituzionale con
ordinanza n. 175/01 ha dichiarato la manifesta inammissibilita' della
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 18, comma 1, della
legge  25 giugno 1999, n. 205, concernente l'abrogazione del reato di
oltraggio a pubblico ufficiale.
    E  che  la  stessa  Corte  cosi'  ha  statuito: «... la questione
tendente   a   reintrodurre   una   fattispecie  criminosa  abrogata,
manifestamente   eccede   i   compiti   della   Corte,   poiche'   la
qualificazione  delle  condotte  ai  fini della repressione penale e'
espressione di una scelta discrezionale riservata al legislatore.».
    Nel  corpo  della  stessa  ordinanza  e'  dato  leggere:  «che, a
prescindere  da ogni valutazione circa il presupposto dal quale muove
il  remittente,  ostano  ad uno scrutinio di merito della questione i
limiti  propri  della giustizia costituzionale alla quale non compete
porre  una  disciplina  transitoria  intesa  a  introdurre,  come  si
vorrebbe  nella  specie, condizioni di procedibiita' e di punibilita'
che,  secondo  la  stessa  prospettazione  del  remittente, sarebbero
estranee  all'ambito  di  operativita'  dell'articolo 19  della legge
n. 205   del  1999;  che  questa  Corte  ha  infatti  reinteratamente
affermato  esserle  precluso,  in  materia  penale,  ogni  intervento
additivo   che   si   risolva  in  un  aggravamento  della  posizione
sostanziale  dell'imputato  (v. ordinanze n. 317 del 2000, n. 337 del
1999,  n. 413, n. 392 e n. 106 del 1998, e n. 297 e n. 178 del 1997);
che  pertanto  la  questione  deve  essere  dichiarata manifestamente
inammissibile.»
    Ed ancora che la Corte con sentenza n. 330 dell'11 luglio 1996 ha
ribadito:  «Secondo  la costante giurisprudenza della Corte, in forza
del  principio  di  stretta legalita' dei reati e delle pene, sancito
dall'art. 25,  secondo  comma,  Cost. il potere di creare fattispecie
penali  o  di  aggravare  le  pene  e'  esclusivamente  riservato  al
legislatore,  sicche'  esula  dai  poteri  del giudice costituzionale
emanare una pronuncia dalla quale possa derivare l'introduzione, o la
reintroduzione, di figure di reato o di aggravamenti di pena.».
    Tuttavia  il  caso in esame non richiede alla Corte un intervento
in contrasto con l'art. 25, ne' un aggravamento della pena o comunque
della  posizione  sostanziale dell'imputato, ma chiede di intervenire
sulla  peculiare  situazione  di  una  norma  interna  dello Stato in
contrasto  con  quella  sovrannazionale  nella misura in cui la norma
interna  non  consente  l'effettivita'  della  sanzione. Rimanendo la
quantificazione  di  quest'ultima  indubbiamente  tra le facolta' del
legislatore, nella entita' che egli intende codificare; da irrogarsi,
pero',  con  un  processo che non debba necessariamente - per i brevi
termini  di  prescrizione  e  la  complessita'  degli accertamenti da
effettuare  -  arenarsi  inevitabilmente  tra  la fase delle indagini
preliminari  e  quella,  al piu', del giudizio di primo grado, con la
conseguenziale indefettibile declaratoria di estinzione del reato per
sopravvenuta prescrizione del reato.
    In relazione a cio' e' necessario, ancora, richiamare quanto piu'
in  generale affermato dalla Corte di giustizia in una causa pendente
tra  la commissione delle comunita' europee e la Repubblica Ellenica,
nella  sentenza  del  21 settembre 1989, C68/88. Nella stessa e' dato
leggere  che:  «in  ogni caso la sanzione alle violazioni del diritto
comunitario  devono avere carattere di effettivita', proporzionalita'
e capacita' dissuasiva».
    Cio'  posto,  la Corte costituzionale, con la sentenza n. 113 del
19 aprile  1985,  ha  affermato  che: «... anche le statuizioni della
Corte  di  giustizia sono a pieno titolo diritto comunitario, al pari
delle  disposizioni  contenute  nei  trattati e negli atti di diritto
derivato.».
    Cio'  basta  per  ritenere,  allora,  che  i  principi in tema di
effettivita',  proporzionalita'  e  capacita'  dissuasiva della pena,
enucleati  dalla  Corte  di  giustizia  sono vincolanti per gli Stati
membri  al pari del diritto comunitario, e da essi il legislatore, in
forza dell'art. 117 Cost. non puo' discostarsi.
    In  questi  termini  la  Corte  - a parere di questo giudice - in
applicazione  dei  principi  posti  dagli  artt. 10,  11  e  3  della
Costituzione,  nonche' dalla direttiva n. 68/151 - puo' sindacare nel
merito  la  questione decidendo l'eventuale incostituzionalita' delle
due  disposizioni  di  legge  nella  parte in cui, attraverso i brevi
termini  di  prescrizione previsti dalla disposizione generale di cui
all'art. 157  c.p. non si rende attuabile la direttiva CEE che impone
comunque  l'adeguatezza  della  sanzione  nel caso del reato di false
comunicazioni  sociali;  ergo,  e prima ancora nella parte in cui non
consente l'effettivita' del processo.
    Si   ritiene,   conseguentemente,   rilevante   la  questione  di
costituzionalita'   sollevata   dal   pubblico  ministero  e,  quanto
all'art. 117 Cost. sollevata d'ufficio da questo giudice.
    Cio'   posto,   ed   entrando  ora  nel  merito  della  manifesta
infondatezza  della  questione di legittimita' sollevata dall'Ufficio
del  pubblico ministero, delle disposizioni contenute negli art. 2621
e 2622 c.c. in relazione agli artt. 3, 10 e 11 della Costituzione, va
osservato  quanto segue: appare manifestamente infondata la questione
della  illegittimita' costituzionale delle due norme di legge, appena
citate,   in  relazione  all'art. 3  della  Costituzione  laddove  si
rinviene  una  disparita'  di  trattamento  dell'art. 2621  c.c.  che
prevede  il  fatto  reato  meno grave perseguibile d'ufficio e quello
previsto  dall'art. 2622  c.c.  che  e'  piu'  grave  perseguibile  a
querela.
    Eppero'  tali  considerazioni  nascono  da una lettura frettolosa
delle  due norme, del loro rapporto con la precedente normativa, e da
una  erronea  lettura  della  globale disciplina introdotta dalle due
norme di legge in materia di false comunicazioni sociali.
    Invero  va  considerato  che,  ad  una  attenta lettura delle due
disposizioni  di legge, traspare che il legislatore, che ha novellato
la  materia non pone la medesima, cosi' come da taluni contrariamente
ritenuto,  in  rapporto  di  continuita'  con la precedente norma del
codice civile e di cui all'art. 2621 c.c.
    Si  sostiene,  invero,  che  le due norme tra loro si distinguono
«essenzialmente  con  riferimento all'evento, costituito dal pericolo
di  un  danno  patrimoniale per soci e creditori nel caso della nuova
figura  contravvenzionale  e  nel verificarsi di un danno nel caso di
delitto.» (si veda struttura e offensivita' delle false comunicazioni
sociali di Massimo Donini in Cassazione penale 2002).
    In  realta'  cio' che differenzia le due norme non e' la condotta
tipica  ma  il  verificarsi  o  meno dell'evento danno. Si tratta, ne
discende,  di due norme che hanno medesimo oggetto giuridico e che si
differenziano nel «grado di offensivita».
    La  norma  di  cui all'art. 2621 c.c. rispetto alla successiva e'
norma   che   configura   un  reato  di  pericolo  e  quella  di  cui
all'art. 2622 c.c. e' quella che invece tipizza un reato di danno. La
prima costituisce una ipotesi base e residuale rispetto alla seconda.
    Se  questo  e'  vero,  facendo  riferimento  alla natura del bene
giuridico  tutelato  dall'art. 2622  c.c.,  appare  chiara  la scelta
politica  del  legislatore  -  politica nella sua accezione piu' pura
quanto alla liberta' della scelta del fine ultimo.
    Il legislatore del 2002 con la novella n. 61 ha ridimensionato il
bene  giuridico  protetto dalla fattispecie incriminatrice in parola;
esso   attesa  la  perseguibilita'  a  querela,  e  non  solo,  viene
ricondotto  al  diritto patrimoniale dei soci e dei creditori. Solo a
costoro,  se  individuati con un danno, o a mezzo di un danno, spetta
la  scelta  di  chiedere  l'intervento  punitivo  dello  Stato con il
riconosciuto diritto di querela.
    Nel  caso del reato di false comunicazioni sociali il legislatore
ha  individuato  nel  creditore  o nel socio, e comunque nel soggetto
privato,  il portatore titolare del bene giuridico protetto che puo',
come no, chiederne la tutela in caso di lesione.
    Solo   nella   residuale  ipotesi  in  cui  l'evento  non  si  e'
determinato,  quindi nel caso in cui alla medesima condotta tipica di
false   comunicazioni   in   bilancio,   non   e'  seguito  un  danno
patrimoniale,   lo  Stato  ritiene  di  sanzionare  autonomamente  la
condotta dei soggetti propri dalla norma indicati; tuttavia riconosce
una  tutela  ben  piu' limitata ed una pretesa sanzionatoria ben piu'
mite ricorrendo alla fattispecie contravvenzionale.
    E'  chiaro  che  in tal caso la procedibilita', non essendovi una
precisa  individuazione del soggetto danneggiato e la possibilita' di
quantificare  un  danno,  non  puo' che essere d'ufficio. L'art. 2621
c.c.  configura  una  condotta  di attentato ad un bene giuridico che
tuttavia  e'  arbitrario  ritenere  diverso  da quello tutelato dalla
norma successiva.
    Questo  per  giungere  alla  conclusione  della ininfluenza dello
strumento  attraverso  il  quale  si  mette  in  moto  il  meccanismo
processuale in relazione alla gravita' del reato.
    I  due concetti nel caso di specie, come in altri casi, non hanno
collegamento tra loro.
    Tale  interpretazione  appare  avvalorata anche dalla lettura del
secondo e del terzo comma dell'art. 2622 c.c.
    Nel  secondo  si  prevede, infatti che la procedibilita' rimane a
querela  di  parte anche «se il fatto integra altro delitto ancorche'
aggravato,  a danno del patrimonio di soggetti diversi dai soci o dai
creditori, salvo che sia commesso in danno dello Stato, di altri enti
pubblici o delle comunita' europee.»
    Il  terzo  comma  invece  prevede  la  procedibilita'  ex officio
allorche'  i  fatti  previsti  dal  primo  comma siano stati posti in
essere  nel  caso  di societa' soggette alle disposizioni della parte
IV, titolo terzo, capo II del decreto legislativo n. 58 del 1998.
    Le  eccezioni  al  principio,  della  procedibilita'  a  querela,
pertanto,  confermano  la  tesi che il bene giuridico tutelato in via
principale  dalla  norma  rientra  nella sfera strettamente privata e
patrimoniale.
    Anche  a  volere  accedere  a  tesi  diversa,  pure  formulata in
dottrina (Tullio Padovani in Cassazione penale 2002) circa la diversa
natura  del  bene  giuridico  protetto dal reato di cui all'art. 2621
c.c. rispetto all'art. 2622 c.c., tuttavia, non puo' pervenirsi - per
quanto  qui  interessa  -  a diversa soluzione in ordine alla dedotta
violazione  dell'art. 3  della Costituzione in relazione alla diversa
procedibilita'  -  a  querela per il reato piu' grave e d'ufficio per
quello meno grave.
    Si  tratta  di questione manifestamente infondata poiche' e' fuor
di  dubbio  che  - comunque si voglia interpretare il rapporto tra le
due  nuove  fattispecie  e  la  precedente ed individuare il o i beni
giuridici  dalle  norme  protetti  - tuttavia appare chiara la scelta
politica   del   legislatore   che   ha  inteso  ridurre  la  portata
dell'originaria   norma   incriminatrice  delle  false  comunicazioni
sociali,  con cio' esercitando la sua precipua insindacabile funzione
costituzionale.
    La  seconda  questione  di  legittimita' costituzionale posta dal
pubblico  ministero rileva la violazione, da parte delle disposizioni
incriminatrici   introdotte  con  il  decreto  legislativo  n. 61/02,
dell'art. 10  e 11 della Costituzione che hanno dato ingresso - quale
norma sub costituzionale - alla direttiva n. 68/151/CEE.
    Secondo  questo  giudicante  la  questione non e' infondata ma va
posta,  purche'  in  relazione  alle suddette norme, che pure come si
vedra'  si  considerano  comunque violate dal legislatore interno, in
relazione al dettato dell'art. 117 della Costituzione.
    Secondo   tale   ultima   disposizione,   invero:   «La  potesta'
legislativa  e'  esercitata dallo Stato e dalle Regioni, nel rispetto
della  Costituzione  nonche'  dei  vincoli derivanti dall'ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali.».
    Si   e'   gia'  osservato  che  testualmente  la  norma  pone  al
legislatore   in   limite   invalicabile,   come  ed  al  pari  delle
disposizioni costituzionali.
    Si  deve  immediatamente  procedere,  allora, alla verifica della
natura giuridica e della efficacia della direttiva prima di esaminare
il  merito  di  tale  seconda  questione  al  fine di stabilire se la
direttiva  rientra  o meno nell'ordinamento comunitario e se e' fonte
di obblighi internazionali.
    La  giurisprudenza  e  la dottrina (Fiandaca - Manuale di diritto
penale)  sono  certamente  concordi  nel ritenere che la legislazione
«comunitaria  puo'  anche condizionare l'ambito di applicazione della
fattispecie incriminatrice dell'ordinamento interno: e cio' in virtu'
del  principio  del  primato del diritto comunitario, per il quale la
norma comunitaria deve prevalere sulla norma penale interna.».
    «...  La  norma  penale incriminatrice puo' venire a contatto sia
con  un  regolamento  comunitario  -  con  un  atto,  cioe', che crea
rapporti  giuridici  anche  tra  singoli  cittadini  -  sia  con  una
direttiva - con un dito normativo, cioe' che vincola gli Stati membri
solo  riguardo ai fini ed agli obiettivi da raggiungere -, sia con le
norme  dei  trattati  (che  fissano gli obiettivi interni generali, i
mezzi  e le competenze e sono recepite in appositi atti normativi con
peculiari procedimenti di formazione).».
    E'  ora da definire se ed in che termini la direttiva comunitaria
ha efficacia normativa diretta oltre che sugli stati membri anche sui
soggetti  del loro ordinamento, se cioe' essa puo' essere considerata
fonte di norme comunitarie cosi' come i regolamenti.
    La Corte costituzionale, cosi' come alcune voci in dottrina (cfr.
Mucciarelli, Osservazioni, 409 ; Sgubbi, Diritto penale, 1230; Monaco
l'esecuzione delle direttive comunitarie nell'ordinamento italiano in
Foro   italiano,  1977  I,  2325)  ha  affermato  che  «le  direttive
comunitarie   a  differenza  dei  regolamenti  non  hanno  di  regola
efficacia normativa diretta, in quanto si rivolgono generalmente agli
Stati  membri,  ai  quali chiedono l'adozione, entro certi limiti, di
provvedimenti  legislativi,  regolamentari  o  amministrativi, per il
conseguimento   di   determinati   obiettivi  comuni.»  (Corte  cost.
n. 163/1977) «In linea di principio le direttive fondano obblighi per
gli  stati  membri  e  non direttamente anche per i soggetti del loro
ordinamento  interno  ....».  Cio'  non toglie che anche le direttive
possano  avere  molteplici effetti a livello di fonti primarie, nell'
ordinamento  interno:  per esempio per quanto riguarda i rapporti tra
Stato e Regioni ....
    La  Corte costituzionale ha affermato, infatti, che «le direttive
solo  di  regola  non  hanno efficacia diretta come le altre fonti di
diritto   comunitario,  poiche'  in  alcuni  casi  possono  contenere
disposizioni   precettive  idonee  a  produrre  effetti  diretti  nei
rapporti  tra  gli  Stati  membri  destinatari  e i soggetti privati»
(sentenza  n. 182/76).  L'efficacia deve essere valutata in relazione
non  solo  alla  forma,  ma anche alla sostanza dell'atto ed alla sua
funzione nel sistema del trattato.
    La  dottrina  ha specificato che sono direttamente applicabili le
cosiddette direttive analitiche, quelle cioe' che contengono precetti
sufficientemente  individuati  e  specifici. Diversamente opinando si
avrebbe  come «conseguenza sconcertante il far dipendere la rilevanza
penale  di  certi  comportamenti non dalla loro conformita' o no alla
fattispecie  tipica, bensi' dalla diligenza del legislatore in ordine
al  rispetto  sui  piano  forma/e  degli  obblighi  impostigli  dalla
direttiva.» (Fiandaca op.cit.).
    Venendo  ora a trattare della direttiva CEE n. 68/151, questa, va
rilevato, in quanto contenente un precetto che afferisce alla materia
penale,  per  l'operare  del  principio  di cui all'art. 25 Cost. non
puo',  ex  se,  in caso di contrasto con il diritto interno, produrre
effetti  direttamente  sui  cittadini;  non vi e' dubbio che la norma
comunitaria,  di cui si tratta, pone degli obblighi e produce effetti
diretti  sugli  stati  membri.  Essa  pertanto  senza esitazione puo'
definirsi  come  fonte  di  vincoli ed obblighi per gli stati membri.
(art. 117 Cost.).
    In  caso  di  contrasto,  pertanto, tra la norma interna e quella
comunitaria si deve prospettare il medesimo alla Corte costituzionale
affinche'  sia  questa a valutarlo come eventuale violazione da parte
del  legislatore  interno  del  dettato,  in  primo  luogo  ed in via
diretta,  dell'art. 117  che lo vincola espressamente alla produzione
normativa  internazionale,  in secondo luogo dei principi di cui agli
artt. 10   e  11  della  Corte  costituzionale  che  hanno  posto  le
fondamenta  per la ricezione delle norme provenienti dall'ordinamento
soprannazionale,   e   che   stanno  a  fondamento  del  nuovo  testo
dell'art. 117 della predetta Carta.
    La  direttiva  n. 68/151 CEE del 9 marzo 1968 ha come fine quello
di  «coordinare,  per  renderle  equivalenti,  le  garanzie  che sono
richieste  negli  Stati membri, alle societa', a mente dell' art. 58,
secondo  comma  del trattato, per proteggere gli interessi dei soci e
dei  terzi»,  e  cio' attraverso «il coordinamento delle disposizioni
nazionali  concernenti  la  pubblicita' e la validita' degli obblighi
...  soprattutto  in  ordine  alla  tutela dei terzi ... poiche' esse
societa'  non  offrono  altra  garanzia  che  il  patrimonio sociale,
considerando  che la pubblicita' deve consentire a terzi di conoscere
gli  atti  essenziali della societa' ... omissis ... considerando che
la  tutela dei terzi deve essere assicurata mediante disposizioni che
limitino   per   quanto  possibile  le  cause  di  invalidita'  delle
obbligazioni  assunte  in  nome  della  societa', considerando che e'
necessario, per garantire la certezza dei diritto nei rapporti tra le
societa'  ed  i terzi, nonche' nei rapporti tra soci, limitare i casi
di nullita».
    Pertanto  «gli  Stati membri stabiliscono adeguate sanzioni per i
cavi  di  -  mancata  pubblicita' del bilancio e del conto profitti e
perdite,  come  prescritta  dall'art. 2  paragrafo  I,  lettera  F  -
mancanza  nei documenti commerciali delle indicazioni obbligatorie di
cui all'art. 4.».
    Mentre e' evidente la ratio della norma contenuta nella direttiva
-  la tutela dei diritti terzi creditori e dei soci - va approfondita
la   possibilita'  di  operare  logicamente  la  equiparazione  della
condotta  di  omessa  pubblicita' del bilancio e del conto profitti e
perdite  e  quella della condotta di falsificazione di tali documenti
ed in genere delle comunicazioni sociali.
    Avuto  allora  riguardo  alla  ratio  della suddetta direttiva, e
cioe'  la  tutela  dei  diritti  dei soci e dei terzi che, hanno come
unica  garanzia  il patrimonio sociale, appare ragionevole concludere
che,  se  lesione di tali diritti vi e' nella condotta omissiva della
pubblicazione di un documento che rappresenti la condizione economica
e  finanziaria  di  una societa', ugualmente detta lesione si annida,
forse  piu'  insidiosa, nella falsa rappresentazione di una scrittura
come  il  bilancio,  che  e'  rappresentativa  della detta condizione
economica  e  finanziaria  di una societa' in un dato arco temporale;
condotta che puo' concretarsi anche nella omissione di una iscrizione
di una voce in bilancio.
    Nella  condotta  di  false  comunicazioni sociali, secondo questo
giudice,  e'  compresa,  come una delle forme di manifestazione della
condotta  medesima,  la  omissione della rappresentazione della reale
situazione  economico-patrimoniale  di  una  societa'; e del resto la
condotta  omissiva  e'  pure  esplicitamente  prevista  come forma di
manifestazione della fattispecie tipica dallo stesso art. 2621 e 2622
cc.  nella  forma  delle  omissioni delle informazioni previste dalla
legge.
    Tanto premesso circa la omogeneita' delle condotte previste dalla
norma  interna  e  dalla  norma  comunitaria,  va valutato il dedotto
contrasto  tra  le  stesse  norme, afferente alla inadeguatezza della
tutela,  avuto  riguardo  al  mezzo  processuale,  che il legislatore
italiano  ha  riservato  al  bene  giuridico  che viene offeso con le
condotte  tipizzate,  dalle  fattispecie  interna  vita  alla luce di
quella comunitaria.
    Invero,  come  sopra  gia'  evidenziato,  l'art. 6  della  citata
direttiva  dispone  «gli  Stati membri stabiliscono adeguate sanzioni
per i casi di mancata pubblicita' del bilancio e del conto profitti e
perdite ...».
    E'  allora  adeguata la sanzione prevista dal legislatore interno
per i reati di cui si tratta?
    Non  puo'  che  richiamarsi  qui quanto osservato allorche' si e'
affrontato il profilo della rilevanza della questione che ci occupa.
    Il  concetto  di  adeguatezza  della  sanzione,  accompagnato dal
carattere di effettivita', proporzionalita' e capacita' dissuasiva di
essa,  appare violato dalle due disposizioni impugnate, contenute nel
codice  civile. Cio' malgrado il carattere precettivo della pronunzia
della  Corte di giustizia che i suddetti principi ha posto, carattere
che, si ribadisce, la stessa Corte costituzionale ha riconosciuto.
    Detto  principio  e' da considerarsi eluso in radice allorche' si
consideri  la  estrema  difficolta'  in  concreto,  a  seguito  della
modifica  della  disposizione  di  cui  all'originario  2621 c.c., di
pervenire,  non  tanto  ad  una  adeguata sanzione penale, quanto, ed
ancor  prima  ad  una effettiva irrogazione di qualsivoglia sanzione,
nella  entita'  che  il  legislatore  interno  ritiene  proporzionata
all'offesa,  entro  i  termini  di prescrizione del reato di cui alle
norme impugnate.
    Invero,  la norma di cui all' art. 2621 c.c. e quella di cui all'
art. 2622  c.c.  prevedono  per  l'ipotesi contravvenzionale una pena
fino  ad  un anno e sei mesi di arresto, per il delitto la pena della
reclusione da sei mesi a tre anni.
    Il  primo  si  prescrive  in tre anni ed il secondo in cinque; le
proroghe  consentono di giungere a quattro anni e sei mesi ed a sette
anni.  Entro  questi  termini,  consideriamo  quelli  prorogati, deve
garantirsi  la  definizione  del  processo  con  sentenza  passata in
giudicato.
    L'accertamento del fatto-reato di false comunicazioni in bilancio
richiede  certamente  numerosi  complessi accertamenti tecnici su una
lunga  serie di dati economici emergenti dalla acquisizione lettura e
comparazione  di  moltissimi  documenti  - spesso relativi a numerosi
anni di esercizio.
    E'  frequente  nella  istruzione di processi - come quello per il
quale  questo  giudice  procede  -  che  gia' la notitia criminis sia
datata,  al  momento in cui viene all'attenzione degli inquirenti. E'
frequente,  poi,  che  il  pubblico  ministero,  attivatosi in tempo,
incontri  difficolta'  nell'acquisire tutti i documenti da cui trarre
il  dato  o  la  prova della condotta tipica. Vi sono poi i tempi del
processo, o dibattimento di primo e secondo grado, quindi il giudizio
di legittimita'.
    Nel  nostro  sistema  processuale, a meno che non si configuri un
meccanismo  processuale  che  in  alcuni  casi  sospenda i termini di
prescrizione,  i  reati  di  false  comunicazioni  in  bilancio sono,
dunque, destinati a rimanere impuniti.
    Cio',   si   badi   bene,  non  per  una  patologia  del  sistema
processuale,  ma  -  al  di  la'  di qualche raro caso in cui si deve
valutare  una  violazione  di  facile  lettura  -  per  la  oggettiva
complessita' degli accertamenti e delle valutazioni tecnico contabili
che  questa  fattispecie  richiede, in relazione alle caratteristiche
strutturali  sue proprie ed anche in relazione alle garanzie previste
nel nostro sistema processuale.
    Questa    condizione   di   sostanziale   impunita'   dei   fatti
astrattamente  configurati  come  reato nelle fattispecie di cui agli
artt. 2621  e  2622  c.c., nel violare la direttiva comunitaria sopra
riportata,  (sulla cui capacita' precettiva si e' detto), nonche' nel
violare   il  principio  di  effettivita',  adeguatezza  e  capacita'
dissuasiva  della  sanzione,  posto  dalla  Corte  di  giustizia,  da
elevarsi   a   rango   di   norma   comunitaria   secondo   la  Corte
costituzionale, integra - secondo questo giudicante - in se' la piena
violazione dell' art. 117 della Costituzione.
    E'  utile a questo punto fare un riferimento concreto da porre ad
esempio di quanto si e' appena osservato. All'uopo soccorre, e non vi
e'  necessita' di andare lontano, la storia del procedimento pendente
innanzi  a questo giudice e nel quale e' stata sollevata la questione
di legittimita' costituzionale.
    Esso   vede  imputati  quattordici  soggetti  nella  qualita'  di
componenti del consiglio di amministrazione della U.S. Palermo S.p.a.
ai  quali  si  contestano  sei  reati  di false comunicazioni sociali
commesse  negli  anni 1991-1992-1993-1994- 1995- 1996. Le fraudolente
esposizioni   in  bilancio,  rispondenti  ad  operazioni  insistenti,
afferenti  ad  acquisti e cessioni di calciatori, hanno consentito di
determinare  -  mediante l'alterazione di voci del bilancio, utili di
esercizio pari a L. 31.980.000 anziche' una perdita di esercizio pari
a 902.628.000 di vecchie lire, per l'anno 1991; pari a L. 762.041.010
in luogo di un effettivo utile di L. 2.061.440.000, per il 1992; pari
a  L. 9.414.514,  in  luogo  di  una  perdita  di  esercizio  pari  a
L. 904.009.000,  per  il  1993;  mentre  per  l'anno 1994 si contesta
l'avere determinato una perdita di esercizio, mediante la condotta di
cui sopra, pari a L. 2.115.155.00 anziche' un utile di 1.046.477.000;
quanto  all'  anno 1995 la contestazione riguarda l'avere determinato
una  perdita  di  esercizio  pari a L. 4.178.584.000, in luogo di una
perdita di esercizio di 3.087.930.000; nell' anno 1996 si contesta di
avere  alterato alcune voci del bilancio in modo da indicare un utile
di   esercizio   pari  al  L. 2.684.173.000  in  luogo  di  effettivi
3.793.640.000 di lire.
    L'istruzione  di  questo procedimento iniziata nel 1998 a seguito
di   denunzia   di   una   parte   offesa,   ha   richiesto  ai  fini
dell'accertamento  dei  fatti, una delega alla Guardia di Finanza che
e'  stata  esitata  il 20 febbraio 1998; vi e' stata altra nota della
Guardia  di  Finanza  ad  integrazione depositata il 30 marzo 1998 ed
un'altra  ancora  depositata al pubblico ministero il 14 aprile 1998.
Sono   stati   emessi   dal   pubblico   ministero  provvedimenti  di
perquisizione  e  sequestro di molta documentazione ed altra e' stata
trasmessa   dalla  Federazione  Italiana  Gioco  Calcio.  Sono  state
esaminate  persone  informate  dei  fatti, quindi nel 1999 sulla base
della documentazione sequestrata e' stata depositata altra nota della
Guardia  di  Finanza. In data 18 febbraio 1999 e' stata depositata al
pubblico  ministero  una  relazione  di  consulenza  tecnica  con gli
allegati. Quindi si sono svolti gli interrogatori degli indagati cio'
nei  primi  mesi del 2000. Il 5 aprile del 2000 il pubblico ministero
ha chiesto l'emissione del decreto che dispone il giudizio.
    Sulla  base  della  nuova  normativa i fatti, previo accertamento
della sussistenza delle condizioni afferenti la soglia di punibilita'
delle  condotte,  siccome  previsto  dagli  artt. 2621  e 2622 c.c. e
verificato  il  danno  ai creditori (il che richiederebbe comunque un
autonomo accertamento peritale e presentazione delle relative querele
qualora  si  volesse  fare  rientrare la condotta nella seconda, 2622
cc.)  -  alla data della richiesta del rinvio a giudizio ad eccezione
di quello relativo all'anno 1996, erano gia' prescritti.
    I  tempi  delle  indagini  preliminari,  in  un procedimento come
questo  in  trattazione,  sono  da  ritenersi  fisiologici, attesa la
complessita'  degli accertamenti svolti, e deve ritenersi in generale
che  i  processi che hanno ad oggetto condotte di false comunicazioni
sociali,  richiedono  di  regola indagini piu' lunghe di altre per la
natura  stessa  - particolarmente complessa - dei fatti da verificare
ed ascrivere agli imputati.
    Certo  va  sempre  considerata  la  possibilita'  che la verifica
processuale  di  una  delle  condotte tipizzate dalle due fattispecie
possa  essere  celere e rispettare i tempi di prescrizione del reato;
cio' a ben vedere coinciderebbe con l'accertamento di fatti di minore
gravita'  o  di  piu'  facile  verifica probatoria. Si tratterebbe di
processi  relativi  a singoli fatti di reato tempestivamente iscritti
da  pubblico  Ministero nel registro degli indagati in quanto oggetto
di  altrettanto  tempestiva notizia criminis, contestati ad un numero
ridotto di soggetti.
    Si  determinerebbe,  allora,  nel  quotidiano  della applicazione
delle  due  norme  incriminatici,  la vera disparita' di trattamento.
Infatti  i  processi  per  reati  di  false  comunicazioni sociali se
inerenti  a  fatti  di  relativa  gravita'  giungerebbero - con buona
probabilita'  -  a  definizione con sentenza passata in giudicato. Al
contrario i fatti piu' gravi, per i quali sono - di regola e come nel
caso di specie - necessarie indagini particolarmente complesse, sotto
il  profilo  tecnico,  questi  fatti,  specie se reitegrati nel tempo
rimarrebbero costantemente impuniti.
    La questione pertanto appare non manifestamente infondata.
                              P. Q. M.
    Visti gli artt. 2621, 2622 codice civile 3, 10, 11, 25, 117 della
Costituzione;  vista  la direttiva n. 68/151 CEE del 9 marzo 1968; 23
legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara  manifestamente  infondata  la questione di legittimita'
costituzionale  degli  artt. 2621  e  2662  cc.  come  modificati dal
decreto legislativo n. 61 dell'11 aprile 2002 in relazione all'art. 3
della Costituzione sollevata dal pubblico ministero;
    Solleva   la   questione  di  legittimita'  costituzionale  degli
articoli  2621  e  2622  c.c. come modificati dal decreto legislativo
n. 61/2002   con   riferimento  all'art. 117  della  Costituzione  ed
relazione al dettato della direttiva CEE n. 68/151 nella parte in cui
non   consente   l'effettivita',   a   mezzo   di  idoneo  meccanismo
processuale,  della adeguata sanzione penale prevista dalla direttiva
medesima.
    Dichiara   non   manifestamente   infondata   la   questione   di
legittimita'  costituzionale, sollevata dal pubblico ministero, degli
articoli  2621  e  2622 c.c. in relazione agli articoli 10 e 11 della
Costituzione   nella  parte  in  cui  non  prevedono  adeguato  mezzo
processuale  in  grado  di  consentire  la  celebrazione del processo
penale  entro  i  termini  di  prescrizione  dei reati previsti dalle
stesse norme, avuto riguardo alla direttiva CEE n. 68/151.
    Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla  Corte
costituzionale ed ordina la sospensione del presente procedimento.
    Ordina  che  a  cura della cancelleria, la presente ordinanza sia
notificata  alle  parti  nonche' al pubblico ministero, al Presidente
del  Consiglio  dei  Ministri  e  comunicata  ai Presidenti delle due
Camere del Parlamento.
        Palermo, addi' 20 novembre 2002
                        Il giudice: Consiglio
03C0436