N. 496 ORDINANZA (Atto di promovimento) 15 aprile 2003
Ordinanza emessa il 15 aprile 2003 dal tribunale di Bari sul ricorso proposto da Sernia Stefano ed altra Competenza e giurisdizione (in materia civile) - Foro per le cause in cui sono parti i magistrati - Criterio derogatorio stabilito dall'art. 30-bis, primo comma, cod. proc. civ. - Applicabilita' ai giudizi di cessazione degli effetti civili del matrimonio sul ricorso congiunto, proposti da magistrati in servizio nel distretto di Corte d'appello comprendente l'ufficio giudiziario competente secondo la legge divorzile (art. 4, comma 1, legge n. 898/1970, come sostituito dall'art. 8 legge n. 74/1987) - Lesione del diritto alla pienezza ed all'effettivita' della tutela giurisdizionale - Irragionevolezza intrinseca della scelta legislativa - Ingiustificata discriminazione di situazioni soggettive meritevoli di egual trattamento - Richiamo alla sentenza n. 444/2002 della Corte costituzionale - Prospettata possibilita' di dichiarazioni di illegittimita' costituzionale conseguenziale in relazione ad ipotesi analoghe. - Codice di procedura civile, art. 30-bis, primo comma. - Costituzione, artt. 3 e 24.(GU n.32 del 13-8-2003 )
IL TRIBUNALE Letti gli atti relativi al ricorso congiunto per la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario depositato in data 21 maggio 2002 da Sernia Stefano e Morfini Chiara (avv. G. Laforgia) ed scritto sotto il numero d'ordine 2376 r.a.c.n.c. dell'anno 2003; Sentito il procuratore delle parti; Viste le conclusioni rassegnate dal p.m. con atto del 31 maggio 2002; Sciolta la riserva di cui al verbale dell'udienza in camera di consiglio del 18 febbraio 2003; Osserva quanto segue 1. La fattispecie. I ricorrenti, coniugi separati consensualmente in virtu' della convenzione omologata in data 11-21 marzo 1997 ed attualmente residenti, rispettivamente, in Verona ed in Bari, hanno adito congiuntamente questo Tribunale per ottenere la pronunzia di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario da essi contratto in Bari il 15 febbraio 1992, allegando che: dall'unione matrimoniale non sono nati figli; sin dall'udienza di comparizione dell'11 marzo 1997 hanno vissuto separati, senza mai riconciliarsi; la ricostituzione della comunione spirituale e materiale e' oramai impossibile; l'autosufficienza economica di entrambi determina la rinuncia reciproca ad ogni pretesa di assegno e patrimoniale in generale; la moglie non potra' piu' utilizzare il cognome del marito. All'udienza in camera di consiglio, il procuratore delle parti ha dichiarato che entrambe sono magistrati e che una di esse a' in servizio nel Tribunale di Bari. Sulla base di sittatte risultanze processuali, ritiene il Collegio di dover promuovere d'ufficio incidente di costituzionalita' nei sensi qui di seguito esposti. 2. La questione di legittimita' costituzionale. A) L'inquadramento. A norma dell'art. 4, comma 1, della legge 1° dicembre 1970 n. 898, come sostituito dall'art. 8 della legge 6 marzo 1987 n. 74, la domanda congiunta per ottenere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio puo' essere proposta al tribunale del luogo di residenza o di domicilio dell'uno o dell'altro coniuge. La competenza territoriale del giudice adito in applicazione del suddetto foro alternativo ed inderogabile (come si ricava dall'art. 28 c.p.c. che esclude la derogabilita', fra l'altro, nelle cause previste nel n. 3 dell'art. 70 c.p.c. e nei procedimenti in camera di consiglio), e' destinata pero' a cedere a fronte dell'acclarata qualita' di magistrato in servizio in questo ufficio giudiziario rivestita da uno dei coniugi istanti e del conseguente rilievo officioso dell'incompetenza ex art. 30-bis c.p.c. («Foro per le cause in cui sono parti i magistrati»), introdotto dall'art. 9 della legge 2 dicembre 1998 n. 420, che prescrive: «le cause in cui sono comunque parti magistrati, che secondo le norme del presente capo sarebbero attribuite alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d'appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni, sono di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di Corte d'appello determinato ai sensi dell'art. 11 del codice di procedura penale». Nonostante talune divergenze dottrinali, alla competenza sancita dalla norma ora menzionata sembra infatti preferibile riconoscere natura funzionale ed inderogabile nonche' la resistenza propria delle cc.dd. competenze «forti», soprattutto in virtu' della ratio uniformatrice rispetto alle regole in proposito dettate per il processo penale e delle finalita' di salvaguardia di valori immanenti la stessa giurisdizione, quali la terzieta' e l'imparzialita' del giudice, cui essa tende. Ne discende, per un verso, l'ineludibile rilevabilita' del relativo difetto ex officio (e, quindi, anche in contrasto con la scelta delle parti - eventualmente comune, come nel caso del ricorso congiunto ex art. 4 cit. - di adire quel determinato giudice) e, per altro verso, la prevalenza su ogni altro foro, ancorche' inderogabile, stabilito in base non soltanto alle disposizioni del capo I, tit. I, libro I del codice di rito (in questo novero va peraltro collocato proprio il foro ex art. 4, comma 1, l. div., la cui inderogabilita', come detto, promana direttamente dall'art. 28 c.p.c.), secondo la lettera dell'art. 30-bis c.p.c., ma, stante l'ingiustificata e verosimilmente inavvertita portata restrittiva della formula legislativa e la sua doverosa interpretazione estensiva come in ogni caso in cui appaia evidente, alla stregua della mens legislatoris, che la legge dica meno di quanto ragionevolmente voglia dire (non vi sarebbe alcuna plausibile ragione giuridica per negare l'applicabilita' e la prevalenza del foro speciale dei magistrati, per esempio, rispetto al foro dell'opposizione a decreto ingiuntivo ex art. 645 c.p.c. o rispetto al foro del consumatore ex art. 12 d.lgs. n. 50/1992), a qualunque disposizione di legge, codicistica e non, fondante un criterio di competenza concorrente con l'art. 30-bis c.p.c. In tali sensi s'e' invero formato il primo e sinora unico - a quanto consta - orientamento di legittimita' (Cass. 16 maggio 2002 n. 7119), gia' implicitamente avallato dalla Corte costituzionale (ord. 8 - 16 luglio 2002 n. 348), cui anche questo Tribunale ha prestato adesione in almeno un paio di propri precedenti: sicche' su tali eterogenee, ma coerenti basi giurisprudenziali, pare potersi cogliere un'attuale unita' interpretativa, un «diritto vivente» della norma, da assumersi come dato oggettivo del caso costituzionale da risolvere. Ne' l'ampiezza concettuale del prioritario e fondamentale elemento obiettivo del foro per i magistrati, che l'art. 30-bis c.p.c. individua puramente e semplicemente nelle «cause» («in cui i magistrati sono comunque parti»), senza specificazione alcuna, ne' di materia ne' di rito, autorizza l'interprete ritenere che ne possa restare esente la domanda congiunta di divorzio ex art. 4, comma 1 e 13, legge n. 898/1970. Invero proprio l'estrema genericita' della dizione legislativa, correlata alla finalita' di piena attuazione della giurisdizione - deve intendersi: in tutte le manifestazioni tipiche di tale funzione - perseguita dal legislatore, pone il giudice nell'impossibilita' di adottare, in via interpretativa, opzioni restrittive che, in sostanza, si risolverebbero in inamissibili interventi parzialmente abrogativi, di fatto, del precetto processuale. La convinzione della necessaria inclusione del giudizio di divorzio promosso con istanza congiunta fra le «cause» che, laddove vedano coinvolto un magistrato nelle vesti di «parte», sono assoggettate inderogabilmente al foro dell'art. 30-bis c.p.c. comunque positivamente sorretta e corroborata da una serie di argomenti normativi, sistematici giurisprudenziali. La concorde volonta' manifestata dalle parti a mezzo della domanda congiunta non produce di per se' alcun effetto estintivo o modificativo ne' dello status coniugale, ne' dei rapporti personali ed economici che ne discendono, nel senso che essa non e' idonea a determinare non solo lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, ma neppure la regolamentazione dei diritti e dei doveri genitoriali o delle rispettive attribuzioni patrimoniali; in giurisprudenza si e' sottolineato che persino queste ultime, nella sede del divorzio cosiddetto (sebbene impropriamente) consensuale, si producono sempre e soltanto per mezzo della pronuncia del tribunale, che non si limita, come nell'omologazione della separazione consensuale, ad esercitare un potere di controllo su atti posti in essere da altri soggetti e destinati a conservare la loro autonomia logico-giuridica, ma ingloba e fa proprie, come mero presupposto della decisione, le pattuizioni intervenute tra le parti (Cass. 19 settembre 2000 n. 12389; sulla necessita' che anche gli accordi economici fra i divorziandi vengano recepiti dalla pronuncia del giudice, all'esito della verifica dei presupposti legali della domanda divorzile, si veda pure Cass. 8 luglio 1996 n. 6664). In altre parole, la previsione normativa dell'istanza congiunta di divorzio - come si e' sostenuto da una parte della dottrina - sembra destinata ad operare non sul piano sostanziale, bensi' su quello, processuale, ossia dell'adozione del piu' veloce e semplificato rito camerale, fermo restando che il titolo al quale si riconnettono tutti gli effetti giuridici, pur congiuntamente voluti dalle parti, e' in ogni caso rappresentato dalla sentenza emessa all'esito della verifica dei presupposti, richiesta dall'art. 4, comma 13, l. div.; sentenza alla quale, vertendosi in materia di diritti e status non disponibili, deve essere (come pacificamente e) riconosciuto valore costitutivo, senza che possa invocarsi in contrario quella giurisprudenza di legittimita' che ammette la delibazione di sentenze straniere di divorzio per mutuo consenso (Cass. 21 giugno 1995 n. 6973, 19 aprile 1991 n. 4235, 17 aprile 1991 n. 4104, 18 gennaio 1991 n. 490), essendo evidente che altro e' ritenere la non contrarieta' di tale istituto di diritto straniero all'ordine pubblico italiano agli stretti fini del procedimento di delibazione gia' disciplinato dagli artt. 796 ss. c.p.c. ed ora dagli artt. 64 ss. legge n. 218/1995, altro e' ritenere la validita' e l'efficacia esclusive della comune volonta' dei divorziandi per conseguire la formale dissoluzione del vincolo coniugale e disciplinare i rapporti conseguenti. Nel procedimento divorzile su domanda congiunta v'e' dunque, da parte del giudice adito, esercizio di giurisdizione in senso pieno, che concretamente si manifesta in un complesso di attivita' (alcune necessarie, altre eventuali), quali: il riscontro circa la compiuta indicazione delle condizioni inerenti alla prole ed ai rapporti economici (art. 4, comma 13, l. div.); la verifica dei presupposti del divorzio (in primis, quelli elencati dall'art. 3 legge n. 898/1970), che, da un lato, non puo' esaurirsi - come significativamente osservato in giurisprudenza - «in una mera presa d'atto di situazioni evidenti ed inconfutabili, potendo richiedere le indagini compatibili con il rito camerale, a norma dell'art. 738 c.p.c.» (Cass. 14 ottobre 1995 n. 10763), o quegli altri approfondimenti istruttori comunque resi necessari dalla causa di divorzio specificamente dedotta (si pensi all'inconsumazione del matrimonio), e, dall'altro, non, puo', in caso di esito negativo, che condurre ad una pronuncia reiettiva; la valutazione non formale, ma di merito circa la rispondenza delle condizioni concordate all'interesse dei figli, nella quale si innesta la possibilita' di audizione delle parti per gli opportuni suggerimenti integrativi o correttivi (specificamente prevista dall'art. 4, comma 13, l. div.), o della prole minore (quanto meno ai sensi e per gli effetti di cui alla generale disposizione dell'art. 12 della convenzione di New York 20 novembre 1989, sui diritti del fanciullo, ratificata con legge 27 maggio 1991 n. 176) la pronuncia della decisione nella forma autoritativa principe della «sentenza», che, tralasciando i controversi profili dell'impugnabilita' (ammessa con i mezzi ordinari da Cass. 19 giugno 1996 n. 5664) e dei relativi termini, e' sicuramente soggetta a passare in giudicato ed a produrre i propri effetti costitutivi normalmente solo da tale momento. L'esclusione della connotazione consensualistica o negoziale pura in favore dell'essenziale dimensione giurisdizionale, esaltata dalla caratterizzazione dei poteri del giudice in senso non meramente formale o notarile, ma anche discrezionale, valutativo e decisorio, pone automaticamente il procedimento divorzile su istanza congiunta all'interno dell'amplissimo raggio d'azione dell'art. 30-bis c.p.c. Non risultano significative del contrario le collocazioni dottrinali, non ignote al Collegio, nell'area della giurisdizione volontaria. Cio' perche', se davvero di giurisdizione volontaria si tratta, essa, secondo quanto sancito del tutto condivisibilmente da una recente pronuncia della Corte di legittimita' (Cass. 7 giugno 2002 n. 8318), non e' in quanto tale sottratta alla sfera d'applicazione del citato art. 30-bis, nella misura in cui l'esigenza di salvaguardare la serenita' e l'imparzialita' del giudicante, evitandogli il disagio di decidere nei confronti di un magistrato che eserciti le proprie funzioni nello stesso distretto, si pone nei procedimenti in questione non meno che in quelli contenziosi ordinari, potendosi dunque sostenere, con solido costrutto logico e giuridico, che l'impiego di una formula letterale tanto ampia ed indeterminata non puo' non apprezzarsi come sintomatica di una voluta onnicomprensivita', che non ammette posticce linee di demarcazione fra procedimenti strutturalmente contenziosi e non. Resta fermo, peraltro, che anche nel procedimento di divorzio congiunto non pare prospettarsi un'autentica reductio ad unum della fisiologica dualita' delle parti in causa, solo apparentemente inestente ovvero un'assoluta neutralizzazione del contraddittorio, rispetto alla quale, pertanto, non si porrebbe alcun problema di terzieta' ed imparzialita' del giudice: cio' vuoi perche' tali caratteri essenziali della giurisdizione devono permanere integri in ogni occasione in cui il giudice sia chiamato all'attuazione della volonta' della legge, se del caso, anche in contrasto con le domande di chi agisce; vuoi perche' i coniugi che congiuntamente richiedono la pronuncia divorzile espongono un interesse non unico o identico, bensi' solo convergente verso il conseguimento di un risultato oggettivamente comune ma soggettivamente differenziato, finendo entrambi per esercitare contestualmente un proprio diritto che trova nell'altro il suo soggetto passivo; vuoi infine perche' l'alterita' delle posizioni che, confluendo nella sede del divorsio su istanza congiunta, devono ivi trovare una giusta composizione ad opera di un giudice veramente terzo ed imparziale, e' pur sempre rivelata dalla necessaria presenza della parte pubblica. Invero, proprio su quest'ultimo fronte argomentativo e' possibile rinvenire un preciso, speculare dato di normazione positiva che sembra confortare la scelta interpretativa qui divisata in ordine all'accezione della parola «cause», laddove si consideri che alla medesima parola, utilizzata nell'art. 70 c.p.c. per indicare i casi di intervento obbligatorio del pubblico ministero, viene comunemente riconosciuta una latitudine applicativa che abbraccia non soltanto svariati procedimenti di volontaria giurisdizione, ma, giustappunto, anche la domanda congiunta di divorzio: quest'ultima, in forza della previsione del n. 3 dell'art. 70 c.p.c. («cause riguardanti lo stato ... delle persone»), cui deve farsi risalire la comune prassi giudiziaria di comunicare preventivamente al p.m. in sede gli atti relativi alle istanze ex art. 4, comma 13, l. div., non potendosi condividere, in ragione della tassativita' delle ipotesi di partecipazione obbligatoria del p.m. al processo civile (cosi' Cass. 25 gennaio 1968 n. 224), l'ipotesi dell'applicazione estensiva della previsione dell'art. 5, comma 1, l. div., espressamente dettata per il procedimento di divorzio contenzioso. In conclusione, una volta definito l'ambito applicativo del precetto processuale in esame nei sensi sopra illustrati (con particolare riferimento: alla natura della competenza de qua, alla sua prevalenza su ogni altro criterio con essa in concreto concorrente, al regime della rilevabilita' ed all'ampiezza concettuale dell'elemento oggettivo delle «cause») e positivamente verificata la sussumibilita' della fattispecie dedotta nel paradigma dello stesso art. 30-bis c.p.c., deve dubitarsi della legittimita' costituzionale della norma, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui si applica ai giudizi di cessazione degli effetti civili del matrimonio proposti con ricorso congiunto da magistrato in servizio nel distretto di Corte d'appello comprendente l'ufficio giudiziario competente ai sensi dell'art. 4, comma 1, legge 1° dicembre 1970 n. 898. B) La rilevanza. La competenza costituisce notoriamente un presupposto processuale ed il suo difetto impone al giudice la preliminare declaratoria negativa. Ne' deriva che la soluzione della questione di legittimita' costituzionale della regola di competenza stabilita dall'art. 30-bis, comma 1, c.p.c. e' certamente rilevante nel presente giudizio, dipendendo da essa la sussistenza o meno, in capo al giudice adito, della potestas iudicandi sulla domanda proposta. C) La non manifesta infondatezza. E' stato gia' bene e ripetutamente evidenziato nelle sedi del dibattito prima parlamentare, poi dottrinale e giurisprudenziale, che l'introduzione dell'art. 30-bis c.p.c. risponde alla finalita' ordinamentale generale, avente piena valenza costituzionale, di dare attuazione, tanto apparente quanto effettiva, ai principi dell'imparzialita' e della terzieta' della giurisdizione in ogni tipo di processo. In via di approccio al sindacato interinale e prima facie della norma deve dunque subito escludersi la fondatezza di una prospettazione del dubbio in termini assoluti, ovvero di intrinseca, radicale e complessiva contrarieta' a Costituzione dell'istituzione, anche nel processo civile in generale, come gia' nel processo penale (art. 11 c.p.p.) e nei giudizi di responsabilita' civile per i danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie (art. 4 legge n. 117/1988), di un foro speciale per la trattazione delle cause riguardanti i magistrati, essendo stata viceversa ritenuta costituzionalmente censurabile in passato, sino all'intervento della legge 2 dicembre 1998 n. 420, l'omessa previsione da parte del legislatore, di un foro ad hoc nell'ambito della giurisdizione civile tout court, tanto da occasionare specifici interventi del Giudice delle leggi, risolti pero' in punto di inammissibilita' delle relative questioni in funzione della pluralita' delle possibili soluzioni costituzionalmente corrette e della conseguente spettanza esclusiva al legislatore del compito di stabilire, nell'esercizio del suo potere discrezionale, quando, nel generale ambito dei procedimenti civili, ricorra quell'identita' di ratio che impone l'estensione pura e semplice del criterio di cui all'art. 11 c.p.p. e quando invece tale ratio non ricorra affatto o sia realizzabile attraverso la previsione di un foro derogatorio appropriato alla specifica materia (Corte cost., sent. 12 marzo 1998 n. 51 e ord. 6 novembre 1998 n. 370). Gli argomenti per una corretta impostazione del tema di incostituzionalita' sembrano allora potersi convenientemente attingere dal distinto versante delle modalita' dell'intervento legislativo di cui alla legge n. 420/1998, consistito nella sostanziale omologazione, fra i due fondamentali modelli di processo (civile e penale), delle regole attuative dei principi di imparzialita' e terzieta' del giudice, mediante la previsione generale ed a spettro applicativo praticamente illimitato di un foro speciale determinato in ragione della peculiare qualita' professionale di una delle parti (magistrato) e dell'ufficio nel quale essa esercita le proprie funzioni. In tale prospettiva non puo' non venire innanzitutto in risalto quell'attivita' di indirizzo della (allora) sopravveniente attivita' legislativa svolta dalla stessa Corte costituzionale in occasione del menzionato giudizio incidentale vertente sulla conformita' a Costituzione della mancata estensione ai giudizi civili dell'art. 11 c.p.p., definito con la sentenza n. 51 del 1998, ed estrinsecatasi nell'elaborazione di una sorta di «monito circa il modo di provvedere», alla luce del quale avrebbe dovuto essere sapientemente calibrata l'introduzione del foro per i magistrati nel processo civile. In particolare, la Corte sottolinea che, in considerazione della netta, ontologica distinzione fra processo civile e processo penale (rilevata sotto i profili degli interessi protetti, del ruolo delle parti, del meccanismo di convincimento del giudice, della pluralita', nell'uno, e della tendenziale unicita', nell'altro, dei criteri determinativi della competenza territoriale), le scelte legislative in materia, pur nella costituzionalmente doverosa attuazione del principio di imparzialita-terzieta' del giudice, avente pieno valore costituzionale, cor riferimento a qualunque tipo di processo (cosi' gia' secondo Corte cost., sent. 7 novembre 1997 n. 326), avrebbero dovuto svolgersi «secondo linee direttive non necessariamente identiche per i due tipi di processo», «cosi' da evitare che vengano, sacrificati altri interessi e valori costituzionalmente rilevanti», quali il diritto di agire e di difendersi in giudizio. Del rischio di un'indebita assimilazione fra le discipline processuali derogatorie della competenza territoriale ordinaria nelle cause riguardanti i magistrati doveva, in verita', essere ben avvertito lo stesso legislatore, allorquando, in sede di relazione al Senato sul disegno di legge n. 484 (successivamente unificato ad un articolato di iniziativa governativa e trasfuso nel definitivo progetto n. 1846/D), affermo' che «non pochi motivi inducono ad escludere l'opportunita' di un foro speciale per tutte le cause civili in cui sia parte un magistrato», salvo poi a «tradire» l'intenzione con l'approvazione di una norma che, come gia' osservato, appare di tutt'altro segno, nella misura in cui, prevedendo lo spostamento della competenza secondo i criteri dettati dall'art. 11 c.p.p. in relazione a tutte le «cause» nelle quali sia comunque parte un magistrato in servizio nel distretto di Corte di appello comprendente l'ufficio giudiziario territorialmente competente in base alle regole ordinarie, sembra avere con tutta evidenza, da un lato, puramente e semplicemente esteso al processo civile il meccanismo derogatorio generalizzato vigente nel processo penale in tema di competenza per le cause riguardanti i magistrati e, dall'altro, pretermesso qualsivoglia valutazione di bilanciamento - da condursi alla stregua delle varie e multiformi tipologie del processo civile - fra i principi, di eguale rilevanza costituzionale, della imparzialita-terzieta' del giudice, da un lato, e della pienezza ed effettivita' della tutela giurisdizionale dall'altro, aprendo in tal modo la via ad irragionevoli compressioni del secondo in tutti quei peculiari contesti processuali in cui non emergono obiettive ragioni idonee a giustificare l'incondizionata prevalenza del primo. Percorrendo itinera argomentativi non dissimili da quelli appena tracciati, il sindacato di costituzionalita' dell'art. 30-bis c.p.c. e' di recente pervenuto al primo favorevole apprezzamento dell'illegittimita' della norma, nella parte in cui essa trova applicazione ai processi di esecuzione forzata promossi da o contro magistrati in servizio nel distretto di Corte d'appello comprendente l'ufficio giudiziario competente ai sensi dell'art. 26 c.p.c. (C. cost., sent. 12 novembre 2002 n. 444). Ad eguale favorevole apprezzamento puo', ad avviso di questo Tribunale, pervenirsi con riguardo alla fattispecie della domanda congiunta di cessazione degli effetti civili del matrimonio, oggetto del giudizio che ne occupa. Premesso che la preventiva sperimentazione di misure interpretative di salvaguardia, ossia la ricerca di opzioni ermeneutiche della norma che ne consentano una lettura diversa da quella in dubio, oltre che passibile di una valutazione di conformita' a Costituzione, sempre doverosa per il giudice remittente, deve ritenersi nella specie gia' infruttuosamente compiuta allorquando si e' approfonditamente scandagliata la questione dell'applicabilita' dell'art. 30-bis c.p.c. ai procedimenti di divorzio su istanza congiunta (con particolare riferimento alla valenza del termine «cause»: v. supra, par. 2.A), traendosene conclusivamente la convinzione positiva, appare evidente che il foro speciale per i magistrati, prevalendo su quello di residenza o domicilio dell'uno o dell'altro coniuge, alternativamente fissato dall'art. 4, comma 1, l. div., costringe le parti ad allontanarsi - talora a distanze anche notevoli - dal luogo nel quale una o entrambe vivono o hanno fissato la sede principale dei propri interessi. Sicche' il distanziamento del processo dal foro della legge divorzile, che, per intuibili ragioni di opportunita', era stato avvedutamente fatto coincidente dal legislatore del 1987 con il centro della vita di almeno uno degli interessati, non soltanto aggrava le condizioni della tutela giudiziale, in danno degli aventi diritto, da un punto di vista materiale, ossia in termini di tempi e di costi, ma rende ai predetti pure sensibilmente piu' difficoltosa e, in ipotesi, persino non compiutamente perseguibile l'attuazione dei loro diritti e di quelli della loro prole, quante volte, nell'esercizio dei poteri istruttori, valutativi e decisori riconosciuti al giudice dalla legge (si veda supra, par. 2.A), quest'ultimo possa ritenere necessario, o anche semplicemente opportuno, assumere informazioni dalle parti personalmente o ascoltare i figli minori sul quelle condizioni regolative del divorzio che direttamente li riguardino (affidamento, incontri con il genitore non affidatario, ecc.). D'altro canto, non e' inverosimile che lo stesso giudice competente ai sensi dell'art. 30-bis c.p.c., consapevole degli aggravi che ne deriverebbero sia per il giudizio, sia per le parti, possa tendere ad approfondire con minor rigore le questioni «meritevoli» scaturenti dalla concorde disciplina divorzile prospettata dai coniugi. Ne' puo' trascurarsi, fra i negativi effetti indotti dello spostamento del foro competente in una sede distante da quella ove si volge la vita quotidiana e, normalmente, l'attivita' di lavoro di almeno una delle parti, quello di tipo psicologico consistente in un non voluto differimento nel tempo della realizzazione del proprio interesse ad ottenere il divorzio o in un artificioso innalzamento del livello di tolleranza delle limitazioni dei propri diritti personali e patrimoniali scaturenti dallo scioglimento del vincolo coniugale, l'uno o l'altro causati dalle maggiori difficolta' di esercizio della difesa in giudizio. In ogni caso emerge con nettezza, sotto i profili appena esaminati, il vulnus che l'art. 30-bis c.p.c. arreca in subiecta materia al diritto alla pienezza ed all'effettivita' della tutela giurisdizionale, sancito in termini assoluti dall'art. 24 Cost. A fronte di siffatto, concreto ed obiettivo, sacrificio di un diritto primario costituzionalmente garantito si rinviene soltanto un'astratta ed immotivata valutazione di superiore rilevanza e di piu' forte esigenza di protezione dell'imparzialita-terzieta' del giudice investito di una domanda congiunta di divorzio di altro magistrato in servizio nello stesso distretto di Corte d'appello. Di contro, non appare fondatamente revocabile in dubbio che, in un'attenta ed equilibrata ponderazione comparativa dei beni costituzionali in gioco, a quello della pienezza e dell'effettivita' della tutela giurisdizionale non possa non riconoscersi peso prevalente se e' vero che in un procedimento divorzile azionato congiuntamente dai coniugi, i quali, per definizione, adiscono la giustizia sulla base di concordi allegazioni e richieste, i margini perche' il giudice adito possa essere o comunque risultare di fatto condizionato dalla presenza in causa di un magistrato-parte sono, se pur non inesistenti, almeno sensibilmente ridotti rispetto a quelli ipotizzabili in un divorzio contenzioso: tanto piu' che l'organo giudicante non e' monocratico, ma necessariamente collegiale. Semplificando all'estremo il ragionamento, la non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale qui sollevata si concentra nel dubbio se la trattazione di una domanda congiunta di divorzio ponga un'esigenza di imparzialita' del giudice cosi' forte da giustificare costituzionalmente lo spostamento della competenza nei sensi previsti dall'art. 30-bis c.p.c.; con la conseguenza che, dovendo il dubbio risolversi negativamente ad avviso del Tribunale, detta norma non soltanto si presenta irragionevole in se', per via della formulazione in termini generali e non differenziati in relazione alle diverse tipologie processuali civili, ma irragionevolmente discrimina, rispetto alla realizzazione del primario diritto di azione, situazioni soggettive (quella di chi svolge la professione di magistrato nel distretto coincidente con quello in cui si trova il giudice competente ex art. 4 l. div. e quella di chi svolge la medesima professione altrove o non e' magistrato) il cui elemento differenziale non sembra giustificare il diseguale trattamento. In definitiva, il difetto di congruo bilanciamento tra i due interessi di rilievo costituzionale sopra richiamati qualifica in termini di irragionevolezza la scelta legislativa qui censurata ed integra la concorrente violazione degli artt. 3 e 24 Cost. Sicche', mutuando ed adattando la conclusiva, limpida affermazione contenuta nella recente declaratoria di incostituzionalita' dell'art. 30-bis c.p.c. emessa con la citata sentenza n. 444 del 2002, la norma impugnata, nella parte in cui si applica al procedimento di divorzio instaurato con domanda congiunta, irragionevolmente assume come preminente l'esigenza di tutelare l'imparzialita-terzieta' del giudice divorzile, concependola in termini del tutto generali ed astratti, non correlati ai connotati tipici di quel procedimento, ed illegittimamente trascura l'esigenza di garantire piena ed effettiva tutela giurisdizionale alle pretese azionate dalle parti. 3. Le possibili illegittimita' costituzionali consequenziali. E' innegabile la piena coincidenza fra la norma sulla pompetenza che viene qui elevata a sospetto d'incostituzionalita' in relazione alla domanda congiunta di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nella specie portata alla cognizione di questo Tribunale, e quella, di contenuto e portata applicativa sostanzialmente identici, riferibile all'ipotesi della domanda congiunta di scioglimento del matrimonio, alternativamente prevista dall'art. 4, comma 1, della legge 1° dicembre 1970 n. 898; donde l'obiettiva ricorrenza dei presupposti per la declaratoria di illegittimita' conseguenziale dell'art. 30-bis c.p.c. anche relativamente all'ipotesi da ultimo considerata, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953 n. 87. Non possono, invero, neppure nascondersi le evidenti simmetrie logico-giuridiche fra i casi di domanda congiunta di divorzio e quelli di domanda congiunta sia di omologazione della separazione consensuale (art. 711 c.p.c.), sia di modifica delle condizioni della separazione o del divorzio, consensuali o giudiziali (artt. 710-711 c.p.c. e 9 legge 1° dicembre 1970 n. 898), se e' vero che proprio la Corte costituzionale, sia pure ad altri fini, ha in passato messo in evidenza «il parallelismo, le profonde analogie e la complementarieta' funzionale» delle procedure di separazione e di divorzio, esaltati dallo stesso legislatore con l'art. 23 della legge n. 74 del 1987 (sentenza 15.4.1992 n. 176; negli stessi sensi e' la sentenza 9 novembre 1992 n. 416); ragione per la quale l'illegittimita' dell'art. 30-bis c.p.c. puo' prospettarsi anche in relazione ai suddetti «altri» casi di domanda congiunta. Sennonche', trattandosi di fattispecie processuali diverse da quella oggetto del giudizio a quo, ogni valutazione circa l'esercitabilita' in concreto dei poteri di cui al citato art. 27 legge n. 87/1953 spetta esclusivamente al Giudice delle leggi.
P. Q. M. Applicato l'art. 23 legge 11 marzo 1953, n. 87, cosi' dispone: dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 30-bis, comma 1, c.p.c., in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui si applica ai giudizi di cessazione degli effetti civili del matrimonio sul ricorso congiunto, proposti da magistrati in servizio nel distretto di Corte d'appello comprende l'ufficio giudiziario competente ai sensi dell'art. 4, comma 1, della legge 1° dicembre 1970 n. 898, come sostituito dall'art. 8 della legge 6 marzo 1987 n. 74; sospende il procedimento in corso; ordina che, a cura della cancelleria, il presente provvedimento sia con urgenza notificato al Presidente del Consiglio dei ministri, alle parti ed al p.m., comunicato ai Presidenti delle due Camere del Parlamento ed infine trasmesso alla Corte costituzionale, unitamente a tutti gli atti del procedimento ed alla prova delle suddette notificazioni e comunicazioni. Cosi' deciso in Bari, 18 marzo 2003. Il Presidente: Dini Ciacci Il giudice estensore: Ruffino 03C0763