N. 342 ORDINANZA (Atto di promovimento) 6 marzo 2003
Ordinanza emessa il 6 marzo 2003 dal Magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia atti relativi a Aani Hicham Straniero e apolide - Straniero detenuto condannato a pena detentiva, anche residua, non superiore a due anni - Espulsione disposta dal magistrato di sorveglianza a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione - Afflittivita' della misura - Automatismo della stessa - Violazione del principio della finalita' rieducativa della pena - Irragionevolezza sotto diversi profili - Disparita' di trattamento tra detenuti extracomunitari - Lesione dei diritti inviolabili dell'uomo - Contrasto con il principio di irretroattivita' della legge penale. - D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, artt. 13, 16 e 19, come modificati dalla legge 30 luglio 2002, n. 189. - Costituzione artt. 2, 3, 25, comma secondo, e 27, comma terzo.(GU n.24 del 18-6-2003 )
IL MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA Visti gli atti relativi al procedimento di espulsione dal territorio dello Stato ai sensi dell'art. 16 del d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286, come modificato dall'art. 15 della legge 30 luglio 2002, n. 189, nei confronti di Aani Hicham, nato in Marocco il 15 novembre 1976, attualmente detenuto nella Casa circondariale di Piacenza, in relazione alla pena residua di anni 4 di reclusione di cui alla sentenza del Tribunale di Milano del 28 giugno 2000, con fine pena al 11 agosto 2003, attualmente in regime di semiliberta' come da ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Bologna del 12 dicembre 2002, O s s e r v a Il presente procedimento scaturisce dalla comunicazione della Direzione della Casa circondariale di Piacenza, su richiesta di questo Ufficio, del nominativo del detenuto attesa la condizione soggettiva di persona extracomunitaria in espiazione di una pena detentiva, anche residua, inferiore ad anni due, come indicato dall'art. 15 della legge 30 luglio 2002, n. 189. Dall'istruttoria esperita risulta che il detenuto e' stato compiutamente identificato dal Consolato del Marocco di Bologna e che lo stesso e' titolare di un permesso di soggiorno rilasciato dalla Questura di Milano, scaduto in data 22 giugno 2001 (vedi nota informativa della Questura di Piacenza). Cio' posto si devono ritenere integrati i presupposti di cui all'art. 16 d.lgs. n. 286 del 1998, come modificato dall'art. 15 della legge n. 189 del 2002, tenuto conto che il detenuto non sta espiando un titolo preclusivo all'espulsione in oggetto (delitti di cui all'art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p. e delitti previsti dal Testo Unico sull'immigrazione) e non sussiste alcuna ipotesi ostativa ai sensi dell'art. 19 del T.U. (divieti di espulsione). A parere di questo Giudicante la fattispecie in oggetto presenta profili di illegittimita' costituzionale per violazione degli artt. 2, 3, 27, comma 3 e 25, comma 2 della Costituzione come nel prosieguo esplicitati. 1. - Violazione dell'art. 27, terzo comma Cost. L'art. 15 citato ha introdotto la fattispecie dell'espulsione «a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione» ed ha attribuito la competenza a disporre quest'ultima misura, sulla base della sussistenza dei requisiti di cui sopra, al Magistrato di Sorveglianza. Preliminarmente s'impongono talune brevi riflessioni in materia di espulsione dello straniero dal territorio dello Stato al fine di cercare di individuarne la natura giuridica e conseguentemente formulare alcune considerazioni in ordine alla recente disciplina giuridica. L'espulsione dello straniero dallo Stato era originariamente disci-plinata dal codice penale, quale misura di sicurezza e dal Testo Unico delle leggi di Pubblica Sicurezza, quale misura amministrativa di competenza dell'Autorita' di Pubblica Sicurezza. Con la legge 28 febbraio 1990, n. 39 che ha abrogato le norme del T.U.L.P.S., l'istituto dell'espulsione amministrativa ha avuto una nuova disciplina, fermo restando la previsione dell'espulsione come misura di sicurezza; inoltre e' stata introdotta una nuova figura di espulsione, da adottarsi previo specifico procedimento, e su richiesta dello straniero o del suo difensore (art. 7, comma 12-bis, espulsione cd. a richiesta di parte). La normativa del 1990 e' stata novellata dal d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 che ha regolamentato l'espulsione come misura amministrativa e come misura di sicurezza subordinando quest'ultima all'accertamento in concreto della pericolosita' sociale, conformemente a quanto disposto dalla Corte costituzionale in materia di misure di sicurezza (v. sent. Corte cost. 24 febbraio 1995, n. 58 in relazione all'espulsione prevista dal Testo Unico in materia di stupefacenti). Inoltre, la novella del 1998 ha abrogato espressamente la normativa in materia di espulsione a richiesta di parte ed ha introdotto l'espulsione a «titolo di sanzione sostitutiva». Infine, la legge n. 189 del 2002 ha mantenuto la distinzione, a cui consegue una diversa disciplina normativa, fra espulsione amministrativa, di competenza prefettizia o ministeriale, ed espulsione disposta dal giudice quale misura di sicurezza ovvero quale «sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione». Gia' sotto la vigenza della precedente normativa la giurisprudenza aveva evidenziato la difficolta' a ridurre l'istituto dell'espulsione, di competenza del giudice, ad una unitaria categoria giuridica, anche in ragione del presupposto imprescindibile della sola misura di sicurezza costituito dall'accertamento in concreto della pericolosita' sociale dello straniero, di competenza della Magistratura di Sorveglianza. La Corte Costituzionale ha riconosciuto alla espulsione cd. a richiesta, natura atipica, a cui la legge ha attribuito l'effetto di «sospendere l'esecuzione della custodia cautelare in carcere ovvero l'espiazione della pena», cosi' realizzando essenzialmente l'interesse pubblico di «ridurre l'enorme affollamento carcerario di per se' difficilmente compatibile con un efficace perseguimento della funzione rieducativa della pena» (cfr. sentenze Corte cost. 24 febbraio 1994, n. 62 e 6 luglio 1994, n. 283). Se da un lato la ratio della fattispecie della espulsione quale «sanzione alternativa alla detenzione», introdotta con la novella del 2002, appare la stessa (ridurre l'enorme affollamento carcerario) non altrettanto puo' dirsi in merito alla sua natura giuridica, che come individuata dalla Corte costituzionale porta ad escludere ogni finalita' rieducativa (Corte cost. nn. 62/1994, 283/1994). Che si tratti di una sanzione - sia pure alternativa - e non anche di una mera sospensione della esecuzione della pena, a parere di questo remittente, risulta da una pluralita' di considerazioni. Innanzitutto, la sua collocazione all'interno della norma che disciplina l'espulsione come sanzione sostitutiva della detenzione, misura avente sicuramente natura giuridica di sanzione penale. Trattasi, infatti, di una conseguenza affettiva che il giudice applica, in esito ad un processo penale, una volta riconosciuta la responsabilita' dell'imputato, in sostituzione di una pena detentiva (reclusione o arresto) non superiore ai due anni. E l'ipotesi prevista dal successivo comma 5 differisce da quella appena descritta solamente per la fase in cui e' emessa (e cioe' successivamente al passaggio in giudicato della sentenza) e per l'organo giudiziario competente (nonche', di riflesso, per il tipo di procedimento e di provvedimento che dispone la sanzione), ma non per contenuto e funzione, e pertanto la natura giuridica di queste e' la medesima. Inoltre, il nomen iuris di sanzione usata nella rubrica della norma (con l'aggiunta «in alternativa alla pena»), ma anche la natura indubbiamente afflittiva della misura ed, infine, l'attribuzione della competenza ad irrogarla, non piu' al giudice dell'esecuzione, bensi' al Magistrato di Sorveglianza. Il nostro sistema giuridico-penale e' un sistema dualistico: della pena e della misura di sicurezza. Entrambe mirano a prevenire la commissione di reati; e se la prima presenta ad un tempo finalita' di prevenzione generale e di prevenzione speciale (assolve ad una funzione retributiva ed intimidatoria in una prospettiva di rieducazione), la seconda assolve unicamente finalita' di prevenzione speciale. Peraltro il sistema di cui sopra, cd. a doppio binario, trova l'avvallo costituzionale nell'art. 25 Cost., norma che esprime oltre al principio di legalita' della pena anche quello della tassativita' nel senso di predeterminazione dei tipi e della misura edittale della pena in rapporto alle singole fattispecie penali (anche con riferimento a detto principio e piu' precisamente sotto il profilo del divieto di irretroattivita', la fattispecie in questione presenta profili di incostituzionalita', come si precisera' nel prosieguo). Nessun dubbio, e non merita soffermarsi sul punto, che non siamo di fronte ad una misura di sicurezza sia perche' l'applicazione non e' subordinata ad alcun accertamento sulla pericolosita' sociale, sia perche' si arriverebbe all'assurdo di procedere a detto accertamento solo in presenza di gravi delitti e viceversa a imporre l'espulsione nei casi di delitti di minore gravita' ma anche e soprattutto perche' il legislatore non ha modificato il comma 1 dell'art. 15 del d.lgs. n. 286/1998 che prevede, come si e' gia' detto, l'espulsione come misura di sicurezza subordinata al previo accertamento della pericolosita' sociale. E' vero che il nostro ordinamento conosce - oltre a misure sostitutive della pena da irrogare ed a misure alternative alla pena gia' irrogata - misure che hanno l'effetto di sospendere la pena, nella fase esecutiva (si pensi al differimento della pena ex artt. 146-7 c.p. ovvero alla sospensione ex art. 90 D.P.R. n. 309/1990), ma trattasi di ipotesi, espressamente disciplinate dal legislatore, che implicano una richiesta o un'iniziativa di parte o comunque intervengono su una situazione - valutata legislativamente - di assoluta incompatibilita' con il regime detentivo - e come tali non hanno certo un carattere afflittivo (del resto nessuno dubita, con riferimento alla sospensione ex art. 90 citato, del carattere terapeutico ma anche risocializzante della stessa). Inoltre, proprio perche' determinano una sospensione dell'esecuzione della pena sono circoscritte nel tempo, presuppongono la sussistenza di determinati presupposti, la cui valutazione e' comunque rimessa al Tribunale di Sorveglianza, a cui non e' mai imposta l'adozione di una determinata misura, e che anzi ben puo' ritenere maggiormente idonea altra misura (peraltro con riferimento al rinvio obbligatorio ex art. 146 c.p. la fattispecie va letta in combinazione con l'art. 47-ter legge 26 luglio 1975, n. 354, introdotto dalla legge n. 165 del 1998, che ha disciplinato la cd. detenzione domiciliare a termine). Discorso a se' meriterebbe la sospensione condizionale della pena ex artt. 163 e ss. c.p. ma che non pare di particolare rilievo, nel caso che ci occupa, tenuto conto che si tratta certamente di un beneficio di legge che consente, in presenza di determinati presupposti, di non eseguire l'esecuzione della pena fin dal suo inizio e non anche di sospendere l'esecuzione di una pena detentiva gia' in espiazione. Detta considerazione ci riporta al binomio iniziale: pena e misura di sicurezza. Scartata quest'ultima occorre soffermarsi ancora sulla prima. Nella sanzione alternativa introdotta dalla legge n. 189 del 2002, rinveniamo una misura che ha certamente carattere afflittivo. Innanzitutto, preme evidenziare a tal proposito, che il procedimento e' avviato d'ufficio, dal Magistrato competente. Cio' non significa escludere un'iniziativa di parte, sempre possibile, ma significa evidenziare come nel disegno legislativo il procedimento deve essere avviato anche, in assenza di una richiesta o iniziativa di parte, come avveniva invece per la cd. espulsione a richiesta. Sul punto la Corte costituzionale ha statuito che la richiesta dell'interessato costituisce un «requisito diretto ad armonizzare la condizione dello straniero ai valori costituzionali cui il legislatore deve riferirsi nel prevedere una misura pur sempre incidente sulla liberta' personale cioe' su un diritto inviolabile dell'uomo» (cfr. sentenza n. 62 del 1994). Il carattere afflittivo della misura deriva, altresi', dalla mancata previsione dell'adesione del condannato (cosa che avviene per le misure alternative) o piu' in generale della possibilita' da parte dello stesso di rinunciarvi (il condannato puo' solo presentare nei termini di legge opposizione avanti al Tribunale di Sorveglianza al quale spettera' di verificare la sussistenza dei requisiti di legge). Il carattere afflittivo dell'allontanamento dal territorio nazionale dipende anche dalla possibilita' che detto provvedimento determini una interruzione del trattamento risocializzante (come meglio si dira' in seguito) ovvero la recisione dei legami famigliari non rilevanti ai sensi del divieto posto dall'art. 19 del T.U., ad esempio il matrimonio senza prole con un cittadino extracomunitario ovvero una convivenza more uxorio con un cittadino italiano. Ulteriore elemento che depone a favore della natura giuridica di sanzione e' l'attribuzione della competenza, non piu' al giudice dell'esecuzione, bensi' al Magistrato di Sorveglianza. L'automatismo della decisione, in assenza di ogni valutazione della storia del detenuto, dei risultati dell'osservazione personologica, del trattamento svolto e dell'adesione mostrata dal condannato pare del tutto in contrasto non solo con i principi cardini del nostro ordinamento penitenziario (art. 1, Legge penitenziaria «trattamento e rieducazione») ma anche e soprattutto con il finalismo rieducativo, posto dall'art. 27, comma 3, secondo cui «le pene... devono tendere alla rieducazione del condannato», che costituisce il principio, di rango costituzionale, che ha ispirato la legislazione in materia penitenziaria e che impone al legislatore di modulare l'esecuzione delle pene a precisi fini di risocializzazione. Precludere o addirittura interrompere detto processo, in assenza di una richiesta del detenuto, di un comportamento colpevole dello stesso e soprattutto senza che al giudice competente sia riconosciuta una sfera di discrezionalita' nell'applicare la misura, appare in contrasto con le finalita' rieducative e risocializzanti della pena. La preclusione di ogni valutazione da parte del Magistrato di Sorveglianza in ordine alla personalita' e alla storia del condannato e la conseguente violazione del finalismo rieducativo e' particolarmente evidente ogni qualvolta la misura dell'espulsione riguarda - come nel caso di specie - un soggetto che ha aderito positivamente al trattamento penitenziario svolto nei suoi confronti e addirittura ha fruito positivamente di benefici premiali dimostrando in modo concreto di avere avviato un processo rieducativo e di risocializzazione (nel caso di specie il condannato dopo avere fruito in modo regolare di permessi e' stato ammesso alla semiliberta', grazie alla sussistenza di una opportunita' lavorativa in una cooperativa presso la quale gia' lavorava durante la detenzione ed attualmente fruisce in modo regolare di licenze in Milano dove risiede la propria convivente). Del resto non si puo' sottacere che il vaglio di costituzionalita' della espulsione cd. a richiesta teneva anche conto che l'art. 7, comma 12-ter, ora abrogato, non imponeva inderogabilmente al giudice competente di ordinare l'espulsione - peraltro si ricordi richiesta dall'interessato - ma gli attribuiva il potere di decidere «acquisite le informative degli organi di polizia, accertato il possesso del passaporto o di altro documento equipollente, sentito il pubblico ministero e le altre parti» (sent. Corte cost. n. 62 del 1994). Se cio' veniva riconosciuto al giudice dell'esecuzione, a maggior ragione deve essere riconosciuto al Magistrato di Sorveglianza, organo deputato a svolgere una funzione di sorveglianza sugli istituti di pena ma anche a pronunciarsi su misure (in via provvisoria e poi in via definitiva come componente del Tribunale di Sorveglianza) attraverso un procedimento giurisdizionalizzato, che vede l'attenzione spostata sempre di piu' sulla personalita' del condannato come desunta anche dai dati dell'osservazione personologica. Dette decisioni non possono avere carattere automatico o vincolato ma devono presupporre una valutazione da parte del giudice di ogni risultato dell'istruttoria esperita, proprio per evitare che la scelta discrezionale del legislatore in materia di espulsioni appaia irragionevole (sentenza n. 62 del 1994 citata). Peraltro, il nostro ordinamento laddove aveva previsto delle situazioni di ostativita' alla concessione di misure alternative (si badi bene preclusioni alla concessione e non anche, come nel caso di specie, misure alternative imposte senza alcun consenso) con riferimento a taluni gravissimi reati, previsti dall'art. 4-bis, comma 1, prima fascia della legge penitenziaria, la Corte costituzionale e' intervenuta circoscrivendo la portata del divieto formulato dal legislatore in termini assoluti e aprendo la strada a valutazioni di competenza della Magistratura di Sorveglianza in tema di collaborazione (si veda ora la nuova formulazione dell'art. 4-bis O.P. come novellato dalla legge 23 dicembre 2002, n. 279 che ha recepito taluni principi gia' elaborati dalla Corte costituzionale in tema, per esempio, di collaborazione cd. impossibile). Del resto, il profilo della non irragionevolezza della nuova disciplina non pare assicurato non solo dall'automatismo della decisione del giudice, come sopra indicato, ma neppure dal circoscrivere l'adozione del provvedimento de quo ai soli condannati per determinati reati (delitti non ricompresi nell'elencazione di cui all'art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p ovvero quelli previsti dal Testo Unico sull'immigrazione). Infatti, il riferimento alla natura del reato non pare del tutto rassicurante: un condannato che commette piu' delitti puo' mostrare una maggiore capacita' a delinquere e quindi maggiore probabilita' recidivante rispetto ad un delinquente primario che, pur avendo commesso un reato di maggiore gravita', ha stabili ed idonei riferimenti all'esterno o che comunque ha mostrato segni di ravvedimento anche avviando un processo risocializzante. Altro profilo di irragionevolezza della recente normativa e' costituita dal mancato raccordo fra la nuova misura attribuita al Magistrato di Sorveglianza e le misure alternative di competenza del Tribunale di Sorveglianza (art. 70 legge penitenziaria) e, piu' in generale, le ulteriori competenze della Magistratura di Sorveglianza. Nulla dispone la nuova disciplina in materia di misure alternative, gia' disciplinate dalla legge e di competenza del Tribunale di Sorveglianza, e cio' consente di ritenere che dette competenze dell'Organo collegiale - ma anche quelle dell'Organo monocratico con riferimento ad altri benefici (ad es. lavoro all'esterno, permessi premio) - non siano in alcun modo pregiudicate dalla normativa sull'espulsione. Tale interpretazione deve ritenersi avallata anche dall'art. 1, comma 3, ultima parte del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (disposizione non modificata dalla recente legge 189) in cui si legge testualmente «sono fatte salve le disposizioni interne, comunitarie e internazionali piu' favorevoli comunque vigenti nel territorio dello Stato». E' fuori dubbio che la normativa in materia di misure alternative alla detenzione, previste e disciplinate dalla legge penitenziaria ma anche da altre leggi (ad esempio il testo unico in materia di stupefacenti ovvero le disposizioni in materia di differimento della pena ex artt. 146 e 147 c.p.), presenti i connotati di una disciplina piu' favorevole per il condannato. E allora, si puo' configurare un quadro normativo secondo cui il Magistrato di Sorveglianza competente emette, a un tempo, provvedimenti favorevoli al condannato, tenendo conto di una positiva ed effettiva progressione nel trattamento (ad esempio permessi premio) e provvedimenti di espulsione connotati da obbligatorieta' nei confronti del medesimo condannato, in applicazione di una normativa che prescinde in toto da ogni dato relativo al trattamento. E se cio' non bastasse il Tribunale di Sorveglianza, composto dallo stesso Magistrato di Sorveglianza, ai sensi dell'art. 70, comma 6 legge penitenziaria, puo' accogliere l'istanza di semiliberta' o addirittura quella piu' ampia dell'affidamento in prova al servizio sociale. Quindi, in estrema sintesi un sistema giuridico che presenta connotati di ambiguita' e quindi di irragionevolezza: in modo del tutto simultaneo lo stesso detenuto extracomunitario puo' ricevere comunicazione di un permesso premio (esperienza che costituisce parte integrante del programma di trattamento, a mente dell'art. 30-ter O.P.), notifica di un provvedimento - di cui e' estensore lo stesso Magistrato di Sorveglianza competente in materia di permessi premio - di semiliberta' o di affidamento in prova al servizio sociale che da' atto dei «progressi compiuti nel corso del trattamento» o dei «risultati dell'osservazione della personalita» e sulla cui base si fonda il giudizio prognostico ex art. 47, comma 2 O.P. ovvero la comunicazione del decreto di espulsione ex art. 15, legge n. 189 del 2002. Quest'ultimo provvedimento e' appunto l'unico che non solo prescinde dai dati dell'osservazione e del trattamento ma che addirittura ne puo' provocare l'interruzione. Infine, un'ultima considerazione in merito. La disciplina sull'ingresso ed il soggiorno dei cittadini extracomunitari nel territorio nazionale, ben puo' prevedere anche l'espulsione dello straniero, misura che trova la sua rado nella «ponderazione di interessi pubblici, quali ad esempio la sicurezza e la sanita' pubblica, l'ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione» (sent. Corte cost. n. 62 citata). La Suprema Corte ha evidenziato come la normativa sull'espulsione a richiesta, ora abrogata, fosse rivolta «a tutelare interessi pubblici - attenuando mediante l'allontanamento di soggetti pericolosi gli oneri della collettivita' ed i rischi per la sicurezza, sia all'interno degli istituti penitenziari che, in genere, nel territorio nazionale» (cfr. sen. Cass. 22 dicembre 1998-17 aprile 1999, n. 6595). A parte il rilievo che le esigenze di sicurezza e di ordine pubblico vengono adeguatamente assicurate con l'espulsione come misura amministrativa e come misura di sicurezza, l'espulsione disposta dal giudice - secondo l'attuale disciplina normativa - non puo' assicurare un effetto di sfollamento delle carceri senza violare il principio del finalismo rieducativo non solo perche' gli interessi pubblici di cui sopra non assurgono, in materia di pene, valore di principi costituzionali ma anche e soprattutto perche' l'espulsione come attualmente disciplinata finisce per premiare coloro che hanno commesso gravi reati, che non verranno espulsi dal Magistrato di Sorveglianza con la misura in oggetto e potranno fruire ancora del trattamento e dei benefici di legge in spregio dei soggetti, certamente meno pericolosi, pericolosita' desunta non solo dal delitto commesso ma soprattutto dal percorso risocializzante intrapreso. E allora, delle due l'una, o la normativa vuole avere un'efficacia deflattiva di fronte al fenomeno del sovraffollamento carcerario e con riferimento ai detenuti extracomunitari introduce una misura di allontanamento dal territorio dello Stato dei soggetti meno pericolosi ma cosi' non garantisce le esigenze di sicurezza, di cui sopra, e certamente viola il finalismo rieducativo della pena o piuttosto introduce una misura di allontanamento che colpisca i soggetti piu' pericolosi, pericolosita' desumibile da vari indici e quindi non solo dal reato ma anche e soprattutto dai risultati dell'osservazione e del trattamento in Istituto, riconoscendo al Magistrato di Sorveglianza spazi di discrezionalita', cosi' salvaguardando le finalita' proprie della pena in armonia con il dettato costituzionale. 2. - Violazione dell'art. 3 Cost. L'applicazione della normativa in oggetto presenta, a parere di questo remittente, profili di illegittimita' costituzionale anche con riferimento all'art. 3 Cost. per violazione del principio di eguaglianza. Nessun dubbio in ordine all'estensione del principio de quo anche ai cittadini extracomunitari: il principio di eguaglianza non tollera discriminazioni fra il cittadino italiano e lo straniero specie se riferito ad un diritto inviolabile, quale e' la liberta' personale dell'individuo, ma e' altrettanto evidente che occorre confrontare fra di loro unicamente situazioni paritetiche. Il principio di eguaglianza non mira a realizzare sempre e comunque un medesimo trattamento giuridico bensi' ad impedire discriminazioni arbitrarie di fronte a situazioni paritetiche. Sulla base di queste considerazioni, il giudice delle leggi aveva escluso profili di incostituzionalita' nella citata normativa, oramai abrogata, con riferimento alla disparita' di trattamento fra il detenuto straniero, che su sua istanza poteva ottenere una sospensione della pena, e il cittadino italiano al quale la legge non aveva attribuito un analogo strumento (sent. n. 62 citata). La fattispecie in oggetto, invece, presenta profili di disparita' di trattamento fra detenuti extracomunitari, quindi fra situazioni tra di loro assimilabili. Se si ribadisce il carattere affittivo della nuova misura pare del tutto irragionevole, ed in violazione del principio costituzionale di uguaglianza, che il provvedimento debba riguardare solo determinati detenuti stranieri e soprattutto coloro che hanno commesso reati meno gravi, hanno dato prova di aver partecipato efficacemente al trattamento e hanno concrete prospettive di risocializzazione, in conformita' al principio del finalismo rieducativo sancito dall'art. 27 della Costituzione. Nessun dubbio sussiste in ordine all'estensione anche ai detenuti extracomunitari del diritto al trattamento, sancito dall'art. 1 della legge penitenziaria: la stessa disposizione, al comma 2, statuisce espressamente che «il trattamento e' improntato ad assoluta imparzialita' senza discriminazioni in ordine a nazionalita', razza...opinioni religiose». Peraltro, il nuovo regolamento di esecuzione, emanato con il D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, ha introdotto varie disposizioni a tutela dei detenuti stranieri (ad es. l'art. 35 detenuti ed internati stranieri e Iart. 58 manifestazioni della liberta' religiosa). Un provvedimento di allontanamento dal territorio dello Stato che tiene conto della sola natura del reato e dell'entita' della pena residua e che invece prescinde da ogni valutazione della personalita' del soggetto e dei risultati del trattamento, finisce inevitabilmente per colpire anche detenuti meritevoli di intraprendere un percorso risocializzativo o che addirittura lo hanno da tempo intrapreso positivamente e come tale non pare conforme al principio del quo. Non solo, ma la disparita' di trattamento emerge anche laddove si considera che l'espulsione colpisce i soli detenuti identificati - e non potrebbe essere diversamente - cosi' favorendo coloro che sono entrati nel territorio italiano in condizione di clandestinita' ma soprattutto incentivando, fra i soggetti stranieri detenuti, il mantenimento di detta condizione rispetto a procedure di identificazione che ben potrebbero interrompere i progetti risocializzanti, come sopra detto. Violazione dell'art. 2 Cost. L'istituto de quo, per le considerazioni sopra espresse, non risulta in perfetta armonia neppure con il disposto costituzionale di cui all'art. 2 laddove riconosce e tutela i diritti inviolabili dell'uomo (e quindi la liberta' personale) e richiede l'adempimento dei doveri di solidarieta'. L'espulsione di soggetti detenuti secondo un procedimento di natura automatica - sulla base di requisiti che determinano di fatto disparita' di trattamento ovvero un trattamento del tutto irragionevole fra detenuti stranieri - finisce per privilegiare soggetti che hanno commesso gravi reati e che non hanno mai aderito al trattamento proposto. Coloro che subiscono il provvedimento di espulsione (certamente non un beneficio visto che non e' stato da loro richiesto, ne' vi possono rinunciare) sono proprio i soggetti nei cui confronti il precetto costituzionale dovrebbe trovare attuazione. 3. - Violazione dell'art. 25, secondo comma Cost. La fattispecie di cui all'art. 15 citato presenta infine profili di incostituzionalita' per violazione del divieto di irretroattivita' della pena. L'art. 25, comma 2, che stabilisce che «nessuno puo' essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso» costituzionalizza il principio enunciato dall'art. 1 del c.p. secondo cui «nessuno puo' essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge ne' con pene che non siano previste dalla legge». Si ritiene che la norma costituzionalizzi non solo il principio di legalita' del reato ma altresi' della pena (nulla poena sine lege). Del resto difficilmente sostenibile appare la tesi contraria tenuto conto della espressa estensione del principio con riferimento alle misure di sicurezza ai sensi dell'art. 25, ultimo comma. Il principio della legalita' si articola nei principi della riserva di legge, della tassativita' ed infine della irretroattivita'. In materia penale il divieto di irretroattivita' della legge ha portata relativa e riguarda la sola irretroattivita' della legge sfavorevole (art. 2, terzo comma c.p.). Orbene, la natura di sanzione, come sopra esplicitato, della misura introdotta dalla novella 189 del 2002, depone per l'incostituzionalita' di una normativa che introduce un trattamento sanzionatorio sfavorevole per il condannato - in stato di detenzione - laddove ne' impone l'applicazione in modo retroattivo. Cio' posto, si deve ritenere che l'art. 15 della legge 30 luglio 2002, n. 189, che ha modificato l'art. 16 del d.lgs. 25 luglio 1998, laddove ha introdotto «l'espulsione a titolo di sanzione alternativa alla detenzione» risulti incompatibile con gli artt. 2, 3 e 27, terzo comma e 25 secondo comma della Costituzione. Poiche' trattasi di norma sulla cui applicazione verte il presente procedimento, la questione e' rilevante ai fini del presente giudizio, non potendo essere definito se non l'applicazione della norma citata. Per le ragioni piu' sopra esposte gli atti devono essere inviati alla Corte costituzionale e il procedimento deve essere sospeso in attesa delle determinazioni del giudice delle leggi.
P. Q. M. Visti gli articoli 23 ss. legge 11 marzo 1953, n. 87, 13, 16 e 19 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, cosi' come modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189, 2, 3, 27, terzo comma Cost. Ordina la trasmissione degli atti del presente procedimento alla Corte costituzionale, disponendone la sospensione in attesa della decisione della Corte. Manda alla Cancelleria per le comunicazioni di competenza e, in particolare, per la notifica all'interessato, al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Emilia, al Presidente del Consiglio dei ministri, nonche' per la comunicazione ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Reggio Emilia, addi' 4 marzo 2003 Il Magistrato di Sorveglianza: Buttelli 03C0582