N. 433 ORDINANZA (Atto di promovimento) 13 febbraio 2003
Ordinanza emessa il 13 febbraio 2003 dal tribunale di Ancona, sez. distaccata di Fabriano nel procedimento penale a carico di P.A. Reato in genere - Imputabilita' - Norme concernenti i vizi di mente e gli stati emotivi o passionali - Incongruita' della nozione di infermita' psichica presupposta - Contrasto con il principio di ragionevolezza - Incidenza della nozione utilizzata sull'obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali. - Codice penale, artt. 85, 88, 89 e 90. - Costituzione, artt. 3 e 111.(GU n.28 del 16-7-2003 )
IL TRIBUNALE Letti gli atti del procedimento penale n. 30181/02 R.G. mod. 16, 1774/96-2 RGNR, relativo all'imputato P.A.; Premesso in fatto che il predetto imputato era evocato in giudizio per rispondere del reato di cui all'art. 589, primo, secondo e terzo comma c.p. nonche' dell'art. 186 primo e secondo comma del Codice della strada (fatti del 16 febbraio 1996, in occasione di incidente stradale); Che questo giudice chiedeva notizie circa lo stato mentale dell'imputato mediante la trasmissione di documentazione dalle strutture sanitarie pubbliche locali; Che a seguito di cio' veniva acquisita documentazione da cui tra l'altro risultava: che l'imputato era stato in cura presso il Centro di Salute Mentale di Fabriano, essendo stato seguito continuativamente dal 28 gennaio 1997 al 2 dicembre 1998, a seguito di diagnosi di «disturbo psicotico N.A.S.» insorto durante l'espletamento del servizio militare; che alla data del 26 marzo 1999 l'imputato risultava per i responsabili del servizio psichiatrico pubblico «affetto da "Disturbo Borderline di Personalita'", quadro clinico caratterizzato da una modalita' pervasiva di instabilita' delle relazioni interpersonali, dell'immagine di se' e dell'umore e da una marcata impulsivita» con «abusi saltuari di sostanze stupefacenti ed alcool e, in periodi di elevata esposizione allo stress, scompensi psicotici caratterizzati dal conparire di disturbi dell'ideazione di tipo paranoide»; che concorreva con il predetto quadro un disturbo post traumatico da stress, che poteva «aver contribuito a slatentizzare i tratti disfunzionali di personalita' connessi al sottostante disturbo di personalita»; che una nota del 3 dicembre 1999 indicava una riaccentuazione dei sintomi in concomitanza ad (altro) incidente stradale avvenuto nel luglio 1999; che l'imputato era stato ricoverato presso il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura di Jesi dal 13 settembre 1999 al 16 settembre 1999, a seguito del quale aveva ricominciato ad assumere una terapia farmacologica a base di neurolettici, ansiolitici e stabilizzanti dell'umore; che successivamente l'imputato era stato ricoverato presso la stessa struttura, inizialmente a livello volontario e poi con T.S.O., stante la sua assoluta mancanza di collaborazione; che successivamente era continuata la terapia farmacologica; che la certificazione datata 13 marzo 2000 a firma di medico della AUSL 5 di Jesi dava conto di «un quadro clinico psicopatologico caratterizzato da una condizione persistente di depersonalizzazione e derealizzazione, con frequenti episodi francamente psicotici». Considerato, in diritto, che risulta dunque dalla predetta documentazione acquisita che l'imputato, nel periodo successivo al tragico incidente, era malato di mente. Risulta inoltre un quadro tale che imporrebbe di approfondire se - per la gravita' della malattia segnalata non da consulenti di parte, ma da strutture pubbliche - la malattia mentale stessa non fosse presente al momento del fatto (anche se qui potrebbe venire in rilievo la nota controversia tra fattore scatenante, mera concausa della malattia mentale ovvero malattia mentale «autonomamente sviluppatasi»: ma per l'appunto cio' postulerebbe l'approfondimento peritale accennato). Tale perizia, in caso di esito della stessa nel senso dell'infermita' di mente al momento del fatto, potrebbe essere risolutiva per escludere l'imputabilita'. E tuttavia, prima di interrogarsi sull'opportunita' o sulla necessita' di una perizia psichiatrica, questo giudice deve porsi il problema fondamentale di come utilizzare il concetto di malattia mentale rispetto al diritto positivo. E in tale diritto positivo com'e' noto, viene in rilievo, in primo luogo, il disposto degli artt. 85-87-88-90 c.p. (v. anche art. 220, secondo comma c.pp.). L'indagine che deve effettuare questo giudice dev'essere subito alleggerita dalle questioni piu' generali, che addirittura coinvolgono il modo d'essere di un sistema penale. In altre parole, per quello che qui interessa, non occorre in alcun modo occuparsi di tutte le questioni che attengono: alla pretesa duplicazione concettuale tra art. 42, primo comma ed art. 88 c.p., sostenuta da parte della dottrina; alla problematica relativa alla capacita' di volere di cui agli artt. 85 ed 88 c.p. come «libero volere», intendendosi con questo la capacita' di agire «liberamente» il che comporta a sua volta il quesito se possa, almeno in parte, affermarsi che comunque la norma sottenda il problema del «libero arbitrio», il che e' stato espressamente escluso nella relazione al codice, non avendo voluto il legislatore prendere posizione sul punto (affermando sostanzialmente che trattasi di problemi metagiuridici) ma che parte della dottrina in qualche modo ripresenta in sede ermeneutica, non ritenendo che la capacita' o l'imputabilita' possa attenere ad altri che all'«uomo libero»; alla problematica relativa alle finalita' della pena (scuola classica, scuola positiva, nuova difesa sociale ecc. ecc.). Occorre invece prendere le mosse dalla costante giurisprudenza in materia, la quale sostanzialmente, e sia pure con qualche episodico precedente difforme, ha un orientamento pacifico nel ricondurre l'infermita' di mente ad una «patologia» clinicamente accertata. Solitamente, ma non sempre, la giurisprudenza esclude dal novero delle «infermita» psichiche quelle che non si traducano nelle c.d. psicosi. Talvolta si assiste anche alla specificazione, apprezzata da parte della letteratura psichiatrica forense, che la malattia mentale deve essere stata causa specifica del reato e non mero stato generale del soggetto: e' questa, sotto varie forme, la dottrina dell'incapacita' di intendere e di volere come valore di malattia. Ricorrente e' poi la distinzione tra psicosi vera e propria e c.d. nevrosi la quale non darebbe luogo a compromissione della capacita' di intendere e di volere. Quasi sempre, inoltre, v'e' la sottolineatura circa la «base organica» della malattia rilevante ex art. 88 e 89 c.p. Queste affermazioni si trovano nella copiosa giurisprudenza degli ultimi 50 anni talvolta affiancate, talaltra, per cosi' dire, «in ordine sparso», poiche' viene colto ora l'uno ora l'altro aspetto ovvero perche' empiricamente la giurisprudenza stessa cerca di risolvere gli stessi imbarazzi e contraddizioni della cultura psichiatrica. Su questi presupposti si attesta anche la piu' recente giurisprudenza. Si pone ora la questione di chi, in primo luogo, debba accertare la malattia mentale, in ipotesi penalmente rilevante. Il quesito sembrerebbe banale e pedestre, poiche' la risposta obbligata e' che l'incapacita' viene accertata dal giudice sulla scorta delle risultanze processuali ed in primo luogo della perizia psichiatrica. Ma, per l'appunto, deve essere chiaro su quali premesse necessarie deve essere condotta la perizia psichiatrica. E allora, utile conclusione puo' essere quella secondo la quale la perizia non potra' mai essere affidata ad un esperto nelle discipline psicologiche, perche' la psicologia si occupa delle condotte mentali in generale, mentre la psichiatria si occupa della diagnosi (oltre che della cura) della malattia mentale. Inoltre, altra ulteriore conseguenza, anch'essa apparentemente banale, e' che la psichiatria, come fonte di conoscenza umana, si pone esclusivamente come «scienza». Certamente il perito in genere, puo' essere versato nelle piu' varie forme di conoscenza umana, ivi comprese quelle a carattere artistico, ma la perizia psichiatrica non puo' che porsi secondo criteri scientifici. Una volta accertato che il giudice deve ricorrere alla scienza psichiatrica, altra utile specificazione e' quella che attiene alla nozione stessa di scienza. Senza volersi in alcun modo addentrare, neppure per cenni, in questioni di filosofia della scienza, non si puo' tuttavia trascurare che lo stesso soggetto di conoscenza media, tra i quali va annoverato lo stesso operatore del diritto, deve utilizzare il concetto di «scienza» sul quale attualmente si conviene (con esclusione di quello, generalissimo, che equivale a sinonimo di «conoscenza». La nozione di scienza ha oggi abbandonato quel carattere di conoscenza assoluta ed universale alla quale ambiva nei secoli precedenti, almeno come fine raggiungibile. Si puo' anzi dire, forse esagerando, che uno dei postulati della scienza moderna e' proprio l'impossibilita' di raggiungere tale fine (e si esagererebbe proprio perche' tale affermazione ha in se' un'eccessiva assolutezza). Requisito essenziale della scienza moderna e' che tutte le sue acquisizioni, per avere valore, devono essere suscettibili di riscontro che puo' essere: sia di natura assolutamente deduttiva: un matematico esegue una dimostrazione ponendo all'attenzione della comunita' matematica tutti i passaggi attraverso i quali essa si svolge, in maniera tale che la comunita' stessa possa discutere il valore e l'importanza del lavoro. Assolutamente emblematica in tal senso, e mediaticamente importante perche' giunta agli onori delle cronache giornalistiche, e' la dimostrazione del c.d. ultimo teorema di Fermat, vale a dire la dimostrazione che xn + yn = zn non puo' dare alcuna soluzione in numeri interi per n maggiore di 2. Tale dimostrazione, oltre ad essere contenuta in oltre 200 pagine, aveva un errore nella sua prima formulazione, errore emendato proprio grazie alla segnalazione dei matematici coinvolti nella verifica; sia di natura in tutto o in parte empirica: viene annunciato un nuovo e rivoluzionario farmaco ovvero un nuovo protocollo medico nella cura del cancro; la procedura di scoperta della molecola ovvero il protocollo di cura deve essere messo a disposizione della comunita' scientifica per le verifiche sperimentali del caso; altrimenti la scoperta del farmaco e la pretesa cura non hanno valore scientifico e, poiche' la medicina e la farmacologia non hanno valore di conoscenza se non sub specie di scienza, non hanno affatto valore. Certamente lo sforzo intellettuale, anche in tema di scienza, procede anche per altre vie, non deduttive ne' induttive: una congettura si affaccia gia' pronta alla mente del ricercatore, e solo dopo se ne trova la giustificazione mediante il procedere razionale (la genesi di cio' e' tuttora ignota). Non puo' essere sottovalutato questo dato, ma esso non appartiene direttamente alla scienza. La psichiatria deve porsi come scienza, essendo una branca della medicina, e come tale deve avere acquisizioni comunemente accettate dalla generalita' degli esperti che praticano tale disciplina. L'affermazione potrebbe sembrare azzardata se si pone mente alle difficolta' in cui ancora si dibatte la psichiatria e le discussioni non ancora sopite circa l'eziologia di determinati fenomeni morbosi. Ma si tratta di difficolta' che appartengono in maggiore o minore misura a tutti i rami delle scienze applicate e non per questo i risultati cui pervengono le varie discipline non sono utilizzati in maniera fruttosa nella vita di tutti i giorni. Essi possono ed anzi debbono essere utilizzati anche dal giurista. Per quello che a noi interessa, rimane accertato, alla luce delle moderne acquisizioni: 1) che la maggior parte delle malattie mentali hanno un'accertata concomitante carenza o eccesso di sostanze che fanno da mediatori chimici nelle interazioni neuronali; 2) che spesso vi sono una serie di fattori concausali che possono prendere il nome di fattori scatenanti la malattia, senza i quali: a) la malattia avrebbe potuto anche non manifestarsi; b) o avrebbe potuto manifestarsi con minore gravita'; c) o avrebbe potuto manifestarsi piu' tardivamente; 3) che le malattie mentali, in precedenza classificate unitariamente, abbisognano invece di importanti ed ulteriori specificazioni, per cui, ad esempio, e' corretto parlare di «spettro schizofrenico» per dare conto di una serie di manifestazioni patologiche, anche molto diverse tra loro, riconducibili in quale maniera alla vecchia nozione di schizofrenia; 4) che la comorbidita' tra malattie mentali e' un fenomeno piu' accentuato di quanto in precedenza non si sospettasse (ad esempio, depressione e disturbo ossessivo compulsivo, depressione e disturbi da abuso di sostanze alcoliche, ecc.); 5) che la summa divisio tra nevrosi e psicosi, ancora molto radicata nella terminologia comune, e' praticamente abbandonata, mentre il termine nevrosi viene ancora utilizzato, soprattutto dalla psichiatria di scuola europea, ma semplicemente come termine equivalente a «sindrome» o «malattia» e senza quella valenza spiccatamente «psicodinamica» assegnatale soprattutto dalla psicanalisi; 6) che la gravita' delle malattie mentali non si manifesta (solo) in termini di qualita', cioe' in relazione ad un tipo di malattia, ma anche e soprattutto in relazione al tipo di intensita' nell'ambito della stessa malattia; 7) che per talune malattie la familiarita' e' molto accentuata, il che depone per l'origine genetica della predisposizione a questo tipo di malattie: appare corretto parlare di predisposizione in tutti i casi in cui la malattia dipenda dall'interazione di una serie di geni e non dal difetto di un solo gene, per cui il meccanismo complesso di interazione tra i geni coinvolti potrebbe essere influenzato in maniera piu' o meno positiva dagli stimoli ambientali; 8) che anche per le malattie di marcata origine genetica, non puo' darsi luogo ad alcun determinismo rozzamente inteso, per intendersi secondo i canoni piu' rudi della scuola positiva di fine ottocento, sia perche', come detto, la malattia sarebbe in ogni caso poligenica e sempre, in questa ipotesi, diviene importante il contributo ambientale, sia perche', trattandosi di geni non tutti a carattere dominante, essi possono risentire del positivo influsso dell'allele, in ipotesi sano, portato dal genitore non affetto; 9) che, infine, anche la dicotomia tra malattia «a base organica» o «biologica» e malattia «a base funzionale» (o espressione equivalente), tende ad essere abbandonata. Tutte le recenti acquisizioni delle neuroscienze e della biomedicina danno conto di una complessita' tale dell'organismo vivente che immaginare una mente ad un piano superiore ed un corpo confinato nel sottoscala e' un'ipotesi del tutto infruttuosa. Nel campo della psichiatria, i progressi della misurazione sperimentale danno conto di eccesso o difetto di determinate sostanze proprio in correlazione a determinati stati patologici, per cui la mancanza di riscontro su base fisica di determinati disturbi psichici non puo' essere preso per fondare la dicotomia in parola; 10) che gli apporti della psicodinamica e della sociologia possono essere senz'altro utilizzati nella diagnosi e nella cura della malattia mentale, senza voler ridurre la psichiatria a mera dimensione biologica, sia per le innegabili influenze dell'ambiente cui sopra si e' fatto cenno, sia perche' la complessita' della materia, cui attualmente le neuroscienze non possono fornire tutte le risposte (ne' si sa se lo potranno fare in futuro) impongono una sorta di pragmatismo eclettico. Ovviamente per un'utile fruizione di tali contributi va abbandonato ogni dogmatismo da parte di tutti. Appare chiaro che oggi la scienza e la scienza in generale e la psichiatria in particolare non puo' essere la stessa del 1930. Gia' questo comporterebbe un grave attacco alla validita' dei presupposti scientifici della normativa recata dagli artt. 85-88-89 c.p. Infatti, tanto per fare un esempio, la ricorrente distinzione operata dalla giurisprudenza tra malattia «in senso proprio» ovvero malattia che ha base clinica, la quale comporta l'infermita' rilevante per escludere o diminuire la capacita' di intendere e di volere, e «i disturbi della personalita', le nevrosi, ecc.» riecheggia chiaramente, quando non riprende pari pari, la terminologia desueta di cui sopra, al punto 9. Qui, ovviamente, non si discute se un soggetto con disturbo di personalita', psichiatricamente classificabile come tale, debba o meno essere considerato incapace di intendere e di volere: il discorso, piuttosto, e' metodologico, nel senso che appare inesatto in partenza negare la qualifica di malattia mentale al disturbo di personalita'. Non si capisce perche' il disturbo di personalita' interessi la psichiatria se non e' rapportabile alla nozione di malattia mentale, se non usando la battuta rinvenibile in un celebre manuale di psichiatria forense, vale a dire che gli psichiatri, nella loro ansia classificatoria, debbono trovare un'etichetta per qualsiasi manifestazione comportamentale. Il che, comunque, rimane una battuta, ed anche poco al di sopra di quella secondo cui per lo psichiatra sono tutti pazzi, ed il primo pazzo e' lui stesso. In realta' rimane l'assoluta difficolta' di conciliare le risultanze della scienza psichiatrica con asserzioni che si rinvengono nella giurisprudenza le quali danno come premesse scontate affermazioni che sono in contrasto con quanto sopra richiamato. Come mero esempio ricordiamo che Cass. Sez. I, n. 4029/92 stabilisce che la sindrome ansioso depressiva non e' associabile ad alcuna entita' nosologica. Si rinviene, in tale affermazione, la traccia di una tripartizione tutt'ora in voga in dottrina ed in giurisprudenza, secondo la quale vi sarebbero tre distinti paradigmi circa i «modelli» di malattia mentale: il paradigma medico o nosografico elaborato da Kraepelin verso l'inizio del novecento, secondo il quale il malato di mente sarebbe tale al sussistere di una specifica ed accertabile malattia fisica del sistema nervoso centrale. La disamina della malattia si svolge attraverso l'essenziale apporto di criteri di classificazione trasposti in «tavole nosografiche», per cui il disturbo psichico e' riconducibile ad una malattia mentale solo se nosograficamente inquadrabile; il paradigma psicologico, variamente definito, ma comunque improntato alla valorizzazione dell'universo interiore dell'individuo, della psicodinamica, del «vissuto», ecc. ecc. ecc.; il paradigma sociologico, per cui la malattia di mente e' riconducibile agli influssi dell'ambiente, o della societa'. Nelle sue teorizzazioni piu' estreme, il paradigma sfocia in quella che e' stata chiamata «antipsichiatria». Il secondo ed il terzo paradigma, per le considerazioni sopra fatte, non appartengono al metodo scientifico. La loro validita' va cercata in altri campi del conoscere. I loro eventuali apporti alla scienza psichiatrica sono di contenuto empirico, talora importanti ma non sistematici. Non possono autonomamente venire in rilievo per essere confutati o confermati, perche' sfuggono, per la loro stessa essenza al momento della verifica sperimentale (secondo l'ormai ben noto insegnamento di Popper). Il primo paradigma faceva certamente parte integrante della migliore scienza psichiatrica nel 1920 o nel 1930, ma appartiene oggi alla storia della scienza. Attualmente la scienza psichiatrica pone le sue fondamenta su sistemi di classificazione a carattere pragmatico, rispetto ai quali sono fondamentali il Manuale c.d. DSM (diagnostic and statistic manual of mental disorder) nelle sue successive versioni, nonche' la corrispondente versione a cura dell'OMS ICD. L'elemento saliente che caratterizza queste versioni e' la costante revisione dei dati e delle classificazioni, che da un lato sottolinea il carattere ateorico delle stesse e dall'altro da' conto di un'elaborazione continua della materia in relazione alle acquisizione che via via vengono fatte. Accedendo a tali impostazioni, che non possono trovare alternative secondo la migliore scienza ed esperienza attuale, si comprende come il metodo nosografico era correttamente preso in esame quale presupposto dell'infermita' psichica dal legislatore del 1930 (la relazione al Re vi fa indiretto ma chiaro accenno), ma non puo' essere il presupposto scientifico attuale. Ma ammettendo che l'impianto complessivo costituito dagli artt. 85-88-89, i quali poggiano, nell'applicazione ed interpretazione, su premesse che non si discostano molto dalle premesse proprie di una scienza psichiatrica vecchia di 70 anni, possa in qualche modo superare le enormi riserve sulla sua ragionevolezza, il punto veramente dolente riguarda l'art. 90 c.p., il quale puo' essere letto sia quale norma autonoma sia in lettura integrata con il disposto degli articoli riguardanti l'imputabilita'. In altre parole, il lettore (e l'interprete) puo' scegliere di leggere, in un primo tempo, gli artt. 85-88-89 c.p., e ne ricavera' che non e' imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto era, per infermita', in uno stato di mente tale da escludere la capacita' di intendere e di volere. Di seguito l'art. 90 c.p. puo' essere letto come una sorta di interpretazione autentica del disposto normativo di cui agli artt. 85-88-89 c.p., nel senso che «gli stati emotivi o passionali» non possono mai configurare quell'infermita' che comporta una stato di mente tale da escludere (o anche solo di scemare) la capacita' di intendere e di volere. In tal modo v'e' un complesso normativo di unitaria lettura, quello degli artt. 85-88-89-90 c.p. Ma il lettore puo' anche intendere l'art. 90 c.p. come lo intende autorevole corrente dottrinale, e cioe' che vi siano «stati emotivi o passionali» che alterano il funzionamento della psiche in maniera patologica. E di fronte a questa possibilita', due sono le opzioni, cioe' ammettere che vi sia uno stato «emotivo o passionale» che comporta l'infermita/incapacita' ovvero che, in ogni caso, operi una fictio juris secondo la quale, seppure lo stato emotivo o passionale comporta un'incapacita' di intendere o di volere, tale incapacita' assoluta o parziale non e' giuridicamente valutabile. La giurisprudenza di Cassazione puo', grosso modo, suddividersi in 3 filoni: v'e' un gruppo di sentenze che affermano che gli stati emotivi o passionali non possono mai rilevare ai fini dell'incapacita' di intendere o di volere (sez. I, n. 1319/67; n. 316/68 ; sez II, n. 3707/76 ; sez. III, n. 467/79; sez. I, n. 2897/83 ; sez. IV, n. 14358/90 ; sez. I, n. 7523/91; n. 4029/92; n. 4954/93; 967/98, sez. VI, n. 7845/97); v'e' un gruppo di sentenze che affermano che gli stati emotivi o passionali possano anche comportare uno squilibrio psichico tale da poter dar luogo alla malattia mentale: di solito tale evenienza e' vista come «eccezionale» (sez. I, n. 739/72; n. 4123/73 ; sez. III, n. 800/60; n. 2511/80; n. 9357/80; n. 6710/83; sez. V, n. 2123/85; sez. VI, n. 2285/85; sez. I, n. 9084/87; sez. V, n. 8660/90; sez. I, n. 1347/91); v'e' infine un gruppo di sentenze che sembrano tentare una specificazione dello stato emotivo o passionale, rilevante per escludere o diminuire la capacita' di intendere e di volere, quale «manifestazione» di una vera e propria patologia (sez. I, n. 10911/76; sez. III, n. 2439/64; sez. VI, n. 153/82; sez. I, n. 12429/94; n. 3170/95; n. 5885/97). In realta', leggendo i repertori e piu' ancora confrontando le motivazioni per esteso, si ha talvolta la netta impressione che il contrasto sia meramente terminologico ed in realta' la giurisprudenza sia preoccupata di dare risposte adeguate al caso concreto, spesso di valenza delicata. In realta' si tratta di sforzi veramente ammirevoli, sol che si consideri che la nozione di «stati emotivi o passionali» e' uno strumento che seriamente non puo' avere alcuna utilizzazione. Il legislatore del 1930 utilizzava il vocabolario che poteva avere a disposizione, che era quello di certa criminologia e psichiatria di fine ottocento e di inizio del novecento. Certamente, a loro volta, tali espressioni prendono forma piu' dai momenti topici del romanzo popolare che da una terminologia scientifica. Oggi, comunque, nessun equivoco e' piu' possibile. Si puo' certamente convenire con chi dice che in tali casi le espressioni piu' o meno infelici non devono essere preclusive all'utilizzazione delle situazioni sottostanti, che non possono che avere un carattere convenzionale. Il fatto e' che la convenzione creatasi poggia su basi scientificamente scorrette. Il giurista e l'operatore del diritto deve certamente farsi carico di questa discrepanza tra scienza come oggi va intesa e scienza come presupposta dal legislatore del 1930, dalla giurisprudenza e dalla dottrina: «questa Corte non intende certo escludere che il sindacato sulla costituzionalita' delle leggi, vuoi per manifesta irragionevolezza vuoi sulla base di altri parametri desumibili dalla Costituzione, possa e debba essere compiuto anche quando la scelta legislativa si palesi in contrasto con quelli che ne dovrebbero essere i sicuri riferimenti scientifici o la forte rispondenza alla realta' delle situazioni che il legislatore ha inteso definire. Nella materia del diritto penale, anzi, questo specifico riscontro di costituzionalita' deve essere compiuto con particolare rigore, per le conseguenze che ne discendono sia per la liberta' dei singoli che per la tutela della collettivita» (Corte cost. sentenza n. 114 del 9-16 aprile 1998). Ritiene questo giudice che la base scientifica su cui poggia la normativa del 1930, nonche' le elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali pressoche' dominanti, sia «incontrovertibilmente erronea» ovvero «raggiunga un tale livello di indeterminatezza da non consentire in alcun modo un'interpretazione ed una applicazione razionali da parte del giudice» (per usare le espressioni della decisione appena richiamata). D'altro canto, che le acquisizioni della scienza debbano imporre una rivisitazione degli istituti giuridici appare ugualmente ovvio (v., in tema di accertamenti per escludere o affermare la paternita', quanto viene affermato da Corte cost. n. 170/99, n. 134/85). Quando pero' la rivisitazione non puo' porsi in termini di diversa applicazione, pur sempre compatibile con il dettato della norma, ma la nuova acquisizione scientifica configge con la norma stessa, e' quest'ultima a dover venire meno. Occorre ora sottolineare nettamente che le conclusioni alle quali perviene la scienza psichiatrica sono di carattere neutro rispetto alla problematica generale garantismo/repressione, perche' non attengono al livello di risposta penale rispetto al fatto criminoso ma al «come» la malattia mentale, eventualmente causa di non imputabilita', viene accertata. Del resto, anche oggi la giurisprudenza non ha difficolta' ad ammettere che non tutte le infermita' mentali danno luogo all'incapacita' di intendere e di volere. Resta da vedere se l'eliminazione di norme cosi' importanti, almeno apparentemente, possa creare seri problemi al sistema penale (questo giudice infatti denuncia non solo l'art. 90, ma il completo impianto normativo costituito dagli artt. 85-88-89-90). A parte l'ovvia considerazione secondo la quale, se si parte dal presupposto da cui procede questo rimettente, secondo cui trattasi di strumenti normativi sostanzialmente inservibili, non si vede come la loro eliminazione potrebbe provocare danni, occorre dire che quanto ripugna alla coscienza sociale, quanto attiene alla possibilita' dell'uomo di scegliere tra valore e disvalore, ecc. ecc., potrebbe benissimo essere spostato sul terreno dell'applicazione dell'art. 42 c.p. Gia' il legislatore del 1930 osserva che mentre l'art. 85 regola la generica capacita' di agire nel campo penale senza riferimento ad un determinato fatto concreto, l'art. 42 prevede l'effettiva volonta' del caso concreto, per cui si tratterebbe di due posizioni diverse della volonta'. Nella capacita' di diritto penale o imputabilita', la volonta' e' considerata al momento della possibilita'. Nella effettiva responsabilita' penale la volonta' e' considerato nel momento della sua attuazione (Relazione al Re, n. 26). Oltre a cio', il giurista potrebbe utilmente rinunciare ad ogni definizione o pre-definizione della infermita' mentale, eliminando cosi' tutti gli imbarazzi che attengono alle prese di posizione piu' o meno metafisiche. Di conseguenza, questo, giudice ritiene rilevante (poiche' finalizzata a vagliare norme la cui applicazione altrimenti s'imporrebbe per il prosieguo del processo) e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 85-88-89-90 c.p. in quanto presuppongono una nozione di infermita', nella specie psichica, superata dalle nuove acquisizioni della scienza ed in quanto tale, non utilizzabile in alcun modo, e pertanto contrastanti con il criterio di ragionevolezza di cui all'art. 3 della Cost. nonche' in quanto, utilizzando una nozione di infermita' come sopra descritta, precludono al giudice il potere-dovere della motivazione dei suoi provvedimenti giurisdizionali, poiche' l'iter logico di tale argomentazione sarebbe irrimediabilmente inficiato dalla incongruita' della nozione di infermita' comunemente utilizzata.
P. Q. M. Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 85-88-89-90 c.p., per contrasto con gli artt. 3 e 111 Cost.; Sospende il procedimento ed ordina l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Dispone che la presente ordinanza sia notificata a cura della cancelleria al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere, dandosi atto che ne e' stata data lettura in udienza per gli altri soggetti destinatari. Fabriano, addi' 13 febbraio 2003 Il giudice: Marziali 03C0706