N. 443 ORDINANZA (Atto di promovimento) 13 maggio 2003

Ordinanza  emessa  il  13  maggio  2003  dal  Consiglio  di giustizia
amministrativa  per  la  Regione  Sicilia  sul  ricorso  proposto  da
I.A.C.P. della Provincia di Catania contro Russo Santa

Giustizia  amministrativa  -  Consiglio  di  giustizia amministrativa
  della Regione Siciliana - Istituzione, composizione e funzionamento
  stabiliti  con  decreto legislativo, in base al decreto legislativo
  luogotenenziale  n. 98/1946,  di  conferimento  al  Governo  di  un
  generale  ed  autonomo potere legislativo, ad eccezione delle leggi
  costituzionali,   elettorali   e   di   approvazione  dei  trattati
  internazionali - Indeterminatezza della materia oggetto di delega.
- Decreto  Lgs. Lgt. 16 marzo 1946, n. 98 e, in via derivata, decreto
  legislativo 6 maggio 1948, n. 654, artt. 1 e ss.
- Costituzione, artt. 76 e 77.
In subordine:
Giustizia  amministrativa  -  Consiglio  di  giustizia amministrativa
  della Regione Siciliana - Istituzione, composizione e funzionamento
  stabiliti  con  decreto legislativo, in base al decreto legislativo
  luogotenenziale  n. 151  del 1944, di conferimento al Governo di un
  generale  ed autonomo potere legislativo ad eccezione della materia
  costituzionale - Assoluta indeterminatezza della delega.
- Decreto-legge  luogotenenziale 25 giugno 1944, n. 151 art. 4; e, in
  via  derivata, decreto legislativo 6 maggio 1948, n. 654, artt. 1 e
  ss.
- Costituzione, artt. 76 e 77.
In subordine:
Giustizia  amministrativa  -  Consiglio  di  giustizia amministrativa
  della Regione Siciliana - Istituzione, composizione e funzionamento
  stabiliti  con  decreto  legislativo, in base al combinato disposto
  del   decreto   legislativo   luogotenenziale   n. 98/1946   e  del
  decreto-legge  luogotenenziale  n. 151 del 1944, di conferimento al
  Governo   di   un   generale   ed  autonomo  potere  legislativo  -
  Indeterminatezza della delega.
- Decreto-legge   luogotenenziale   25 giugno 1944,  n. 151,  art. 4;
  decreto  legislativo  luogotenenziale 16 marzo 1946, n. 98, art. 3,
  comma 1;  e,  in  via  derivata, decreto legislativo 6 maggio 1948,
  n. 654, artt. 1 e ss.
- Costituzione, artt. 76 e 77.
In via ulteriormente subordinata:
Giustizia  amministrativa  -  Consiglio  di  giustizia amministrativa
  della Regione Siciliana - Istituzione, composizione e funzionamento
  stabiliti  con  decreto  legislativo,  in  base  al  decreto  legge
  luogotenenziale n. 151/1944 e al d.lgs.lgt. n. 98/1946 - Ipotesi di
  natura costituzionale di detti decreti luogotenenziali - Eccesso di
  potere  del d. lgs. n. 654 del 1948 in rapporto all'art. 4 del D.L.
  Lgt.  n. 151/1944 - Eccesso di delega in rapporto all'art. 3, primo
  comma,   D.lgs.lgt.   n. 98/1946,  in  quanto  emanato  in  materia
  costituzionale di competenza dell'Assemblea costituente.
- Decreto legislativo 6 maggio 1948, n. 654, artt. 1 e ss.
- Costituzione, artt. 76 e 77.
Giustizia  amministrativa  -  Consiglio  di  giustizia amministrativa
  della Regione Siciliana - Istituzione, composizione e funzionamento
  -   Adozione   della   relativa   disciplina  senza  la  prescritta
  partecipazione alla procedura della Commissione paritetica.
- Decreto legislativo 6 maggio 1948, n. 654, artt. 1, 3, primo comma,
  4, 5, 6, 7, 8 e 9.
- Statuto Regione Siciliana, art. 43.
In subordine:
Giustizia  amministrativa  -  Consiglio  di  giustizia amministrativa
  della Regione Siciliana - Istituzione, composizione e funzionamento
  stabiliti   con   decreto-legislativo,   in   base  all'art. 4  del
  D.lgs.lgt.   n. 151  del  1944  e  dell'art. 3,  primo  comma,  del
  D.lgs.lgt.  n. 98/1946  - Ipotesi di natura costituzionale di detti
  decreti    luogotenenziali   -   Adozione   senza   la   prescritta
  partecipazione   della   Commissione  paritetica  -  Illegittimita'
  costituzionale sopravvenuta.
- Decreto-legge   luogotenenziale   25 giugno 1944,  n. 151,  art. 4;
  Decreto  lgs. lgt. 16 marzo 1940, n. 98, art. 3, comma 1, e, in via
  derivata, decreto legislativo 6 maggio 1948, n. 654, artt. 1 e ss.
- Statuto della Regione Siciliana, art. 43.
Giustizia  amministrativa  -  Consiglio  di  giustizia amministrativa
  della Regione Siciliana - Istituzione, composizione e funzionamento
  -  Ingiustificata  deroga alla composizione ordinaria delle sezioni
  del Consiglio di Stato nella Regione Siciliana.
- Decreto  legislativo  6 maggio  1948, n. 654, art. 2, quarto comma,
  lett. b), nonche' in parte qua commi VI e VIII, come sostituiti dal
  d.P.R. n. 204/1978.
- Statuto Regione Siciliana, art. 23.
- Costituzione, VI disposizione transitoria, primo comma.
In subordine:
Giustizia  amministrativa  -  Consiglio  di  giustizia amministrativa
  della Regione Siciliana - Istituzione, composizione e funzionamento
  -  Violazione  del  divieto di istituzione di sezioni specializzate
  nell'ambito delle giurisdizioni speciali.
- Decreto  legislativo  6 maggio  1948, n. 654, art. 2, quarto comma,
  lett. b),  nonche'  in  parte qua, commi VI e VIII, come sostituito
  dal d.P.R. n. 204/1978.
- Statuto Regione Siciliana, art. 23, primo comma.
- Costituzione,  artt. 102,  comma  secondo,  e  108, primo e secondo
  comma.
In subordine:
Giustizia  amministrativa  -  Consiglio  di  giustizia amministrativa
  della Regione Siciliana - Istituzione, composizione e funzionamento
  -  Deroga  ingiustificata alla composizione ordinaria delle Sezioni
  del Consiglio di Stato da localizzare in Sicilia, senza il supporto
  di una espressa previsione di rango costituzionale.
- Decreto  legislativo  6 maggio  1948,  n. 654, art. 2, quarto comma
  lettera b), nonche' in parte qua, commi VI e VIII.
- Statuto Regione Siciliana, art. 23.
- Costituzione, artt. 102, primo comma, e 108, primo comma.
In subordine:
Giustizia  amministrativa  -  Consiglio  di  giustizia amministrativa
  della Regione Siciliana - Istituzione, composizione e funzionamento
  - Previsione di una sezione specializzata del Consiglio di Stato in
  composizione collegiale diversa da quella ordinaria - Contrasto con
  la  disciplina dell'Alta Corte di Giustizia della Regione Siciliana
  e  con  quella relativa alla istituzione di sezioni della Corte dei
  conti per la Regione Siciliana.
- Decreto  legislativo  6 maggio  1948,  n. 654,  art.  2,  comma IV,
  lett. b),  nonche',  in  parte qua, commi VI e VII, come sostituiti
  dal d.P.R. n. 204/1978.
- Statuto Regione Siciliana, artt. 23, primo e terzo comma, e 24.
In subordine:
Giustizia  amministrativa  -  Consiglio  di  giustizia amministrativa
  della Regione Siciliana - Istituzione, composizione e funzionamento
  -  Violazione del principio della riserva di legislazione esclusiva
  dello   Stato  in  materia  di  giurisdizione,  norme  processuali,
  ordinamento civile e penale e di giustizia amministrativa.
- Decreto  legislativo  6 maggio 1948, n. 654, art. 2, comma IV, come
  sostituito dal d.P.R. n. 204/1978.
- Costituzione, art. 117, secondo comma, lett. l).
Giustizia  amministrativa  -  Consiglio  di  giustizia amministrativa
  della Regione Siciliana - Istituzione, composizione e funzionamento
  -  Componenti  laici  -  Cause  di  revoca,  decadenza,  cessazione
  dall'incarico  e  sanzioni  disciplinari  -  Mancata  previsione  -
  Ingiustificata  disparita'  di  trattamento  tra  giudici  laici  e
  giudici  togati  -  Violazione  del  principio  di indipendenza dei
  giudici  -  Ingiustificata  disparita'  di  trattamento rispetto ai
  componenti non togati della Corte dei conti, del Consiglio di Stato
  e della Corte costituzionale - Incidenza sul diritto di difesa.
- Decreto  legislativo  6 maggio  1948,  n. 654,  artt. 2,  comma IV,
  lett. b),  comma  V,  3, secondo e terzo comma, come sostituiti dal
  d.P.R. n. 204/1976; art. 7, d.lgs. 6 maggio 1948, n. 654.
- Costituzione,  art. 3,  24, 100, secondo comma, 101, secondo comma,
  108, secondo comma.
Giustizia  amministrativa  -  Consiglio  di  giustizia amministrativa
  della Regione Siciliana - Istituzione, composizione e funzionamento
  -  Componenti  laici  -  Previsione  di  un  trattamento  economico
  inferiore  rispetto  a quello dei componenti togati - Incidenza sul
  principio di imparzialita' ed indipendenza dei giudici, sui diritti
  di azione di difesa in giudizio - Ingiustificata diversa disciplina
  rispetto  ai  componenti  non  togati  di  altri giudici speciali -
  Violazione dei principi relativi al giusto processo.
- Decreto  legislativo  6 maggio  1948, n. 654, art. 2, quarto comma,
  lett. b),  e  quinto,  e  decreto  legislativo  Presidente  Regione
  Siciliana 31 marzo 1952, n. 8, art. 1, ratificato dall'art. 1 della
  legge Regione Siciliana 13 marzo 1953, n. 9.
- Costituzione,  artt. 3,  24,  primo  e  secondo comma, 101, secondo
  comma, 108, secondo comma e 111, secondo comma.
Giustizia  amministrativa  -  Consiglio  di  giustizia amministrativa
  della Regione Siciliana - Istituzione, composizione e funzionamento
  -  Componenti  laici  -  Termini  tassativi per la designazione, la
  nomina  e  l'insediamento  dei  membri  regionali  e  di meccanismi
  sostitutivi in caso di cessazione - Mancata previsione - Violazione
  dei  principi  di uguaglianza, dei diritti di azione e di difesa in
  giudizio, nonche' dei principi di imparzialita' ed indipendenza dei
  giudici e di tutela giurisdizionale.
- Decreto  legislativo  6 maggio 1948, n. 654, art. 3, comma secondo,
  come sostituito dall'art. 2 d.P.R. 5 aprile 1978, n. 204.
- Costituzione, art. 3, 24, 100, 101, 103, 108 e 113.
- Statuto Regione Siciliana, art. 23.
(GU n.28 del 16-7-2003 )
              IL CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA

    In  sede giurisdizionale ha pronunciato la seguente ordinanza sul
ricorso  in  appello  n. 1368/01  proposto  da Istituto autonomo case
popolari   della   Provincia   di  Catania,  in  persona  del  legale
rappresentante  pro  tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Pietro
Paterniti  La  Via  con  domicilio  eletto  in  Palermo,  via Nicolo'
Turrisi, 59 presso lo studio dell'avv. Salvatore Raimondi;
    Contro  Russo  Santa,  rappresentata  e difesa dagli avv. Rosario
Comis  e  Girolamo  Rubino,  con  domicilio  eletto  in  Palermo, via
Oberdan,  5  presso  lo  studio del secondo; per l'annullamento della
sentenza  del  Tribunale  amministrativo  regionale  della  Sicilia -
sezione  staccata  di  Catania  (sez.  II) - n. 1062/01 del 16 maggio
2001;
    Visto il ricorso con i relativi allegati;
    Visto l'atto di costituzione in giudizio degli avv. R. Comis e G.
Rubino per Russo Santa;
    Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive
difese;
    Visti gli atti tutti della causa;
    Relatore il consigliere Raffaele Tommasini;
    Uditi  alla  pubblica  udienza  dle  30  gennaio  2003  l'avv. P.
Paterniti  La Via per lo I.A.C.P. della Provincia di Catania e l'avv.
G. Rubino per Russo Santa;
    Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:

                              F a t t o

    Nell'atto  di  appello lo I.A.C.P. di Catania esponeva e deduceva
quanto segue:
    «Con  nota  dell'8 gennaio 1990, prot. n. 77, il Presidente dello
I.A.C.P.  di  Catania  comunicava  all'Assessorato  regionale LL.PP.,
gruppo  XI,  la  sostituzione  del  segretario  della commissione per
l'assegnazione degli alloggi ex art. 10 l.r. n. 15/1986, nominato con
d.a.  n. 1261/11 del 1987, geom. Bellisario Giuseppe, con la dott.ssa
Russo  Santa,  funzionaria  amministrativa dell'ente inquadrata nella
sesta qualifica funzionale sin dal 1° novembre 1980.
    La  sostituzione  era motivata dal fatto che "il geom. Bellisario
e' gia' segretario della commissione tecnica di cui all'art. 63 legge
n. 865/1971, e pertanto risulta molto impegnato".
    La dott.ssa Russo Santa veniva, quindi, nominata segretario della
commissione  per  l'assegnazione  degli alloggi con d.a. n. 70 dell'8
febbraio 1990.
    Successivamente,  il  commissario straordinario dello I.A.C.P. di
Catania,  con  nota  del  25 ottobre  1996,  prot.  n. 2112,  inviata
all'Assessorato  regionale  LL.PP.,  comunicava  che  "dovendo questa
amministrazione  modificare  la  designazione  del  segretario  della
commissione ex art. 18 l.r. 15/1986, dott.ssa Russo Santa - VI q.f. -
in   considerazione   che   il   vigente   ordinamento  ne  prescrive
l'affidamento all'VIII q.f. non posseduta dalla stessa, si propone la
nomina del dipendente di questo Istituto dott. Cirino Cavallaro, nato
a Milo 18 settembre 1931 - VIII q.f.
    Conseguentemente,  con  d.a.  n. 2790/11  del  31  dicembre  1996
l'assessore  regionale  ai  LL.PP.  nominava  il  citato dott. Cirino
Cavallaro  rappresentante  dell'Istituto  Autonomo  Case  popolari di
Catania,  con  funzioni  di  segretario della commissione ex art. 18,
l.r.  n. 15/1986,  in  sostituzione  della  dott.ssa Russo Santa che,
peraltro,   continuava  nell'esercizio  di  detta  mansione  fino  al
16 dicembre 1997.
    Con  atto  di diffida notificato il 26 settembre 1997 la dott.ssa
Russo  Santa  intimava  allo  I.A.C.P.  di Catania l'attribuzione del
trattamento  economico corrispondente all'ottava qualifica funzionale
per  l'esercizio  delle  mansioni  di  segretario  della  commissione
assegnazione alloggi svolte dall'8 febbraio 1990 al 16 dicembre 1997,
oltre  alla  tempestiva  adozione  di  tutti  gli  atti  necessari  e
conseguenti  all'erogazione  delle  somme  dovute  (la documentazione
relativa  alle  vicende  sin  qui  rassegnate e' stata prodotta dalla
dott.ssa Russo Santa nel giudizio di primo grado).
    Successivamente,   con  ricorso  proposto  innanzi  al  Tribunale
amministrativo  regionale  Sicilia,  sezione  staccata di Catania, la
dott.ssa   Russo   Santa   chiedeva  il  riconoscimento  del  diritto
all'attribuzione  del trattamento economico corrispondente all'ottava
qualifica  funzionale  ex d.P.R. n. 333/1990, previo annullamento del
silenzio-rifiuto  formatosi sulla diffida notificata allo I.A.C.P. di
Catania in data 26 settembre 1997.
    Con  detto ricorso la dott.ssa Russo, richiamando il contenuto di
una  precedente  sentenza  del  Tribunale amministrativo regionale di
Catania  n. 277/1996  -  che  aveva  riconosciuto il diritto di altro
dipendente  dello  I.A.C.P.  inquadrato  nella  sesta q.f., anch'esso
nominato    segretario    di    commissione   assegnazione   alloggi,
all'erogazione del trattamento economico corrispondente all'VIII q.f.
-  deduceva  la pretesa illogicita' del comportamento dello I.A.C.P.,
che  aveva  consapevolmente  affidato  le  funzioni  di segretario di
commissione  a  dipendente  inquadrata  nella  sesta  q.f.,  anziche'
nell'ottava  q.f.,  salva  la tardiva richiesta fatta alla regione di
nominare  altro dipendente inquadrato nell'ottava q.f.; che non aveva
impugnato  la citata sentenza n. 277/1996 e che, cio' nonostante, non
aveva riconosciuto il medesimo diritto alla dott.ssa Russo Santa.
    Il ricorso in oggetto, iscritto al n. 2411/1998 di r.g. presso la
seconda  sezione  interna  della  sezione  staccata  di  Catania  del
Tribunale  amministrativo  regionale  Sicilia, nella contumacia dello
I.A.C.P. di Catania, veniva trattato all'udienza del 28 marzo 2001.
    Con sentenza n. 1062 del 28 marzo - 16 maggio 2001, notificata il
23 luglio   2001,  il  Tribunale  amministrativo  regionale  Sicilia,
sezione  staccata di Catania, seconda sezione interna, accogliendo il
ricorso,  dichiarava  il  diritto  della  dott.ssa  Russo  Santa alla
corresponsione   delle   differenze   retributive  tra  la  qualifica
rivestita  e  quella  di  cui  ha svolto le mansioni quale segretaria
della  commissione  alloggi  ex  art. 18 della l.r. n. 15/1986 per il
periodo   30 maggio   1990-  16 dicembre  1997,  oltre  rivalutazione
monetaria ed interessi.
    La decisione veniva cosi' motivata:
    Invero, dagli atti di causa risulta:
        1)  che  la ricorrente ha svolto mansioni di segretario della
commissione   alloggi  dal  30 maggio  1990  (cfr:  attestazione  del
16 dicembre 1997 del Presidente della commissione);
        2)  che  la  stessa  e'  stata  designata a tale funzione con
decreto    dell'assessore    ai    LL.PP.   Regione   Sicilia   n. 70
dell'8 febbraio 1990;
        3)  che  ha  espletato  le  funzioni fino al 16 dicembre 1997
(cfr:   attestazione   del  16 dicembre  1997  del  Presidente  della
Commissione);
        4)  risulta,  inoltre, dalla comunicazione dell'ente intimato
del  25 ottobre  1996 che le funzioni di segretario della commissione
ex art. 18 l.r. 15/1986 rientrano nella VIII q.f.;
        5)   in  conseguenza  di  cio',  emerge  che  la  ricorrente,
inquadrata  nella  VI  q.f. ha svolto, a seguito di atto formale, nel
periodo sopradetto mansioni riconducibili alla VIII q.f.;
        6)  ebbene, il collegio ritiene che, in seguito alle sentenze
della  Corte  costituzionale  n. 57 del 9 - 23 febbraio 1989 e n. 296
del  14  -  19  giugno  1990,  l'interpretazione  della  normativa di
settore, conforme all'art. 36 della Costituzione, comporta che ove il
dipendente  sia  dall'amministrazione  mantenuto nello svolgimento di
mansioni  superiori ha diritto al trattamento dovuto per la qualifica
superiore  e  cio'  in via di applicazione diretta dell'art. 36 della
Costituzione  nonche' dell'art. 2126, primo comma, del codice civile,
e  anche  indipendentemente  dall'esistenza  di  un  formale  atto di
assegnazione  (cfr:  Consiglio  di  Stato,  Ad.  Plenaria n. 2 del 16
maggio  1991) purche' in presenza di posto vacante (cfr. Consiglio di
Stato,  V Sezione, n. 232 del 20 marzo 1992, Consiglio di Stato, Sez.
V  n. 147 del 4 marzo 1992, CGA 2 marzo 1991, n. 84; TAR Catania Sez.
II  6 luglio 1992, n. 665; Consiglio di Stato AP 16 maggio 1991 n. 2,
TAR   Calabria,  Sezione  staccata  di  Reggio  Calabria  n. 859  del
9 ottobre  1992,  TAR  Sicilia, Catania, Sez. I, n. 555 del 26 agosto
1991).
    In  tal caso, infatti, lo svolgimento di mansioni superiori di un
sanitario,  a  seguito  di un provvedimento formale o anche in via di
fatto,   comporta  per  l'interessato  il  diritto  a  conseguire  la
retribuzione  corrispondente  alle mansioni stesse (cfr. Consiglio di
Stato,  Sez.  V, 3 febbraio 1992, n. 100 e 2 aprile 1991, n. 391; TAR
Sicilia,  Catania,  Sez.  III,  n. 332 del 21 agosto 1991 e n. 18 del
31 gennaio 1991; Sez. II, n. 817 del 9 novembre 1990).
    Invero,  nella  fattispecie sottoposta all'esame del collegio non
si  e'  verificata  una sostituzione per un breve periodo, rientrante
nella normalita' del rapporto di servizio (per es. congedo o malattia
etc.), bensi' un esercizio di funzioni superiori su posto vacante che
ha  avuto  durata  notevole  e  cio'  risulta per tabulas, come si e'
visto,  dai  documenti  prodotti  dalla ricorrente in giudizio (nello
stesso  senso,  per  fattispecie  identiche,  cfr.  TAR Catania, III,
n. 277 del 4 marzo 1996 e, II, n. 2546 del 15 dicembre 1997).
    Per   le   su  esposte  ragioni  il  ricorso  va  accolto  e,  di
conseguenza, va dichiarato il diritto della ricorrente al trattamento
economico  connesso con le superiori funzioni espletate dal 30 maggio
1990  e fino al 16 dicembre 1997 oltre alla rivalutazione monetaria e
dagli interessi legali sulle somme rivalutate.
    Sussistono giusti motivi per compensare le spese del giudizio.
    Avverso   tale  decisione  lo  I.A.C.P.  si  gravava  in  appello
proponendo i seguenti motivi:
        1)  Ingiusto ed erroneo riferimento alle sentenze della Corte
costituzionale  nn.  57  del  9  -  23 febbraio  1989  e 296 del 14 -
19 giugno   1990.   -   Erronea   applicazione   dell'art.  36  della
Costituzione e dell'art. 2126, comma 1, c.c.
    Con  la sentenza impugnata, il Tribunale amministrativo regionale
di  Catania  ha errato nel riconoscere il diritto della ricorrente al
trattamento economico connesso alle mansioni superiori esercitate dal
30 maggio 1990 al 16 dicembre 1997 quale segretaria della commissione
assegnazione alloggi.
    Sul  punto, il collegio giudicante in primo grado ha erroneamente
ritenuto  che  "in  seguito  alle sentenze della Corte costituzionale
n. 57  del  9  -  23  febbraio 1989 e n. 296 del 14 - 19 giugno 1990,
l'interpretazione  della  normativa  di settore, conforme all'art. 36
della    Costituzione,   comporta   che   ove   il   dipendente   sia
dall'amministrazione   mantenuto   nello   svolgimento   di  mansioni
superiori ha diritto al trattamento dovuto per la qualifica superiore
e cio' in via di applicazione diretta dell'art. 36 della Costituzione
nonche'  dell'art. 2126,  primo  comma,  del  codice  civile, e anche
indipendentemente  dall'esistenza  di un formale atto di assegnazione
(cfr:  Consiglio  di  Stato,  Ad  Plenaria  n. 2  del 16 maggio 1991)
purche' in presenza di posto vacante.
    In   realta',   il   riferimento   alle   pronunce   della  Corte
costituzionale    n. 57/1989    e    n. 296/1990   e'   assolutamente
inconducente,  trattandosi  di sentenze circoscritte all'esercizio di
mansioni  superiori  da  parte  di  personale dipendente delle Unita'
sanitarie  locali,  per  il  quale  sussiste una specifica disciplina
normativa  (art. 29 d.P.R. n. 761/1979) in ordine alla quale la Corte
costituzionale  si  e'  pronunciata  con  sentenze  interpretative di
rigetto, non riferibili alla generalita' delle fattispecie in materia
di impiego pubblico.
    A  proposito  del  riconoscimento  delle  mansioni  superiori del
personale   sanitario,   operato   dalla   Corte  costituzionale  con
riferimento agli artt. 36 Cost. e 2126 c.c., il Consiglio di Stato ha
recentemente  statuito  che,  "a parte ogni considerazione sul valore
non  vincolante  delle sentenze interpretative di rigetto pronunciate
dalla   Corte   costituzionale,   occorre   sottolineare   che  detta
affermazione,  nonostante  la  sua letterale formulazione, di portata
apparentemente   generalizzata   e   pluricomprensiva,   e'   infatti
rigorosamente  circoscritta,  sul piano oggettivo, al solo ambito del
rapporto  di  lavoro  dei  dipendenti delle U.S.L., caratterizzato da
rilevanti  peculiarita'  di  disciplina organizzativa, e trova il suo
necessario   fondamento   giuridico  proprio  nell'esistenza  di  una
specifica  norma legislativa (l'art. 29 d.P.R. n. 761 del 20 dicembre
1979),    la    quale,    adeguatamente    interpretata,    consente,
eccezionalmente,   la   retribuibilita'   delle   mansioni  superiori
esercitate  di  fatto  dal dipendente. E la stessa giurisprudenza del
Consiglio  di  Stato  esclude,  in  modo assolutamente univoco, che i
principi espressi dalla Corte costituzionale possano essere estesi ad
altri rapporti di pubblico impiego (Cons. Stato, IV Sez., 22 febbraio
1993, n. 203)" (Cons. Stato, Sez. V, 7 febbraio 2000, n. 668).
    Definito  l'ambito  estremamente  circoscritto  in  cui  opera la
giurisprudenza  della  Corte costituzionale richiamata dalla sentenza
impugnata,  va a questo punto evidenziato che la giurisprudenza anche
di   questo  ecc.mo  Consiglio  di  Giustizia  e'  ormai  consolidata
nell'affermare  che "Lo svolgimento di mansioni superiori da parte di
un  dipendente  della  pubblica amministrazione e' irrilevante sia ai
fini  giuridici, sia a quelli economici, salva l'esistenza di diverse
disposizioni   di   legge,  per  l'indisponibilita'  degli  interessi
coinvolti  e  per l'indefettibilita' del provvedimento di nomina o di
inquadramento,   che   non   possono  costituire  oggetto  di  libere
determinazioni  dei  funzionari  amministrativi"  (C.G.A., 6 novembre
2000, n. 424; cfr. pure, tra le tante, C.G.A., 8 luglio 1998, n. 432;
Id., 6 maro 1998, n. 131; Id., 20 dicembre 1996, n. 452; Cons. Stato,
Sez.  VI,  22 gennaio  2001,  n. 177;  Id.,  Sez. VI, 22 agosto 2000,
n. 4553; Id., Sez. V, 23 marzo 2000, n. 1583).
    Altrettanto  inconducente,  ai  fini  dell'eventuale  trattamento
retributivo  dovuto  per  lo svolgimento di mansioni superiori, e' il
riferimento   fatto   con  la  sentenza  impugnata  ad  una  presunta
applicabilita'  diretta,  al  caso  di  specie,  dell'art.  36  della
Costituzione e dell'art. 2126 c.c.
    Sul   punto,   l'orientamento  consolidato  della  giurisprudenza
afferma  che  "l'art. 36  Cost.  non  costituisce  fonte  diretta  di
integrazione del rapporto di pubblico impiego, per quanto concerne la
determinazione  dei  compensi  da  corrispondere al dipendente, ma un
criterio  di  valutazione  della legittimita' degli atti autoritativi
adottati  dall'amministrazione;  pertanto,  la  norma de qua non puo'
essere   invocata  al  fine  di  ottenere  un  trattamento  economico
differenziato  in  caso  di  svolgimento  delle funzioni di qualifica
superiore" (Cons. Stato, Sez. VI, 20 aprile 2001, n. 2402; cfr. anche
Cons.  Stato, sez. VI, 22 gennaio 2001, n. 177; id., Sez. V, 23 marzo
2000, n. 1583).
    Sotto altro profilo, la giurisprudenza ha chiarito che "l'art. 36
Cost., che sancisce il principio di corrispondenza della retribuzione
dei  lavoratori  alla  qualita'  e quantita' del lavoro prestato, non
puo'  trovare  incondizionata  applicazione  nel rapporto di pubblico
impiego, concorrendo in detto ambito altri principi di pari rilevanza
costituzionale,  quali  quelli previsti dall'art. 97 Cost., in quanto
l'esercizio  di  mansioni superiori rispetto alla qualifica rivestita
contrasta   col   buon   andamento  e  col  dovere  di  imparzialita'
dell'amministrazione,  nonche'  con  la  rigida  determinazione delle
sfere  di  competenza,  attribuzioni  e  responsabilita'  proprie dei
funzionari"  (Cons.  Stato,  Sez.  VI,  2 febbraio 2001, n. 426; cfr.
anche Cons. Stato, Sez. VI, 22 agosto 2000, n. 4553).
    Anche il riferimento all'art. 2126 c.c. e' erroneo.
    La  norma  in  oggetto,  infatti, si riferisce al principio della
retribuibilita'  del  lavoro prestato sulla base di un contratto o di
un  atto  nullo  o  annullato. Pertanto, non e' invocabile in tema di
esercizio  di  mansioni  superiori da parte di dipendente della p.a.,
come  concordemente  ritenuto dalla giurisprudenza (Cons. Stato, Sez.
VI, 22 agosto 2000, n. 4553; id., Sez. VI, 2 febbraio 2001, n. 426).
    L'espletamento di mansioni superiori - che, peraltro, nel caso di
specie  ha  interessato  solo  una  parte  delle  piu' ampie mansioni
espletate dalla ricorrente in primo grado - non comporta nel pubblico
impiego diritto a corresponsione di differenze retributive, secondo i
consolidati principi affermati dalla giurisprudenza su rassegnata.
    Gradatamente  e  senza  recesso,  si  eccepisce che la temporanea
adibizione  della  ricorrente  in primo grado a compiti di segretaria
della  commissione  assegnazione  alloggi non ha interessato l'intera
prestazione  lavorativa svolta dalla ricorrente nello stesso periodo.
Nel  periodo  in  questione,  infatti, la ricorrente, ha continuato a
svolgere  prevalentemente mansioni specifiche della propria qualifica
di  inqadramento (sesta q.f.) e solo marginalmente ha espletato anche
quelle di segretaria della commissione assegnazione alloggi.
        2)  Insussistenza  del necessario requisito del posto vacante
in  seno  all'organico  dell'ente,  ai  fini  del  riconoscimento del
diritto   al  trattamento  economico  connesso  allo  svolgimento  di
mansioni superiori.
    Senza recedere da quanto sopra evidenziato, la sentenza impugnata
va, inoltre, censurata laddove riconosce nel caso oggetto del ricorso
"un esercizio di funzioni superiori sul posto vacante".
    In  realta',  il  necessario  requisito  della  vacanza  di posto
nell'organico  dell'ente,  ai  fini  del  riconoscimento giuridico ed
economico  delle  mansioni  svolte, non e' ravvisabile nel caso della
dott.ssa Russo Santa.
    La  ricorrente in primo grado, infatti, non ha ricoperto un posto
vacante   nell'organico  dello  I.A.C.P.  di  Catania  per  il  quale
occorreva  il  possesso di una qualifica funzionale superiore, bensi'
ha  semplicemente  svolto,  ai sensi dell'art. 18 della l.r. 25 marzo
1986,  n. 15,  la  funzione  di  rappresentante  dello  I.A.C.P., con
mansioni   di  segretario,  in  seno  alla  Commissione  assegnazione
alloggi, che, nominata dall'Assessore regionale ai LL.PP., certamente
non   costituisce  un  organo  dell'Istituto  autonomo  per  le  case
popolari.
    Con  la  partecipazione  a detta commissione quale segretaria, la
dott.ssa   Russo  non  ha,  dunque,  ricoperto  alcun  posto  vacante
nell'organico  dell'ente  e  la  sua nomina non era stata determinata
dalla  mancanza  di personale inquadrato in seno all'ente nell'ottava
qualifica funzionale.
    Pertanto,   la   sentenza   impugnata   ha  errato  nel  ritenere
sussistente  il  requisito del posto vacante in organico, ai fini del
riconoscimento  da  parte  dello  I.A.C.P. del diritto al trattamento
economico  della  ricorrente  connesso  allo  svolgimento di mansioni
ascrivibili all'ottava qualifica funzionale».
    Si  costituiva  ritualmente la appellata la quale preliminarmente
eccepiva    la   inammissibilita'   dell'appello   per   difetto   di
autorizzazione  del presidente dello I.A.C.P. e propone l'impugnativa
in oggetto.
    Nel   merito   controdeduceva  puntualmente  richiamando  copiosa
dottrina e giurisprudenza, anche costituzionale.
    Alla   camera  di  consiglio  del  10  giugno  2001  lo  I.A.C.P.
rinunciava alla domanda di sospensione.
    Alla  pubblica  udienza  del  30  gennaio  2003 la causa e' stata
trattenuta in decisione.

                            D i r i t t o

    Il  co1legio chiamato a decidere sull'appello in epigrafe ritiene
innanzitutto  di  dover  affrontare taluni dubbi di costituzionalita'
concernenti  la istituzione del Consiglio di giustizia amministrativa
per  la  Regione  siciliana  come  risulta  dal d.lgs. 6 maggio 1948,
n. 654,  nonche'  la  composizione  del  medesimo ed osserva che tali
questioni,  rilevanti  ai  fini  dell'esercizio della giurisdizione e
preliminari  ad  ogni  decisione  in  rito  e in merito, non appaiono
manifestamente infondate per quanto di seguito verra' esposto
    1.  -  Lo  statuto  speciale della Regione siciliana, per ragioni
storiche,  in parte legate al secondo conflitto mondiale, e anteriore
alla proclamazione della Repubblica ed alla Costituzione repubblicana
in  quanto  e'  stato  approvato  nel 1946 con r.d.lgs 15 maggio 1946
n. 455   e   con   la   espressa  riserva,  contenuta  nel  comma  II
dell'articolo  unico, di essere sottoposto alla Assemblea costituente
per essere coordinato con la nuova Costituzione dello Stato.
    Come e' noto, tale coordinamento non vi e' stato.
    Invero,  la  Costituzione  repubblicana e' stata pubblicata il 27
dicembre  1947  ed  e'  entrata in vigore il 1° gennaio 1948 ai sensi
della  XVIII  disposizione  transitoria  e lo statuto siciliano venne
convertito  in  legge  costituzionale con l'art. 1, primo comma della
legge  costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2 ed e' entrato in vigore,
ai sensi dell'art. 2 della legge anzidetta, il 10 marzo 1948.
    Il  coordinamento  con la Costituzione non avvenne ne' in sede di
Assemblea costituente e neppure in epoca successiva. Il secondo comma
dell'art.  1  della  legge  costituzionale n. 2/1948 prevedeva bensi'
modifiche   allo  statuto,  modifiche  che  avrebbero  dovuto  essere
effettuate  entro  un  biennio  con  legge ordinaria, d'intesa con la
regione,  ma,  come  e'  noto,  l'Alta Corte per la Regione siciliana
dichiaro'   incostituzionale   tale  disposizione  con  decisione  10
settembre  1948,  n. 4. Pertanto, lo statuto siciliano e' rimasto nel
testo  originario  ed  il  mancato  coordinamento  e'  stato  sovente
sottolineato    dalla   dottrina   e   dalla   giurisprudenza   anche
costituzionale  (v.  Corte  cost. nn. 38/1957; 6/1970, 115/1972 e, da
ultimo n. 113/1993).
    Per  quello  che concerne la questione in oggetto l'art. 23 dello
statuto    siciliano    prevede   semplicemente   che   «gli   organi
giurisdizionali centrali avranno in Sicilia le rispettive sezioni del
Consiglio di Stato e della Corte dei conti per gli affari concernenti
la  regione»  e  che  «Le  sezioni svolgeranno, altresi' le funzioni,
rispettivamente,   consultive,   e   di  controllo  amministrativo  e
contabile».
    Il  decentramento non ha mai avuto attuazione per quanto concerne
le  sezioni  civili  e  penali  della  Cassazione, la quale ha sempre
respinto  le  questioni di costituzionalita' in relazione all'art. 25
Cost.  argomentando con la natura meramente programmatica della norma
statutaria  (v.  Cass.  12  settembre  1991,  n. 9534; 8 aprile 1992,
n. 4270).
    Il  decentramento  e'  stato  invece  attuato per il Consiglio di
Stato  e  la  Corte  dei  conti con i coevi decreti legislativi del 6
maggio 1948 rispettivamente n. 654 e 655.
    2.  -  L'articolo  43  dello  statuto siciliano (che sotto questo
profilo  ha  rappresentato  l'archetipo  per  altri statuti speciali)
stabiliva  che  le  norme  di  attuazione  sarebbero state tout court
«determinate»   da   una   commissione   paritetica.  Questa  dizione
statutaria  ha  dato  luogo  ad  un  conflitto  di  attribuzione ante
litteram.
    Infatti,  con  D.C.P.S.  9  ottobre 1946 venne nominata, ai sensi
dell'art. 43 dello Statuto, la prima commissione paritetica (Guarino,
Amella,  Uccellatore, Li Voti, Marcolini) la quale interpreto' l'art.
43 nel senso che la commissione fosse investita di una vera e propria
delega  legislativa  circa  la  forma  e  il contenuto delle norme di
attuazione  dello  statuto  siciliano  e  che quindi non spettasse al
Consiglio dei ministri alcun «potere deliberativo intorno ad esse».
    Di  conseguenza  le  norme  in  questione  in data 24 maggio 1947
vennero  inviate  alla Assemblea regionale siciliana, accompagnate da
una  lettera  di  trasmissione  in  cui  si  esponevano  le anzidette
conclusioni.
    In   realta'  il  Governo  era  a  conoscenza  della  tesi  della
commissione  anche  prima.  In  effetti,  gia' nel verbale n. 1 del 4
febbraio  1947,  la commissione aveva maturato questo convincimento e
l'aveva  manifestato  al  Presidente  del  Consiglio dei ministri con
apposita  relazione del 12 febbraio 1947 con la quale accompagnava la
trasmissione  delle  norme di attuazione deliberate dalla commissione
stessa.  Il  Governo, peraltro, pur a conoscenza della tesi suddetta,
non  vi diede inizialmente troppo peso dal momento che le norme erano
state  comunque  trasmesse al Consiglio dei ministri il quale infatti
ne  approvo'  la  parte  concernente gli organi regionali. Tali norme
vennero  cosi'  emanate  secondo  l'ordinaria  procedura  e cioe' con
decreto   legislativo   del  Capo  provvisorio  dello  Stato,  previa
deliberazione del Consiglio dei ministri medesimo.
    Il  contrasto  sorse  successivamente  allorche'  la commissione,
visto  che  il Governo non aveva tenuto conto della sua tesi ed aveva
considerato  il  suo  operato  alla  stregua di un atto preparatorio,
decise  -  come  gia'  accennato  -  di  trasmettere le norme da essa
«determinate»  alla  Assemblea regionale siciliana accompagnate dalla
nota  24  maggio  1947 in cui ribadiva la tesi secondo cui il Governo
non  avrebbe  avuto il potere di modificare, neppure in minima parte,
le norme deliberate dalla commissione, con il che invitava in pratica
la Assemblea prendere posizione in suo favore contro il Governo.
    Il  Governo, da parte sua, reagi' allo stesso modo. Cosi' come la
commissione   paritetica   pretendeva   di   determinare   le   norme
prescindendo  dal  Governo,  allo  stesso  modo il Governo pretese di
determinare  autonomamente  le  norme  di  attuazione  dello  statuto
siciliano  e non si diede piu' atto dell'intervento della commissione
paritetica nel procedimento di formazione delle stesse.
    La  riprova  si  ricava  dai  preamboli delle norme di attuazione
anteriori e posteriori ai primi di maggio del 1947.
    Invero,  le  norme di attuazione concernenti gli organi regionali
siciliani,   norme   emanate   dopo  la  approvazione  dello  statuto
siciliano, ed anche prima della sua costituzionalizzazione sono state
«sanzionate e promulgate» come dianzi accennato, dal Capo provvisorio
dello Stato con d.lgs. 25 marzo 1947, n. 204 in base al d. legge lgt.
n. 151/1944  al  d.lgs.lgt.  n. 98/1946,  vista  la deliberazione del
Consiglio  dei  ministri  e  «viste  le conclusioni della commissione
paritetica di cui all'art. 43 dello statuto della regione siciliana».
    Appena  un  mese  e  mezzo dopo, il d.lgs. C.P.S. 10 maggio 1947,
n. 307   viene   promulgato  soltanto  con  riferimento  al  d.l.lgt.
n. 151/1944,   al   d.lgs.lgt.  n. 98/1946,  alla  deliberazione  del
Consiglio   dei   ministri.   E'   scomparso  ogni  riferimento  alle
conclusioni,  alle  determinazioni,  a  qualsiasi  atto o a qualsiasi
audizione della conmissione paritetica.
    Anche  le  norme  di attuazione successive vengono emanate con la
stessa  formula senza l'intervento della commissione paritetica (v. i
preamboli  del  d.lgs. C.P.S. n. 567/1947, d.lgs. C.P.S. n. 942/1947,
d.lgs.  n. 141/1948;  d.lgs.  n. 142/1948; d.lgs. n. 507/1948; d.lgs.
n. 654/1948; d.lgs. n. 655/1948; d.lgs. n. 789/1948).
    Peraltro,  anche  dopo  la  entrata  in vigore della Costituzione
repubblicana  e  l'entrata  in  funzione  del  nuovo  parlamento,  si
continuo'  per lungo tempo ad emanare norme di attuazione senza alcun
riferimento   all'intervento  della  commissione  paritetica  di  cui
all'art. 43 dello statuto.
    Invero  le  norme  di  attuazione  successive vennero emanate con
decreti  del  Presidente  della  Repubblica,  visto  lo statuto della
Regione  siciliana,  visto  l'art.  87 della Costituzione, sentito il
Consiglio  dei  ministri  e  su  proposta del Ministro competente (v.
preamboli   ai   d.P.R.   n. 1182/1949;   n. 878/1950;  n. 1138/1952;
n. 1133/1952;  n. 1113/1953;  n. 510/1956; n. 977/1956; n. 1111/1956;
n. 784/1961;  n. 1825/1961;  n. 1074/1965). Occorre attendere sino al
1975  per  vedere  comparire  di nuovo l'intervento della commissione
paritetica  nel  procedimento di formazione delle norme di attuazione
dello  statuto  siciliano. Di tale intervento infatti si da' atto nel
preambolo  dei  dd.PP.RR. n. 635, n. 636, n. 637 del 30 agosto 1975 e
da  allora  in poi compare in tutte le successive norme di attuazione
sino al d.lgs. 29 gennaio 1997, n. 26.
    3. - Fatta questa premessa indispensabile per inquadrare il clima
politico  e  giuridico  dell'epoca,  per  quanto concerne le norme di
attuazione,  occorre  altresi' tenere presente le vicende, anche esse
singolari, che, in quel periodo storico, caratterizzarono l'esercizio
della funzione legislativa.
    Il  decreto  legislativo  6  maggio  1948,  n. 654  relativo alla
istituzione e disciplina del C.G.A. e' stato promulgato, come risulta
dal  preambolo,  «visto  l'art. 4  del  d. legge lgt. 25 giugno 1944,
n. 151,  con  le  modificazioni  ad esso apportate dall'art. 3, primo
comma  del  d.lgs.lgt. 16 marzo 1946, n. 98» e «viste le disposizioni
transitorie I e XV della costituzione».
    A  questo  proposito  va  rammentato che il d.l.lgt. n. 151/1944,
traduceva  in  formula  normativa  il  cosiddetto  «patto  di  tregua
istituzionale»  stipulato  a  Salerno  tra  la  Monarchia e i partiti
militanti nei Comitati di liberazione nazionale con il quale tutti si
impegnavano  a  non  porre  in  essere,  fino alla convocazione della
Costituente,   atti   che   potessero   pregiudicare   la   questione
istituzionale.
    Peraltro, atteso lo stato di guerra e la parziale occupazione del
Paese, il decreto n. 151/1944 conferiva al Governo i cosiddetti pieni
poteri stabilendo (art. 4, primo comma) che finche' non fosse entrato
in funzione il nuovo Parlamento i provvedimenti aventi forza di legge
sarebbero  stati  deliberati dal Consiglio dei ministri. Nel contempo
veniva  rimandata  a  dopo la liberazione del territorio nazionale la
scelta  della  nuova Costituzione dello Stato (art. 1). Si e' percio'
sempre  ritenuto che dal conferimento di poteri contenuto nel decreto
n. 151/1944  rimanesse  esclusa  soltanto  la  materia costituzionale
(Corte cost. n. 103/1957).
    Terminato lo stato di guerra e dopo la liberazione del territorio
nazionale  e la sua riunificazione sotto un unico governo, al fine di
dare   attuazione  al  d.l.lgt.  n.   151/1944  venne  promulgato  il
d.lgs.lgt  n. 98/1946  il  quale  affido'  (art.  1) ad un referendum
popolare  la  scelta sulla forma istituzionale di Stato (Repubblica o
Monarchia),    referendum    che    avrebbe    dovuto    aver   luogo
contemporaneamente  alle  elezioni per l'Assemblea costituente (Corte
cost. n. 103/1957 cit.)
    Per quanto concerne il problema in esame, l'art. 3 del d.lgs.lgt.
n. 98/1946   disciplinava   l'esercizio  della  funzione  legislativa
ordinaria  e  regolava  i  rapporti  in  materia  tra  il  Governo  e
l'Assemblea costituente. In particolare veniva stabilito che, durante
il periodo della Costituente, e sino alla convocazione del Parlamento
secondo  la nuova Costituzione, il potere legislativo sarebbe rimasto
delegato  al  Governo  tranne  la  materia  costituzionale,  le leggi
elettorali  e l'approvazione dei trattati internazionali che sarbbero
rimasti  di  competenza  dell'Assemblea  costituente  (art. 3,  primo
comma).  Veniva poi stabilito che i provvedimenti legislativi emanati
dal Governo ex art. 3, primo comma avrebbero dovuto essere sottoposti
a  ratifica  del  nuovo Parlamento entro un anno dalla sua entrata in
funzione (art. 6).
    La Costituzione repubblicana entro' in vigore, come accennato, il
primo gennaio 1948 e, nella XV disposizione transitoria, converti' in
legge   (non   pero'   in  legge  costituzionale)  il  decreto  legge
luogotenenziale   n. 151/1944   peraltro  qualificandolo  (non  senza
contrasti  in  seno  alla  Costituente)  come  «decreto  legislativo»
anziche'  come  «decreto-legge», forma nella quale era stato adottato
(G.U.  serie  speciale  8  luglio 1944, n. 29) e come risultava dalla
clausola  (art. 6)  che  ne  prevedeva  la  conversione  in legge. Ne
risulto' la formula singolare «si ha per convertito».
    La  XVII disposizione transitoria della Costituzione si e' invece
data  carico  di  regolare, nel periodo della Costituente, i rapporti
intertemporali  tra  Governo  e  Costituente,  e  cio'  non  solo  in
relazione  alle  materie  di  competenza di qut'ultima, come elencate
negli  artt.  1  e  2  del d.lgs.lgt. n. 98/1946 (secondo comma della
citata disposizione transitoria) ma, come e' stato sottolineato dalla
dottrina  costituzionalistica  dell'epoca,  in  realta'  in  tutte le
materie,  anche in quelle delegate al Governo, come sarebbe risultato
implicitamente  dal  successivo terzo comma della stessa disposizione
transitoria.
    Il  Parlamento  venne  poi  convocato con d.P.R. 8 febbraio 1948,
n. 33  per  il  giorno 8 maggio 1948 e quindi a quella data (ai sensi
dell'art. 3,  primo  comma, del d.lgs.lgt. n. 98/1946) veniva meno la
delega conferita al Governo.
    4.  -  Il preambolo del d.lgs. 654/1948, come accennato, richiama
peraltro  solo  la  XV  disposizione  transitoria,  e  non  la  XVII,
ritenendo   evidentemente   che   la   delega  base  fosse  contenuta
nell'art. 4 del d.l.lgt. n. 151/1944 e che il primo comma dell'art. 3
del d.lgs.lgt. n. 98/1946 ne costituisse una mera modificazione.
    In realta', se si esaminano le due disposizioni dinanzi citate ci
si avvede della profonda diversita' fra le due formule.
    Il  d.l.lgt.  n. 151/1944  e'  emanato  «ritenuta la necessita' e
l'urgenza  per  causa  di  guerra», concede i pieni poteri al Governo
senza  alcuna  eccezione  di  materia  se non quella costituzionale e
rinvia  la  scadenza  di  tali poteri ad un momento futuro ed incerto
nell'an,  nel quando e nel quomodo perche' (art. 1) si deve attendere
la  liberazione del territorio nazionale, si dovranno scegliere nuove
forme  istituzionali, deliberare una nuova Costituzione (cio' esclude
ex  se  la materia costituzionale) e, finche' cio' non avverra' e non
sara'  entrato  in  funzione un nuovo Parlamento, il Governo restera'
depositario  anche della funzione legislativa senza precisi limiti di
tempo e di materie.
    Era  anche  previsto (art. 6) che il d.l.lgt. n. 151/1944 avrebbe
dovuto   essere   presentato   alle   Assemblee  legislative  per  la
conversione  in  legge  il  che  non si verifico' e la conversione in
legge,  come  accennato,  avvenne  in  forza  della  XV  disposizione
transitoria  della  Costituzione.  Sono  note le discussioni sorte in
merito  alla natura del decreto n. 151/1944 di cui e' stata negata la
natura  di  delega  di  poteri  soprattutto  perche'  era venuto meno
l'organo  delegante,  e cioe' il Parlamento, poiche' il r.d. 2 agosto
1943  n. 705 aveva sciolto la Camera dei fasci e delle corporazioni e
perche'  mancava  la  clausola della conversione in legge dei decreti
legislativi  che  sarebbero  stati emanati dal Governo, principio che
verra' introdotto solo con l'art. 6 del d.lgs.lgt. n. 98/1946.
    Diversa e' l'impostazione del d.lgs.lgt. n. 98/1946.
    Innanzitutto  e'  scomparso  ogni  richiamo  allo stato di guerra
ormai terminato.
    La fonte da cui il decreto n. 98/1946 deriva il potere per la sua
emanazione  e' sempre il d.l.lgt. n. 151/1944, ma la delega di poteri
al  Governo  ha caratteristiche del tutto diverse anche se la dizione
dell'art. 3,  primo  comma, «il potere legislativo resta delegato ...
al Governo» vorrebbe far ritenere il contrario.
    Innanzitutto il potere legislativo del Governo veniva limitato ad
un  tempo  ben  definito.  Infatti,  insieme al d.lgs.lgt n. 98/1946,
nella stessa Gazzetta Ufficiale del 23 marzo 1946 venne pubblicato il
coevo  decreto luogotenenziale 16 marzo 1946 n. 99 il quale convocava
i comizi elettorali per il 2 giugno 1946.
    Poteva  quindi  gia'  farsi  una previsione per la scadenza della
delega  legislativa  al  Governo  e  cio' in base alla anzidetta data
delle  elezioni  ed alla durata prevista dei lavori della Costituente
(art. 4 d.lgs.lgt. n. 98/1946).
    Inoltre,   nella  delega  contenuta  nell'art. 3  del  d.lgs.lgt.
n. 98/1946 i poteri, oltre ad essere piu' limitati nel tempo, lo sono
anche per le materie.
    Nell'art. 4  del  d.l.lgt.  n. 151/1944  non  si  escludeva altra
materia,  oltre  quella costituzionale mentre l'art. 3 del d.lgs.lgt.
n. 98/1946 esclude esplicitamente la materia costituzionale, le leggi
elettorali e le leggi di approvazione dei trattati internazionali che
restano  di  competenza dell'Assemblea costituente la quale funziono'
come  parlamento  specie  per la complessa materia elettorale, per la
legge  sulla stampa, per la approvazione del trattato di pace e degli
statuti    speciali   della   Sicilia,   Sardegna,   Valle   d'Aosta,
Trentino-Alto Adige.
    Nell'esercizio  delle  sue funzioni, anche in quelle legislative,
il  Governo  e'  ora  responsabile  verso  la  Assemblea  costituente
(art. 3,  terzo  comma,  d.lgs.lgt.  n. 98/1946);  il  Governo e' poi
obbligato  a  dimettersi e sfiduciato dalla Assemblea (art. 3, quarto
comma).
    Il  Governo  puo'  inoltre  sottoporre  all'Assemblea  ex art. 3,
secondo  comma,  qualunque  altro  «argomento»,  anche rientrante nel
potere  legislativo  ad  esso  delegato ai sensi del precedente primo
comma. In punto di fatto il Governo sottopose alla Costituente fra il
26 settembre 1946 e il 31 marzo 1948 ben 1026 schemi di provvedimenti
che il Governo avrebbe potuto adottare autonomamente. In proposito va
anche ricordato che la Costituente in data 13 settembre 1946, tramite
una  modifica al proprio regolamento interno, aveva istituito quattro
commissioni permanenti con il compito di esaminare tutti i disegni di
legge  governativi  e di stabilire quali dovessero essere rinviati al
Governo  per  l'emanazione come decreti legislativi e quali dovessero
invece  essere  rimessi  alla Costituente per la emanazione con legge
ordinaria.  Pertanto,  la Costituente, oltre alle leggi nelle materie
ad  essa  attribuite emano' quindi anche cinque leggi in materie che,
ai  sensi  dell'art. 3  del d.l.gs.lgt. n. 98/1946 sarebbero state di
competenza   del   Governo   (legge   n. 478/1946  sulle  formule  di
giuramento,  legge  n. 379/1947 sull'industria cinematografica, legge
n. 530/1947  sul  T.U. comunale e provinciale, legge n. 1577/1947 sul
Ministero  della  P.I., legge n. 1629/1947 sull'Opera Sila). Il terzo
comma  della  XVII  disposizione  transitoria  costituisce  esplicito
riconoscimento di tale assetto.
    Tutto  cio'  dimostra  la  profonda  differenza  tra la delega ex
art. 4   d.l.lgt.  n. 151/1944  e  la  delega  ex  art. 3  d.lgs.lgt.
n. 98/1946, diversita' che ha portato la dottrina costituzionalistica
dell'epoca  a ritenere che con il d.lgs.lgt. n. 98/1946 si fossero in
qualche  modo  ristabiliti  i  rapporti  tra  l'organo  a  competenza
legislativa  ordinaria  (Costituente  e  futuro  Parlamento) e quello
(Governo) che esercitava la funzione legislativa in via eccezionale e
temporanea.
    Innanzitutto,  la formula adoperata «i provvedimenti aventi forza
di  legge  sono deliberati dal Consiglio dei Ministri» del d.lgs.lgt.
n. 151/1944   viene   sostituita  da  «il  potere  legislativo  resta
delegato»  del  primo comma, dell'art. 3 d.lgs.lgt. n. 98/1946 in cui
la  rilevanza  maggiore  va  posta  sul  concetto di delega. A questo
proposito  va  ricordato che il testo presentato alla Consulta per il
parere  recitava  «resta affidato» e la sostituzione non sembra priva
di  significato.  Comunque  la diversita' tra i due decreti e' ancora
piu'  accentuata  se  si  considera  che,  a  differenza del d.l.lgt.
n. 151/1944,  che  non  prevedeva  nulla  al  riguardo,  l'art. 6 del
d.lgs.lgt.  n. 98/1946  stabiliva  che  i decreti emanati dal Governo
durante  il  periodo  della  Costituente  (e  non di competenza della
Costituente   medesima)   avrebbero  dovuto  essere  sottoposti  alla
ratifica  del  nuovo  Parlamento  entro  un anno dalla sua entrata in
funzione.
    Quale  che  sia  il  valore da attribuire a tale ratifica, questa
costituisce  la  riprova  dei  nuovi  rapporti  tra  potere  delegato
(Governo)  e  potere  originario  (Costituente)  dal  momento  che  i
provvedimenti di competenza della Costituente, a differenza di quelli
del  Governo,  non avrebbero dovuto essere ratificati dal Parlamento.
Significativo in questo senso e' anche il riferimento temporale della
delega  e  della  ratifica,  limitato al «periodo della costituente e
fino  alla  convocazione  del Parlamento» ex art. 3, primo comma, del
decreto  in  esame.  Tale periodo, ex art. 4, primo comma, iniziava a
decorrere dal 22° giorno successivo alle elezioni del 2 giugno 1946 e
sarebbe  terminato  l'8  maggio  1948  data in cui venne convocato il
nuovo Parlamento ai sensi del citato d.P.R. 8 febbraio 1948 n. 33.
    E'   anche   significativo  che  tutte  le  successive  leggi  di
conversione   (legge   5   maggio   1949   n. 178,  che  converti'  i
decreti-legge  anteriori  al  decreto  n. 151/1944)  o di ratifica ex
art. 6, d.lgs.lgt. n. 98/1946 (a partire dalla legge 28 dicembre 1952
n. 3136,  per  finire  con  la  legge  17 aprile 1956 n. 561) abbiano
sempre  escluso  dalla  conversione in legge o dalla ratifica tutti i
decreti  legislativi  luogotenenziali  emessi nel primo periodo della
luogotenenza  e  cioe'  nel  periodo  di  vigenza  del  solo d.l.lgt.
n. 151/1944,  dall'8 luglio 1944 al 23 marzo 1946, data in cui entro'
in vigore il d.lgs.lgt. n. 98/1946.
    5.   -   Tutto  cio'  premesso,  va  esaminata  la  questione  di
legittimita'  costituzionale dell'art. 3, primo comma, del d.lgs.lgt.
16  marzo  1946 n. 98 e, derivatamente, degli articoli 1, 2, 3, 4, 5,
6,  7, 8, 9 del d.lgs. 6 maggio 1948 n. 654 e cio' con riferimento ai
principi   costituzionali  fondamentali  in  materia  di  delegazione
legislativa.
    La   questione,   per  asserito  contrasto  tra  l'art. 76  della
Costituzione  e  il  d.lgs.  n. 654/1948,  fu  posta a suo tempo alle
sezioni  unite  della  Cassazione  le  quali con la nota decisione 11
ottobre  1955 n. 2994, stesa da un consigliere di eccezionale valore,
la  respinsero argomentando con il fatto che il d.lgs. n. 654/1948 fu
emanato  in  data  6  maggio  1948 e quindi in epoca anteriore di due
giorni  alla prima convocazione del Parlamento fissata per il giomo 8
maggio 1948 con d.P.R. 8 febbraio 1948 n. 33.
    La  Cassazione  ritenne quindi che fino a tale data, e cioe' fino
alla   prima   convocazione   del   Parlamento,  il  Governo  avrebbe
legittimamente agito in base «ad una delegazione di caratere generale
per  quanto  concerne  l'esercizio  del  potere  legislativo»  delega
contenuta  nell'art. 3  del  d.lgs.lgt.  18  marzo 1946 n. 98 e «resa
necessaria  perche'  la  Costituente era occupata con la preparazione
della  Costituzione».  Tale  orientamento e' stato poi ribadito anche
successivamente (Cass. ss.uu. 5 giugno 1956 n. 1907; 9 settembre 1972
n. 2717; 19 aprile 1984 n. 2566).
    Pertanto,  se  cio' e' esatto (e cioe' se si tratta di una delega
di  potere  legislativo)  e  se si conviene (v. in questo senso Corte
cost.  n. 25/1976)  con  la  citata  decisione  delle  sezioni  unite
n. 2992/1955,  va  osservato che la anzidetta disposizione non poteva
costituire valida base per una delega legislativa.
    Al riguardo e' noto l'insegnamento della Corte costituzionale con
riferimento   alle   leggi  di  delega  anteriori  alla  Costituzione
repubblicana.
    La Corte da un lato ha affermato la propria competenza in materia
e,  dall'altro,  ha  ritenuto  che  per  le  deleghe  anteriori  alla
Costituzione,   pur   non  potendosi  ricorrere  all'art. 76  (v.  in
proposito  Corte  cost.  n. 46/1960),  ben  si  poteva  esercitare il
sindacato  di costituzionalita' sulla base di principi costituzionali
fondamentali,  quali  l'esistenza della delega e la limitazione posta
al  Governo  di  mantenersi  nei  limiti  della  delega  (Corte cost.
n. 37/1957).
    A chiarimento di quest'ultimo principio la Corte ha affermato che
la  delega  deve  avere ad oggetto «una materia chiaramente definita»
(Corte cost. n. 53/1961).
    Tale  orientamento e' stato mantenuto fermo anche successivamente
(Corte cost. n. 2/1966).
    E'   del   tutto   evidente,  quindi,  che  la  delega  contenuta
nell'art. 3  del  d.lgs.lgt.  n. 98/1946  non  poteva  in nessun caso
costituire una valida delega e cio' per la assorbente considerazione,
ripetutamente  sottolineata  anche dalla dottrina costituzionalistica
dell'epoca, che tale delega lasciava arbitro il Governo di legiferare
in  qualsiasi materia con le sole eccezioni di quella costituzionale,
elettorale ed internazionale.
    Tuttavia,    tali    eccezioni    non    valgono   ad   escludere
l'indeterminatezza  delle materie di delega e, quindi, deve ritenersi
sussistente  la  violazione,  se non dell'art. 76 della Costituzione,
quanto  meno di quei principi costituzionali fondamentali in materia,
principi  che la Corte costituzionale, nelle decisioni dianzi citate,
ha  assunto  quale parametro per giudicare la costituzionalita' delle
leggi delega e delegate anteriori alla Costituzione repubblicana.
    Ne' potrebbe sostenersi che la XV e XVII disposizione transitoria
della  Costituzione  abbiano sanato ogni vizio, la prima del d.l.lgt.
n. 151/1944  (e,  derivatamente  del  d.lgs.lgt.  n. 98/1946),  e  la
seconda   comunque   di   quest'ultimo.   Innanzitutto,   come   gia'
sottolineato,  le  due  deleghe  sono  diverse  per cui, sotto questo
profilo,  non  puo'  ritenersi  che  la  delega ex art. 3, d.lgs.lgt.
n. 98/1946  costituisca  una  modifica o una integrazione dell'art. 4
del   d.l.   lgt.   n. 151/1944  ma,  al  contrario,  la  sostituisce
integralmente.  Pertanto  anche  la  conversione  in  legge  della XV
disposizione  transitoria  non conferiva affatto efficacia ultrattiva
al  decreto  n. 151/1944,  ma  si  limitava a riconoscere gli effetti
prodotti  nel  periodo  di  vigenza  e  cioe' - come gia' osservato -
dall'8 luglio 1944 al 23 marzo 1946 data in cui venne sostituito come
fonte  di  produzione  dal  decreto  n. 98/1946. Quanto poi alla XVII
disposizione  transitoria, essa costitui' bensi' la riprova sul piano
ermeneutico   del   fatto   che  il  decreto  n. 151/1944  era  stato
integralmente  sostituito  dal  decreto  n. 98/1946,  ma non potrebbe
sostenersi che il decreto n. 98/1946 sia stato a sua volta sostituito
(e  quindi  costituzionalizzato) dal secondo e terzo comma della XVII
disposizione  transitoria.  Quest'ultima,  com'e' noto, e' frutto del
timore  delle  sinistre  di  possibili  colpi di mano del Governo nel
periodo  tra  la  scadenza dei poteri ordinari della Costituente (che
venivano  prorogati  al  31  gennaio  1948)  e la data delle elezioni
politiche.  Pertanto,  la  XVII disposizione transitoria al secondo e
terzo  comma limita espressamente la sua efficacia temporale a questo
periodo  e  cioe'  dal 10 febbraio 1948 al 18 aprile 1948 (data delle
elezioni  politiche).  Dopo  il  18 aprile 1948 il decreto n. 98/1946
riprende in toto la sua efficacia come fonte di produzione.
    Deve  quindi  ritenersi che il d.lgs. n. 654/1948, adottato nella
vigenza  del  d.lgs.lgt. n. 98/1946, sia stato emanato esclusivamente
in forza di tale disposizione.
    Neppure   potrebbe   sostenersi   che   la  ratifica  del  d.lgs.
n. 654/1948  effettuata  con legge 17 aprile 1956 n. 561 (v. allegato
n. 1   a  tale  legge)  possa  aver  sanato  gli  eventuali  vizi  di
costituzionalita' insiti nella norma delegante.
    6. - Se poi si dovesse ritenere che la delega e' stata esercitata
soltanto  sulla  base del d.l.lgt. n. 151/1944 la incostituzionalita'
emergerebbe anche in modo piu' evidente.
    Invero,  la indeterminatezza della delega risulta ancora maggiore
dalla  dizione  dell'art. 4, primo comma, del d.l.lgt. n. 151/1944 e,
in  secondo  luogo,  deve  ritenersi  che  dopo  l'entrata  in vigore
dell'art. 3   del  d.lgs.lgt.  n. 98/1946  non  avrebbe  potuto  piu'
esercitarsi  la delega nei modi e nel contenuto del citato art. 4, ma
soltanto  con  le  modalita' e nell'ambito delineato dal sopravvenuto
art. 3 del d.lgs.lgt. n. 98/1946.
    7. - Le anzidette conclusioni rimarrebbero inalterate anche se si
ritenesse   necessario,   dopo   l'entrata   in  vigore  del  decreto
n. 98/1946,  il  concorso di ambedue le citate disposizioni; la prima
come  fonte del potere e la seconda come modalita' di esercizio dello
stesso,  poiche'  rimarrebbero  cumulati,  per l'una e per l'altra, i
vizi  derivanti  dall'incostituzionale  carattere di indeterminatezza
che comunque caratterizza ambedue le deleghe.
    Il  collegio e' consapevole dell'orientamento assunto dalla Corte
costituzionale  in  merito  alle  deleghe  di  cui  al  decreto legge
n. 151/1944  e  al  decreto legislativo n. 98/1946 e, in particolare,
alla impossibilita' per tali deleghe di richiamarsi ai principi degli
articoli  76  e  77  della  Costituzione  (Corte  cost. nn. 103/1957,
46/1960, 65/1962, 27/1964), ma ritiene che i principi costituzionali,
evidenziati  dalla  stessa  Corte in relazione alle deleghe anteriori
alla  Costituzione  (Corte  cost. nn. 53/1961 e 2/1966 cit.), debbano
valere  anche  nei  confronti  delle  norme in esame, pur se nei loro
riguardi «non puo' parlarsi di una delegazione di poteri legislativi,
ma  bensi'  di  una  eccezionale  attribuzione  temporanea del potere
legislativo al Governo, salva la materia costituzionale» (Corte cost.
n. 103/1957 cit.).
    Il  collegio e' consapevole altresi' delle affermazioni contenute
in   modo   particolare  nella  ordinanza  n. 14/1961  in  cui  venne
dichiarata manifestamente infondata la questione di costituzionalita'
circa l'inesistenza di limiti o direttive nel d.l.lgt. n. 151/1944.
    E'  nota  anche la piu' radicale affermazione peraltro apodittica
contenuta  nella  decisione  n. 85/1962  secondo  cui «escluso che si
tratti di un caso di delegazione legislativa non sorge alcun problema
circa  il contrasto tra la denunziata disposizione e gli artt. 70, 76
e  77  della  Costituzione  ne'  circa  un  eventuale contrasto con i
principi  valevoli  per  la  legittimita'  delle  deleghe legislative
anteriori all'entrata in vigore della Costituzione».
    Da   tale   affermazione   peraltro  dovrebbe  discendere,  quale
corollario,  la conseguenza che il d.l.lgt. n. 151/1944 e il seguente
d.lgs.lgt.    n. 98/1946   sono   norme   costituzionali,   ancorche'
provvisorie, poiche' possono, senza limite alcuno di tempo definito e
di  materia  (il  primo)  ed  in  modo  piu'  circoscritto  ma sempre
amplissimo   (il   secondo),   demandare   all'esecutivo   il  potere
legislativo.  In  pratica  la  luogotenenza  costituirebbe un tertium
genus  di assetto costituzionale a cavallo tra lo Statuto Albertino e
la   Costituzione   repubblicana.   Tale   riconoscimento   di  rango
costituzionale   peraltro   non  emerge  ne'  dalla  XV  disposizione
transitoria  (che  converte - ripetesi - il predetto decreto-legge in
legge  ordinaria  e  non gia' in legge costituzionale) ne' dalla XVII
disposizione  transitoria, e neppure, per quanto risulta, da espresso
riconoscimento   in   tal   senso   da   parte  della  giurisprudenza
costituzionale  che  non  ha  mai  attribuito  al decreto n. 151/1944
valore  di legge costituzionale in virtu' della predetta conversione,
ma ha sempre accennato una semplice conversione in legge (Corte cost.
nn. 65/1962, 104/1969).
    Pertanto,  sotto  questo  profilo  e  con tale prospettazione, la
questione puo' essere riproposta al vaglio della Corte costituzionale
poiche'  non  sembrerebbe  dubbio  che,  se ai decreti nn. 151/1944 e
98/1946  non  si  dovesse  riconoscere valore costituzionale, ad essi
dovrebbero   comunque   applicarsi   i   principi   elaborati   dalla
giurisprudenza  costituzionale  al riguardo (Corte cost. nn. 53/1961,
2/1966 cit.).
    8.   -  Qualora  invece  dovesse  riconoscersi  natura  e  valore
costituzionale  all'assetto del d.l.lgt. n. 151/1944 e del d.lgs.lgt.
n. 98/1946,  quasi  si trattasse di un tertium genus a cavallo tra lo
Statuto  Albertino  e  la  Costituzione repubblicana, ne consegue che
quanto  meno  dovrebbero avere natura e valore costituzionale anche i
limiti   di   forma   e   di  contenuto  che  tali  decreti  ponevano
all'esercizio  del  potere legislativo conferito al Governo. E cosi',
si   dovrebbe   riconoscere   valore  costituzionale  all'obbligo  di
ratifica,  ex  art. 6 d.lgs.lgt. n. 98/1946 come pure al limite posto
al Governo di non legiferare nelle materie costituzionali, elettorali
e   dei  trattati  internazionali.  In  altri  termini,  occorrerebbe
assumere  al  rango  di  canone  di costituzionalita' la affermazione
secondo  cui  la Costituzione, «avendo nella disposizione transitoria
XV  disposto  la  conversione  in  legge  del  d.lgs.lgt. n. 151/1944
sull'ordinamento   provvisorio   dello   Stato,   ha  reso  con  cio'
impossibile  ogni riferimento a disposizioni diverse da quelle di cui
al citato decreto per quanto attiene al riscontro della validita' dei
provvedimenti in base allo stesso emanati» (Corte cost. n. 104/1969).
    In   quest'ottica   ed   ancorche'   prescindendo  dall'affermare
apertamente   il   carattere   costituzionale   o  meno  delle  norme
sopraindicate,   la   Corte   costituzionale  in  effetti  ha  sempre
verificato,  ai  fini  del sindacato di costituzionalita', se fosse o
meno  intervenuta  la  tempestiva  presentazione al Parlamento per la
ratifica  di  cui  all'art. 6  del  d.lgs.lgt.  n. 98/1946,  restando
soltanto  ininfluente  l'epoca  in  cui la ratifica fosse intervenuta
(Corte cost. nn. 104/1969, 95/1964, 46/1960, 103/1957).
    In  altri  termini alla suddetta presentazione ed alla successiva
ratifica  e'  stato  attribuito,  mutatis mutandis, lo stesso effetto
della   presentazione   alle   Camere  e  della  conversione  di  cui
all'art. 77  della Costituzione, nel senso che anche ai provvedimenti
normativi   emanati   durante   la  Costituente  doveva  riconoscersi
efficacia provvisoria e che la mancata presentazione per la ratifica,
cosi'  come  la  mancata  ratifica,  privava  l'atto  ab  origine  di
efficacia.
    Se  cio'  e' esatto, identiche conclusioni e identiche censure di
costituzionalita'  potrebbero  essere  avanzate ove il Governo avesse
legiferato   in   materia   riservata   alla   Assemblea  costituente
dall'art. 3, primo comma, d.lgs.lgt. n. 98/1946.
    In  proposito  va  rilevato che, come gia' l'art. 1, primo comma,
del  decreto  n. 151/1944,  anche  l'art. 3 del d.lgs.lgt. n. 98/1946
escludeva  dalla  delega la materia costituzionale, laddove l'oggetto
del  d.lgs.  n. 654/1948  era  inteso  proprio alla attuazione di una
legge  costituzionale  gia'  vigente, quale lo statuto siciliano, cui
tale carattere era stato attribuito dalla Costituzione repubblicana.
    Al  riguardo  va  rammentato  che  la  Costituzione e' entrata in
vigore   il  1°  gennaio  1948  ai  sensi  della  XVIII  disposizione
transitoria  e  che lo statuto siciliano, che era stato approvato con
r.d.lgs.  15  maggio  1946  n. 455,  e'  stato  convertito  in  legge
costituzionale dalla legge cost. 26 febbraio 1948 n. 2, pubblicata il
9  marzo  1948, ed e' entrato in vigore il giorno successivo e quindi
in  epoca  anteriore  al d.lgs. n. 654/1948, che venne deliberato dal
Consiglio  dei ministri in data 8 aprile 1948, promulgato il 6 maggio
1948 e pubblicato il 2 giugno 1948.
    Pertanto,  sia  la  Costituzione,  sia lo statuto siciliano erano
gia'  leggi  costituzionali  e  la  attuazione  di  quest'ultimo gia'
costituiva  materia costituzionale alla data di emanazione del d.lgs.
n. 654/1948  per  cui in nessun caso il Governo poteva giovarsi della
delega   di   cui  all'art. 3  d.lgs.lgt.  n. 98/1946  che  escludeva
espressamente la materia costituzionale.
    A tale ultimo proposito non sembra condivisibile quanto affermato
al riguardo nella decisione n. 2994/55 delle ss.uu. dianzi citata. In
quella  sede  era  stato  eccepito  che il d.lgs. n. 654/1948 esulava
ratione  materiae  dalla  delega  ex  art. 3, primo comma, d.lgs.lgt.
n. 98/1946.
    La  Cassazione respinse l'eccezione argomentando con il fatto che
la   materia   dell'ordinamento   giudiziario  e  dell'organizzazione
giurisdizionale   contenuta   nel  d.lgs.  n. 654/1948  non  «rientra
nell'orbita  dei  principi  costituzionali» in quanto attribuita alla
legge ordinaria ex art. 108 della Costituzione.
    Peraltro  la  questione  puo' essere ora esaminata sotto un altro
profilo,  ponendo  l'interrogativo  se  le  norme di attuazione degli
statuti  differenziati,  pur  non  avendo  esse stesse rango di norme
costituzionali,  possano  essere  ricomprese nel concetto di «materia
costituzionale»  e  cio', sia di per se', sia in relazione alla ratio
della delega di cui all'art. 3 del d.lgs.lgt. n. 98/1946.
    Se  si  pone  mente  sia  alla  specifica funzione delle norme di
attuazione,  e cioe' di rendere possibile il concreto esercizio della
autonomia  regionale  per  cui  a  volte  possono  anche assumere una
funzione  integrativa  degli stessi statuti (Corte cost. n. 212/1984,
n. 30/1959,  n. 20/1956), sia alla speciale competenza in materia che
assume  carattere  riservato  e  separato  (Corte cost. nn. 237/1983,
180/1980,  137/1998),  sia allo speciale procedimento da cui non puo'
prescindersi   per   la  loro  adozione  (Corte  cost.  nn. 137/1998,
213/1998,  95/1994),  si  puo' agevolmente pervenire alla conclusione
che le stesse, in quanto espressione di una competenza permanente per
adeguare  nel  tempo la autonomia speciale (Corte cost. nn. 212/1984,
353/2001),  possono qualificarsi come «materia costituzionale» di per
se'  e  nella lettera e nello spirito del d.lgs.lgt. n. 98/1946, che,
all'art. 3,    primo    comma,    la    riservava   correttamente   e
conseguenzialmente alle deliberazioni della Costituente.
    Pertanto,  per  decidere  in  subiecta  materia  avrebbe potuto e
dovuto  essere  convocata,  se mai, la Assemblea costituente che, tra
l'altro,  ex  art. 1  r.d.lgs.  15 maggio 1946 n. 455, avrebbe dovuto
coordinare lo statuto siciliano con la nuova Costituzione.
    9.  -  Peraltro  occorre anche rilevare che il d.lgs. n. 654/1948
appare  affetto  anche  da  un  altro  vizio di costituzionalita', in
rapporto all'art. 43 dello statuto siciliano.
    Infatti,  quando  anche  si  volesse e si potesse superare i vizi
dianzi  denunciati  ai  precedenti  punti  5,  6,  7  e  8 si volesse
giustificare  la  delega  del  d.lgs.lgt.  n. 98/1946 con la pendenza
della  approvazione  della  Costituzione  (Cass.  ss.uu. n. 2994/1955
cit.), ovvero con la natura costituzionale del d.lgs.lgt. n. 98/1946,
ebbene,  anche  in  questo  caso,  il d.lgs. n. 654/1948 risulterebbe
costituzionalmente illegittimo.
    Invero  la Corte costituzionale ha ripetutamente affermato che il
potere  di  emanare norme di attuazione degli statuti delle regioni a
statuto  speciale  non risiede nell'art. 76 della Costituzione, ma si
tratta  di una competenza a «carattere riservato e separato» rispetto
a quelle esercitabili nei confronti delle regioni a statuto ordinario
ai  sensi  della  VIII  disposizione  transitoria  della Costituzione
stessa.
    Tale  competenza separata e riservata ha carattere permanente, ma
deve   essere  esercitata  «nel  contesto  di  particolari  procedure
caratterizzate  dall'intervento  consultivo di organi cui partecipano
mediatamente  le  comunita'  interessate»  (Corte cost. nn. 160/1985,
353/2001).
    L'art. 43  dello  statuto  siciliano, entrato in vigore ben prima
dell'emanazione  del  d.lgs.  n. 654/1948,  prevede  che  le norme di
attuazione  dello  statuto  vengano  determinate  da  una commissione
paritetica.
    Nella  specie  tale  procedimento  non  e'  stato osservato, come
risulta testualmente dal preambolo del d.lgs. n. 654/1948.
    Di qui un ulteriore vizio di costituzionalita'.
    Costituisce    infatti    pacifico   insegnamento   della   Corte
costituzionale  che  i  decreti  legislativi di attuazione statutaria
sono  espressione - ripetesi - di una competenza separata e riservata
rispetto  alla leggi statali ordinarie (Corte cost. n. 237/1983); che
tale competenza si esercita non solo in occasione del primo passaggio
di  funzioni  (come  nella  specie),  ma anche successivamente (Corte
cost.  nn. 180/1980,  212/1984);  che  in sede di attuazione non puo'
prescindersi  dallo speciale procedimento posto, con norma di rilievo
costituzionale,  a garanzia del ruolo e delle funzioni spettanti alla
commissione paritetica (Corte cost. nn. 206/1975, 95/1984, 137/1998).
    Conseguentemente,  gli articoli 1, 3 primo comma 4, 5, 6, 7, 8, 9
del  d.lgs.  n. 654/1948  sono  incostituzionali  per  violazione del
combinato disposto degli articoli 23 e 43 dello statuto siciliano. Va
precisato  al  riguardo  che  nella  presente  questione non viene in
discussione  l'art. 2 e neppure i commi 2 e 3 dell'art. 3, in quanto,
com'e'  noto  stati  sostituiti  dagli  articoli  1  e  2  del d.P.R.
n. 204/1978  rispettoso,  sul  punto  del disposto dell'art. 43 dello
statuto anche se, come verra' in appresso precisato tali disposizioni
sono denunciate sotto ulteriori profili di incostituzionalita'.
    Tornando   all'argomento   va   ricordato   che  nella  decisione
n. 2994/1955  le  sezioni  unite  della  Cassazione  si sono poste il
problema  dell'applicazione dell'art. 43 dello statuto siciliano, ma,
anche questa volta, in un'ottica diversa.
    Ci  si chiese infatti in quella sede a chi spettasse il potere di
emanare  le  norme  di  attuazione  se  al Governo o alla commissione
paritetica  ex  art. 43  dello  statuto,  e  tale interrogativo venne
innescato,  come  in  precedenza osservato, dalla pretesa della prima
commissione  paritetica  di  «deliberare»  autonomamente  le norme di
attuazione.
    La  Cassazione  risolse correttamente il quesito nel senso che il
potere di legiferare in proposito spettava e spetta al Governo. Nello
stesso  senso  si  era  peraltro  gia'  espresso  questo Consiglio di
giustizia amministrativa con parere 19 dicembre 1948 n. 47 e la Corte
dei  conti  con  risoluzione  29  aprile  1950  n. 256. Cio' e' stato
successivamente   confermato   dalla   giurisprudenza   della   Corte
costituzionale  secondo  cui  si  tratta  di  un potere normativo che
spetta  al  Governo  in  via  permanente  ancorche'  con uno speciale
procedimento  partecipativo  delle  autonomie  speciali  (Corte cost.
nn. 212/1984, 160/1985).
    La  questione qui prospettata e' pero' diversa, perche' si tratta
di  stabilire  se  il Governo poteva legittimamente esercitare questo
potere   prescindendo   dallo   speciale   procedimento  disciplinato
dall'art. 43 dello statuto.
    A  tale  interrogativo  la  giurisprudenza della Corte, come gia'
osservato, ha sempre risposto negativamente (v. da ultimo Corte cost.
n. 213/1998).
    D'altra  parte,  quando  anche si potessero superare i rilievi di
costituzionalita' relativi all'esistenza e all'esercizio della delega
di  cui  all'art. 3  del d.lgs.lgt. n. 98/1946, non si vede come tale
potere avrebbe potuto essere legittimamente esercitato dopo l'entrata
in   vigore   della   Costituzione,  dopo  la  conversione  in  legge
costituzionale dello statuto siciliano e la sua entrata in vigore (10
marzo 1948 ex art. 2 legge cost. n. 2/1948).
    Nel   momento  in  cui  veniva  costituzionalizzato  lo  speciale
procedimento  per  la  adozione  delle norme di attuazione ex art. 43
dello  statuto,  non  sembra  dubbio  che  la  delega  ex  art. 3 del
d.lgs.lgt.  n. 98/1946  non  avrebbe  piu'  potuto  essere esercitata
prescindendo  dall'intervento della commissione paritetica e cio' per
varie considerazioni.
    Innanzitutto,  trattandosi  di  norma successiva, la disposizione
dello  statuto  costituzionalizzato  non  poteva  che prevalere sulla
precedente.
    In  secondo  luogo  come norma speciale sull'esercizio del potere
legislativo, avrebbe comunque prevalso sulla norma (appunto la delega
ex  art. 3,  primo  comma,  d.lgs.lgt.  n. 98/1946)  di  generale  (e
generica)   attribuzione  precedente.  In  terzo  luogo,  trattandosi
(sempre   lo   statuto)  di  norma  Costituzionale  avrebbe  comunque
inficiato per illegittimita' costituzionale sopravvenuta (Corte cost.
n. 1/1956)  la  delega  precedente  e  cio'  quando  anche si volesse
riconoscere  valore  costituzionale  al  d.l.lgt.  n. 151/1944  e  al
d.lgs.lgt.  n. 98/1946,  poiche'  la incostituzionalita' sopravvenuta
inficia   anche  le  norme  costituzionali  precedenti  (Corte  cost.
nn. 38/1957, 6/1970, 30/1971, 12/1972, 175/1973).
    10.  -  Peraltro,  qualora  si  volesse riconoscere al Governo la
possibilita'   di   agire   esclusivamente  in  base  all'art. 3  del
d.lgs.lgt.  n. 98/1946  o  in  base anche al disposto dell'art. 4 del
d.l.lgt.  n. 151/1944  sul  presupposto che ambedue i decreti abbiano
natura  costituzionale,  si solleva la questione di costituzionalita'
dei  predetti  articoli  in  rapporto  alla sopravvenuta disposizione
costituzionale  di  cui  all'art. 43  dello statuto siciliano da cui,
derivatamente,  discende  anche la incostituzionalita' degli articoli
1,  3 primo comma e da 4 a 9 del d.lgs. n. 654/1948 in quanto emanati
in  base  ad  una  disposizione  attributiva  di  potere  viziata  da
incostituzionalita' sopravvenuta.
    In  proposito  il collegio non ignora che analoga questione venne
gia'   esaminata   dalla   Corte   costituzionale   nella   decisione
n. 455/1989.  In  quell'occasione,  effettivamente, venne prospettata
dal  Tribunale  amministrativo  regionale Sicilia sezione staccata di
Catania  la  questione  di costituzionalita' dell'art. 1 del d.lgs. 2
marzo   1948   n. 142   che   estendeva   in   Sicilia   le  funzioni
dell'Avvocatura  dello  Stato in rapporto all'art. 43 dello statuto e
la  Corte  al  punto  2  cosi'  si  espresse:  «Sul  piano formale va
innanzitutto  richiamata  la  particolare  natura dell'atto normativo
impugnato   in  relazione  al  profilo,  denunciato  come  eventuale,
concernente  la violazione del procedimento regolato dall'art. 43 del
r.d.lgs. 15 maggio 1946 n. 455 (statuto speciale siciliano).
    In  proposito  va ricordato che il decreto legislativo n. 142 del
1948  fu  adottato  dal  Governo  in virtu' dei poteri conferiti allo
stesso  dal  d.lgs.lgt.  16  marzo  1944  n. 151 (concernente la c.d.
«Costituzione  provvisoria»),  modificato  con il d.lgs.lgt. 16 marzo
1946  n. 98  e  convertito,  con  l'entrata  in  vigore  della  Carta
repubblicana,   dalla   XV   disposizione   transitoria.  Il  decreto
legislativo  in  esame - successivamente ratificato mediante la legge
17  aprile  1956  n. 561  - recepiva, peraltro con lievi varianti, il
contenuto  di  una  disposizione in materia giurisdizionale che aveva
formato oggetto di specifico accordo tra Stato e regione, nell'ambito
dei  lavori  svolti  dalla  prima commissione paritetica nominata, ai
sensi   dell'art. 43   r.d.l.gs.   15  maggio  1946  n. 455  (statuto
siciliano),  mediante  D.C.P.S.  9  ottobre  1946.  Con una relazione
inviata  all'Assemblea  regionale  il 24 maggio 1947 il Presidente di
tale  commissione  trasmetteva,  infatti,  le  norme transitorie e di
attuazione   dello   Statuto   speciale   deliberate   dalla   stessa
commissione,  norme  raccolte  sotto  otto paragrafi, di cui uno (sub
lett. f)  dedicato  agli  «organi giurisdizionali». Nell'ambito della
disciplina concernente tale materia veniva, tra l'altro, prevista una
disposizione   (art. 30)   relativa   all'estensione  delle  funzioni
dell'Avvocatura  dello  Stato  all'amministrazione  regionale, con la
conseguente  applicazione alla stessa della disciplina posta nel r.d.
1611 del 1933 e nel r.d. 1612 del 1933.
    Non si puo' quindi dubitare del fatto che la norma impugnata, per
essere  stata adottata sulla base di un consenso maturato nell'ambito
della  commissione  paritetica di cui all'art. 43 del r.d.lgs. n. 455
del 1946, sia venuta ad assumere, almeno nella sostanza, la natura di
norma  attuazione  dello statuto speciale. Le diversita' solo formali
che  e'  dato riscontrare tra il testo del decreto legislativo n. 142
del  1948  e  quello  redatto  dalla commissione paritetica non sono,
d'altro  canto,  tali da intaccare la sostanziale identita' delle due
discipline,  mentre  possono trovare una spiegazione d'ordine storico
sia  nella  particolare  fase  di transizione istituzionale in cui la
prima  commissione  paritetica,  venne a concludere il proprio lavoro
sia  nel  fatto  che,  successivamente a tale conclusione, il decreto
legislativo n. 142 del 1948 venne emanato quando non risultava ancora
operante  la  legge cost. 26 febbraio 1948 n. 2 (entrata in vigore il
10    marzo    successivo),    mediante    cui    fu    disposta   la
«costituzionalizzazione»  dello statuto speciale siciliano. Pur nella
riconosciuta   natura   di   norma   di  attuazione  riferibile  alla
disposizione impugnata, non sussistono, dunque, elementi per ritenere
fondata  -  data l'esistenza di un accordo maturato nell'ambito della
commissione   paritetica   e  successivamente  recepito  in  un  atto
normativo del Governo - la censura di ordine procedurale formulata in
via ipotetica dall'ordinanza con riferimento all'art. 43 del r.d.lgs.
n. 455 del 1946 (statuto speciale).
    La  questione  tuttavia merita di essere formalmente riproposta e
stavolta non in via ipotetica ed eventuale, poiche', come risulta dai
precedenti  storici gia' ricordati, il mancato richiamo nel preambolo
del  d.lgs.  n. 654/1948  all'intervento della commissione paritetica
non  fu  dovuto  ad  una  mera  svista  o  ad una omissione puramente
formale,  ma  rappresento'  una  intenzionale  sconfessione del ruolo
della commissione paritetica stessa.
    Infatti,  va ancora una volta sottolineato, che nelle prime norme
di  attuazione  che  vennero  emanate  anche  in epoca anteriore alla
costituzionalizzazione  dello  statuto (10 marzo 1948) e cioe' quelle
del  25  marzo  1947  n. 204  il  Governo  ha  legiferato  «viste  le
conclusioni  della  commissione  paritetica  di cui all'art. 43 dello
statuto  della  Regione siciliana», laddove, a partire dalle norme di
attuazione  contenute  nel d.lgs. C.P.S. 10 maggio 1947 n. 307 e sino
al  d.P.R.  30  agosto  1975  n. 635,  l'intervento della commissione
paritetica  scompare  dal  procedimento  di formazione delle norme di
attuazione.  Di  conseguenza  non potrebbe ritenersi, in questo caso,
che  i1  d.lgs.  n. 654/1948 sia anche esso una norma che «per essere
stata  adottata  sulla base di un consenso maturato nell'ambito della
commissione  paritetica  di  cui  all'art. 43 del r.d.lgs. n. 455 del
1946 sia venuta ad assumere, almeno nella sostanza la natura di norma
di attuazione dello statuto speciale» (Corte cost. n. 455/1989 cit.).
Invero, ad avviso del co1legio, cio' che e' emerso nel maggio 1947, e
come e' storicamente dimostrato, e' proprio il rifiuto governativo di
tener  conto  dell'operato  della  commissione  paritetica  e cio' in
risposta  ad  analogo  comportamento della commissione stessa. Non si
tratta  quindi  di  un  elemento  soltanto formale poiche', in questo
caso,  la  forma  assume  contenuto  sostanziale  della  volonta'  di
prescindere, nel procedimento di formazione delle norme di attuazione
dello statuto siciliano, dall'intervento della commissione paritetica
pur    ritenuto    necessario    anche   in   epoca   precedente   la
costituzionalizzazione dello statuto.
    Cio' peraltro si spiega se si pone mente al testuale tenore della
gia' citata nota di trasmissione datata 24 maggio 1947 dal Presidente
della   commissione   paritetica  avv.  Giovanni  Guarino  Amella  al
Presidente   dell'Assemblea   regionale  siciliana:  «La  Commissione
all'inizio   dei  suoi  lavori  prese  in  esame  il  problema  della
determinazione  dei propri poteri e cioe' se suo compito in base allo
statuto  fosse  quello  di  predisporre  un  semplice schema di norme
transitorie  e  di attuazione come una qualsiasi commissione di studi
legislativi,  o  non  fosse  piuttosto  l'altro di stabilire le norme
stesse in virtu' di una vera delega di potesta' normativa.
    Secondo   la   prima  soluzione  la  Commissione  avrebbe  dovuto
limitarsi  a  proporre le norme che il Consiglio dei ministri avrebbe
poscia  rielaborate e deliberate colla potesta' che ad esso Consiglio
spetta  nel normale processo formativo delle norme giuridiche emanate
dal potere esecutivo.
    Ma  la  Commissione,  dietro  accurato studio della questione, ha
opinato per la seconda soluzione.
    Poiche' l'art. 43 dello Statuto ha attribuito alla Commissione la
potesta' di determinare le norme, cioe' di fissare in modo definitivo
con  la  propria  volonta'  la forma e il contenuto di tali norme, il
Consiglio  dei ministri non ha legalmente potere deliberativo intorno
ad esse, non potendosi ammettere che si voglia ridurre tale potere ad
una semplice approvazione obbligatoria di norme fissate da altri.
    Anche  la  composizione  della  Commissione  depone  nello stesso
senso,  poiche'  nessun valore avrebbe la pariteticita' di essa se le
sue  norme,  approvate  dai rappresentanti del Governo centrale e dai
rappresentanti  del  Governo  regionale,  potessero essere modificate
dagli organi del Governo centrale.
    Questo  concetto della delega normativa emerge, peraltro, in modo
concorde  da  tutti  i  lavori  preparatori  dello Statuto, e fu pure
accolto  esplicitamente dalla Giunta della Consulta nazionale, di cui
io facevo parte. (v. all. A pag. 87-88).
    Sotto  altro  profilo  va  rammentato  che nella citata decisione
455/1989   la   Corte   costituzionale   respinse   la  eccezione  di
incostituzionalita'  in  rapporto all'art. 43 dello statuto siciliano
anche con la considerazione che il decreto legislativo in quella sede
impugnato  (d.lgs.  2 marzo 1948 n. 142) era stato emanato il 2 marzo
1948  e  quindi  otto  giorni prima della entrata in vigore (10 marzo
1948)  della  legge  costituzionale n. 2/1948 che convertiva in legge
costituzionale lo statuto siciliano.
    L'argomento,   all'evidenza,   non  puo'  essere  utilizzato  per
spiegare  la  vicenda in esame, dal momento che il d.lgs. n. 654/1948
e'  successivo  alla  costituzionalizzazione dello statuto siciliano.
Invero,  come  gia'  accennato,  non  solo  l'emanazione de1 d.lgs. 6
maggio  1948 n. 654 e posteriore, ma lo e' anche la relativa delibera
del Consiglio dei ministri che venne assunta in data 8 aprile 1948.
    Neppure puo' essere utilizzato, in questa occasione, l'argomento,
pure  contenuto  nella  decisione 455/1989, secondo cui sussisteva un
consenso  maturato  nell'ambito della commissione paritetica, di modo
che   tra  il  testo  del  decreto  legislativo  n. 142/1948  (allora
considerato) e quello redatto dalla commissione paritetica esistevano
«diversita'  solo formali». Nella specie, se si esaminano le prime ed
uniche  norme  deliberate dalla anzidetta prima commissione, dedicate
agli  organi giurisdizionali e rubricate alla sezione f) ci si avvede
che  la sezione stessa e' articolata in due titoli: il primo dedicato
agli  organi  centrali  giurisdizionali  e di controllo ed il secondo
dedicato alla giurisdizione amministrativa di primo grado.
    Nel  primo  titolo,  dedicato  agli organi centrali, mentre viene
previsto il decentramento della Corte di Cassazione, del Consiglio di
Stato,  della  Corte  dei  conti, del Tribunale superiore delle acque
pubbliche,   della   Commissione   centrale  delle  imposte  e  della
Commissione  censuaria  centrale,  non  esiste, per nessuno di questi
organi  centrali, alcun accenno ad una composizione diversa da quella
ordinaria poiche' le norme cosi' disponevano:
    «Sezioni regionali di Organi centrali.
    Art.  1  -  Sono  istituiti  in Sicilia agli effetti dell'art. 23
dello Statuto della regione:
        1)   Una   sezione  civile  ed  una  penale  della  Corte  di
cassazione;
        2)   Una   sezione  consultiva  ed  una  giurisdizionale  del
Consiglio di Stato;
        3) Una sezione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche;
        4)  Una  sezione  della Corte dei conti che esercita anche le
funzioni di controllo;
        5) Una sezione per le imposte dirette ed una per le indirette
della Commissione centrale delle imposte;
        6) Una sezione della Commissione censuaria centrale.
    Art.  2  -  Le  attribuzioni  della  Corte  di appello di Roma in
materia  di  usi civici sono devolute, per la Sicilia, ad una sezione
della sezione della Corte d'appello di Palermo.
    Art.  3  - Alla costituzione delle sezioni previste dai numeri 1,
2,  3,  4  dell'art. 2  ed  alla  destinazione del relativo personale
provvederanno  i  competenti organi dello Stato entro sessanta giorni
dalla pubblicazione del presente decreto.
    Gli  oneri  relativi  alle  sezioni  predette sono a carico dello
Stato».
    Veniva invece istituita una giurisdizione amministrativa di primo
grado definita Consiglio regionale di giustizia amministrativa e solo
per questa era prevista una speciale composizione come segue:
    «Del Consiglio regionale di Giustizia Amministrativa.
    Art. 13 - Fino a quando la regione non istituira' nuovi organi di
giustizia  amministrativa  di  1°  grado,  funzionera'  in Sicilia un
Consiglio regionale di Giustizia Amministrativa con sede in Palermo e
sezioni distaccate a Caltanissetta, Catania ed a Messina.
    Altre sezioni del Consiglio predetto possono essere istituite con
legge della regione.
    Art. 14 - Il Consiglio e' composto:
        1) del Presidente del Tribunale di Palermo che lo presiede;
        2)  di  un  rappresentante  del  pubblico ministero presso lo
stesso tribunale;
        3)   di  un  funzionario  di  grado  non  inferiore  all'VIII
dell'Amministrazione Civile dell'Interno;
        4)  di  un  funzionario di grado non inferiore all'VIII della
locale Intendenza di Finanza;
        5)  un  membro  scelto  fra  docenti  universitari di materie
giuridiche,  avvocati  del  libero  foro  particolarmente versati nel
diritto pubblico.
    Alla  nomina  dei  membri del Consiglio predetto e dei rispettivi
membri  supplenti  si  provvede  con  decreto  del  Presidente  della
regione, sentita la giunta e su designazione:
        a)  del Primo Presidente della Corte d'appello di Palermo per
il Presidente di sezione del tribunale di cui al n. 1;
        b)  del  Procuratore generale presso la Corte d'appello per i
membri di cui al n. 2;
        c)  dell'Assessore  preposto  ai  servizi  dell'interno per i
membri di cui al n. 3;
        d) dell'Assessore alle finanze per i membri di cui al n. 4;
        e) del Presidente della Sezione giurisdizionale regionale del
Consiglio di stato per i membri di cui al n. 5.
    I  membri  predetti  durano  in  carica fino a che la regione non
disciplinera'    altrimenti    l'ordinamento    della   giurisdizione
amministrativa  di  primo  grado  e  in ogni caso non oltre i quattro
anni». (v. all. A pag. 88-108).
    E'  pertanto  evidente come tra il Governo e la prima commissione
paritetica  non  fosse  maturato nessun tipo di accordo al riguardo e
come   il   testo   del  d.lgs.  n. 654/1948  non  rispecchi  nemmeno
lontanamente le conclusioni cui era pervenuta la commissione stessa.
    11.  -  Ne' puo' ritenersi che i vizi di costituzionalita' dianzi
evidenziati siano stati successivamente sanati per effetto del d.P.R.
5   aprile  1978  n. 204  il  quale  ha  apportato  modificazioni  ed
integrazioni al d.lgs. n. 654/1948.
    Tale  d.P.R., infatti, e' stato bensi' emanato in base alle norme
predisposte da una successiva commissione paritetica ex art. 43 dello
statuto  siciliano,  ma  non  ha  affatto  novato come fonte l'intero
d.lgs. n. 654/1948.
    Infatti,   il   d.P.R.   n. 204/1978   espressamente   intitolato
«modifiche  e  integrazioni  al d.P.R. n. 654/1948» e' stato adottato
per   eliminare  il  vizio  di  costituzionalita'  evidenziato  dalla
decisione della Corte costituzionale n. 25/1976 circa la possibilita'
di  riconferma  dei membri laici del C.G.A. possibilita' insita nella
originaria stesura dell'art. 3 del d.lgs. n. 654/1948.
    Invero,  l'art. 2  del  d.lgs.  n. 654/1948 e il testo sostituito
dall'art. 1  del  d.P.R.  n. 204/1978  differiscono  soltanto  per le
composizioni  del  C.G.A  in  sede consultiva e giurisdizionale, rese
necessarie  per superare difficolta' nella formazione dei collegi. La
modifica  adeguatrice  alla  pronuncia  della  Corte  e' stata invece
apportata al secondo comma dell'art. 3 e cio' con l'art. 2 del d.P.R.
n. 204/1978.  Gli  ultimi  2 articoli del predetto d.P.R. n. 204/1978
contengono  poi soltanto una norma transitoria (art. 3) e la clausola
della entrata in vigore (art. 4).
    Sono  rimasti  quindi  inalterati,  sia  nel testuale tenore, sia
nella  derivazione  dalla fonte originaria, sicuramente l'articolo 1,
l'art. 3,  primo  comma,  nonche'  gli articoli seguenti da 4 a 9 del
d.lgs. n. 654/1948.
    Peraltro,  atteso che l'articolo 1 de1 d.lgs. n. 654/1948 dispone
la   istituzione   dell'organo,   mentre  i  successivi  articoli  ne
disciplinano  la  composizione  e  il  funzionamento,  una  eventuale
dichiarazione   di   incostituzionalita'   dell'art. 1  non  potrebbe
lasciare in vita le restanti norme, che dovrebbero conseguenzialmente
essere  dichiarate  illegittime  ai sensi dell'art. 27 della legge 11
maggio 1953 n. 87.
    Concludendo   sui  precedenti  punti  da  5  a  10  vanno  poste,
nell'ordine ed in rispettivo subordine (su tale possibilita' v. Corte
cost.  n. 188/1995  e,  da  ultimo  Corte  cost.  ord. n. 14/2003) le
seguenti questioni di costituzionalita':
        A)  questione  di  costituzionalita' dell'art. 3, primo comma
del  d.lgs.  n. 98/1946  con  riferimento  ai principi costituzionali
concernenti  le deleghe di poteri anteriori alla Costituzione, e cio'
per  indeterminatezza  delle  materie  di  delega,  da  cui discende,
derivatamente,  la  incostituzionalita'  degli artt. 1 e seguenti del
d.lgs. n. 654/1948;
        A1)  in  subordine, ove si ritenga che il d.lgs. n. 654/1948,
come  risulta  nel  preambolo dal solo richiamo alla XVª disposizione
transitoria,  sia  stato  emanato  soltanto  in  base  all'art. 4 del
d.l.lgt.  n. 151/1944,  va posta la questione di costituzionalita' di
tale  norma,  e,  derivatamente  degli  artt. 1 e seguenti del d.lgs.
n. 654/1948 negli stessi termini esposti sub A);
        A2)  in  subordine,  ove si ritenga che il d.lgs. n. 654/1948
sia  stato  emanato  in  base  al  combinato disposto dell'art. 4 del
d.l.lgt.   n. 151/1944   e  dell'art. 3,  primo  comma  del  d.l.lgt.
n. 98/1946,  va posta la questione di costituzionalita' di ambedue le
disposizioni  anzidette e, derivatamente degli artt. 1 e seguenti del
d.lgs. n. 654/1948 negli stessi termini esposti sub A);
        A3)  in  ulteriore  subordine,  qualora si volesse attribuire
natura costituzionale al d.l.lgt. n. 151/1944 e al d.lgt. n. 98/1946,
va  posta  la questione di costituzionalita' del d.lgs. 654/1948, per
eccesso  di potere in rapporto all'art. 4 del d.l.lgt. n. 151/1944, e
per  eccesso di delega in rapporto all'art. 3, primo comma del d.lgs.
lgt. n. 98/1946 e cio' in quanto emanato in materia costituzionale di
competenza dell'Assemblea costituente e, derivatamente degli articoli
1 e seguenti del d.lgs. n. 654/1948;
        B)  va  posta  poi  la  questione  di costituzionalita' degli
artt. 1,  3  primo comma, 4, 5, 6, 7, 8, 9, del d.lgs. n. 654/1948 in
rapporto all'art. 43 dello statuto della Regione siciliana convertito
in  legge  costituzionale n. 2/1948 in quanto per la sua adozione non
e'  stato  osservato  il  procedimento previsto dal suddetto art. 43.
Resta  inteso, anche ai fini della rilevanza, che la stessa questione
non  puo' porsi nei confronti dell'art. 2 e dei commi secondo e terzo
dell'art. 3  in  quanto  sostituiti dal d.P.R. n. 204/1978 rispettoso
del   procedimento   di   cui  all'art. 43  dello  statuto.  Peraltro
l'eventuale  accoglimento  della  questione  farebbe  venir  meno  la
istituzione  dell'organo  (art.  1) la nomina dei componenti (art. 3,
primo   comma),   le   competenze,   le  procedure  e  le  norme  sul
funzionamento dell'organo (artt. da 4 a 9). Ne dovrebbe discendere ex
art. 27, legge n. 87/1953 la incostituzionalita' derivata anche dalle
norme (art. 2) sulla composizione.
        B1)  in  subordine, ove si ritenga che il d.lgs. 654/1948 sia
stato emanato in base all'art. 4 del d.l.lgt. 151/1944 ed all'art. 3,
primo   comma,   del  d.lgs.lgt.  n. 98/1946,  ed  a  tali  norme  si
attribuisca   natura  costituzionale,  si  solleva  la  questione  di
costituzionalita'  delle  disposizioni  anzidette  in  rapporto  alla
sopravvenuta  norma  costituzionale  di cui all'art. 43 dello statuto
siciliano  e, derivatamente degli artt. 1, 3 primo comma, 4, 5, 6, 7,
8, 9, del d.lgs. n. 654/1948 con la precisazione di cui al punto B).
    Si  ribadisce  che  la rilevanza delle anzidette questioni emerge
dal  fatto  che  il  dubbio  di  costituzionalita' concerne la stessa
esistenza dell'organo chiamato a giudicare (Corte cost. n. 25/1976).
    Peraltro  l'eventuale  dichiarazione di incostituzionalita' delle
norme  denunciate  non  determinerebbe  il  venir meno in Sicilia del
grado  di  appello  nella  giustizia  amministrativa,  ma soltanto la
sostituzione  al  C.G.A.  di  una  sezione  del  Consiglio  di  Stato
localizzata in Sicilia conformemente alla previsione statutaria.
    12.   -   Passando   ad   altro  ordine  di  considerazioni  piu'
specificatamente  attinenti  al  contenuto del d.lgs. n. 654/1948, si
premette  in  via generale che anche le leggi costituzionali (come ad
esempio   gli  statuti  regionali)  sono  soggette  al  sindacato  di
legittimita'  costituzionale  (v  .  Corte cost. n. 38/1957 sull'Alta
Corte  siciliana  e  n. 6/1970  sulla  responsabilita'  penale avanti
all'Alta Corte del Presidente della regione).
    A  fortiori sono denunciabili per incostituzionalita' le norme di
attuazione  degli  statuti delle regioni a statuto speciale le quali,
sotto  questo  profilo,  sono state ritenute sullo stesso piano delle
leggi  statali  (Corte  cost. 14 luglio 1956 n. 14, 15, 16; 16 luglio
1956  n. 20;  19  luglio 1956 n. 22; 26 gennaio 1957 n. 15; 18 maggio
1959  n. 30,  etc.)  e  cio'  ancorche'  le norme di attuazione degli
statuti speciali operino ad un livello superiore a quello della legge
statale (Corte cost. 18 maggio 1959 n. 30).
    Per  quanto  poi concerne il contenuto delle norme di attuazione,
va  rilevato  che  la giurisprudenza della Corte costituzionale (dec.
n. 20/1956   cit.)  da  un  lato  ha  precisato  come  non  siano  da
qualificare  alla  stregua  di norme di mera esecuzione dello statuto
regionale, come se si trattasse di semplici regolamenti esecutivi. Al
contrario,   esse  possono  contenere  norme  primarie  ancorche'  di
«attuazione» degli statuti e quindi rivestono carattere legislativo.
    Da  tale  carattere  discende  la  necessita'  che  non  siano in
contrasto ne' con la Costituzione, e neppure con lo statuto speciale,
ma debbono, semmai, essere «in aderenza» al medesimo.
    Il concetto di «aderenza» puo' essere poi sottoposto al controllo
della  Corte  costituzionale con riferimento al contenuto delle norme
di attuazione e cioe' verificando se le stesse siano contrarie o meno
allo statuto.
    Al di la' delle ipotesi di norme di attuazione contra statutum la
Corte costituzionale (sempre nella citata decisione n. 20/1956) si e'
posta  il  problema  delle norme di attuazione praeter legem, o anche
apparentemente secundum legem, risolvendolo testualmente come segue.
    «Se poi le norme di attuazione siano praeter legem, nel senso che
abbiano  integrato  le disposizioni statutarie od abbiano aggiunto ad
esse  qualche cosa che le medesime non contenevano, bisogna vedere se
queste  integrazioni  od  aggiunte  concordino  innanzi  tutto con le
disposizioni  statutarie  e col fondamentale principio dell'autonomia
della regione, e se inoltre sia giustificata la loro emanazione dalla
finalita'  dell'attuazione  dello statuto. Laddove, infine, si tratti
di  norme  secundum  legem,  e' ovvio che se esse, nel loro effettivo
contenuto e nella loro portata, mantengano questo carattere, non e' a
parlarsi  di  illegittimita' costituzionale, ma sarebbe pur sempre da
dichiararsene  la illegittimita' nel caso che esse, sotto l'apparenza
di  norme secundum legem, sostanzialmente non avessero tal carattere,
ponendosi  in  contrasto con le disposizioni statutarie e non essendo
dettate dalla necessita' di dare attuazione a queste disposizioni».
    Questo insegnamento e' stato mantenuto fermo fino ad ora e, sullo
specifico  punto,  la  decisione  n. 20/1956  e'  stata costantemente
richiamata  dalla  successiva  giurisprudenza  costituzionale  (v. da
ultimo Corte cost. n. 353/2001).
    13.  -  Orbene,  se  si  esaminano  le disposizioni dello statuto
siciliano  e  le  norme  di  attuazione  in  materia di giurisdizione
amministrativa  si evince come queste ultime siano di segno contrario
rispetto alle previsioni statutarie e comunque non in aderenza con la
lettera e con lo spirito delle previsioni statutarie stesse.
    L'art. 23,   primo   comma,  dello  statuto,  infatti  stabilisce
semplicemente  che gli organi giurisdizionali centrali dovranno avere
in  Sicilia  le  rispettive  sezioni  per  gli  affari concernenti la
regione.
    Nello  statuto  non  e'  contenuto  alcun  accenno, come tutta la
dottrina   costituzionalistica   dell'epoca   non   ha   mancato   di
sottolineare,  alla composizione dei collegi giudicanti e neppure per
i  co1legi  chiamati  a  decidere  in  sede consultiva e di controllo
(art. 23, secondo comma).
    L'art. 2  del  d.lgs.  n. 654/1948  non si limita a dettare norme
attuative   o   che  comunque  costituiscano  la  logica  e  naturale
espansione  del  principio  statutario (organizzazione degli uffici e
trasferimento  di  personale  per  consentire  la presenza in loco di
sezioni  delle  giurisdizioni superiori per gli affari regionali), ma
modifica   la   struttura   ordinaria   dell'organo   giurisdizionale
introducendo   un   principio  del  tutto  estraneo  allo  statuto  e
contrario,  come  verra'  in  seguito  chiarito,  a  precise  norme e
principi di rango costituzionale.
    D'altra   parte   e'  del  tutto  evidente  che  la  composizione
dell'organo  giurisdizionale  in modo diverso dall'ordinario non puo'
essere  considerata, nel silenzio dello statuto al riguardo, come una
necessaria integrazione e specificazione della norma statutaria.
    La  citata  decisione  della  Corte  n. 20  del  1956, e' precisa
nell'affermare  che  la  legittimita'  costituzionale  delle norme di
attuazione e' subordinata alla duplice sussistenza di due requisiti.
    Innanzitutto  occorre  la  concordanza  tra norme di attuazione e
statuti  (e  nella specie ictu oculi tale concordanza non esiste); in
secondo  luogo  le  norme  di  attuazione debbono essere giustificate
dalla finalita' di dare attuazione allo statuto.
    Neppure tale ultimo requisito sussiste nella specie.
    A proposito di quest'ultimo la Corte ha affermato che «l'esigenza
delle  norme  di  attuazione  si  manifesta  nel bisogno di dar vita,
nell'ambito   delle   ben   definite   autonomie  regionali,  ad  una
organizzazione  dei pubblici uffici e delle pubbliche funzioni che si
armonizzi    con    l'organizzazione    dello    Stato    nell'unita'
dell'ordinamento  giuridico»  (dec. 14/1962, 30/1968, 136/1969) ed ha
ribadito  tale  convincimento  anche  nella  decisione 12 luglio 1984
n. 212  nella  quale  ha  anche  precisato  che  «le  finalita' della
attuazione  vanno  accertate nel contesto delle autonomie regionali e
nei principi costituzionali».
    Nella  citata  decisione  n. 212/1984 la Corte, nel dichiarare la
illegittimita'   costituzionale  della  istituzione  di  una  sezione
giurisdizionale  e  delle  sezioni  unite  della  Corte  dei conti in
Sardegna,  ha  argomentato  con  il fatto che ne' dalla lettera dello
statuto  regionale,  ne' dal suo spirito, ne' dalle sue finalita' era
in  alcun  modo ricavabile che si fosse inteso prevedere, neppure per
implicito, sezioni di organi centrali neppure nei limiti degli affari
concernenti  la  regione  e cio' a differenza di quanto stabilito per
altre  regioni, richiamando appunto l'art. 23 dello statuto siciliano
e l'art. 90 dello statuto del Trentino-Alto Adige.
    Al  riguardo  tuttavia  non  puo' non sottolinearsi la differenza
fondamentale  tra  lo  statuto  siciliano  e quello del Trentino-Alto
Adige  i  quali,  ai  fini  in  esame, non possono porsi sullo stesso
piano.
    Infatti,  mentre  lo  statuto  siciliano  si  limita  alla pura e
semplice  localizzazione in Sicilia delle sezioni delle giurisdizioni
superiori,  lo  statuto  del  Trentino-Alto  Adige  e' di ben diverso
contenuto.
    Innanzitutto,   l'articolo   90   del  testo  unico  delle  leggi
costituzionali  di  cui  al  d.P.R.  31 agosto 1972 n. 670 istituisce
espressamente  il  T.R.G.A.  e  rinvia  espressamente  alle  norme di
attuazione per il suo ordinamento. Inoltre, il successivo articolo 91
disciplina    espressamente    la    composizione    della    sezione
giurisdizionale  per  la provincia di Bolzano del T.R.G.A. cosi' come
prevede  espressamente  che  la  meta'  dei  componenti la sezione e'
nominata  dal  Consiglio  provinciale  di  Bolzano  (art. 91, secondo
comma).
    Le  norme  di  attuazione  dello  statuto  del Trentino (d.P.R. 6
aprile  1984  n. 426)  di  conseguenza,  essendo a cio' espressamente
delegate  dallo  statuto,  disciplinano  le  modalita'  di scelta dei
magistrati  cosiddetti laici individuando le categorie tra cui questi
debbono  essere  scelti, il ruolo in cui debbono essere collocati, le
garanzie  che  li  assistono,  lo  stato  giuridico  e il trattamento
economico (artt. 2, 4, 5, d.P.R. 6 aprile 1984 n. 426). In proposito,
nella  decisione n. 137/1998 la Corte costituzionale ha espressamente
rilevato  come  la  specialita'  del  T.R.G.A.  risieda  nella delega
contenuta  nell'art. 90  dello statuto speciale da cui legittimamente
discendono   le   norme   di  attuazione  adottate  con  lo  speciale
procedimento della commissione paritetica.
       Anche  il  d.P.R.  n. 654/1948  di  attuazione  dello  statuto
siciliano contiene, all'art. 2, norme di contenuto analogo alle norme
di  attuazione  dello  statuto  del  Trentino, ma con la fondamentale
differenza che lo statuto siciliano ne' istituisce un organo speciale
e  neppure delega il suo ordinamento alle norme di attuazione. Nessun
accenno  -  ripetesi - ne' esplicito ne' implicito e' contenuto nello
statuto siciliano circa la istituzione di un organo giurisdizionale a
speciale  composizione  per  la  Regione siciliana e neppure circa la
necessita'  che  parte  del  collegio  giudicante  sia  costituito da
magistrati laici di designazione regionale.
    Ne' potrebbe sostenersi che la presenza in collegio di magistrati
laici  di  designazione  regionale  costituisca  la logica e naturale
conseguenza,  se  non  della  lettera,  almeno  dello spirito e delle
finalita' autonomistiche dello statuto siciliano.
    Un  conto  infatti e' la localizzazione di una funzione, un altro
e'  la  organizzazione  della  funzione.  Sono  due aspetti del tutto
diversi   che   il   legislatore   costituzionale  puo'  disciplinare
diversamente  a  seconda  dei casi cosi' come dimostra lo statuto del
Trentino-Alto   Adige  (istituzione  espressa  dell'organo  speciale,
delega espressa alle norme di attuazione, localizzazione e previsione
di   giudici   laici),   quello   della   Regione  Sardegna  (nessuna
disposizione    sulla    giurisdizione)   e   della   Sicilia   (solo
localizzazione degli organi ordinari).
    14.   -   D'altra   parte,   la   riprova  che  le  deroghe  alla
organizzazione   giurisdizionale  nazionale  sono  e  debbono  essere
contenute negli statuti si rinviene nello stesso statuto siciliano.
    Innanzitutto   va   osservato   che   quando  si  e'  voluta  una
composizione mista, lo statuto siciliano lo ha espressamente sancito,
come  risulta  dal confronto dell'art. 23 con l'art. 24, primo comma,
secondo  cui  i  membri  dell'Alta Corte dovevano essere nominati «in
pari numero dalle Assemblee legislative dello Stato della regione».
    Peraltro  un  ulteriore  argomento  si ricava dal testuale tenore
dello  stesso  articolo 23. Invero, l'articolo 23, terzo comma, dello
statuto  siciliano  si da' carico di precisare che i magistrati della
Corte  dei  conti  sono  nominati d'accordo dal Governo dello Stato e
dalla regione.
    Il  legislatore  costituzionale  ha  talmente avvertito l'effetto
derogatorio  alla  normale  organizzazione  del  giudice contabile da
ritenere necessaria la specificazione nello statuto.
    Orbene,  di  fronte  a tale espressa specificazione dello statuto
per  una  delle  magistrature  superiori  non  si  vede come si possa
sostenere  che  invece  l'assoluto  silenzio dello stesso legislatore
circa  le altre possa essere interpretato come una implicita delega a
disciplinare,  in  sede di attuazione, la nomina, la composizione, la
stessa  struttura  del  giudice  amministrativo in una organizzazione
giurisdizionale del tutto difforme da quella ordinaria.
    La  Corte  costituzionale  ha  affermato  chiaramente  che, anche
laddove  gli statuti prevedano in via generica la emanazione di norme
di  attuazione,  sarebbe  illogico ritenere che queste ultime debbano
essere emanate per tutte le materie statutarie perche' in tal modo si
perverrebbe  «all'assurdo  di  giudicare che esse sono state previste
anche  in  caso  in cui il testo statutario avesse avuto in se' piena
completezza  e non avesse reclamato integrazioni o specificazioni. In
tali  ipotesi  le norme di attuazione non potrebbero mai emanarsi per
mancanza di oggetto» (Corte cost. primo luglio 1969 n. 136).
    15. - Neppure potrebbe sostenersi, sotto altro profilo, che nella
previsione  statutaria  siciliana  limitata  alla  localizzazione sia
implicita la disciplina della organizzazione giurisdizionale.
    Al  riguardo  la  Corte costituzionale ha sempre affermato che in
materia  di  ordinamento  giudiziario  esiste  ex  art. 108 Cost. una
riserva   di   legge  statale  (Corte  cost.  n. 4/1956,  n. 76/1995,
n. 134/1998, n. 86/1999).
    E'  stato anche affermato che il disegno del costituente e' stato
«di  procedere  bensi'  per  determinate  materie ad un decentramento
istituzionale  nel  campo  legislativo  ed  amministrativo  a  favore
dell'ente regione, ma di escludere dal decentramento tutto il settore
giudiziario  e  di  sottrarlo,  quindi,  a qualsiasi competenza delle
regioni,  anche  di  quelle  a statuto speciale dettando cosi' uno di
quei    principi   dell'ordinamento   giuridico   dello   Stato   che
costituiscano  limite  insuperabile  all'attivita'  legislativa delle
regioni»    (Corte   costituzionale   n. 4/1956,   v.   anche   Corte
costituziona1e n. 43/1982).
    In  questa  ottica  appare  oltremodo  significativa la decisione
n. 150/1993   in   cui   si  trattava  di  stabilire  la  egittimita'
costituzionale della legge statale n. 374/1991 istitutiva del giudice
di  pace  asseritamente  lesiva  delle norme statutarie della Regione
Valle   d'Aosta   disciplinanti   la   istituzione  degli  uffici  di
conciliazione (art. 41 legge cost. n. 4/1948).
    In  quella  occasione  la Corte ha affermato «Il Titolo VII dello
statuto di autonomia della Valle d'Aosta, rubricato come "Ordinamento
degli  uffici  di  conciliazione",  prevede  nella  sua  unica  norma
(l'art. 41)  determinate  attribuzioni,  di natura amministrativa, in
favore  del  Presidente  della  giunta,  nonche' della giunta stessa,
attribuzioni   concernenti   sia   l'istituzione   degli   uffici  di
conciliazione  (che  e'  disposta  con  decreto  del Presidente della
giunta  deliberazione  di  questa);  sia  la nomina, la decadenza, la
revoca   e  la  dispensa  dall'ufficio  dei  giudici  conciliatori  e
viceconciliatori  (che  e'  disposta  dal  Presidente della giunta in
virtu'  di delegazione del Presidente della Repubblica); sia, infine,
l'esercizio  delle  funzioni  di  cancelliere  e  di  usciere (che e'
autorizzata anch'essa dal Presidente della giunta).
    Orbene,  il  significato  limitativo espresso dal tenore testuale
della  previsione  statutaria  riferentesi esclusivamente - sia nella
rubrica del titolo, sia nella formulazione della sua unica norma - al
giudice  conciliatore  ed al suo ufficio, e non al "giudice onorario"
in generale, trova conforto non solo nella considerazione che la piu'
ampia figura, appunto, del "giudice onorario" - ricomprendente in se'
quella   del   "giudice   conciliatore"   gia'   all'epoca  esistente
nell'ordinamento  giudiziario  -  non  poteva  non essere presente al
legislatore  costituente,  essendo  la Carta costituzionale (che tale
figura "generale" conosce ed ammette: art. 106, secondo comma, Cost.)
antecedente,  sia  pure  di poco, allo Statuto di autonomia, ma trova
conferma anche in altre varie e concorrenti ragioni.
    La  norma  statutaria,  per  il  suo contenuto precettivo, incide
ordinamento  giudiziario  e  sullo "status" di un giudice dell'ordine
giudiziario.
    Sotto  il primo profilo (incidenza sull'ordinamento giudiziario),
va  innanzi  tutto ribadito che in tale materia c'e' riserva di legge
(art. 108  Cost.)  e  questa  Corte  ha gia' piu' volte puntualizzato
trattarsi  di riserva di legge statale, con conseguente esclusione di
qualsivoglia interferenza della normativa regionale (sent. n. 767 del
1988,  sent.  n. 43  del  1982,  sent. n. 81 del 1976, sent. n. 4 del
1956).  Deve  quindi ripetersi che alla legge statale "compete in via
esclusiva  disciplinare  in  modo  uniforme  per  l'intero territorio
nazionale  e nei confronti di tutti (art. 3 Cost.) i mezzi e le forme
di  tutela  giurisdizionale  dei  diritti e degli interessi legittimi
(artt. 24, primo comma, e 113 Cost.)" (sent. n. 81 del 1976, citata).
Tale    riserva    abbraccia   sia   la   disciplina   degli   organi
giurisdizionali,  sia  la  normativa processuale, anch'essa riservata
esclusivamente  alla  legge  statale  (sent.  n. 505  del 1991, sent.
n. 489 del 1991).
    Come  la legge processuale (secondo il disegno costituzionale del
nostro   ordinamento),   cosi'   anche   la  normativa  degli  organi
giurisdizionali  non  puo' che essere uniforme su tutto il territorio
nazionale,  dovendo  a  tutti  essere  garantiti  pari  condizioni  e
strumenti  nel  momento  di  accesso  alla  fruizione  della funzione
giurisdizionale,  il  cui  esercizio  e'  imprescindibilmente neutro,
perche'  insensibile  alla localizzazione in questa o quella regione,
oltre che neutrale, perche' svolto in posizione di terzieta' rispetto
ai poteri dello Stato, non escluso il potere esecutivo delle regioni.
    Pertanto   le   attribuzioni  regionali  in  materia  di  giudice
conciliatore,  in  quanto  incidenti in materia soggetta a riserva di
legge statale, hanno carattere di specialita' sicche' l'art. 41 della
legge  costituzionale  n. 4  del 1948 (Statuto) si pone come deroga a
tali  principi,  consentita  soltanto  dal rango costituzionale della
norma   stessa;  deroga  doppiamente  eccezionale  perche'  contempla
un'interferenza  regionale in materia di esclusiva competenza statale
e  perche' tale interferenza nell'ordinamento giudiziario si realizza
a  livello non gia' di legge regionale, bensi' esclusivamente di atti
dell'esecutivo.  Tale  connotazione  di  eccezionalita'  non puo' che
confinare  la  norma  statutaria  nel ristretto ambito del suo tenore
letterale sicche' in Valle d'Aosta e' solo il "giudice conciliatore",
e  non anche il "giudice onorario" ex art. 106, secondo comma, Cost.,
ad  essere  in  qualche  misura  diverso dal giudice conciliatore sul
restante territorio del Paese.
    Il  rilevato  carattere  derogatorio  si appalesa poi ancora piu'
marcato  se  si  considera il contenuto della norma statutaria, che -
seppur  su  delegazione del Presidente della Repubblica - prevede una
serie di provvedimenti di competenza dell'esecutivo della regione che
incidono   in   radice   sullo   status   di   giudice  conciliatore,
condizionandone  la  nomina,  la  decadenza, la revoca e la dispensa.
Anche sotto questo secondo profilo giova richiamare la giurisprudenza
di  questa  Corte  che  ha  evidenziato  come  la riserva di legge in
materia   di   ordinamento   giudiziario   e'   posta   "a   garanzia
dell'indipendenza   della   magistratura"  (sent.  n. 72  del  1991);
indipendenza  che  costituisce  valore  centrale  per  uno  Stato  di
diritto,  sicche'  l'eventuale  difetto  di presidi a sua difesa puo'
ridondare  in  vizio  di  incostituzionalita'  (sent. n. 6 del 1970);
indipendenza  che  e'  assicurata in generale, ma anche con specifico
riferimento  al  giudice  onorario,  dalle  competenze  del Consiglio
superiore della Magistratura, sicche' anche per la nomina dei giudici
di  pace e' in generale prevista la previa deliberazione dello stesso
(art. 4 della legge n. 374 del 1991).
    Quindi,  anche  sotto  questo  profilo  dell'esigenza di garanzia
dell'indipendenza  del giudice, la previsione, contenuta nell'art. 41
della  legge  costituzionale  26  febbraio  1948, n. 4 (Statuto Valle
d'Aosta), del potere (seppur delegato) del Presidente della giunta di
dichiarare  la  decadenza  e  la dispensa del giudice conciliatore, e
soprattutto  il  potere  di  revocarne  la  nomina,  denuncia  il suo
carattere  singolare e del tutto eccezionale, nella specie consentito
dal rango costituzionale della norma stessa.
    Il  principio  ricavabile  dalla anzidetta decisione sembra molto
chiaro  nel  senso che la deroga alla riserva costituzionale di legge
statale   in   materia   di   giurisdizione  e'  consentita  solo  se
espressamente prevista da una norma speciale di rango costituzionale,
che   le   disposizioni   degli   statuti   speciali  in  materia  di
giurisdizione  hanno  carattere  eccezionale  e  che  quindi, come si
esprime  la  Corte  «tale connotazione di eccezionalita' non puo' che
confinare  la  norma  statutaria  nel suo ristretto ambito del tenore
letterale».
    16.  -  Se  cio' e' esatto, se ne deve concludere che la norma di
attuazione   dello   statuto   siciliano   ha  previsto  un  istituto
eccezionale,  quale  la possibilita' di nomina di magistrati laici al
di   fuori   di  qualsiasi  previsione  statutaria,  in  una  materia
costituzionalmente  riservata  alla  disciplina  statale  e  pertanto
derogabile solo per espressa previsione di norma equiordinata e cioe'
di rango costituzionale.
    Tale  natura  non  e'  riconosciuta  -  ripetesi  - alle norme di
attuazione degli statuti delle regioni a statuto speciale.
    Con  riferimento  al  decreto  legislativo  n. 654/1948  la Corte
costituzionale  ha  affermato «che il predetto decreto legislativo ha
valore di legge ordinaria» (Corte cost. n. 61/1975).
    Inoltre,  piu'  in  generale,  la  Corte  ha affermato che «hanno
dunque  valore di legge, e per alcuni statuti, come per quello sardo,
e'  prevista  la  loro  compilazione  da  parte  di  una  commissione
paritetica  e  occorre  sentire il parere di alcuni organi regionali.
Sia  per ragioni formali che per ragioni sostanziali, esse si pongono
dunque su un piano diverso e superiore rispetto alle leggi da emanare
nelle  materie  da  esse  regolate; ma non per questo si puo' ad esse
attribuire  il  carattere  di  leggi  costituzionali» (v. Corte cost.
n. 30/1959 cit.).
    E'  stato  infatti  osservato  «esse sono, per definizione, norme
dettate per "l'attuazione" di norme costituzionali. Se esse risultano
conformi   alla   norma   costituzionale  (secundum  legem),  nessuna
questione  puo'  essere sollevata; ma se, al contrario, si dimostrano
in  contrasto  con  la  norma  costituzionale, della quale dovrebbero
rendere  possibile l'attuazione (contra legem), non si comprende come
e  perche'  potrebbero  sottrarsi  ad una pronuncia di illegittimita'
costituzionale.  Piu'  delicati possono essere i casi, nei quali, pur
non prospettando un manifesto contrasto, la norma di attuazione ponga
un  precetto  nuovo, non contenuto neppure implicitamente nella norma
costituzionale  (praeter  legem): casi, che mal si prestano ad essere
classificati preventivamente in via generale e che possono richiedere
piuttosto  decisioni  di  specie. E' chiaro, comunque, che ai fini di
tali  decisioni,  non si potra' prescindere dal criterio fondamentale
stabilito dallo stesso costituente (art. 2 della legge costituzionale
9  febbraio 1948. n. 1), che ha affidato alla Corte costituzionale il
compito  di  garantire  che  non  avvengano  invasioni nella sfera di
competenza  assegnata  alla  regione  dalla  Costituzione.  A meno di
attribuire  alle  norme  di  attuazione natura ed efficacia di vere e
proprie  norme  costituzionali  (il  che,  in  verita',  non e' stato
sostenuto   neppure   dall'Avvocatura   generale   dello  Stato),  la
competenza   della   Corte   ad  esaminarle  e  a  pronunciare  sulla
legittimita'  costituzionale di esse non puo' essere posta in dubbio»
(v. Cort cost. n. 14/1956).
    Va anche ricordato, su questo punto, che la riserva dell'art. 108
della  Costituzione  concerne «la disciplina di tutto quanto concerne
l'amministrazione  della giustizia, sia riguardo alla istituzione dei
giudici,  che  alle  loro  funzioni ed alle modalita' del correlativo
esercizio» (v. Corte cost. n. 4/1956).
    Tale  principio e' stato sempre tenuto fermo dalla giurisprudenza
della  Corte  che  ne  ha  fatto applicazione numerose volte anche in
Sicilia  (v.  Corte  cost. n. 154/1995, n. 115/1972). In proposito va
ricordato   -   come   gia'   osservato   -   che   alle  censure  di
costituzionalita'  riguardo  alla  giurisdizione  non si e' sottratto
neppure  lo  stesso  statuto  siciliano  di cui sono stati dichiarati
incostituzionali   gli  artt. 26  e  27  sulla  giurisdizione  penale
dell'Alta Corte (Corte cost. n. 6/1970).
    Premesso  poi  che  la  funzione  delle  norme  di attuazione, in
Sicilia  come  nelle  altre  regioni a statuto speciale, consiste nel
rendere  possibile  il  trasferimento  alle  regioni delle funzioni e
degli  uffici nelle materie di competenza (v. Corte cost. n. 17/1961,
n. 14/1962,  n. 180/1980),  va  sottolineato  che  la  giurisprudenza
costituzionale ha riconosciuto che, nella specie, l'articolo 23 dello
statuto siciliano, a differenza dello statuto del Trentino-Alto Adige
non  contiene  ne'  una  delega  alle  norme di attuazione, ne' alcun
accenno   alla  nomina  di  giudici  laici  regionali  «poiche'  esso
stabilisce  soltanto  che gli organi giurisdizionali centrali debbano
avere  in  Sicilia  le sezioni per gli affari concernenti la regione»
(Corte  cost.  189/1992)  ed  inoltre «l'art. 23 del r.d.l. 15 maggio
1946   n. 455   attiene   soltanto   al  decentramento  degli  organi
giurisdizionali  centrali  per  gli  affari  concernenti  la regione»
(Corte cost. n. 61/1975).
    Se  tutto  cio'  esatto,  l'art. 2,  quarto comma, lettera b), il
sesto  comma  e  il  successivo  ottavo comma del d.lgs. n. 654/1948,
laddove  prevedono  la presenza e la designazione di laici regionali,
solo  apparentemente  rivestono  il carattere di norme di attuazione,
ma, in realta', rientrano in quella categoria individuata dalla Corte
costituzionale  nelle  decisioni  14/1956  e 20/1956 e censurabile in
sede di giudizio di costituzionalita'.
    Si  tratta  di  norme  che,  sotto  l'apparenza di norme secundum
legem,  in  realta',  in  primo luogo contrastano con le disposizioni
statutarie  e,  comunque  non  sono  dettate dalla necessita' di dare
attuazione a queste disposizioni.
    Cio'   si   evince   con   chiarezza   poiche'   il   legislatore
costituzionale  aveva  limitato  la  autonomia  regionale  alla  sola
localizzazione in Sicilia degli organi delle giurisdizioni superiori,
come  riconosciuto  nelle citate decisioni della Corte costituzionale
189/1992 e 61/1975.
    17.  -  Il  decreto  legislativo  654/1948  appare  quindi contra
statutum  poiche',  nell'istituire in Sicilia «un organo di giustizia
amministrativa  caratterizzato da una propria fisionomia e struttura»
(Corte  cost.  25/1976),  diverso da quello ordinario, composto anche
con  giudici  laici  di  nomina regionale, ha ampliato enormemente la
sfera di autonomia regionale, ma cio' ha fatto vulnerando non solo la
lettera,   quanto   e   soprattutto  lo  spirito  della  disposizione
costituzionale  statutaria,  che  limitava la autonomia regionale nel
solo  ambito  della presenza in Sicilia di sezioni delle magistrature
superiori,  senza  alcuna  intenzione  di alterarne la struttura e le
funzioni  (v.  in  questo  senso  l'ordinanza  6  marzo  1975 con cui
l'Adunanza  plenaria rimise alla Corte costituzionale la questione su
cui poi intervenne la dec. 25/1976).
    L'incostituzionale  ampliamento  dell'autonomia regionale operato
con le norme di attuazione di cui al d.lgs. n. 654/1948 le ha portate
di  conseguenza  a  collidere  con  i principi costituzionali sanciti
dall'art. 108  per  quanto concerne la riserva di legge statale sulla
amministrazione  della  giustizia  e, in particolare, sulla nomina di
magistrati laici.
    A  dimostrazione  poi che la materia disciplinata dall'art. 2 del
d.lgs.  654/1948,  come  sostituito  dal  d.P.R. n. 204/1978, rientra
nella   riserva   di   legge   statale   e'   sufficiente  rammentare
l'insegnamento  della Corte costituzionale nelle decisioni 585/1989 e
224/1999.
    Nella prima, che si riferiva alla Regione Trentino-Alto Adige, si
e'  affermato che, salvo il principio della proporzionale etnica, che
non  veniva  peraltro  messo  in  discussione,  spettava  allo  Stato
stabilire  le  variazioni  qualitative  e  quantitative  della pianta
organica   dei   magistrati  addetti  agli  uffici  giudiziari  della
Provincia di Bolzano.
    Nella  seconda,  con  riferimento  alla  Regione  Sicilia,  si e'
affermato  che anche la disciplina degli incarichi extraistituzionali
a  magistrati del Consiglio di Stato e della Corte dei conti operanti
in Sicilia rientra nella competenza esclusiva statale.
    Se  cio'  e' esatto, sembra evidente che con l'art. 2 delle norme
di  attuazione  dianzi  citate  si sia invasa una sfera di competenza
riservata  al legislatore statale e di qui la necessita' di acclarare
se tale invasione era o meno giustificata a livello costituzionale.
    18.  -  Peraltro,  quando  anche  le disposizioni dell'art. 2 del
d.lgs.  654/1948  volessero  qualificarsi  non  gia' contra legem, ma
semplicemente praeter legem, le conclusioni non muterebbero.
    La  legittimita'  costituzionale  delle norme di attuazione degli
statuti  speciali  praeter  legem e' infatti subordinata - ripetesi -
alla  duplice  condizione  del  dovere concordare con le disposizioni
statutarie  e con il principio dell'autonomia regionale e dell'essere
giustificate dalla finalita' di dare attuazione allo statuto.
    Nessuna   di   queste  condizioni  e'  ravvisabile  nella  nomina
regionale di giudici laici presso il C.G.A.
    Tale  previsione non concorda affatto con lo statuto (Corte cost.
189/1992  e  61/1975  cit.)  e  neppure  concorda  con  il  principio
dell'autonomia  regionale in quanto, in difetto di apposita deroga di
rango  costituzionale,  la  norma di attuazione non puo' impingere su
altri   principi   costituzionali   non  conferenti  con  l'autonomia
regionale   (Corte   cost.  150/1993).  La  Corte  costituzionale  in
proposito  ha  sempre affermato che «la capacita' additiva si esprime
pur  sempre  nell'ambito  dello  spirito  dello  statuto  e delle sue
finalita'  e  -  come  s'e' pure rilevato - nel rispetto dei principi
costituzionali» (Corte cost. 212/1984).
    La  nomina dei giudici laici di designazione regionale neppure e'
giustificata dalla necessita' di dare attuazione allo statuto.
    Tale   necessita',   com'e'  costante  insegnamento  della  Corte
costituzionale,  si  concreta  nel trasferimento di funzioni e uffici
(Corte cost. 17/1961, 14/1962, 30/1968, 180/1980) al fine di dar vita
«nell'ambito   delle   ben   definite   autonomie  regionali  ad  una
organizzazione  degli  uffici  e  delle  pubbliche  funzioni  che  si
armonizzi    con    l'organizzazione    dello    Stato    nell'unita'
dell'ordinamento amministrativo generale» (Corte cost. 14/1962).
    Orbene,  ai  fini  del  mero  trasferimento  di  una  sezione del
Consiglio   di   Stato   in  Sicilia  -  poiche'  tale  e'  l'oggetto
dell'art. 23 dello statuto siciliano (Corte cost. 189/1992 e 61/1975)
-  non  si  vede  perche'  era  necessario  cambiare  la composizione
ordinaria della sezione con l'introduzione nel collegio giudicante di
giudici  laici  di designazione regionale. E' stato infatti affermato
che  la  norma  di  attuazione,  intanto  puo'  porsi  in funzione di
integrazione   dello  statuto  «sempreche'  sia  giustificata  da  un
rapporto   di   strumentalita'   logica  rispetto  all'attuazione  di
disposizioni  del medesimo» (Corte cost. 260/1990). Diversamente, ove
il  testo  statutario  sia completo, le norme di attuazione sarebbero
prive di oggetto (Corte cost. 136/1969 cit.).
    19.  -  Il  collegio  e'  consapevole  della  circostanza  che la
questione  della  composizione  del  C.G.A.  e'  stata  ripetutamente
affrontata  anche  dalla Corte costituzionale, ma sempre sotto angoli
di valutazione diversi.
    Nella decisione n. 25/1976 la Corte costituzionale si e' occupata
del  problema,  con  riferimento  tuttavia soltanto all'art. 5, terzo
comma,   del   d.lgs.  654/1948  e  cioe'  all'istituto  dell'appello
all'Adunanza  plenaria  delle  decisioni  emesse  in  unico grado del
C.G.A.  allora,  prima della istituzione dei Tribunale amministrativo
regionale
    In  quell'occasione  la  Corte ha fatto altresi' riferimento alla
nota  decisione  delle sezioni unite della Cassazione 11 ottobre 1955
n. 2994  dichiarando  di  condividerla.  Nella anzidetta decisione la
Cassazione,  non  essendo ancora in funzione la Corte costituzionale,
si  pose  il  problema  della  costitiuzionalita'  in  generale della
istituzione  del  C.G.A.  sotto  un  duplice  aspetto:  estrinseco ed
intrinseco.
    Sotto il profilo estrinseco si trattava di accertare l'osservanza
o  meno  del principio di cui all'art. 76 della Costituzione e quindi
l'esistenza di una norma di delega, nonche' la attribuzione o meno di
una   competenza  legislativa  alla  commissione  paritetica  di  cui
all'art.  43  dello  statuto siciliano anziche' al Governo, e di tale
profilo si e' trattato in precedenza nei punti 2 e da 4 a 11.
    Sotto il profilo intrinseco, invece, la costituzionalita' si pose
con   preciso   riferimento  alla  questione  se  il  C.G.A.  dovesse
considerarsi  o  meno  un  giudice  speciale  (la cui istituzione era
vietata  ex  art. 102,  secondo  comma,  della  Costituzione)  che  i
ricorrenti  ritenevano  offrisse  minori  garanzie  rispetto  ad  una
ordinaria sezione del Consiglio di Stato.
    A  riprova  della  specialita' venivano addotte la diversita' del
numero  dei  votanti  (5  anziche'  7)  e  la  differenza  di  talune
prerogative:  inamovibilita'  dei componenti le sezioni del Consiglio
di  Stato;  temporaneita'  dei  due  membri  designati  dalla  giunta
regionale;   partecipazione   al  collegio  esclusa  per  gli  allora
referendari del Consiglio di Stato.
    La  Cassazione,  com'e'  noto,  affermo' che il C.G.A. non poteva
considerarsi   quale   giudice  speciale,  ma  soltanto  una  sezione
specializzata  del  Consiglio  di  Stato  superando in questo modo la
eccezione di incostituzionalita'.
    Ne'  in  quella  occasione  ne' successivamente e' stato posto ex
professo  alla  Corte  costituzionale  il profilo del rapporto tra la
lettera  e  lo  spirito  dell'art. 23  dello  statuto  e  le norme di
attuazione  che  prevedono  la  designazione  regionale di magistrati
laici.
    Inoltre,  se  si  esaminano i precedenti, emerge chiaramente, nel
pensiero e nelle parole della Corte costituzionale, la consapevolezza
che il d.lgs. 654/1948 sia andato ben al di la' della lettera e dello
spirito dell'articolo 23 dello statuto.
    Invero,  nella decisione n. 61/1975 la Corte - come gia' rilevato
-  afferma  che «l'art. 23 del r.d.lgs. 15 maggio 1946 n. 455 attiene
soltanto  al  decentramento degli organi giurisdizionali centrali per
gli affari concernenti la regione».
    Nella decisione 25/1976 occupandosi della indipendenza dei membri
laici  del  C.G.A.,  per  quanto qui interessa, la Corte ha affermato
testualmente  che  «certamente  l'art. 23 dello statuto della Regione
siciliana  prevedeva  semplicemente  l'istituzione  in Sicilia di una
sezione  giurisdizionale  del Consiglio di Stato ed e' innegabile che
con  il  d.lgs.  n. 654/1948  e'  stato invece istituito un organo di
giustizia  amministrativa  caratterizzato  da una propria particolare
fisionomia e struttura».
    Nella   decisione   dianzi   citata   la   Corte   ha  confermato
l'orientamento  della  Cassazione circa la natura del C.G.A. (sezione
specializzata del Consiglio di Stato e non giudice speciale, anche se
la  anzidetta  definizione fa pensare piu' ad un giudice speciale che
ad  una  sezione  specializzata)  ma,  com'e'  noto,  cio' non gli ha
impedito  di  dichiarare  incostituzionale  il  d.lgs. 654/1948 nella
parte  in  cui  (art. 3  terzo  comma)  prevedeva  la possibilita' di
rinnovo dei giudici laici.
    20.  -  Possono  pertanto  proporsi  le questioni di legittimita'
costituzionale   dell'art. 2,   quarto   comma,  lettera  b),  e  dei
successivi   commi  sesto  e  ottavo  del  d.lgs.  n. 654/1948,  come
sostituito  dal  d.P.R.  204/1978,  in rapporto agli articoli 23 e 43
dello  statuto siciliano nonche' agli articoli 108, primo comma, 102,
primo  e  secondo  comma,  e  al primo comma della sesta disposizione
transitoria della Costituzione.
    I  profili  relativi  al  rapporto  tra  gli  anzidetti commi del
decreto  legislativo 654/1948 e gli articoli 23 e 43 dello Statuto ed
all'art.   108,   primo  comma,  della  Costituzione  sono  stati  in
precedenza esposti.
    21.  - Circa il rapporto tra il decreto legislativo n. 654/1948 e
gli  articoli  102,  primo  e  secondo  comma, e 108, primo e secondo
comma, della Costituzione occorre sottolineare che anche qualificando
il  C.G.A.  come  sezione  specializzata,  la costituzione di sezioni
specializzate  innanzitutto deve essere prevista da una legge statale
come si evince dall'art. 102, primo comma, per il giudice ordinario e
dall'art. 108, primo comma, per i giudici speciali.
    Esiste,  quindi,  a  livello costituzionale, una riserva di legge
statale circa la istituzione di sezioni specializzate derogabile solo
in presenza di norma espressa di pari rilevanza costituzionale (Corte
cost. 150/1980 cit.).
    Nella  specie  -  ripetesi  -  in nessun comma dell'art. 23 dello
statuto  siciliano  e' contenuto il minimo accenno, ne' implicito ne'
esplicito  alla possibilita' che in Sicilia vengano istituite sezioni
specializzate ne' del Consiglio di Stato ne' delle altre magistrature
superiori.
    Il  decentramento puro e semplice (Corte cost. 61/1975 e 25/1976)
non  implica  affatto  di  per  se'  la  creazione ex novo di sezioni
specializzate tanto piu' che l'unico accenno di specialita' contenuto
nell'art. 23  riguarda,  come gia' osservato, il concerto tra Stato e
Regione, sulla nomina soltanto dei magistrati della Corte dei conti.
    Va   poi  rammentato  che  la  Carta  costituzionale  prevede  la
istituzione   di  sezioni  specializate  soltanto  nell'ambito  della
magistratura  ordinaria  (artt. 102 secondo comma) per cui la sezione
specializzata  viene  considerata  «non  gia' un tertium genus fra la
giurisdizione  speciale  e  quella  ordinaria,  bensi' una species di
quest'ultima»   (Corte   cost.   n. 76/1961,   394/1998  e  ordinanza
424/1989).
    E'  stato infatti rilevato che, a fronte del divieto di istituire
giudici  speciali,  la  deroga  costituzionale  a  favore  delle sole
sezioni  specializzate,  dipende  proprio  dalla loro compenetrazione
istituzionale  con  il  giudice  ordinario  (Corte  cost.  n. 4/1984,
424/1989).
    Pertanto,   se   la   istituzione  di  sezioni  specializzate  e'
consentita  dalla  Costituzione  (ex  artt. 102  secondo  comma) solo
nell'ambito  della magistratura ordinaria e cio' in ragione del nesso
organico  con  quest'ultima, se ne dovrebbe anche inferire che, cosi'
come  non  e' possibile istituire nuovi giudici speciali, alla stessa
stregua   non   sarebbe  possibile  istituire  sezioni  specializzate
all'interno dei giudici speciali attualmente esistenti.
    La questione non e' stata affrontata e risolta nell'unico caso in
cui il problema si e' posto nei confronti di un giudice speciale gia'
esistente o, meglio, gia' previsto dalla Costituzione.
    Invero,  nella  decisione  n. 49/1968  esaminando la legittimita'
costituzionale  delle  sezioni dei Tribunale amministrativo regionale
del contenzioso elettorale ex art. 2, legge 23 dicembre 1966 n. 1147,
la  Corte  costituzionale  da un lato ha escluso il loro carattere di
nuovi  giudici  speciali  in quanto «parte degli istituendi Tribunale
amministrativo regionale» ex art. 125 Cost. e non essendo vietata «la
gradualita'   nell'introduzione   di   nuovi   organi   di  giustizia
amministrativa».  Peraltro,  la  Corte  neppure  ha riconosciuto alla
anzidetta sezione elettorale la natura di sezione specializzata degli
istituendi Tribunale amministrativo regionale pervenendo ad affermare
che  si  trattava  di un'articolazione di tribunale amministrativo» e
che, in quanto tale «non richiede la presenza di giudici togati cosi'
come non sembra che la richieda questo stesso tribunale».
    In altri termini, nel pensiero della Corte sembrerebbe che mentre
si  ammette  che  il  giudice  speciale  da istituire ex novo, come i
Tribunale  amministrativo  regionale,  possa anche essere interamente
composto  da  laici  (salvo  le garanzie di indipendenza ex art. 108,
secondo  comma,  Cost.),  lasciava  impregiudicato  il  problema  se,
nell'ambito  dell'istituendo  giudice  speciale, fosse costituzionale
isituire   sezioni   specializzate  in  analogia  a  quanto  previsto
dall'art. 102, secondo comma, per il giudice ordinario.
    22.  -  In ogni caso, quando anche si pervenisse alla conclusione
che  l'art.  102, secondo comma, e l'art. 108, primo comma, Cost, non
implicano  di  per  se' il divieto di istituire sezioni specializzate
nell'ambito  del  giudice  speciale  gia' esistente, non sembra possa
dubitarsi  che  tale  possibilita'  sia  coperta  da riserva di legge
statale ex art. 102, primo comma, e 108, primo comma, Cost.
    In  tal  caso  il  vizio di costituzionalita' dei citati commi 4,
lettera  b),  sesto  e  ottavo  dell'art.  2 del d.lgs. 654/1948 come
sostituito  dal  d.P.R.  204/1978  si  porrebbe  negli stessi termini
dianzi enunciati.
    Quanto  poi  al  rapporto  tra  il  d.lgs.  654/1948  e  la sesta
disposizione  transitoria  della  Costituzione,  va rammentato che la
stessa  prevedeva  di  procedere,  entro 5 anni, alla revisione delle
giurisdizioni  speciali  eccettuando  espressamente  il  Consiglio di
Stato,  la Corte dei conti e i tribunali militari. In questa espressa
eccezione  trova  concordanza  la  formulazione  dell'art.  23  dello
statuto  siciliano  che  si limitava al mero decentramento. Il d.lgs.
654/1948  istituendo  una  sezione  specializzata ha invece apportato
sicuramente  una  modificazione all'organo giurisdizionale, ponendosi
in  contrasto  oltre  che con lo statuto siciliano anche con il primo
comma della sesta disposizione transitoria.
    23.  -  In  conclusione  sui  precedenti punti da 11 a 21 possono
essere  avanzate  nell'ordine e in subordine le seguenti questioni di
costituzionalita':
        C)  dell'art.  2, quarto comma, lettera b), nonche', in parte
qua,  dei  successivi  sesto  e ottavo comma del d.lgs. 654/1948 come
sostituito  dal d.P.R. 204/1978 in rapporto all'art. 23, primo comma,
dello  statuto  siciliano  ed  in rapporto al primo comma della sesta
disposizione   transitoria   della  Costituzione  che  esclude  dalla
revisione la giurisdizione del Consiglio di Stato.
        C1)  in  subordine  all'art. 2,  quarto  comma,  lettera  b),
nonche', in parte qua, dei successivi commi sesto e ottavo del d.lgs.
654/1948  come sostituiti dal d.P.R. 204/1978 in rapporto allo stesso
art.  23,  primo  comma, dello statuto siciliano, nonche' in rapporto
all'art.  102,  secondo  comma,  e  108, primo e secondo comma, della
Costituzione,  non essendo consentito istituire sezioni specializzate
nell'ambito dei giudici speciali.
        C2)  in  subordine  dell'art. 2,  quarto  comma,  lettera b),
nonche', in parte qua, dei successivi commi sesto e ottavo del d.lgs.
n. 654/1948  come  sostituiti  dal  d.P.R.  n. 204/1978  in  rapporto
all'art.  23  dello statuto siciliano ed all'art. 102, primo comma, e
108, primo comma, Cost. in quanto l'art. 23 dello statuto non prevede
alcuna deroga alla composizione ordinaria delle sezioni del Consiglio
di  Stato da localizzare in Sicilia, e in rapporto agli articoli 102,
primo comma, e 108, secondo comma, Cost. in quanto disciplina materia
riservata  dalla  Costituzione  alla legge statale, per cui eventuali
deroghe  a  favore dell'autonomia regionale debbono essere supportate
da  una  espressa  previsione di pari rango costituzionale che - come
piu'  volte  rappresentato  -  non  e' rinvenibile nell'art. 23 dello
statuto siciliano.
        C3)  in  subordine  dell'art. 2,  quarto  comma,  lettera b),
nonche', in parte qua, dei successivi sesto e ottavo comma del d.lgs.
654/1948 come sostituiti dal d.P.R. 204/1978 in rapporto all'art. 23,
primo  comma, dello statuto siciliano che non prevede ne' una sezione
specializzata  del  giudice  speciale ne' una composizione collegiale
diversa  da  quella ordinaria e cio' anche in relazione, quale tertia
comparationis,  all'art. 24,  primo  comma,  dello  statuto siciliano
concernente  la  composizione  dell'Alta  Corte, nonche' all'art. 23,
terzo  comma,  del  medesimo  statuto,  al coevo d.lgs. 6 maggio 1948
n. 655  concernente  la  istituzione di sezioni della Corte dei conti
per  la  Regione siciliana, ed agli artt. 90 e 91, secondo comma, del
T.U.  delle  leggi  costituzionali  di  cui  al d.P.R. 31 agosto 1972
n. 670.
    24.  -  Quest'ultima questione consente di porre sotto un diverso
angolo  di  visuale  l'affermazione,  contenuta nella decisione delle
sezioni  unite  della  Cassazione n. 2994/1955, circa la aderenza del
d.lgs. 654/1948 allo spirito dell'art. 23 dello statuto siciliano.
    In  quella  occasione la Cassazione si e' preoccupata di chiarire
che  il  C.G.A.,  per  la  sua composizione, non e' un giudice capite
deminutus quanto a quantita', qualita' e garanzia dei suoi membri.
    La  Cassazione  non  si  e' invece data carico della questione di
costituzionalita'  a  monte  e  cioe' se lo Statuto e la Costituzione
legittimavano   la   istituzione  (gia'  fortemente  criticata  dalla
dottrina   costituzionalistica  dell'epoca)  di  una  sezione,  sotto
molteplici  profili,  diversa  rispetto  a  una sezione ordinaria del
Consiglio  di  Stato,  ma si e' limitata ad affermare apoditticamente
che «le variazioni morfologiche del C.G.A. sono in funzione di quella
stessa  esigenza  di  decentramento che ha giustificato l'istituzione
dell'Ente Regione».
    A  questo  proposito  e' opportuno segnalare, anche a chiarimento
del   precedente   richiamo   che  e'  stato  operato  quale  tertium
comparationis,  al  d.lgs.  n. 655/1948, che, nella stessa data del 6
maggio  1948,  venne  adottato anche il d.lgs. 655/1948 relativo alla
istituzione  in Sicilia di una sezione giurisdizionale e di controllo
della  Corte  dei  conti. Com'e' noto, il predetto d.lgs. n. 655/1948
non   dispone  una  composizione  delle  sezioni  diversa  da  quella
ordinaria,  ma  si  e'  limitato  a ribadire (art. 10 primo comma) la
previsione  statutaria (art. 23 terzo comma) della intesa tra Stato e
Regione  sulla  nomina dei magistrati. Va ulteriormente rimarcato che
in  sede  di  modifica  delle norme di attuazione del predetto d.lgs.
n. 655/1948,  il  d.lgs. 18 giugno 1999 n. 200, adottato questa volta
su  determinazione  della  commissione  paritetica  ex  art. 43 dello
statuto  siciliano,  ha  introdotto all'art. 1 del d.lgs. 655/1948 un
secondo  comma  che  testualmente  dispone  che «la composizione e la
competenza  delle  sezioni  sono determinate dalle disposizioni della
legge statale».
    Orbene,  nell'unico caso in cui l'art. 23 dello statuto siciliano
prevedeva,  al  terzo  comma, un accenno di specialita', ne' le prime
norme  di  attuazione (adottate senza la procedura dell'art. 43 dello
statuto),  ne'  le  successive (adottate stavolta con il procedimento
speciale)   hanno   ritenuto   possibile   e  legittimo  alterare  la
composizione ordinaria delle sezioni della Corte dei conti.
    Sulla base delle argomentazioni addotte dalle sezioni unite della
Cassazione  nella  decisione  2994/1955  in merito alle «esigenze del
decentramento»  non  e'  agevole  giustificare  come  mai, in sede di
attuazione   della  stessa  norma  statutaria,  nei  confronti  della
clausola  di  una  qualche  maggiore  specialita' si sia mantenuta la
composizione  ordinaria  della  Corte dei conti mentre di fronte alla
clausola  dell'art. 23,  primo  comma, del tutto anodina sotto questo
profilo, si sia ritenuto di poter istituire una sezione specializzata
del Consiglio di Stato.
    Comunque,  le  vicende  del  coevo d.lgs. 655/1948 e come pure le
successive  determinazioni  della  commissione  paritetica  del  1999
allorche'  e'  stato  introdotto  il  secondo  comma  all'art. 1  del
predetto   d.lgs.   655/1948   concernente   la   Corte   dei  conti,
costituiscono  ulteriore riprova del fatto che le norme di attuazione
di  cui  al d.lgs. 654/1948 sono in palese contrasto con la lettera e
lo spirito dello statuto siciliano.
    Ne'  potrebbe  addursi, a giustificare il differente regime tra i
due  decreti  legislativi  del 6 maggio 1948, l'argomento secondo cui
non  sarebbe  ammissibile  che  nell'organo  controllante  (Corte dei
conti)  siano  presenti magistrati designati dal soggetto controllato
(Regione).  Va  infatti  sottolineato  che  l'art.  23  dello statuto
siciliano  e  il d.lgs. 655/1948 prevedono anche la localizzazione in
Sicilia  della  sezione  giurisdizionale  per  i  giudizi  di  conto,
responsabilita' e pensionistici e che neppure la composizione di tale
sezione e' stata modificata.
    La  stessa  prima  commissione  paritetica  del  1946,  come gia'
ricordato, nelle prime ed uniche norme da essa «deliberate» non aveva
modificato  la  composizione delle magistrature superiori esistenti e
certamente  non  per  superficialita'  o  per  ignoranza  delle norme
statutarie.  Invero, il Presidente della Commissione, come e' noto, e
come  aveva  lui  stesso dichiarato nella citata nota 24 maggio 1947,
era  stato  uno  dei redattori dello statuto siciliano. Tuttavia, ne'
lui,  ne'  nessun  altro  dei padri fondatori dello statuto (Giovanni
Salemi,  Mario  Mineo,  lo  stesso  Movimento  per  l'Autonomia della
Sicilia)   pensarono   mai  ad  organi  giurisdizionali  superiori  a
composizione mista paritetica.
    Com'e'  noto  lo  statuto  siciliano e' frutto di una commissione
nominata  con  decreto 1° settembre 1945 dall'Alto Commissario per la
Sicilia on. Salvatore Aldisio.
    La   commissione   prese  a  base  dei  lavori  quattro  progetti
predisposti  rispettivamente  dal  prof.  Giovanni  Salemi,  dall'on.
Giovanni  Guarino  Amella,  dal dott. Mario Mineo e dal Movimento per
l'Autonomia della Sicilia.
    Per  quanto  concerne  gli organi giurisdizionali il progetto del
prof.    Salemi    all'art. 21,    primo   comma,   cosi'   recitava:
«l'organizzazione  giudiziaria  e' stabilita con legge dello Stato ed
e' a carico dello Stato».
    Il  progetto  dell'avv. Guarino Amella all'art. 30, si limitava a
stabilire   che:   «Tutti   gli   organi  per  la  definizione  delle
controversie nel campo civile, penale, commerciale ed amministrativo,
tributario  e  sindacale e in tutti i gradi di giurisdizione, debbono
risiedere nella regione, in modo che tutte le controversie abbiano in
Sicilia il loro intero e totale svolgimento».
    Il  progetto  del dott. Mineo all'art. 37 prevedeva semplicemente
che: «lo Stato istituira' in Sicilia sezioni autonome di ciascuno dei
suoi supremi organi giurisdizionali».
    Il  progetto  del  Movimento  per  l'Autonomia della Sicilia agli
artt. 26 e 27 era cosi' formulato: art. 26 «L'ordinamento giudiziario
e' stabilito con legge dello Stato.
    La  creazione  di  nuovi  uffici  giudiziari  e  le modflche alle
circoscrizioni giudiziarie sono pero' stabilite con provvedimento del
consiglio regionale.
    Art. 27.  L'amministrazione  della  giustizia  nella regione e' a
carico del bilancio dello Stato.
    Tutti  gli organi per la definizione delle controversie nel campo
civile, penale, commerciale, amministrativo, tributario e del lavoro,
ed  in  tutti  i  gradi  di  giurisdizione,  debbono  risiedere nella
regione, in modo che tutte le controversie abbiano in Sicilia il loro
intero e totale svolgimento».
    Se  poi  si  esaminano i resoconti stenografici della commissione
(riportati in un volume, dedicato ai lavori preparatori dello statuto
dal  presidente  della  commissione  prof.  Giovanni  Salemi)  e,  in
particolare  quelli  delle  sedute  del  21  dicembre  1945  e del 22
dicembre   1945   si  trova  documentato  che  la  formula  (inserita
nell'art. 20)  «l'organizzazione  giudiziaria  e' stabilita con legge
dello  Stato» venne eliminata su proposta del consigliere Taormina il
quale  «basandosi  sul  principio  che la funzione giurisdizionale e'
riservata  allo  Stato propone la soppressione dell'art. 20 ...» ....
«La  Consulta  respinge  l'articolo. Ne dissente solo il cons. Romano
Battaglia».
    In  relazione  poi  alla  stesura  dell'art. 21  (poi divenuto il
definitivo  art. 23)  i lavori cosi' riportano: «Scartata la proposta
del  prof. Di Carlo, di votare al riguardo l'art. 27 del progetto del
"Movimento per l'autonomia", si approva nei seguenti termini il primo
comma  dell'art. 21:  "Gli organi giurisdizionali aventi oggi la sede
soltanto  in  Roma  saranno istituiti anche in Sicilia per gli affari
concernenti la Regione".
    Sul  secondo  comma  dello  stesso articolo, intervengono il prof
Majorana  e  il  cons.  Cartia;  l'uno proponendo di non assegnare al
Consiglio  di  Stato  in  Sicilia  la funzione consultiva, al fine di
soddisfare meglio alle esigenze dell'autonomia; l'altro per dare alla
Corte  dei  conti  una  composizione mista, con rappresentanti, cioe'
dello  Stato  e della regione, essendo comune ai due enti l'interesse
al controllo contabile.
    Si  invita  il  relatore a presentare la redazione definitiva del
comma.» ...
    «Il   Relatore   presenta   un'altra  formula,  piu'  semplice  e
comprensiva:  "Gli organi giurisdizionali centrali avranno in Sicilia
le  rispettive  sezioni  per gli affari concernenti la regione". Essa
viene approvata e diventa il primo comma dell'art. 21.
    Ritornando  al  secondo  comma  dello stesso art. 21, il relatore
propone  di  metterlo  in  armonia  col  primo, dicendo: "Sezioni del
Consiglio di Stato e della Corte dei conti" anziche' "Il Consiglio di
Stato  e  la  Corte  dei  conti". Alfine di attuare la rappresentanza
mista  dello  Stato  e  della  Regione  in seno alla Corte dei conti,
suggerisce  il  seguente  nuovo  comma: "I magistrati della Corte dei
conti  sono  nominati  di  accordo  dai  Governi  dello Stato e della
Regione".» (v. all. B pag. 69-70).
    Il   progetto  definitivo  venne  poi  approvato  dalla  Consulta
siciliana, poi dalla Consulta nazionale. Per quanto qui interessa non
vennero   apportati   emendamenti,   e  venne  infine  approvato  con
r.d.lgs. 15 maggio 1946, n. 455.
    Emerge  quindi con chiarezza che mai nessuno in sede di redazione
dello   statuto  penso'  ad  una  organizzazione  delle  magistrature
superiori  diversa  da quella disciplinata dalla legge statale e che,
se  vi  fu  un accenno di specialita', esso riguardo' solo il giudice
contabile.
    Pertanto,  la  affermazione  delle sezioni unite 2994/1955 dianzi
citata  secondo  cui  «le  variazioni  morfologiche del C.G.A sono in
funzione   di   quella   stessa  esigenza  di  decentramento  che  ha
giustificato  l'istituzione  dell  «Ente  Regione» non solo non trova
alcun riscontro, ma anzi e' smentita proprio dalle vicende occorse in
sede di istituzione dell'Ente Regione.
    Anche  i  lavori  preparatori  dello  statuto  confermano  quindi
testualmente  e  sul  piano  storico  quanto piu' volte in precedenza
osservato circa il carattere contra statutum del d.lgs. n. 654/1948.
    Se  poi  ci  si  chiede  come  mai,  nel 1948 in sede di norme di
attuazione  sia  stata  cosi'  radicalmente stravolta la lettera e lo
spirito tanto dello statuto siciliano, quanto della conforme proposta
della  prima  commissione paritetica, puo' farsi riferimento a coloro
che,  in  dottrina,  attribuiscono storicamente il tenore del decreto
legislativo  n. 654/1948  ad  un  accordo  personale  intercorso  tra
Ferdinando  Rocco  e  l'on. Luigi Sturzo, del quale, peraltro, sembra
non sia rimasta traccia.
    Le   questioni  di  costituzionalita'  dianzi  esposte,  appaiono
rilevanti  ai  fini  del  presente giudizio in quanto la legittimita'
costituzionale   della   composizione  del  collegio  rappresenta  un
presupposto    imprescindibile   per   l'esercizio   della   funzione
giurisdizionale (v. da ultimo Corte cost. n. 353/2002).
    Quanto  alla  non  manifesta infondatezza il collegio ritiene che
tale    requisito    sussista   sia   con   riferimento   all'assetto
costituzionale  precedente,  sia  anche  con  riferimento all'assetto
costituzionale  quale  risulta  dopo  la  modifica del titolo V della
Costituzione per effetto della legge cost. n. 3/2001.
    25.  -  Al  riguardo  va  innanzitutto premesso, alla stregua del
pacifico  insegnamento  della Corte costituzionale, inaugurato con la
sua  stessa  prima  decisione  (n. 1/1956),  che  le  norme ordinarie
ancorche'  nate  costituzionalmente legittime, possono essere affette
da illegittimita' costituzionale sopravvenuta per contrasto con nuove
norme costituzionali.
    Cio'  vale anche per lo statuto siciliano, approvato con r.d.lgs.
15 maggio  1946, n. 455, prima della Costituzione repubblicana, i cui
articoli  26  e  27  -  come  gia'  ricordato - sono stati dichiarati
incostituzionali  malgrado  la  costituzionalizzazione  dello statuto
fosse intervenuta successivamente.
    Cio'  premesso,  il  nuovo titolo V della Costituzione, ad avviso
del   collegio,   non   solo  non  fa  venir  meno  le  questioni  di
costituzionalita'  dianzi  prospettate, sub A - B - C ma rafforza, se
mai,  il  peso  delle  argomentazioni  di  cui  sopra  quantomeno  in
relazione a taluni profili elencati sub C.
    Le  questioni di costituzionalita' rubricate sub A circa il vizio
delle  norme  deleganti  i  pieni  poteri non paiono ne' scalfite ne'
influenzate  dal  nuovo  titolo  V  della  Costituzione, come pure le
questioni  sub  B che denunciano la mancata osservanza dello speciale
procedimento previsto dall'art. 43 dello statuto siciliano.
    Similmente,   mantiene   identica   rilevanza   e  non  manifesta
infondatezza  la  questione rubricata sub C concernente la violazione
del   primo   comma   della   sesta  disposizione  transitoria  della
Costituzione.
    Quanto  invece agli altri profili sub C, puo' ritenersi anche per
essi  la  perdurante  rilevanza  ed  anzi  la maggiore fondatezza per
effetto delle disposizioni del nuovo titolo V.
    Com'e'  noto,  l'articolo  10 della legge cost. n. 3/2001 dispone
che  sino all'adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni del
nuovo titolo V si applicano anche alle regioni a statuto speciale per
le  parti  in  cui prevedono forme di autonomia piu' ampie rispetto a
quelle gia' attribuite.
    Peraltro,  in  precedenza si e' denunciata la incostituzionalita'
di  talune  disposizioni  del  d.lgs.  n. 654/1948 in quanto norme di
attuazione  statutaria  contra  legem,  o  comunque, praeter legem in
quanto  in  contrasto  con  la  lettera  e  lo  spirito dello statuto
siciliano    oltreche'    con   principi   e   precise   disposizioni
costituzionali.
    Tuttavia  tali  principi  e  tali disposizioni sono contenuti nel
Titolo  IV  della  Costituzione  e  non  gia'  nel  Titolo  V  le cui
modifiche,  pertanto, dovrebbero risultare ininfluenti ai fini qui in
esame.  Tuttavia,  per  scrupolo  di  completezza, puo' esaminarsi un
profilo  che comunque non incide sulle conclusioni dianzi esposte ma,
se mai, le rafforza.
    Nella  ripartizione  di  competenze  stabilita dal nuovo art. 117
della Costituzione le regioni (anche quelle a statuto speciale) hanno
goduto di un significativo ampliamento della loro sfera di competenza
legislativa  che, ai sensi del quarto comma dell'attuale art. 117, e'
divenuta   generale   in   via  residuale  invertendosi  l'originario
criterio.
    Resta   da   chiedersi   se,  a  fronte,  dell'ampliamento  delle
competenze legislative non debba contrapporsi, anche per le Regioni a
statuto speciale, la riserva di legislazione esclusiva a favore dello
Stato cosi' come elencata all'art. 117, secondo comma (v. ricorso del
Presidente   del  Consiglio  dei  ministri  avverso  la  legge  della
Provincia  Autonoma  di  Bolzano  15 novembre 2002, n. 14 in Gazzetta
Ufficiale prima serie speciale 26 marzo 2003, n. 12).
    Al  riguardo,  la Corte ha pronunciato alcune decisioni in cui si
afferma  che  il nuovo Titolo V non si applica alle regioni a statuto
speciale  se  non  nelle  parti che prevedono forme di autonomie piu'
ampie rispetto a quelle gia' attribuite (v. Corte cost. ord. 377/2002
decisioni   408/2002,  533/2002,  48/2003,  103/2003).  Tuttavia,  in
un'altra  decisione, concernente la Regione Sardegna, e in materia di
caccia  in  cui tale, regione gode di potesta' normativa primaria, le
argomentazioni  della  Corte appaiono molto piu' articolate in quanto
si  e' affermato (con riferimento espresso al nuovo Titolo V) che «la
disciplina    statale    rivolta    alla   tutela   dell'ambiente   e
dell'ecosistema   puo'   incidere  anche  sulla  materia  caccia  pur
riservata  alla  potesta'  legislativa  regionale,  ove  l'intervento
statale  sia rivolto a garantire standard minimi e uniformi di tutela
della  fauna  trattandosi  di  limiti  unificanti  che  rispondono ad
esigenze  riconducibili ad ambiti riservati alla competenza esclusiva
dello Stato» (Corte cost. n. 536/2002).
    Sembrerebbe quindi che la Corte costituzionale abbia riconosciuto
che  nel  nuovo  assetto  delle competenze legislative, delineato dal
nuovo  Titolo  V, le materie riservate in via esclusiva allo Stato si
impongono  anche alle competenze legislative primarie delle regioni a
statuto speciale, nel senso cioe' di poter fissare a quelle autonomie
regionali nuovi limiti prima inesistenti.
    Se   tale   orientamento  dovesse  consolidarsi  sarebbe  agevole
argomentare  dalla  riserva  di  legge  statale  di cui all'art. 117,
secondo  comma, lettera l), nel senso che i vizi di costituzionalita'
in  precedenza  denunciati  sub  C1,  C2,  C3 non solo non sono stati
superati,  ma  si  dovrebbero  ritenere  ulteriormente confermati. Al
limite, qualora i dubbi di costituzionalita' dianzi esposti potessero
essere superati con riferimento al precedente assetto costituzionale,
gli   stessi   dovrebbero  essere  inevitabilmente  riconosciuti  con
riferimento al nuovo.
    Invero,   la   lettera  l)  dell'art. 117,  secondo  comma  della
Costituzione,   pone  sullo  stesso  piano  e  nella  stessa  riserva
esclusiva  di legge statale, la giurisdizione e le norme processuali,
l'ordinamento   civile   e  penale,  ed  infine  anche  la  giustizia
amministrativa.
    Pertanto,  il combinato disposto degli articoli 102, primo comma,
108,  primo  comma  e  117 secondo comma, lettera l) dovrebbero ormai
dimostrare,  in modo inconfutabile, che le norme di attuazione di cui
al  d.lgs. n. 654/1948 restano incostituzionali anche alla luce della
riforma  del  Titolo  V  e,  quando anche si volesse ritenere che non
fossero   affette   ab  origine  da  vizi  di  costituzionalita'  con
riferimento  al  precedente assetto costituzionale, sarebbero affette
da   incostituzionalita'   sopravvenuta   alla   luce   della  chiara
disposizione   dell'art. 117,  secondo  comma,  lettera  l).  Invero,
essendo  la  materia della giurisdizione riservata costituzionalmente
in  via  esclusiva  allo  Stato,  richiederebbe anche essa, a maggior
ragione,  una  deroga  di  pari  livello  costituzionale  per  essere
disciplinata in sede di attuazione delle autonomie regionali.
    26.  -  Pertanto in relazione alle questioni elencate sub C1, C2,
C3, puo' essere posta anche la seguente:
        C4)   in   subordine   qualora   si   potesse   ritenere   la
costituzionalita' dell'art. 2, quarto comma del d.lgs. n. 654/1948 in
relazione  alle  questioni  sollevate ai precedenti punti sub C1, C2,
C3, si ripropongono le stesse questioni in rapporto anche al disposto
dell'art. 117, secondo comma, lettera l) della Costituzione.
    Potrebbe  invece  consolidarsi  una  diversa esegesi dell'art. 10
della legge cost. n. 3/2001, nel senso cioe' che le materie riservate
in  via  esclusiva  allo Stato dal nuovo art. 117, secondo comma, non
possono  costituire  un  limite ai piu' ampi poteri che, nelle stesse
materie,  sono  previsti  negli statuti speciali, ma, anche in questo
caso,  permarrebbe la rilevanza dei dubbi di costituzionalita' dianzi
enunciati e la loro non manifesta infondatezza.
    Invero, come si e' in precedenza dimostrato, anche nel precedente
assetto   costituzionale,  la  materia  della  giurisdizione  era  di
esclusiva  competenza  statale,  e  tale permane anche nel vigore del
nuovo Titolo V che non ha modificato gli articoli 102, primo comma, e
108,  primo  comma. In proposito la Corte costituzionale ha affermato
che  il  potere di disciplinare l'esercizio della giurisdizione «alla
Regione  Sardegna  come  alle  altre  Regioni  a  statuto speciale od
ordinario  non  spetta, restando invece riservato alla competenza del
legislatore,  statale  (cfr.  sentenza  115,  del  1972;  e  v.  oggi
l'art. 117,   secondo  comma,  lettera  l)  della  Costituzione  come
sostituito  dalla  legge costituzionale n. 3, del 2001)» (Corte cost.
n. 29/2003).
    In  conclusione,  quindi, anche le questioni di cui ai precedenti
punti  sub  C  appaiono  rilevanti  al  pari  di quelle sollevate nei
precedenti  punti  sub  A  e  B, in quanto, cosi' come la istituzione
dell'organo,  anche la legittimita' costituzionale della composizione
del  collegio  costituisce, di per se', un presupposto per l'adozione
di qualsivoglia decisione (v. da ultimo Corte cost. n. 353/2002).
    Peraltro,  di  fronte  alla tassativita' della normativa in esame
neppure  e'  possibile  adottare,  in  subiecta  materia, una esegesi
costituzionale  corretta  ne'  sussiste  un diritto giurisprudenziale
vivente  che  la  supporti  (v. da ultimo Corte cost. ord. 30 gennaio
2003, n. 19).
    27.  -  Qualora  le  precedenti  eccezioni sub A, B e C venissero
ritenute  infondate, ovvero, qualora si ritenesse fondata solo taluna
delle  questioni  sub  C, ma che cio' non comporti, ex art. 27, legge
87/1953, anche la incostituzionalita' derivata dall'art. 2 del d.lgs.
n. 654/1948  come  sostituito  dal d.P.R. n. 204/1978, in tal caso si
prospetta,    in   subordine,   un   altro   profilo   di   possibile
incostituzionalita'  della normativa di attuazione di cui all'art. 2,
quarto  comma,  lettera  b), quarto comma, ottavo comma, in parte qua
come  sostituiti  dal  d.P.R.  n. 204/1978,  nonche'  dell'art. 7 del
d.lgs.  n. 654/1948  in rapporto all'art. 23 dello statuto siciliano,
ed  all'art. 3, 24, 100, terzo comma, 101 secondo comma, 108, secondo
comma  e  111,  secondo comma della Costituzione e cio' in quanto non
sono assicurate per i membri laici del C.G.A., le necessarie garanzie
di indipendenza e imparzialita'.
    Non   puo'   opporsi   a   questo   proposito   la  temporaneita'
dell'incarico,  fissato  in  sei  anni dall'art. 3, secondo comma del
d.lgs. n. 654/1948 come modificato dal d.P.R. n. 204/1978.
    Se   effettivamente  esistono  esigenze  di  imparzialita'  e  di
indipendenza  della  funzione,  il  carattere definitivo o temporaneo
dell'incarico   non  puo',  incidere  sul  corretto  esercizio  della
funzione  stessa (v. ad es. art. 7, primo comma, legge 11 marzo 1953,
n. 87 ed art. 135, sesto comma della Costituzione).
    D'altra  parte,  l'imparzialita'  e l'indipendenza sono requisiti
necessari  di  ogni  processo  e  di  ogni  giurisdizione,  sia  essa
ordinaria  che  speciale  (Corte  cost.  326/1997, 51/1998, 121/1970,
103/1964).  Pertanto, essendo attributi connaturali della funzione in
quanto tale, appare ininfluente la temporaneita' o meno dell'incarico
conferito  al  soggetto  che  esercita  la funzione stessa. In questo
senso la Corte costituzionale ha affermato che i requisiti essenziali
dell'indipendenza  debbono  essere  assicurati  ai  giudici  speciali
«almeno  per  tutto  il  periodo nel quale tali giudici esercitano le
loro funzioni» (Corte cost. 103/1964, 60/1969).
    Cio'  premesso,  occorre  preliminarmente  esaminare  i caratteri
essenziali  della  indipendenza  e  della  imparzialita'  al  fine di
accertare  se  le disposizioni in esame (art. 2, commi quarto, sesto,
ottavo  ed  art. 7,  d.lgs.  n. 654/1948)  ne  assicurino  o  meno la
sussistenza.
    In proposito, e' noto che diversi sono i concetti di indipendenza
e   di   imparzialita'   come  pure  i  parametri  costituzionali  di
riferimento  (art. 101,  secondo  comma  e  108,  secondo  comma  per
l'indipendenza  ed  ora,  ex  professo,  art. 111,  secondo comma per
l'imparzialita).
    28.  - Circa la indipendenza, intesa come indipendenza esterna, e
cioe'  rispetto  agli  altri  poteri  dello  Stato; la giurisprudenza
costituzionale non ha ritenuto che nei confronti del giudice speciale
potessero  applicarsi gli stessi parametri costituzionali di cui agli
artt. 102, 104, 105, 106, 107 fissati per il giudice ordinario.
    L'art. 108,    secondo    comma,    rimetterebbe   infatti   alla
discrezionalita'  del  legislatore  la  individuazione  dei  modi per
assicurare   l'indipendenza   dei   giudici   speciali.   Secondo  la
giurisprudenza  della  Corte  tale  requisito  sarebbe difficilmente,
configurabile  in  termini precisi, potrebbe diversificarsi a seconda
dei  periodi  storici e delle strutture statali, e dovrebbe adeguarsi
alla varieta' dei tipi di giurisdizione (Corte cost. n. 108/1962).
    E  cosi',  in questa ottica, e' stata giustificata la deroga alla
regola del concorso, ritenendo costituzionalmente legittima la nomina
basata  sulla  scelta  discrezionale da parte di quello stesso potere
che il soggetto scelto dovra' poi giudicare (Corte cost. n. 1/1967) e
sono  state cosi' giustificate anche le cosiddette «infornate» (Corte
Cost. n. 177/1973).
    Comunque,  e'  stato  ritenuto  che anche il sistema della nomina
scelta non si pone in contrasto con la Costituzione, a condizione che
dopo  la  nomina  sia  rescisso ogni legame con l'autorita' nominante
(Corte cost. 107/1994, 18/1989, 49/1989, 281/1989, 196/1982).
    La  Corte  infatti  ha  affermato  che l'indipendenza dei giudici
speciali  va ravvisata piuttosto che nelle modalita' di nomina, nelle
modalita' con cui si svolge la funzione (Corte cost. 1/1967, 196/1982
e 266/1988).
    Essi,   pertanto,   debbono   godere   di  adeguate  garanzie  di
inamovibilita'   e   non   possono  quindi  essere  discrezionalmente
revocati, e al potere discrezionale di revoca e' equiparato, a questi
fini,  il  potere  di  conferma nell'incarico, potere ritenuto quindi
anch'esso   costituzionalmente   illegittimo  (Corte  cost.  49/1968,
25/1976, 281/1989).
    Pertanto, dopo avere affermato che la garanzia di indipendenza e'
costituita  dalla inamovibilita' (Corte cost. 1/1967 e 177/1973, cit.
103/1964,  55/1966),  si  e'  rilevato  che  tale  garanzia  sussiste
allorche'   siano  tassativamente  indicati  i  casi  di  revoca,  di
decadenza  o  cessazione dalla carica, in modo da escludere qualsiasi
valutazione  discrezionale sul punto (Corte cost. 103/1964, 196/1982,
121/1970, 107/1994).
    Nella  decisione 196/1982 l'incostituzionalita' delle commissioni
tributarie,  e'  stata  negata, sotto questo profilo, nel presupposto
della  esistenza  di  cause  di  «decadenza  nei  casi  espressamente
previsti   dalla   legge»,   mentre,  nella  decisione  121/1970,  la
incostituzionalita'  della  giurisdizione  penale  del comandante del
porto e' stata accertata anche perche' «nelle norme che lo riguardano
non   esiste   alcuna   disposizione   relativa   all'istituto  della
inamovibilita».
    Al  riguardo,  va  osservato  che  nel  d.lgs. n. 654/1948 non e'
contenuto  alcun accenno ad eventuali poteri di revoca dell'incarico,
ovvero  a  cause  di  decadenza o cessazione dall'incarico del membro
laico di questo Consiglio e cio' a differenza di quanto previsto, non
solo  per  i magistrati ordinari, soggetti al potere disciplinare del
Consiglio  Superiore della Magistratura (v. artt. 18 e 19 r.d.lgs. 31
maggio  1946,  n. 511),  ma  anche per i magistrati onorari presso il
giudice ordinario (v. art. 9, legge 21 novembre 1991, n. 374, art. 7,
legge  22 luglio 1997, n. 276). Ai giudici tributari si applica, poi,
il  regime  di  cui agli articoli 8 e 12 del d.lgs. 31 dicembre 1992,
n. 545.  Ai magistrati laici del Consiglio di Stato e della Corte dei
conti  (e  cioe'  di  nomina  governativa) si applica il regime delle
incompatibilita',  disciplina  e  decadenze stabilito in generale per
tutti  i  magistrati  della  Corte  o  del  Consiglio (v. Corte cost.
177/1973,  1/1967  cit. ed art. 5 T.U. 1034/1924 ed ora artt. 28 e 32
della  legge  27  aprile  1982,  n. 186  ed  art. 8  T.U. 1214/1934 e
artt. 53 segg. e 76 segg. r.d. 1364/1933).
    Similmente,  anche  ai  laici  nominati in Cassazione ed ai laici
designati  nel  T.R.G.A.  dai  Consiglieri  provinciali  di  Trento e
Bolzano  si applicano in tema di decadenza, le stesse norme stabilite
per  i  togati  (art. 3,  secondo  comma, legge n. 303/1988, artt. 1,
terzo  comma  e  5,  terzo  comma  d.P.R. n. 426/1984). Perfino per i
giudici   costituzionali  sono  previste  cause  di  decadenza  e  il
procedimento  secondo  cui applicarle (v. art. 3, legge cost. 1/1948,
art. 8  legge  cost.  1/53,  artt. 14, 15, 16 Regolamento generale 20
gennaio 1966).
    Nei confronti dei giudici laici del C.G.A. non e' invece prevista
-   ripetesi  -  alcuna  causa  di  decadenza,  revoca  o  cessazione
dall'incarico  e  la  riprova e' data dalla mancata previsione, oltre
che    delle   ipotesi   anzidette,   anche   del   procedimento   in
contraddittorio  che,  come insegna la giurisprudenza costituzionale,
dovrebbe essere sempre previsto per la loro applicazione (Corte cost.
297/1993 e 107/1994).
    D'altra  parte, il carattere eccezionale stesso delle norme sulla
decadenza,  cessazione e revoca, non consente di colmare la lacuna in
via  interpretativa  con  l'applicazione estensiva od analogica delle
disposizioni  (artt. 32,  33, 34, legge 186/1982) dettate per tutti i
magistrati del Consiglio di Stato (di nomina governativa e non).
    Non   va   infatti   dimenticato  che,  una  volta  nominato,  il
consigliere  di  Stato  di  nomina  governativa  entra  nei  ruoli di
magistratura  pleno  jure  alla  pari  del  magistrato proveniente da
concorso  o  dai  Tribunale  amministrativo  regionale  ed  e' quindi
naturale  che  sia  identico,  tanto  lo  stato  giuridico, quanto il
trattamento  economico  (v.  nello stesso senso anche gli artt. 1 e 5
del d.P.R. 6 aprile 1984, n. 426 che rinviano, per i magistrati laici
del T.R.G.A. allo status di quelli ordinari).
    Per  i  giudici  laici  del  C.G.A,  questa  equiparazione non e'
prevista  ne'  sotto  il  profilo dello status (possono continuare ad
esercitare    la   professione   di   avvocato   e/o   l'insegnamento
universitario,  non  entrano  nel  ruolo ordinario, ne' in un ruolo a
parte)  ne'  sotto  il profilo economico (il loro compenso ex art. 1,
d.lgs.P.R.S. 31 marzo 1952, n. 8 e' dimidiato).
    Talune  di  queste differenze sono ascrivibili alla temporaneita'
dell'incarico  (es.  mancato  ingresso  in  ruolo)  e giustificabili,
almeno  prima  facie,  con  tale  circostanza.  Non lo sono invece la
mancata  previsione  delle  ipotesi  di revoca, decadenza, cessazione
dall'incarico, regime disciplinare e relativi procedimenti.
    Neppure potrebbe sostenersi che ai magistrati laici del C.G.A. si
applichino  tout  court  le  stesse  norme  in  materia di decadenza,
cessazione  dal  servizio  e  poteri  di  disciplina  stabilite per i
magistrati,  delle  sezioni  giurisdizionali del Consiglio di Stato e
cio' in forza del rinvio contenuto nell'art. 7 del d.lgs. n. 654/1948
secondo  cui, per il funzionamento del C.G.A. in sede consultiva e in
sede   giurisdizionale   si  osservano,  in  quanto  applicabili,  le
disposizioni vigenti per il Consiglio di Stato.
    Il  predetto  articolo  7,  non  appare  idoneo,  di  per  se', a
supportare tale conclusione, in quanto sembrerebbe piuttosto inteso a
richiamare  le  norme organizzative delle segreterie delle sezioni e,
al piu', le norme di procedura avanti il Consiglio di Stato.
    Inoltre,  il  carattere  eccezionale  delle  ipotesi  di  revoca,
decadenza  e  cessazione dal servizio inducono a concludere nel senso
della   inapplicabilita',   a   questi  fini,  dell'art. 5  del  T.U.
1054/1924, dell'art. 28 della legge n. 186/1982 e del procedimento di
cui agli articoli 32 e seguenti della stessa legge n. 186/1982.
    D'altra  parte  l'articolo  7  opera  un rinvio condizionato alle
norme dettate per il Consiglio di Stato «in quanto applicabili».
    Pertanto, quanto anche si ritenesse che il rinvio dell'art. 7 del
d.lgs.  n. 654/1948  si  potesse  estendere  fino all'art. 5 del T.U.
1054/1924,   ed   agli   articoli  28,  32  e  seguenti  della  legge
n. 186/1982,   sarebbe   dubbio  che  ai  laici  del  C.G.A.  possano
automaticamente applicarsi le sanzioni e i procedimenti ivi previsti.
    Per  quanto  concerne le sanzioni, alcune (censura, perdita della
anzianita)  sembrano  ininfluenti  nei  confronti di soggetti che non
entrano nella carriera della magistratura.
    Per  quanto  invece  concerne  i procedimenti, si osserva che nel
procedimento  di  cui  all'ultimo  comma  del  citato art. 5 del T.U.
1054/1924  non  si prevede (ne' si poteva all'epoca prevederlo) alcun
intervento   dell'autorita'   (Giunta  Regionale  siciliana)  che  ha
designato il membro laico, ma cio' neppure e' previsto negli articoli
32  e  seguenti della legge n. 186/1982, legge peraltro posteriore al
d.lgs. n. 654/1948.
    A  questi  fini  si  potrebbe  invece  ritenere  che la autonomia
regionale, cosi' come si esplica nel procedimento di designazione dei
laici del C.G.A., dovrebbe ugualmente in qualche modo intervenire nel
procedimento  di  revoca  e  decadenza  degli stessi o nell'eventuale
procedimento di irrogazione di sanzioni disciplinari estreme quali la
rimozione o la destituzione.
    In  questo  senso, dispone ad esempio, l'art. 5 , terzo comma del
d.P.R.  6 aprile  1984,  n. 426, il quale prevede «i provvedimenti di
rimozione,  sospensione  o  collocamento  a  riposo  anticipato, sono
adottati,   limitatamente  ai  magistrati  di  nomina  del  Consiglio
provinciale  di  Bolzano,  previa intesa con il Consiglio provinciale
stesso».
    Ebbene,  le  forme, le modalita', i tempi di un eventuale analogo
intervento  regionale  non  potrebbero  neppure essere ipotizzati nel
silenzio   piu'   assoluto  sia  del  T.U.  1054/1924  e  del  d.lgs.
n. 654/1948,   sia   delle   norme   di  cui  alla  successiva  legge
n. 186/1982.
    Se  quanto finora esposto e' esatto, se ne deve concludere che il
membro  laico del C.G.A., attualmente, e per la durata dell'incarico,
gode  di  uno status di inamovibilita' assoluta per cui puo' svolgere
(o   non   svolgere)  come  crede  il  suo  incarico  senza  tema  di
procedimento  disciplinare,  di  revoca o decadenza, ovvero di essere
giudicato inidoneo (per qualsiasi motivo) a continuare nell'esercizio
della sua funzione.
    Tale  conclusione, peraltro, si pone in contrasto con i parametri
costituzionali  dell'art. 3, perche' differenzia irragionevolmente il
regime  dei  laici  rispetto  al  regime dei togati, malgrado ambedue
esercitino  in  collegio la stessa funzione. Inoltre, l'esercizio del
potere  giudicante puo' risultarne non piu' equilibrato, risolvendosi
in  una  sostanziale  disuguaglianza  di  tutela delle parti rispetto
all'esercizio  della  funzione,  con violazione, sotto altro profilo,
dello stesso art. 3 nonche' dell'art. 24 della Costituzione.
    L'anzidetta  conclusione  e'  inoltre in contrasto con la riserva
assoluta  di  legge  che  deve fornire la necessaria disciplina dello
status  di  indipendenza di tutti i magistrati del Consiglio di Stato
ex  art. 100,  terzo  comma  Cost.,  e  con  le  garanzie che debbono
assistere (e di converso anche regolare) lo stato giuridico anche dei
giudici speciali (art. 108, secondo comma Cost.) e, piu' in generale,
di  tutti  i giudici, (art. 101, terzo comma Cost.) sottraendoli «nel
loro  giudizio  ad ogni volonta' esterna che non sia quella obiettiva
della  legge» (v. Corte cost. 55/1966, 60/1969, 18/1989). Alle stesse
conclusioni  si  dovrebbe  pervenire  ove si ritenesse l'esistenza in
capo al Governo o alla Regione di un potere discrezionale di revoca o
di decadenza, perche' in tal caso difetterebbe in radice il requisito
dell'indipendenza.
    Puo'    pertanto    sollevarsi    la    seguente   questione   di
costituzionalita':
        dell'art. 2, quarto comma, lettera b), e, derivatamente anche
del  successivo  quinto comma, dell'art. 3, secondo e terzo comma del
d.lgs.  n. 654/1948  come  sostituiti dal d.P.R. n. 204/1978, nonche'
dell'art. 7  del  d.lgs. n. 654/1948 in rapporto agli articoli 3, 24,
100,  terzo  comma,  101,  secondo comma, 108, secondo comma Cost. in
quanto,  non  prevedendo  ne' cause di revoca, decadenza e cessazione
dall'incarico,  ne'  sanzioni  disciplinari nei confronti dei giudici
laici  del  C.G.A.,  ne'  il  procedimento contenzioso attraverso cui
applicarle,   differenzia   irragionevolmente  il  regime  dei  laici
rispetto   ai   togati  (art. 3),  pone  le  parti  in  posizione  di
disuguaglianza  rispetto  all'esercizio della funzione (art. 3 e 24),
viola  il  principio  della  riserva  di  legge  che  deve assicurare
l'indipendenza  di  tutti i giudici (art. 100, 101, 108) e cio' anche
in  relazione  quale  tertia  comparationis  all'art. 9  della  legge
n. 374/1991,  all'art. 7  della  legge  n. 276/1997,  all'art. 12 del
d.P.R.  n. 645/1992,  agli  artt. 53, 54, 62 e 76 del r.d. 1364/1933,
agli artt. 28 e 32 della legge n. 186/1982, all'art. 3, secondo comma
della  legge  n. 303/1998, agli artt. 1, terzo comma e 5, terzo comma
del  d.P.R.  n. 426/1984,  agli  artt. 3  legge cost. 1/1948, 8 legge
cost. 1/1953, 7 legge cost. 1/1953, 14, 15, 16 Reg. 20 gennaio 1966.
    29.  -  Cio'  premesso per quanto concerne l'indipendenza, va ora
affrontato il tema relativo alla imparzialita'.
    Va a questo punto precisato che la questione di costituzionalita'
di  cui  appresso  concerne,  sotto  altro profilo, il citato art. 2,
quarto  comma  ed  il  successivo quinto comma del d.lgs. n. 654/1948
come sostituito dal d.P.R. n. 204/1978.
    Tale  questione  si  pone in subordine rispetto alla precedente e
cioe'  qualora  la  precedente  sub D dovesse essere respinta, ovvero
qualora   si   ritenesse   che  il  suo  accoglimento  non  comporti,
derivatamente,  anche  la  incostituzionalita'  del successivo quinto
comma.
    E'  noto  che  il  requisito  della  imparzialita' si differenzia
rispetto  alla  indipendenza perche' quest'ultimo attiene ai rapporti
con  gli  altri poteri dello Stato (ovvero con gli altri organi dello
stesso  potere)  mentre  il  primo vuole sottolineare la posizione di
«indipendenza  del  giudice dagli interessi presenti in giudizio» «di
assoluta   estraneita'  ed  indifferenza  e  percio'  di  neutralita'
rispetto agli interessi in causa» (v. Corte cost. n. 93/1965) «il cui
primo fondamento risiede nell'art. 3 della Costituzione» (Corte cost.
17/1965).
    A  questo  proposito  occorre  chiarire  il tipo di imparzialita'
della cui sussistenza si dubita.
    Premesso  in  generale  che  l'indipendenza  tocca l'attribuzione
della funzione, mentre l'imparzialita' attiene all'esercizio concreto
della   funzione   stessa,   e'   frequente   la   affermazione   che
l'imparzialita'  del  giudice  viene  assicurata  con  i rimedi della
astensione e ricusazione (Corte cost. 53/1970, 108/1962, 10/1964).
    Peraltro,  la stessa giurisprudenza costituzionale ha distinto la
astensione  e la ricusazione come rimedio alla imparzialita' nel caso
singolo,  dalla  imparzialita'  per  cosi'  dire istituzionale che e'
stata  ricondotta  anche  essa  al  concetto  di  indipendenza di cui
all'art. 108,  secondo  comma  Cost.,  per  quanto concerne i giudici
speciali.
    Emblematica  e'  la  vicenda  della  giurisdizione  dei consigli,
comunali  in  cui, da una posizione originaria della Corte che negava
la   dedotta   censura   di   imparzialita',  nel  presupposto  della
sufficienza  del  rimedio della astensione e ricusazione (Corte cost.
92/1962),  si  e'  passati  a  considerare  che,  al  di la' del caso
singolo, possono darsi vicende in cui il giudice sia interessato alla
materia  su cui e' chiamato a decidere (Corte cost. 93/1965 cit.). In
questo  caso, gli istituti della astensione e ricusazione non giovano
e l'imparzialita' rifluisce nella indipendenza.
    Nella successiva giurisprudenza costituzionale si e' ribadito che
il principio della «imparzialita' - terzieta' della giurisdizione ...
ha  pieno  valore costituzionale» e che «non assume la stessa valenza
attribuitagli  con  riguardo  agli  istituti della astensione e della
ricusazione  regolati  da  norme  aventi una diversa ratio» (v. Corte
cost. 51/1998, 284/1986).
    Ormai  e'  anche  chiaro  che  l'imparzialita'  trova attualmente
espresso  riferimento  costituzionale  negli  articoli 24 e 111 della
Costituzione  e  che  «la  ricusazione e' di per se' istituto volto a
porre  rimedio  a  situazioni  eccezionali  e non fisiologiche ne' di
quotidiana  verificazione  che  riguardano  di  volta  in  volta,  in
concreto,  singoli  procedimenti  e le rispettive parti» (Corte cost.
78/2002).
    Cio'  premesso,  deve  concludersi  nel  senso  che  allorche' il
profilo  della  imparzialita' trascende il caso singolo e diventa una
questione    necessaria   e   costante   per   tutta   la   attivita'
giurisdizionale che il giudice e' chiamato a svolgere, in questo caso
l'istituto  della astensione e della ricusazione non e' sufficiente e
l'ordinamento ricorre all'istituto della incompatibilita'.
    Con  questo, com'e' noto, vengono individuate le cause che, al di
la'  dei  casi  singoli,  impediscono la legittimazione ad esercitare
determinate funzioni.
    Per  quanto  concerne la funzione giurisdizionale in via generale
si  e'  ritenuto  incompatibile  con  l'esercizio  delle  funzioni di
giudice  il contemporaneo esercizio della professione di avvocato. E'
infatti  troppo  immanente  il rischio o, anche soltanto il sospetto,
che,  al  di  la'  del  caso  singolo,  il giudice sia tentato di far
prevalere  nel  collegio  giudicante determinate tesi giuridiche alle
quali  e'  interessato  come  professionista  legale.  D'altra parte,
nell'attuale  momento  storico,  il  rapporto di trasparenza che deve
esistere tra la Amministrazione della giustizia ed i cittadini impone
che  venga  assicurata la fiducia delle parti nella imparzialita' del
giudice  e che venga tutelata la sua stessa credibilita' come giudice
imparziale.
    Per   i  magistrati  ordinari  l'incompatibilita'  con  qualsiasi
professione e' sancita dall'art. 16, primo comma del r.d. n. 12/1941.
Per  i  giudici  contabili  dall'art. 76  del  r.d.  12 ottobre 1933,
n. 1364.  Per  i  giudici  amministrativi dall'art. 28 della legge 27
aprile  1982, n. 186 che rinvia alle stesse incompatibilita' previste
per i magistrati ordinari.
    Va  anche  sottolineato che il sospetto di possibile inquinamento
tra  funzione di giudice e professione di avvocato e' cosi' avvertito
dal  legislatore  da  stabilire anche una incompatibilita' di sede in
relazione alla professione di avvocato esercitata da parenti o affini
del   magistrato   (v.  art. 18,  r.d.  n. 12/1941,  come  modificato
dall'art. 7 del d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51).
    Anche   nei  casi  eccezionali  dei  giudici  onorari  presso  la
magistratura  ordinaria  si  e'  avvertita  la  necessita' di fissare
almeno   qualche   incompatibilita'   per  materia  e  per  sede  con
riferimento  alle  professioni  legali  (v.  art. 8, comma 1, lettera
c-bis e comma 1-bis e 1-ter della legge 21 novembre 1991, n. 374 come
aggiunti  dalla  legge  24 novembre  1999, n. 468; v. anche gli artt.
42-ter  e 71 del r.d. n. 1/1941 nonche' l'art. 42-quater del medesimo
r.d.  n. 12/1941,  l'art.  5  primo e secondo comma, l'art. 6 primo e
secondo  comma, nonche' il seguente comma 2-bis e 2-ter ed all'art. 9
primo comma della legge 22 luglio 1997, n. 276 nel testo originario e
nelle  successive  modifiche  ed  integrazioni  di  cui  al  d.l.  21
settembre  1998,  n. 328  e  alla  relativa  legge  di conversione 19
novembre 1998, n. 399).
    Pertanto,  anche in una legislazione chiaramente di emergenza (v.
l'epigrafe  del d.l. n. 328/1998 che giustifica l'abbassamento, sotto
questo profilo, dei requisiti per la nomina a G.O.A. con la scarsita'
delle    domande   presentate)   non   si   e'   potuto   prescindere
dall'assicurare,   nei  limiti  del  possibile,  la  separazione  tra
attivita'  di  giudice  e  quella  di avvocato. Nello stesso senso e'
emblematica  la  vicenda  dei giudici tributari laici la cui assoluta
incompatibilita'  originaria  con la professione di avvocato e' stata
progressivamente  attenuata  (v.  art. 8, primo comma, lettera i) del
d.lgs.  31  dicembre  1992, n. 545, poi sostituita dall'art. 31 della
legge 27 dicembre 1997, n. 449 e, successivamente, dall'art. 84 della
legge 21 novembre 2000, n. 342).
    Peraltro  non  possono  qui  venire in considerazione le medesime
esigenze straordinarie dinanzi ricordate in relazione alla nomina dei
G.O.A.  e  dei  giudici  tributari. Tali esigenze, come da piu' parti
sottolineato  in  Parlamento e fuori, erano e sono riconducibili alla
impossibilita'  per lo Stato di reclutare rapidamente, ma soprattutto
di sostenere l'onere finanziario connesso ad un regime di tempo pieno
per un numero cosi' rilevante di giudici.
    Cio'  premesso  va  evidenziato  che,  alla  stregua dell'art. 2,
quinto  comma  del  d.lgs. n. 654/1948, ai magistrati laici di questo
Consiglio  «e'  interdetto,  per  la durata della carica, l'esercizio
della professione innanzi alle giurisdizioni amministrative».
    Tale  norma va posta in relazione al precedente quinto comma che,
alla  lettera b), prevede che in sede giurisdizionale siano membri di
questo  C.G.A.  «quattro  giuristi  scelti  tra professori di diritto
delle universita' o tra avvocati abilitati al patrocinio innanzi alle
giurisdizioni  superiori».  Il collegio giudicante, poi, ai sensi del
successivo  quarto  comma e' composto dal Presidente, da due togati e
da due laici.
    La  questione  e'  percio'  rilevante  sia  ai  fini del presente
giudizio  e  comunque  lo e' in via generale in relazione a qualsiasi
possibile composizione del Collegio attuale e futura.
    In  proposito  va  evidenziato  in punto di fatto che attualmente
tutti  i quattro membri laici di nomina regionale di questo Consiglio
risultano    iscritti   all'ordine   degli   avvocati   di   Messina,
Caltanissetta  e  Palermo  ed esercitano la professione. (v. all. C1,
C2, C3, C4).
    Sempre  in punto di fatto, va inoltre sottolineato che per due di
essi il mandato e' contemporaneamente scaduto il 16 maggio 2002 ed e'
in  corso  la procedura di sostituzione, mentre per i restanti due la
scadenza  si  verifichera' rispettivamente il 27 ottobre 2004 e il 20
marzo 2008. (v. all. D, D1, D2, D3, D4, D5, D6).
    Pertanto, quando anche i due laici scaduti fossero sostituiti con
altri  due  non esercenti la professione di avvocato al momento della
nomina la questione rimarrebbe comunque rilevante.
    Al   riguardo   va   innanzitutto   osservato   che,  l'eventuale
declaratoria   di   illegittimita'  costituzionale  della  norma  che
consente   l'esercizio   della  professione,  quando  anche  colpisse
soltanto  due  dei  quattro  membri  laici  del  collegio, renderebbe
comunque illegittima la composizione del collegio stesso per mancanza
di  supplenti,  poiche' in tal caso non potrebbero trovare attuazione
le  norme  in  materia  di  astensione e ricusazione e cio' in quanto
l'eventuale designazione di supplenti volta per volta, per le singole
controversie,  contrasterebbe  con i principi di cui agli artt. 108 e
25  Cost.  in  tema di imparzialita' e di precostituzione del giudice
(Corte  cost.  n. 108/1962,  n. 103/1964,  n. 272/1998,  n. 419/1998,
n. 305/2002, n. 393/2002).
    In  secondo luogo il collegio osserva che la questione resterebbe
comunque  rilevante,  a  regime  e  sul piano generale, poiche' nulla
potrebbe   impedire  al  laico  regionale,  ancorche'  non  esercente
all'atto  della  nomina,  di iniziare successivamente la professione,
ovvero di riprenderla.
    In particolare, poi, per quanto concerne il presente giudizio, in
collegio sono presenti un membro laico gia' scaduto il 16 maggio 2002
ed  un  altro che verra' a scadere il 20 marzo 2008 entrambi iscritti
all'Albo  rispettivamente  di Palermo e Messina ed entrambi esercenti
la professione. (v. all. C1, C3).
    Il  problema  che  si  pone a livello costituzionale consiste nel
valutare  se il giudice - professionista legale sia compatibile con i
principi  costituzionali  dell'art. 108,  secondo  comma e 111, terzo
comma.
    La  questione  assume  anche maggiore delicatezza se si considera
che  la  disposizione  del  citato  quinto comma inibisce, in materia
amministrativa,   soltanto  l'esercizio  della  professione  in  sede
contenziosa,  ma  lascia impregiudicato l'esercizio della professione
(sempre in materia amministrativa) svolto in sede consultiva.
    In tali ipotesi, a parte gli ovvii doveri di astensione allorche'
si trattino, in udienza o in camera di consiglio, questioni su cui il
membro  laico abbia espresso il proprio parere, resta l'interrogativo
se   possa  essere  fornita  consulenza  amministrativa  al  soggetto
(pubblico  o  privato)  sul  cui  comportamento,  sempre  in  materia
amministrativa,  ancorche' su altre fattispecie, si e' poi chiamati a
decidere.
    Nella stessa ottica, peraltro, si pone la consentita attivita' di
patrocinio  delle  parti (pubbliche o private), in materie e avanti a
giurisdizioni  diverse  da  quella  amministrativa,  dal  momento che
permane  la  possibilita'  di  giudicare  il  comportamento di quelle
stesse  parti nel giudizio amministrativo e cioe' le stesse parti che
il  membro laico - professionista legale - puo' aver difeso avanti ad
altre giurisdizioni.
    Occorre  poi  sottolineare  che  la  vicenda  in esame e' diversa
rispetto  ad  altre  fattispecie  piu'  volte  esaminate  dalla Corte
costituzionale   con   riferimento   agli  estranei  che  partecipano
all'amministrazione   della   giustizia   (perche'   in  possesso  di
particolari  competenze  tecniche  ex  art. 102, secondo comma e 108,
secondo   comma   della   Costituzione  (v.  da  ultimo  Corte  cost.
n. 83/1998),  ovvero  alle  ipotesi  dei  componenti  delle  speciali
giurisdizioni domestiche (v. da ultimo Corte cost. n. 284/1986).
    La  possibilita'  per  i  primi  di  continuare  ad esercitare la
professione  o  il  lavoro  dipende,  a  seconda  dei  casi,  o dalla
saltuarieta'   dell'esercizio   della  funzione  giurisdizionale  (v.
art. 36,  legge  10 aprile 1951, n. 281 sui giudici popolari in Corte
di   Assise),   ovvero  dalla  ratio  stessa  dell'inserimento  nella
organizzazione giudiziaria (v. art. 2, r.d.l. 20 luglio 1934, n. 1404
e  successive  modifiche  circa  gli  esperti  nel  Tribunale  per  i
minorenni).
    Se  infatti la ratio dell'inserimento e' offerta dalla esperienza
in  una certa professione, e' del tutto naturale che tale professione
possa   essere  esercitata  anche  contemporaneamente  alla  funzione
giurisdizionale   (v.   Corte  cost.  dec.  n. 76/1961,  n. 108/1962,
n. 49/1989, ord. n. 424/1995).
    Nello  stesso  ordine  di  idee puo' ammettersi l'esercizio della
professione per il giudice laico presente nei collegi giurisdizionali
degli ordini professionali.
    Anche  in  questo  caso,  sia  che  si  tratti  di  giurisdizione
domestica  (come i collegi composti da soli appartenenti all'ordine),
sia   che   si  tratti  di  giurisdizione  speciale  (con  collegi  a
composizione  mista  di  laici  e  togati) o di sezioni specializzate
(Corte  cost.  ord.  n. 424/1989),  e'  evidente  che  per  il  laico
l'esercizio  della  professione  costituisce il presupposto della sua
presenza in collegio (v. Corte cost. n. 284/1986, n. 49/1989).
    Nella  specie  invece  non  ricorre  nessuna  delle  ragioni  che
giustificano  il  mantenimento della professione per il giudice laico
di questo Consiglio.
    L'esercizio  della professione di avvocato abilitato innanzi alle
magistrature  superiori  puo'  valere ai fini della valutazione della
idoneita'  a ricoprire la funzione (v. art. 106, secondo comma Cost.,
Corte  cost.  n. 177/1973,  n. 83/1998,  n. 353/2002),  ma non vale a
giustificare  il  contemporaneo  esercizio  di una professione, nella
quale  il  giudice laico deriva i suoi mezzi di sussistenza, o il suo
piu' o meno elevato tenore di vita, dagli stessi soggetti (pubblici e
privati) che poi deve giudicare.
    Nella  specie  la disposizione di cui al quinto comma dell'art. 2
del  d.lgs.  n. 654/1948 non e' riconducibile a nessuna situazione di
emergenza  del  tipo di quelle indicate in precedenza e concernenti i
G.O.A.  e  i  giudici tributari e, quindi, il contemporaneo esercizio
della  professione  di  avvocato  da  parte  del magistrato laico del
C.G.A.  non  risulta giustificabile ne' sotto questo, ne' sotto altri
profili. In particolare, non potrebbe giustificarsi, come talvolta si
e' adombrato, ne' con la temporaneita' dell'incarico e neppure con la
dimidiazione   del   trattamento  economico  ex  art. 1  del  decreto
legislativo  del  Presidente  della  Regione siciliana 31 marzo 1952,
n. 8,  poi  ratificato dall'art. 1 legge regionale siciliana 13 marzo
1953, n. 9.
    Invero,  di  fronte  alle  esigenze  di imparzialita' che debbono
essere  assicurate  per  tutti giudizi (Corte cost. n. 78/2002) e per
tutti  i  giudici  anche  temporanei  (Corte  cost.  n. 25/1976),  la
temporaneita'   dell'incarico   potrebbe   giustificare   semmai,  la
temporanea  inibizione  dell'esercizio  della professione (v. art. 7,
legge  n. 87/1953  ed  art. 135  secondo,  terzo e quarto comma della
Costituzione  nonche'  art. 1,  terzo  comma  d.P.R.  6  aprile 1984,
n. 326,  come  modificato  dal d.P.R. 17 dicembre 1987, n. 554 per il
T.R.G.A.).
    Similmente,  l'indipendenza  economica puo' essere assicurata con
la  corresponsione dello stesso trattamento economico stabilito per i
giudici  togati,  come prevede, per i laici del T.R.G.A., la norma di
attuazione  da ultimo citata (per i giudici costituzionali v. art. 6,
legge  cost.  n. 1/1957). In questa ottica, l'art. 1 del d.lgs.P.R.S.
n. 8/1952,  ratificato con legge regionale n. 9 del 1953, puo' essere
denunciato  di  incostituzionalita'  in  concorso con il quinto comma
dell'art. 2 del d.lgs. n.  654/1948 in relazione agli articoli 3, 24,
101,  primo  comma e 108, secondo comma della Costituzione, perche' a
parita'  di  funzioni  fissa un compenso inferiore rispetto ai togati
(art. 3)  perche'  non  assicura  l'indipendenza del giudice laico al
pari  di  quello  togato (101, secondo comma e 108, secondo comma) ed
infine perche' incide negativamente in tal modo sul diritto di difesa
discriminando la posizione delle parti (artt. 3 e 24).
    In  questo  senso  -  e  cioe'  per  la totale incompatibilita' -
dispongono  infatti  le norme che possono essere assunte quale tertia
comparationis  in  relazione  alle  fattispecie attualmente esistenti
della assunzione da parte di estranei alla magistratura dell'incarico
di giudice presso le giurisdizioni superiori o speciali.
    Infatti,  la  gia' citata legge 5 agosto 1998, n. 303, emanata in
attuazione   dell'art. 106,   terzo  comma  della  Costituzione,  nel
disciplinare  la  nomina  di  professori  ed  avvocati all'ufficio di
Consigliere  di  Cassazione dispone, all'art. 2, primo comma, lettera
e) che gli avvocati debbono avere cessato, ovvero essersi impegnati a
cessare  l'esercizio  dell'attivita' forense. Una volta poi nominato,
il  giudice  laico  acquisisce  lo status ed e' tenuto all'osservanza
degli  stessi doveri dei magistrati ordinari (art. 3, secondo comma),
e   gode   dello  stesso  trattamento  economico  (art. 5).  Identica
previsione  esiste, come gia' ricordato, per i Consiglieri di Stato e
della Corte dei conti di nomina governativa.
    Disposizione  analoga  si  rinviene  poi  anche  nelle  norme  di
attuazione   dello   statuto  speciale  del  Trentino-Alto  Adige  in
relazione  al  tribunale  regionale  di  giustizia  amministrativa di
quella regione.
    Invero,  per  la  sezione autonoma per la provincia di Bolzano e'
prevista  la  nomina  di avvocati iscritti nell'albo con almeno sette
anni  di  effettivo  esercizio  (art. 2,  terzo comma, lettera e) del
d.P.R.  6  aprile  1984, n. 326). Tuttavia, anche in questo caso, una
volta  nominati, ad essi «si applicano le norme sullo stato giuridico
e  sul trattamento economico dei magistrati amministrativi regionali»
(art. 5, secondo comma, d.P.R. n. 326/1984 ) e, di conseguenza, anche
il  regime delle incompatibilita' dei magistrati ordinari, cosi' come
sono  state richiamate, per i magistrati amministrativi, dall'art. 28
della legge n. 186/1982.
    Ne'  il  richiamo delle norme predette quale tertia comparationis
potrebbe  essere  contestato  con  la  circostanza  della  definitiva
assunzione  dello  status  di  magistrato  per  i  laici  nominati in
Cassazione,  nel  Consiglio  di Stato, nella Corte dei conti, e nella
sezione   di   Bolzano   del   tribunale   regionale   di   giustizia
amministrativa  e cio' a differenza dei membri laici del C.G.A il cui
incarico   e'  temporaneo.  Invero,  come  in  precedenza  osservato,
esistono  disposizioni  di  rango  costituzionale  e di attuazione di
leggi  costituzionali  secondo cui anche l'esercizio temporaneo delle
funzioni  giudicanti  comporta  il  divieto,  per  lo stesso periodo,
dell'esercizio  della  professione  di  avvocato. Oltre all'art. 135,
sesto comma della Costituzione, va ricordato che le gia' citate norme
di  attuazione  dello  statuto  del Trentino Alto Adige disciplinano,
oltre  alla  sezione autonoma di Bolzano, anche quella di Trento. Due
componenti  di  quest'ultima sono designati dal Consiglio provinciale
di  Trento,  possono  essere  scelti anche tra gli avvocati con sette
anni  di  esercizio  effettivo  e  l'incarico  ad  essi  conferito e'
temporaneo e dura nove anni.
    Tuttavia,  «per  il  periodo  di durata in carica ai predetti due
magistrati  si  applicano  le  norme  sullo  stato  giuridico  e  sul
trattamento   economico   dei  magistrati  amministrativi  regionali»
(art. 1, terzo comma, d.P.R. n. 426/1984 cit.).
    Il collegio e' consapevole dell'orientamento della giurisprudenza
costituzionale  secondo  cui il principio di uguaglianza non comporta
il  divieto  di regolamentazioni diverse dei diversi tipi di processo
(Corte  cost.  n. 78/2002  cit.)  e che le soluzioni per garantire un
giusto  processo  non debbono seguire linee direttive necessariamente
identiche  per  i  diversi tipi di processo (Corte cost. n. 38/1999).
Tuttavia,  non  puo'  non  rilevare  come  la  stessa  giurisprudenza
sopraindicata   abbia  affermato  che  «a  diversi  processi  possono
corrispondere,   in  base  a  scelte  discrezionali  del  legislatore
discipline  differenziate  anche  degli  stessi  istituti purche' non
siano  lesi  principi costituzionali come quello di imparzialita' che
debbono reggere tutti i giudizi» (Corte cost. n. 78/2002 cit.).
    A  questo  proposito  e'  opportuno sottolineare che la questione
dianzi   esaminata,  ad  avviso  del  collegio  involge  appunto  una
questione di imparzialita' istituzionale del giudice laico del C.G.A.
che  emerge per il tramite della insufficiente disciplina delle cause
di incompatibilita', e che influisce percio' sulla indipendenza.
    Il  rapporto  tra  la imparzialita' a regime (che prescinde cioe'
dal  caso  singolo)  e  l'indipendenza,  e'  stato  evidenziato dalla
giurisprudenza  costituzionale,  anche  sulla  base  del nuovo tenore
dell'art. 111 della Costituzione. La Corte costituzionale, in un caso
sottoposto  al  suo  esame  ha  cosi' deciso «La questione e' fondata
sotto  il profilo della violazione dell'art. 108 della Costituzione e
del principio di indipendenza e terzieta' del giudice, quale elemento
essenziale  alla stessa intrinseca natura della giurisdizione, che si
identifica  nella  indipendenza istituzionale del giudice e nella sua
posizione  di terzo imparziale, qualunque siano le parti in giudizio,
compresa  la pubblica amministrazione. Detto principio riguarda anche
i giudici delle giurisdizioni speciali ed i componenti c.d. laici che
partecipano  alla  amministrazione  della  giustizia»  ed inoltre «In
relazione  alle  funzioni  affidate  ai  componenti  c.d.  laici,  il
legislatore   e'  tenuto,  inoltre,  ad  assicurare  le  garanzie  di
indipendenza  (sia  giuridica  che economica) dei predetti «estranei»
(art. 108,  secondo  comma,  della  Costituzione), rafforzate ora dal
nuovo testo dell'art. 111 della Costituzione (legge costituzionale 23
novembre  1999,  n. 2)  applicabile  ad  ogni  giudice  in  qualsiasi
processo»  (Corte cost. n. 353/2002). E' bensi' vero che in quel caso
si  trattava  della  fattispecie del giudice - dipendente pubblico di
cui  la pubblica amministrazione poteva gestire lo stato giuridico ed
economico,  laddove,  nel  caso  in  esame,  si tratta di valutare la
ammissibilita' del giudice - professionista legale, ma, ad avviso del
collegio,   le  differenze  tra  le  due  fattispecie  non  rivestono
carattere sostanziale.
    Invero,  quantomeno  sotto  il  profilo economico, il rischio che
tale  fattore  possa  influire  sul corretto esercizio della funzione
giudicante  emerge non solo se dipenda da condizionamenti esterni, ma
anche,  a  fortiori,  se  dipenda  da  autocondizionamenti  dovuti al
contemporaneo  esercizio di una professione da cui il giudice trae in
tutto  o  in parte i mezzi di sostentamento o comunque da cui dipende
il suo tenore di vita piu' o meno elevato.
    Ne'  potrebbe  sostenersi  che nella specie il condizionamento e'
escluso  dalla  differenza  di  materia  trattata e cio' in quanto ai
membri  laici  del  C.G.A  e' inibito ex art. 2, quinto comma, d.lgs.
n. 654/1948 «l'esercizio della professione innanzi alle giurisdizioni
amministrative».  Innanzitutto va rilevato che la norma, mentre vieta
il  patrocinio,  non  vieta  - come gia' accennato - la consulenza in
materia  amministrativa,  la  quale  non  rientra  quindi  nel tenore
letterale del quinto comma sopra citato.
    Pertanto,  e  cio'  di fatto si e' verificato, da parte di taluni
membri  laici  di  questo  Consiglio sono state assunte consulenze di
pubbliche  amministrazioni  per  lo  piu'  aventi sede in Sicilia (v.
parere  Adunanza  generale  27 febbraio 2003, n. 273/2003). Al di la'
dell'obbligo  di  astensione,  o  delle ipotesi di ricusazione ove la
consulenza  resa  dal  membro  laico  del  C.G.A. aveva ad oggetto la
fattispecie  dedotta  in giudizio, la stessa possibilita' di assumere
la  consulenza  di  pubbliche  amministrazioni,  fa  emergere  quella
incompatibilita'  istituzionale tra funzioni di giudice e professione
di  avvocato  che  anche  le  norme  piu' permissive in materia hanno
voluto   evitare.  L'art. 8,  primo  comma,  lettera  i)  del  d.lgs.
n. 545/1992   nel   testo  attuale  prevede  che  l'esercizio,  anche
saltuario,  della  consulenza tributaria e' causa di incompatibilita'
ai fini della nomina a componente delle commissioni tributarie.
    Sotto altro profilo va poi rilevato che ormai, con sempre maggior
frequenza,  gli  interessi  della  pubblica  amministrazione  trovano
attuazione  non soltanto attraverso atti amministrativi e nell'ambito
del  processo  innanzi  al  giudice  amministrativo.  E'  sufficiente
esemplificare  richiamando  la  materia  del  pubblico  impiego ormai
demandata   al   giudice   ordinario,  laddove  i  relativi  atti  di
organizzazione   a   monte   rimangono   di  competenza  del  giudice
amministrativo.  In  campo penale non poche volte la esistenza stessa
del  reato  dipende  dalla  esistenza e legittimita' di provvedimenti
amministrativi  come  dimostra  ad  esempio la materia dell'edilizia.
Altri  esempi potrebbero essere ricondotti alla materia dei contratti
con le pubbliche amministrazioni. E' noto che non sempre l'esecuzione
del  contratto rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo
(v.  art. 23-bis,  primo comma, lettera b) legge n. 1034/1971) e che,
in  determinati  casi,  la  sorte  del  contratto  puo' dipendere sia
dall'accertamento della legittimita' o meno degli atti amministrativi
a  monte,  sia dall'accertamento della legittimita' dell'esercizio di
poteri   autoritativi   che   permangono   in   capo   alla  pubblica
amministrazione.
    Da  tutte le ipotesi dianzi elencate emerge come il giudice laico
potrebbe  avere  interesse  ad  assumere  in  collegio un determinato
orientamento  su  questioni  giuridiche  che  influiscono  su vicende
connesse o derivate e che egli tratta, ancorche' con parti diverse (o
anche  con  le  stesse), nelle sue vesti di avvocato innanzi ad altre
giurisdizioni.
    Peraltro il collegio ritiene che il solo divieto della consulenza
amministrativa  non  sia  sufficiente  ad assicurare l'osservanza dei
canoni  di  cui  agli  artt. 108,  secondo comma e 111, secondo comma
della Costituzione poiche', la possibilita' di continuare l'esercizio
della  professione  forense eventualmente in associazione, o comunque
con  studio  in  comune  con colleghi che possono patrocinare in sede
amministrativa, puo' non assicurare la sostanza e comunque non tutela
la credibilita' del giudice come terzo imparziale.
    Il  collegio  e'  consapevole della giurisprudenza costituzionale
secondo cui la eventuale patologia non incide sulla costituzionalita'
della  norma (v. Corte cost. ord. n. 377/1993, dec. n. 101/1995), ma,
in  tema  di  imparzialita'  anche la sola apparenza diviene sostanza
poiche',  mancando  l'apparenza,  anche  in assenza di patologia puo'
risultare  ugualmente compromessa, sia la fiducia del cittadino nella
esistenza di un giudice imparziale, sia l'immagine di quest'ultimo.
    Al riguardo va ribadito che le incompatibilita' (che nella specie
si  ritiene  debba  essere totale) sono poste non solo a garanzia del
cittadino che adisce il giudice, ma anche a tutela del giudice stesso
e della magistratura cui appartiene. Da un lato infatti sono volte ad
assicurare  l'esatto  adempimento  dei  doveri d'ufficio e ad evitare
ogni  possibile  confusione  tra  il ruolo del magistrato e quello di
esercente altre attivita' estranee alla funzione giurisdizionale, ma,
dall'altro,  tendono anche a salvaguardare la dignita' e il prestigio
del  singolo magistrato e dell'ordine giudiziario (Cass., sez. un. 22
aprile 1992, n. 4786).
    Il  collegio  osserva  infine,  senza volere minimamente sminuire
l'importanza  del  canone di imparzialita' in ogni grado di giudizio,
che  nell'ultimo  grado,  quale  quello  attuale,  tale  esigenza  si
evidenzia in modo ancora piu' incisivo.
    Puo'   pertanto   porsi   l'ulteriore   seguente   questione   di
costituzionalita':
        E)  dell'art. 2,  quarto  comma,  lettera b) e del successivo
quinto comma del n. 654/1948 come sostituititi dal d.P.R. n. 204/1978
limitatamente alle parole «innanzi alle giurisdizioni amministrative»
nonche'  dell'art. 1  del  decreto  legislativo  del Presidente della
Regione  siciliana  31 marzo 1952, n. 8, ratificato dall'art. 1 della
legge  regionale  siciliana n. 9 del 13 marzo 1953 e cio' in rapporto
ai  parametri  costituzionali  dell'art. 3  in  quanto,  a parita' di
funzioni  fissa  per  i  laici  un  trattamento economico inferiore a
quello  dei togati e, sotto altro profilo, in rapporto agli artt. 3 e
24,  in  quanto  il  difetto  di imparzialita', rompendo l'equilibrio
degli  stessi  interessi  in  causa,  si  traduce  in una sostanziale
disuguaglianza  delle  parti  rispetto al potere giudicante e vulnera
altresi'  diritti  di  azione e di difesa di cui all'art. 24, primo e
secondo  comma  (Corte  cost.  n. 78/2002 cit. Corte cost. n. 17/1965
cit.)  nonche'  in  rapporto  agli  artt. 101,  secondo  comma e 108,
secondo comma in quanto non assicura l'indipendenza del giudice laico
al  pari  di  quello  togato  ed  infine  in rapporto agli artt. 108,
secondo comma e 111, secondo comma Cost. in quanto ai laici non viene
assicurata   l'indipendenza   giuridica  ed  economica  (Corte  cost.
n. 78/2002,   n. 353/2002,   n. 393/2002),   e  pertanto,  non  viene
garantita  una  effettiva  imparzialita' e non viene neppure tutelata
l'immagine di imparzialita' del giudice e cio' anche con riferimento,
quale   tertia  comparationis,  all'art. 76  del  r.d.  n. 1364/1933,
all'art. 28  della legge n. 186/1982, all'art. 3, secondo comma della
legge  n. 133/1998,  agli  articoli  1,  terzo  comma, 2 terzo comma,
lettera  e),  5  terzo comma del d.P.R. n. 426/1984, all'art. 7 della
legge  n. 87/1953,  all'art. 135,  sesto  comma  della  Costituzione,
all'art. 6 della legge cost. 1/1953.
    30.   -   Si   prospetta,   infine,   un   ulteriore   dubbio  di
costituzionalita'.
    Come in precedenza accennato, con la decisione n. 5/1976 la Corte
costituzionale  ha dichiarato incostituzionale l'art. 3 secondo comma
del  d.lgs.  n. 654/1948 nella parte in cui prevedeva la possibilita'
di riconferma dei membri laici.
    Pertanto,  il  citato  d.P.R. n. 204/1978 ha modificato, in parte
qua,  il  d.P.R.  n. 654/1948 portando a sei anni la durata in carica
dei  membri  designati  dalla  Giunta  regionale  ed  escludendone la
conferma.
    A  garanzia  della  continuita' della funzione giurisdizionale e'
stato  tuttavia  previsto  che  tali membri «continuano a svolgere le
loro   funzioni  fino  all'insediamento  dei  rispettivi  successori»
(art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 654/1948, come sostituito dall'art. 2
del d.P.R. n. 204/1978).
    Ad  avviso del collegio, pur nella nuova formulazione, l'articolo
in  questione  presenta  profili  di  incostituzionalita',  anche  in
relazione  ai  medesimi  principi affermati nella richiamata sentenza
n. 25 del 1976 della Corte costituzionale.
    Invero,  la prospettiva in cui si pone la citata sentenza e' solo
parzialmente  coincidente  con  quella  attuale. Nel testo originario
dell'art. 2   del   d.lgs.  n. 654/1948  veniva  in  discussione  una
disciplina legislativa che contemplava un provvedimento discrezionale
di  conferma,  nella  cui aspettativa il componente in carica avrebbe
potuto subire condizionamenti.
    Attualmente,  vengono  in  rilievo  un  divieto  di conferma e il
ritardo  nella  adozione  di  un provvedimento (volto alla necessaria
sostituzione  del  componente  scaduto),  vale  a dire una situazione
rispetto  alla  quale non e' configurabile alcuna aspettativa in capo
al  componente  scaduto,  ma,  se  mai,  solo  un  interesse di fatto
(all'inerzia),  interesse per cosi' dire «esterno» al procedimento di
nomina del nuovo componente.
    Anche  le  problematiche  costituzionali  sono  solo parzialmente
coincidenti.
    Nel   quadro   legislativo   dell'originario  tenore  del  d.lgs.
n. 654/1948  la  problematica  investiva soltanto la indipendenza del
giudice  e  non  anche  la  continuita'  dell'organo giurisdizionale,
rispetto    alla    quale   era   indifferente   la   scelta   finale
dell'Amministrazione  regionale  (conferma  del precedente componente
ovvero nomina di un successore).
    Nell'odierno  assetto legislativo, come risulta dal comma secondo
dell'art. 3  del  decreto legislativo n. 654/1948 come sostituito dal
d.P.R. n. 204/1978, la questione di costituzionalita' coinvolge anche
e  soprattutto  la  garanzia  di  continuita'  dell'organo,  poiche',
qualora  la  continuita'  non  venisse  assicurata potrebbero restare
pregiudicati,  sia  pure  temporaneamente, i parametri costituzionali
che   assicurano   ex  art. 24,  103  e  113  della  Costituzione  la
azionabilita'  e  la  incondizionata  tutelabilita'  delle situazioni
giuridiche.
    Il  punto  merita  di  essere  evidenziato,  perche'  impone  una
comparazione  tra  due  esigenze  (la  indipendenza  del giudice e la
continuita' della funzione giurisdizionale).
    Cio'  premesso,  sembra  al  collegio che non siano prospettabili
prima  facie  soluzioni  tali  da  privilegiare l'una esigenza con il
sacrificio dell'altra o viceversa.
    In  effetti,  si  potrebbe  sostenere  che la garanzia ex art. 3,
comma  2,  del d.lgs. n. 654/1948 e successive modificazioni (proroga
del  componente  scaduto  sino  all'insediamento  del  successore) e'
insensibile  ai  ritardi  procedimentali nella nomina di quest'ultimo
(situazioni  di  crisi  istituzionale  degli  organi  competenti alla
designazione  e  alla  nomina,  rimozione  o  sospensione  degli atti
medesimi  sia in autotutela che in sede giudiziaria, rinuncia o altro
impedimento   dei  soggetti  designati,  e  piu'  in  generale,  ogni
dilazione incidente sulla dinamica procedimentale).
    La  proroga  ex  lege  e  sine die in questi casi potrebbe essere
giustificata e sortirebbe lo scopo di assicurare la continuita' della
attivita'  giurisdizionale, ancorche' in presenza di notevoli ritardi
procedimentali nella sostituzione.
    Le inerzie, ovviamente, potrebbero dare luogo a responsabilita' e
potrebbero  essere  sanzionate  in  vario  modo  dall'ordinamento, ma
potrebbero  restare  esterne  al sistema giurisdizionale di garanzia,
che   dovrebbe   comunque   operare,   essendo   diretto  a  tutelare
l'irrinunciabile interesse pubblico alla continuita' della funzione.
    Esse,  in altre parole, configurerebbero un inconveniente di mero
fatto,  incidente  nella  applicazione  della  norma  e non nella sua
legittimita' costituzionale.
    In  proposito  la  giurisprudenza costituzionale ha affermato che
«Non  incidono sulla legittimita' di una norma le eventuali carenze o
gli  inconvenienti  di  fatto  relativi  alla  sua applicazione e non
direttamente   riconducibili   (come  tali)  alla  stessa  previsione
normativa, per cui e' inammissibile la questione di costituzionalita'
che  nella  denuncia  di  siffatti  inconvenienti  si risolva» (Corte
costituzionale  decisioni  23 maggio 1995, n. 188 e 224/1999 v. anche
nello stesso senso Corte cost. ord. nn. 172/2001 e 261/2002).
    Per  contro si potrebbe affermare che la indipendenza del giudice
e' un valore presupposto alla operativita' del medesimo e da tutelare
anche  indipendentemente  da  questa, o addirittura con sacrificio di
questa.
    In punto di fatto i componenti laici nominati prima degli attuali
sono rimasti in carica dal 13 ottobre 1981 fino al 16 maggio 1996 (v.
all.  E,  E1,  E2,  E3,  E4, D, D1, D2, F). Hanno quindi mantenuto la
carica  per  ben  quindici  anni  anziche'  sei  malgrado  i ripetuti
solleciti  rivolti  alla regione dal Presidente del C.G.A. dell'epoca
(v.  all.  G,  G1, G2), e cio' evidenzia i rischi connessi ad una non
compiuta  disciplina  dello  status  anche riguardo alle procedure di
cessazione dall'incarico e di sostituzione.
    Storicamente,  e'  poi  noto  che  il problema della prorogatio a
tempo  indeterminato  dei  membri laici del C.G.A. e della sua dubbia
costituzionalita'  venne  gia'  prospettato  (v.  C.d.S.  Ad. Gen. 27
ottobre 1977, n. 40), ma la commissione paritetica di quell'epoca (v.
determinazione 21 febbraio 1978) sul punto non aderi' al parere della
Adunanza  generale specialmente per evitare che venisse vanificata la
attivita' medio tempore svolta dal Consiglio. Tale era anche lo scopo
della  norma  transitoria  di  cui all'art. 3 del d.P.R. n. 204/1978,
scopo  che neppure venne conseguito (v. Cass. ss.uu. 7 novembre 1981,
n. 5885, 24 settembre 1982, n. 4935, 29 marzo 1983 n. 2448).
    Entrambe  le  anzidette  impostazioni,  tuttavia,  ad  avviso del
collegio,  non  sono  del  tutto  soddisfacenti, in quanto il sistema
costituzionale   della   giustizia   impone   (ove   possibile)   una
composizione delle due esigenze, entrambe a rilevanza costituzionale,
e,  nella  sua  attuale  formulazione,  la norma non appare idonea ad
assicurarle.
    Invero,  dal  momento  che  la  norma  di cui sopra dispone che i
componenti  laici  del  C.G.A.  permangano  in  carica  per  un tempo
predeterminato  (sei  anni)  e  quindi che l'esercizio della funzione
giurisdizionale  da  parte loro sia temporalmente circoscritto a tale
periodo,  un'eventuale  prorogatio dell'incarico sine die - demandato
all'arbitrio  di  chi  debba  provvedere  alla  loro  sostituzione  -
violerebbe  il  principio  della  riserva  di  legge  in  materia  di
organizzazione  giurisdizionale  di  cui all'art. 108, comma 1 Cost.,
nonche' quelli dell'imparzialita' e della indipendenza del giudice ex
articoli 100,  terzo  comma, 101, secondo comma, e 108, comma 2 Cost.
(sugli inconvenienti della prorogatio di fatto v. anche Corte cost. 4
maggio 1992, n. 208).
    La  proroga  dovrebbe  quindi  essere limitata temporalmente, con
norme  tassative  implicanti,  in caso di inosservanza, la cessazione
dell'incarico.
    D'altra   parte  dovrebbero  essere  contemporaneamente  previste
idonee garanzie per la continuita' della attivita' giurisdizionale, a
tutela  del diritto di difesa (art. 24 Cost.) e di effettivita' della
tutela giurisdizionale (art. 103 e 113 Cost.).
    Il  collegio  ritiene  che la soluzione dei dubbi costituzionali,
come   sopra  evidenziati,  non  possa  discendere  soltanto  da  una
interpretazione  dell'art. 3,  comma  2  del d.lgs. n. 654/1948 (come
modificato  dal  d.P.R.  n. 204/1978)  nel  senso  che la proroga ivi
prevista sia legittima nei soli casi in cui la designazione regionale
sia intervenuta prima della scadenza del sessennio.
    Peraltro,  in  questo  senso,  recentemente, si sono orientate le
sezioni  unite  della  Cassazione  le  quali  hanno  affermato che la
presenza  nel collegio di questo Consiglio di un membro laico scaduto
comporterebbe  un  vizio  attinente  alla giurisdizione ove non fosse
intervenuta,  anteriormente  alla scadenza, la designazione del nuovo
componente  laico  da  parte  della Giunta regionale siciliana (Cass.
ss.uu. 12 luglio 2002, n. 10167).
    In   proposito,  pur  concordando  pienamente  con  la  anzidetta
decisione  sul  fatto  che  la proroga sine die puo' collidere con il
canone costituzionale della indipendenza del giudice, non si puo' non
rilevare come l'adesione completa a tale esegesi come diritto vivente
(Corte  cost.  ord.  n. 19/2003)  non appare possibile e cio' sia per
ragioni formali (letterali), sia per ragioni sistematiche.
    Sotto   il   primo   profilo   va   rilevato  che  il  dubbio  di
costituzionalita'  potrebbe  essere  risolto  in via esegetica ove la
stessa  fosse  possibile in relazione ad un testo letterale, aperto a
diverse  soluzioni  interpretative,  dovendosi privilegiare in questo
caso,   tra  quelle  possibili,  la  soluzione  conforme  al  dettato
costituzionale (Corte cost. n. 127/2002).
    Nella  specie,  il  testo  appare  invece sufficientemente chiaro
poiche' da esso sembra emergere la volonta' di consentire una proroga
ex   lege  della  funzione  «tuttavia  continuano  a  svolgere»  sino
all'insediamento dei successori, senza ulteriori condizioni.
    La  norma,  sotto questo aspetto, sembra appunto incondizionata e
corrisponde  ad  uno schema legislativo «storico» (cfr. gia' art. 205
della legge n. 2248/1865 all. A e art. 16 primo comma del regolamento
delle  I.P.A.B.  approvato con r.d. 5 febbraio 1891, n. 99 e le altre
nchiamate da Corte cost. n. 208/1992 cit.).
    Dal  tenore  del  secondo  comma dell'art. 3 non risulta, neppure
implicitamente,  che  la  designazione regionale debba avvenire prima
della  scadenza e non piuttosto in un congruo termine prima o dopo la
scadenza.
    A  quest'ultimo proposito si deve rilevare come un breve termine,
decorrente  dalla  scadenza,  non  solo  non sembrerebbe incongruo ma
consentirebbe di ricomprendere nella sua previsione anche fattispecie
in  cui  la  cessazione dell'incarico si ricollega a cause diverse da
quelle  della ultimazione del mandato (inabilita', morte, dimissioni,
etc.),
    In  questo senso infatti dispongono sia l'art. 135, quarto comma,
della Costituzione, secondo cui «alla scadenza del termine il giudice
costituzionale  cessa  dalla carica e dall'esercizio delle funzioni»,
sia l'art. 5 della legge cost. 22 novembre 1967, n. 2 secondo cui «in
caso  di  vacanza  a  qualsiasi  causa dovuta la sostituzione avviene
entro un mese dalla vacanza stessa».
    Non   sembra   poi  trovare  un  sufficiente  supporto  letterale
nell'art. 3,  comma  2  la  esegesi, affermata nella citata decisione
n. 167/2002 del1e ss.uu. per effetto della quale si determinerebbe in
pratica la automatica cessazione dalle funzioni dei membri regionali,
alla  scadenza  del  mandato,  ove  nel  frattempo  non  ne sia stato
designato il successore.
    Invero,   verrebbe  in  tal  modo  ad  attribuirsi  alla  mancata
designazione  un  effetto  pratico decadenziale, effetto che dovrebbe
invece  risultare  in modo inequivoco atteso che le nome decadenziali
sono da considerare di stretta interpretazione.
    Inoltre, neppure la tempestivita' della designazione risolverebbe
automaticamente   anche  il  problema  (del  pari  essenziale)  della
tempestivita'  della  nomina  e  dell'insediamento  del sostituto. Il
collegio osserva infatti che ai fini di escludere ogni riflesso sulla
indipendenza,  occorre  sia  intervenuto, non solo e non tanto l'atto
iniziale  del procedimento, quanto piuttosto anche la sua conclusione
con  il  provvedimento  di  cui  all'art. 3  primo  comma  del d.lgs.
n. 654/1948.
    La  designazione,  come  peraltro  storicamente si e' verificato,
puo' infatti essere revocata, puo' essere rifiutata dall'interessato,
puo' non essere condivisa dalla Autorita' statale.
    Essenziale,  ai  fini  in  esame,  e' la circostanza che l'intero
procedimento sia concluso in tempi ragionevoli.
    I    condizionamenti,    che    possono   nascere   dal   ritardo
procedimentale,  sono  infatti  configurabili  non solo nei confronti
della  Autorita' regionale, ma anche nei confronti di quella statale.
Con riferimento alla problematica in esame possono essere richiamate,
anche in relazione al nuovo testo dell'art. 3 del d.lgs. n. 654/1948,
le  osservazioni  svolte  dalla  Corte  costituzionale nella sentenza
n. 25  del  1976.  Nella  prospettiva  di un ritardo procedimentale a
tempo   indeterminato,  l'indipendenza  dei  membri  designati  dalla
regione  non  puo'  ritenersi  assicurata  dalla  legge, non solo nei
confronti del Governo regionale, ma neppure nei confronti del Governo
centrale.
    Con  il  ritardo  nelle  designazioni la regione potrebbe infatti
condizionare  il  membro  laico, ma identico condizionamento potrebbe
essere  indotto  da  un ritardo nella nomina da parte della Autorita'
statale.
    Ne  consegue  che  l'illegittimita' costituzionale sembra potersi
configurare  non  solo  nella  parte  in  cui  l'art. 3, comma 2, non
prevede  una  tempestiva designazione regionale (con la fissazione di
un termine entro il quale la designazione deve intervenire), ma anche
e  soprattutto  laddove  non prevede un termine finale della proroga,
trascorso il quale il componente decade comunque dalla carica.
    Va  infatti considerato che la interpretazione delle ss.uu. nella
decisione  n. 10167/2002  dianzi  citata, secondo cui e' legittima la
proroga  purche' sia intervenuta tempestivamente la designazione, ove
non coordinata con altre previsioni tali da assicurare la continuita'
giurisdizionale,   potrebbe   prestare   il   fianco   a   dubbi   di
costituzionalita', non minori di quelli risolti.
    Invero,   sotto   un   primo   profilo,   il   Governo,  malgrado
l'intervenuta designazione, potrebbe non concludere il procedimento e
lasciare  in  carica  sine  die  il membro laico scaduto ed in questo
caso,  secondo  l'esegesi  dinanzi  ricordata,  il  collegio  sarebbe
legittimamente composto.
    Sotto  altro profilo la decadenza dei componenti regionali, prima
dell'insediamento  dei  successori,  potrebbe  determinare,  come  in
effetti  determinerebbe  attualmente,  una  paralisi  della giustizia
amministrativa in Sicilia, con lesione dei principi costituzionali di
cui  all'art. 24,  103,  113  della Costituzione e dell'art. 23 dello
statuto siciliano.
    Si   ripropone   pertanto  qui,  sotto  altro  profilo,  il  gia'
denunciato  vizio  degli  articoli 2  e  3  del d.lgs. n. 654/1948 in
quanto  non  prevedono e disciplinano meccanismi non solo a carattere
eccezionale   quali   la   decadenza,   la   revoca,   la  cessazione
dall'incarico,  ma  anche  fisiologico,  quale  la  sostituzione  che
avvenga   al   termine   naturale   dell'incarico  ovvero  per  cause
indipendenti da atti autoritativi o da procedimenti disciplinari.
    Una  compiuta  risposta legislativa appare quindi necessaria, per
definire  in  modo corretto l'indispensabile equilibrio normativo tra
le  due  fondamentali  istanze della indipendenza del giudice e della
continuita' della attivita' giurisdizionale.
    Peraltro,  va  sottolineato  che  l'incompletezza del sistema che
potrebbe  derivare  dalla  pronuncia  di incostituzionalita' non puo'
certo   rendere   di   per   se'   irrilevante   o  inammissibile  la
prospettazione dei dubbi dianzi elencati.
    La  questione  e' innanzitutto rilevante nel presente giudizio in
quanto  il  collegio,  come  in precedenza esposto e' composto, da un
membro  che  scadra' il 20 marzo 2008 e da altro scaduto il 16 maggio
2002  (v.  all.  D6, D1). D'altra parte il collegio non poteva essere
formato  diversamente poiche', come gia' accennato, i laici regionali
ex  art. 2  quarto comma d.lgs. n. 654/1948, sono quattro in tutto, e
il  collegio  e' sempre composto con due di loro. Orbene, dei quattro
componenti  regionali,  due  hanno  completato  il  sessennio  il  16
febbraio  2002  e  operano  solo in regime di proroga di fatto, nella
situazione    ritenuta   non   legittima   dalla   citata   decisione
n. 10167/2002   delle  sezioni  unite  della  Cassazione  poiche'  la
designazione  dei  successori e' stata disposta soltanto con delibera
della Giunta regionale siciliana n. 114 del 2 aprile 2003 (v. all. H)
e  quindi  ben oltre la scadenza del sessennio. Dei rimanenti due non
ancora  in  scadenza  uno  e' da tempo indisponibile per malattia (v.
gia'  Corte  cost.  ord.  n. 261/2002  e  all.  I).  Pertanto, con la
presenza  di  soli  tre  membri laici di cui due gia' scaduti non era
possibile  comporre il collegio prescindendo dall'uno o dall'altro di
questi  ultimi poiche' altrimenti l'attivita' giurisdizionale avrebbe
dovuto  essere  totalmente  sospesa  a  tempo indeterminato in attesa
delle  nuove  nomine e/o del rientro dalla malattia del quarto membro
laico.
    Il collegio non ha ritenuto tuttavia, per quanto dinanzi esposto,
che dalla citata pronuncia delle sezioni unite, pur condivisibile per
taluni aspetti, potesse derivare un automatico effetto decadenziale.
    Da ultimo, quindi puo' porsi la seguente questione, che rileva in
via  subordinata  rispetto  alle precedenti sub A, B, C, D, ma che si
pone  come successiva rispetto alla questione sub E qualora, respinte
le  precedenti,  ovvero  qualora  siano  ritenute  non  in  grado  di
determinare  l'incostituzionalita' derivata dell'intero art. 2 d.lgs.
n. 654/1948,  la  corte pervenga ad esaminare la precedente questione
sub E.
    Dell'art. 3,  comma  2,  del  d.P.R.  6 maggio 1948, n. 654, come
sostituito dall'art. 2, d.P.R. 5 aprile 1978, n. 204, in rapporto con
gli  articoli  3,  24, 100, 101, 103, 108 e 113 Cost. e con l'art. 23
dello  statuto  siciliano,  nella  parte  in  cui non prevede termini
tassativi,  a  pena  di  decadenza, entro i quali deve intervenire la
designazione  dei membri regionali e la nomina (o l'insediamento) dei
medesimi e non prevede per l'ipotesi del venir meno, per altre cause,
dei  membri  laici,  meccanismi  sostitutivi  tali  da  assicurare la
continuita'   della   attivita'  giurisdizionale  e  cio'  anche  con
riferimento,  quale tertia comparationis, all'art. 135, quarto comma,
Cost. ed all'art. 5 secondo comma della legge cost. 22 novembre 1967,
n. 2.
    Anche  la suesposta questione incide sulla legittima composizione
del  collegio  e  quindi  sull'esercizio  della  giurisdizione  ed e'
inoltre  rilevante  poiche' il collegio, prima di esaminare il merito
alla  controversia,  ha  ritenuto  di verificare la correttezza della
propria  costituzione  avvenuta  peraltro  in conformita' al disposto
dell'art. 2  del  predetto  d.lgs.  nn.  654/1948  (Corte  cost.  nn.
168/1963,  80/1970,  128/1974, 25/1976, 125/1977, 196/1982, 266/1988,
18/1989 e, da ultimo, 353/2002).
    Il  collegio peraltro ritiene che anche la futura possibilita' di
diversa  composizione  del  collegio  per  effetto di nuove nomine di
laici  regionali  o, per rientro in servizio del membro laico assente
per  infermita',  non  influisca  sulla rilevanza della questione qui
prospettata come pure su quella di cui alla precedente lettera E.
    Innanzitutto  si tratta di questioni che riguardano direttamente,
e a regime, il modo di essere e di funzionare di questo consiglio.
    Inoltre,   e'   opportuno   richiamare  il  pacifico  e  costante
insegnamento  della  Corte  costituzionale  in  tema di autonomia del
processo  costituzionale  secondo  cui  «il requisito della rilevanza
riguarda   solo   il   momento   genetico   in   cui   il  dubbio  di
costituzionalita'  viene  sollevato e non anche il periodo successivo
alla  remissione  della  questione  alla Corte costituzionale» (v. da
ultimo Corte cost. ord. n. 110/2000).
    Nella  medesima  ottica  e'  stato  chiarito  che «la vicenda del
processo  incidentale  di legittimita' costituzionale non puo' essere
influenzata  da  circostanze  di  fatto sopravvenute nel procedimento
principale:  e  cio'  in  quanto, svolgendosi il processo incidentale
nell'interesse  pubblico, e non in quello privato, uno volta che esso
si  sia  validamente  instaurato  a norma dell'art. 23 legge 11 marzo
1953,   n. 87,  acquisisce  una  autonomia  che  lo  pone  al  riparo
dall'ulteriore  (atteggiarsi  della  fattispecie, financo nel caso in
cui,  per qualsiasi causa, fosse venuto a cessare il giudizio rimasto
sospeso  (art. 22  delle Norme integrative per i giudizi davanti alla
Corte  costituzionale)» (Corte cost. nn. 300/1984 e v. anche dec. nn.
135/1963, 701/1988, 52/1986).
    Pertanto la rilevanza e' stata ritenuta sussistere anche nel caso
in  cui  era  a  priori  prevedibile che la pronuncia della Corte non
sarebbe  potuta intervenire in tempo utile per soddisfare l'interesse
della parte (da ultimo v. Corte cost. n. 359/1995).
    Quanto  poi  alla  ammissibilita'  delle  questioni  anzidette il
collegio   si   richiama   parimenti   all'insegnamento  della  Corte
costituzionale  (Corte  cost.  nn.  177/1973, 25/1976 e 266/1988). La
Corte ha intatti affermato che la possibilita' di una declaratoria di
incostituzionalita'  della  composizione  del  collegio  non puo' far
venir  meno,  ex  ante, la ammissibilita' e rilevanza della questione
(Corte  cost.  177/1973) poiche', in tal caso, siffatte questioni non
potrebbero mai venire sollevate (Corte cost. n. 266/1988).
    E'  stato  altresi'  chiaramente  affermato  che  la  denuncia di
incostituzionalita'  per difetto di garanzie di indipendenza non deve
essere  supportata  da  dimostrazioni  concrete  poiche',  proprio in
quanto  garanzie alla autonomia ed indipendenza del giudice, esse, ex
art. 108, secondo comma Cost. debbono essere fornite comunque e, «non
sono  condizionate  nella  loro attuazione alla concreta esistenza di
specifiche aggressioni alla predetta autonomia e indipendenza» (Corte
cost.  n. 108/1962).  Inoltre, la loro mancanza non si risolve «in un
mero  fatto  di  inerzia  del  legislatore»  ma rende le norme stesse
«censurabili  sono  l'aspetto  del difettoso esercizio dell'attivita'
organizzativa esplicita» (Corte cost. n. 108/1962, cit.).
    Infine,  in  relazione  ai  possibili  effetti delle pronuncie di
incostituzionalita'   va   rammentato   che   «l'eventuale  vuoto  di
disciplina che verrebbe a prodursi in conseguenza della dichiarazione
d'illegittimita'   costituzionale...   (vuoto   di   disciplina   che
spetterebbe  in  ogni caso al legislatore colmare)» non puo' incidere
sulla  ammissibilita'  delle  questioni  di  costituzionalita' (Corte
cost. n. 266/1988 cit.).
    Ritenuto  pertanto  che  il  giudizio  non  possa essere definito
prescindendo   dalla   risoluzione   delle   anzidette  questioni  di
costituzionalita'.
                              P. Q. M.
    Visto  l'art. 23  della  legge  11  marzo 1953, n. 87 il collegio
dichiara   rilevanti  e  non  manifestamente  infondate  le  seguenti
questioni di costituzionalita':
        A)  questione  di  costituzionalita' dell'art. 3, primo comma
del  d.lgs.lgt. n. 98/1946 con riferimento ai principi costituzionali
concernenti  le deleghe di poteri anteriori alla Costituzione, e cio'
per  indeterminatezza  delle  materie  di  delega,  da  cui discende,
derivatamente, la incostituzionalita' degli articoli 1 e seguenti del
d.lgs. n. 654/1948;
        A1)  in  subordine, ove si ritenga che il d.lgs. n. 654/1948,
come  risulta  nel  preambolo  dal  solo  richiamo  alla quindicesima
disposizione   transitoria,   sia  stato  emanato  soltanto  in  base
all'art. 4  del  d.l.lgt.  n. 151/1944,  va  posta  la  questione  di
costituzionalita'  di tale norma, e, derivatamente degli articoli 1 e
seguenti del d.lgs. n. 654/1948 negli stessi termini esposti sub A;
        A2)  in  subordine,  ove si ritenga che il d.lgs. n. 654/1948
sia  stato  emanato  in  base  al  combinato disposto dell'art. 4 del
d.l.lgt.  n. 151/1944  e  dell'art. 3,  primo  comma  del  d.lgs.lgt.
n. 98/1946,  va posta la questione di costituzionalita' di ambedue le
disposizioni  anzidette e, derivatamente degli artt. 1 e seguenti del
d.lgs. n. 654/1948 negli stessi termini esposti sub A;
        A3)  in  ulteriore  subordine,  qualora si volesse attribuire
natura   costituzionale  al  d.l.lgt.  n. 151/1944  e  al  d.lgs.lgt.
n. 98/1946,  va  posta  la  questione di costituzionalita' del d.lgs.
n. 654/1948,  per  eccesso  di  potere  in  rapporto  all'art. 4  del
d.l.lgt. n. 151/1944, e per eccesso di delega in rapporto all'art. 3,
primo  comma  del  d.lgs.lgt.  n. 98/1946 e cio' in quanto emanato in
materia  costituzionale  di  competenza dell'Assemblea costituente e,
derivatamente degli articoli 1 e seguenti del d.lgs. n. 654/1948;
        B)  va  posta  poi  la  questione  di costituzionalita' degli
articoli 1,  3  primo comma, 4, 5, 6, 7, 8, 9, del d.lgs. n. 654/1948
in   rapporto  all'art. 43  dello  Statuto  della  Regione  siciliana
convertito  in  legge  costituzionale  n. 2/1948 in quanto per la sua
adozione non e' stato osservato il procedimento previsto dal suddetto
art. 43;
        B1)  in  subordine, ove si ritenga che il d.lgs. 654/1948 sia
stato   emanato   in  base  all'art. 4  del  d.l.lgt.  n. 151/1944  e
dall'art. 3, primo comma del d.lgs.lgt. n. 98/1946 ed a tali norme si
attribuisca   natura  costituzionale,  si  solleva  la  questione  di
costituzionalita'  delle  disposizioni  anzidette  in  rapporto  alla
sopravvenuta  norma  costituzionale  di cui all'art. 43 dello Statuto
siciliano  e,  derivatamente degli articoli 1, 3 primo comma 4, 5, 6,
7, 8, 9, del d.lgs. n. 654/1948;
        C)  dell'art.  2, quarto comma, lettera b), nonche', in parte
qua,  dei successivi sesto e ottavo comma del d.lgs. n. 654/1948 come
sostituito  dal  d.P.R.  n. 204/1978  in  rapporto all'art. 23, primo
comma  dello  Statuto  siciliano  ed in rapporto al primo comma della
quarta  disposizione transitoria della Costituzione che esclude dalla
revisione la giurisdizione del Consiglio di Stato;
        C1)   in  subordine  all'art. 2,  quarto  comma,  lettera  b)
nonche', in parte qua, dei successivi commi sesto e ottavo del d.lgs.
n. 654/1948  come  sostituiti dal d.P.R. n. 204/1978 in rapporto allo
stesso  art. 23,  primo  comma  dello  Statuto  siciliano  nonche' in
rapporto   all'art. 102,  primo  comma,  e  108,  primo  comma  della
Costituzione,  non essendo consentito istituire sezioni specializzate
nell'ambito dei giudici speciali;
        C2)  in  subordine  dell'art. 2,  quarto  comma,  lettera b),
nonche', in parte qua, dei successivi commi sesto e ottavo del d.lgs.
n. 654/1948  come  sostituiti  dal  d.P.R.  n. 204/1978  in  rapporto
all'art. 23  dello  Statuto siciliano ed all'art. 102, primo comma, e
108,  primo comma Cost. in quanto l'art. 23 dello Statuto non prevede
alcuna deroga alla composizione ordinaria delle sezioni del Consiglio
di  Stato da localizzare in Sicilia, e in rapporto agli articoli 102,
primo  comma  e  108 secondo comma Cost. in quanto disciplina materia
riservata  dalla  Costituzione  alla legge statale, per cui eventuali
deroghe  a  favore dell'autonomia regionale debbono essere supportate
da una espressa previsione di pari rango costituzionale;
        C3)  in  subordine  dell'art. 2,  quarto  comma,  lettera b),
nonche', in parte qua, dei successivi sesto e ottavo comma del d.lgs.
n. 654/1948  come  sostituiti  dal  d.P.R.  n. 204/1978  in  rapporto
all'art. 23  primo  comma dello Statuto siciliano che non prevede ne'
una  sezione  specializzata del giudice speciale ne' una composizione
collegiale  diversa  da  quella  ordinaria e cio' anche in relazione,
quale  tertia  comparationis,  all'art. 24, primo comma dello Statuto
concernente  la  composizione  dell'Alta  Corte, nonche' all'art. 23,
terzo  comma,  del  medesimo  Statuto, al coevo d.lgs. 6 maggio 1948,
n. 655  concernente  la  istituzione di sezioni della Corte dei conti
per la Regione siciliana, ed all'art. 90 e 91, secondo comma del T.U.
delle leggi costituzionali di cui al d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670;
        C4)   in   subordine,   qualora   si   potesse   ritenere  la
costituzionalita'  dell'art. 2,  quarto comma, del d.lgs. n. 654/1948
in relazione alle questioni sollevate ai precedenti punti sub C1, C2,
C3, si ripropongono le stesse questioni in rapporto anche al disposto
dell'art. 117, secondo comma, lettera l) della Costituzione;
        D)  dell'art.  2,  quarto comma, lettera b), e, derivatamente
anche del successivo quinto comma, dell'art. 3, secondo e terzo comma
del  d.lgs.  n. 654/1948  come  sostituiti  dal  d.P.R.  n. 204/1978,
nonche'  dell'art. 7 del d.lgs. n. 654/1948 in rapporto agli articoli
3, 24, 100, terzo comma, 101, secondo comma, 108, secondo comma Cost.
in quanto, non prevedendo ne' cause di revoca, decadenza e cessazione
dall'incarico,  ne'  sanzioni  disciplinari nei confronti dei giudici
laici  del  C.G.A.,  ne'  il  procedimento contenzioso attraverso cui
applicarle,   differenzia   irragionevolmente  il  regime  dei  laici
rispetto   ai   togati  (art. 3),  pone  le  parti  in  posizione  di
disuguaglianza  rispetto  all'esercizio della funzione (art. 3 e 24),
viola  il  principio  della  riserva  di  legge  che  deve assicurare
l'indipendenza  di  tutti i giudici (art. 100, 101, 108) e cio' anche
in  relazione  quale  tertia  comparationis  all'art. 9  della  legge
n. 374/1991,  all'art. 7  della  legge  n. 276/1997,  all'art. 12 del
d.P.R.  n. 645/1992  agli  artt. 53,  54, 62 e 76 del r.d. 1364/1933,
agli  articoli 28  e  32 della legge n. 186/1982, all'art. 3, secondo
comma,  della  legge  n. 303/1998, agli articoli 1, terzo comma, e 5,
terzo comma del d.P.R. n. 426/1984, agli artt. 3, legge Cost. 1/1948,
8,  legge  Cost.  1/1953,  7,  legge Cost. n. 1/1953, 14, 15, 16 Reg.
20 gennaio 1966.
        E)  dell'art. 2,  quarto  comma, lettera b), e del successivo
quinto  comma  del  d.lgs.  n. 654/1948  come  sostituiti  dal d.P.R.
n. 204/1978  limitatamente  alle  parole  «innanzi alle giurisdizioni
amministrative»  nonche'  dell'art. 1  del  decreto  legislativo  del
Presidente  della  Regione  siciliana  31 marzo 1952, n. 8 ratificato
dall'art. 1  della legge regionale siciliana n. 9 del 13 marzo 1953 e
cio' in rapporto ai parametri costituzionali dell'art. 3 in quanto, a
parita'  di  funzioni  fissa  per  i  laici  un trattamento economico
inferiore  a  quello  dei  togati e, sotto altro profilo, in rapporto
agli  artt. 3 e 24, in quanto il difetto di imparzialita', si traduce
in  una  sostanziale  disuguaglianza  delle  parti rispetto al potere
giudicante  e  vulnera  altresi'  diritti  di  azione e difesa di cui
all'art.   24,  primo  e  secondo  comma  nonche'  in  rapporto  agli
articoli 101,  secondo  comma  e  108,  secondo  comma  in quanto non
assicura l'indipendenza del giudice laico al pari di quello togato ed
infine in rapporto agli artt. 108, secondo comma e 111, secondo comma
Cost.   in  quanto  ai  laici  non  viene  assicurata  l'indipendenza
giuridica ed economica, e pertanto, non viene garantita una effettiva
imparzialita'   e   non   viene   neppure   tutelata   l'immagine  di
imparzialita'  del giudice e cio' anche con riferimento, quale tertia
comparationis,  e all'art. 76 del r.d. n. 1364/1933 all'art. 28 della
legge  n. 186/1982 all'art. 3, secondo comma della legge n. 303/1998,
agli  articoli 1,  terzo  comma, 2, terzo comma, lettera e), 5, terzo
comma  del  d.P.R.  n. 426/1984,  all'art. 7  della legge n. 87/1953,
all'art. 135,  sesto comma della Costituzione, all'art. 6 della legge
cost. n. 1/1953.
        F)  dell'art. 3,  comma  secondo,  del  d.P.R. 6 maggio 1948,
n. 654, come sostituito dall'art. 2, d.P.R. 5 aprile 1978, n. 204, in
rapporto con gli articoli 3, 24, 100, 101, 103, 108 e 113 Cost. e con
l'art.  23  dello  statuto  siciliano, nella parte in cui non prevede
termini   tassativi,   a  pena  di  decadenza,  entro  i  quali  deve
intervenire  la  designazione  dei  membri  regionali  e la nomina (o
l'insediamento)  dei  medesimi  e non prevede per l'ipotesi del venir
meno,  per altre cause, dei membri laici, meccanismi sostitutivi tali
da  assicurare  la continuita' della attivita' giurisdizionale e cio'
anche  con  riferimento,  quale  tertia  comparationis, all'art. 135,
quarto  comma Cost. ed all'art. 5, secondo comma della legge cost. 22
novembre 1967, n. 2.
    Sospende  ogni  pronuncia  in  rito  e  in  merito  e  dispone la
immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
    Ordina  che  a  cura  della  segreteria la presente ordinanza sia
notificata  alle  parti  in giudizio, al Presidente del Consiglio del
ministri,  nonche'  ai  Presidenti  della  Camera  e del Senato e sia
altresi'  notificata al Presidente della Giunta regionale siciliana e
al Presidente dell'Assemblea regionale siciliana.
    Cosi' deciso in Palermo, nelle Camere di Consiglio del 30 gennaio
2003 e del 23 aprile 2003.
                Il presidente ed estensore: Virgilio
03C0716