N. 243 ORDINANZA 30 giugno - 15 luglio 2003
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Processo penale - Regressione del procedimento - Termini massimi di fase - Limite al computo dei periodi di custodia cautelare sofferti in una fase o grado diversi - Asserito contrasto con il principio della garanzia della liberta' personale - Manifesta inammissibilita' della questione. - Cod. proc. pen., art. 303, comma 2. - Costituzione, artt. 3 e 13.(GU n.29 del 23-7-2003 )
LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Riccardo CHIEPPA; Giudici: Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK, Ugo DE SIERVO, Romano VACCARELLA, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO;
ha pronunciato la seguente Ordinanza nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'articolo 303, comma 2, del codice di procedura penale, promossi con ordinanze del 25 luglio 2002 della Corte di cassazione - sezioni unite penali e del 3 ottobre 2002 del Tribunale - sezione per il riesame di Milano, iscritte rispettivamente al n. 434 e al n. 545 del registro ordinanze 2002 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, 1ª serie speciale, dell'anno 2002 e nella edizione straordinaria, 1ª serie speciale, del 27 dicembre 2002. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nelle camere di consiglio del 26 febbraio 2003 e del 21 maggio 2003 il giudice relatore Carlo Mezzanotte. Ritenuto che con ordinanza in data 25 luglio 2002 le sezioni unite penali della Corte di cassazione hanno sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 13 della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'articolo 303, comma 2, del codice di procedura penale, «nella parte in cui impedisce di computare ai fini dei termini massimi di fase determinati dal successivo articolo 304, comma 6, i periodi di detenzione sofferti in una fase o in un grado diversi da quelli in cui il procedimento e' regredito»; che il giudice a quo riferisce di essere stato investito della interpretazione delle disposizioni censurate allorche', intervenuta l'ordinanza n. 529 del 2000 di questa Corte, si erano nuovamente verificati i medesimi contrasti che una precedente sentenza delle sezioni unite (la n. 4 del 2000, Musitano), si era proposta di risolvere; che l'ordinanza ricorda come, con la sentenza n. 292 del 1998, la Corte costituzionale, disattendendo la costante lettura invalsa nella giurisprudenza, aveva ritenuto che un'interpretazione adeguata del sistema normativo consentiva di concludere che l'art. 304, comma 6, del codice di procedura penale, costituiva limite estremo e meccanismo di chiusura della disciplina della custodia cautelare, sicche' il superamento del doppio dei termini di fase era causa di scarcerazione anche nelle ipotesi di regressione del procedimento (art. 303, comma 2, cod. proc. pen.); che, prosegue il remittente, sorgeva tuttavia contrasto in sede di legittimita' non gia' sulla possibilita' di aderire alla decisione di questa Corte, bensi' sul modo con cui calcolare il termine finale in caso di regressione: parte della giurisprudenza riteneva che si dovesse considerare tutta la detenzione comunque sofferta dall'inizio di una determinata fase o grado fino al provvedimento che dispone il regresso, sommandola con quella successiva, mentre altre pronunce affermavano che si dovessero congiungere alla detenzione in atto nella fase o grado in cui il procedimento era regredito solo i periodi di privazione della liberta' gia' subiti nella fase o nel grado medesimo; che le sezioni unite - si ricorda ancora nell'ordinanza - con la sentenza Musitano accoglievano la seconda soluzione interpretativa, sul rilievo che l'art. 303, comma 2, del codice di procedura penale, nello stabilire che, in caso di regressione, i termini «decorrono di nuovo», evidentemente esclude che i termini stessi abbiano continuato a decorrere; che quella sentenza ha quindi affermato che il codice aveva accolto una concezione monofasica o endofasica, come era desumibile dal fatto che il legislatore distingue fra termine di fase e termine complessivo, mentre in nessuna disposizione verrebbe in considerazione un periodo «interfasico», con la conseguenza che, quando l'art. 303, comma, 2, cod. proc. pen., fa riferimento ai termini che decorrono di nuovo, a questi si possono sommare, nel rispetto dell'art. 304, comma 6, solo entita' omogenee, e cioe' i periodi trascorsi nella stessa fase; che l'anzidetta sentenza delle sezioni unite, sebbene dichiari esplicitamente di non aver reperito nella ricordata pronuncia di questa Corte alcun suggerimento circa il sistema di computo dei termini, offrirebbe, in vari passaggi della motivazione, argomenti idonei a collegare l'interpretazione prescelta ai principi costituzionali che questa Corte aveva affermato, e cioe' il principio di proporzionalita' e quello della riduzione al minimo necessario del sacrificio della liberta' personale; che ad avviso del remittente, che riprende e sviluppa argomenti riferibili alla precedente sentenza delle sezioni unite, la proporzionalita' dei termini di custodia cautelare non puo' razionalmente prescindere dalle attivita' previste nella singola fase, durante la quale deve essere consentito, permanendo la custodia, il compimento di specifici atti processuali, con la conseguenza che imputare alla fase in cui il procedimento regredisce l'intervallo in cui non era dato svolgere le attivita' proprie di quella fase significherebbe scardinare l'assetto delle esigenze che erano state contemperate; che anche il principio della riduzione al minimo del sacrificio della liberta' personale verrebbe, secondo questa logica, rispettato, poiche' il periodo trascorso nella fase intermedia verrebbe bensi' «sterilizzato», ma non perduto, in quanto «accreditato» alla fase di competenza ed a questa sommato quando il procedimento l'avra' raggiunta; che in questo modo il sacrificio per il soggetto sarebbe comunque di carattere transitorio e non potrebbe paragonarsi - in un equilibrato bilanciamento degli interessi - agli effetti di rottura del sistema che il criterio del cumulo indifferenziato irragionevolmente e' in grado di provocare; che tuttavia questa interpretazione costituzionalmente plausibile appare azzardata alla luce della ordinanza n. 529 del 2000 di questa Corte, dalla quale sorgerebbe anzi il dubbio che il criterio della cumulabilita' dei soli segmenti omogenei contrasti con le suindicate disposizioni costituzionali, in quanto la Corte ha comunque affermato che il cumulo di tutti i periodi e' il solo coerente con l'art. 13 Cost., che impone di privilegiare la soluzione che riduca al minimo il sacrificio della liberta' personale; che pertanto le sezioni unite, sul presupposto «che l'art. 303, comma 2, cod. proc. pen. esprime una norma che, sia pure considerando i principi piu' volte ricordati e quindi - forse - in contrasto con essi, impedisce di addizionare, nel calcolo del doppio del termine finale di fase, periodi di detenzione sofferti in fasi o gradi diversi da quelli in cui il procedimento e' regredito», chiedono a questa Corte, «nel rispetto delle reciproche attribuzioni, di intervenire sulla disposizione indicata con una pronunzia caducatoria, se il dubbio dovesse rivelarsi fondato»; che identica questione e' stata sollevata dal Tribunale - sezione per il riesame di Milano con ordinanza del 3 ottobre 2002, negli stessi termini e con le medesime argomentazioni sviluppate dalla Corte di cassazione; che e' intervenuto in entrambi i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque infondata; che infatti, ad avviso della difesa erariale, la questione, avendo ad oggetto la legittimita' di una certa interpretazione della norma che, propugnata da una precedente decisione della Corte di cassazione, e' stata espressamente ritenuta non corretta dall'ordinanza n. 529 del 2000, si ridurrebbe ad un quesito meramente interpretativo, che i rimettenti avrebbero dovuto risolvere adottando l'interpretazione conforme a Costituzione, ancorche' non condivisa; che l'Avvocatura dello Stato osserva, in via subordinata, che, quand'anche fosse vero quanto sostenuto nelle ordinanze di rimessione, «il dettato dell'art. 303, comma 2, cod. proc. pen. che residuerebbe come non toccato dalle precedenti pronunzie della Corte [...] ben potrebbe avere una propria giustificazione in riferimento alla struttura del processo penale e al canone generale dell'autonomia dei termini di fase ispirato a principi egualmente meritevoli di tutela, quale, in primis, l'esigenza di tutela della collettivita», profilo, questo, che sembrerebbe non essere stato preso in considerazione dai rimettenti. Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano la medesima questione, sicche' i relativi giudizi possono essere riuniti per essere decisi con unica pronuncia; che la questione di legittimita' costituzionale dell'articolo 303, comma 2, del codice di procedura penale, sollevata dalle sezioni unite penali della Corte di cassazione, in riferimento agli artt. 3 e 13 della Costituzione, nella parte in cui impedisce di computare ai fini dei termini massimi di fase determinati dal successivo art. 304, comma 6, cod. proc. pen., i periodi di detenzione sofferti in una fase o in un grado diverso da quelli in cui il procedimento e' regredito, e' manifestamente inammissibile, e analoga decisione deve riguardare l'ordinanza del Tribunale - sezione per il riesame di Milano che ne ricalca l'iter argomentativo; che infatti, piu' che motivare la non manifesta infondatezza della questione, entrambe le ordinanze di rimessione si propongono di dimostrare la coerenza con i parametri evocati dell'opposta soluzione secondo la quale, in caso di regressione del procedimento, devono essere computati soltanto i periodi di custodia cautelare sofferti in fasi omogenee; che i giudici a quibus muovono dalla premessa che, secondo la sentenza di questa Corte n. 292 del 1998, l'articolo 304, comma 6, del codice di procedura penale costituisce limite estremo e meccanismo di chiusura della disciplina della custodia cautelare, sicche' il superamento del doppio dei termini di fase e' causa di scarcerazione anche nelle ipotesi di regressione del procedimento (art. 303, comma 2, cod. proc. pen.); che in particolare i remittenti ricordano che nella citata sentenza la soluzione indicata discendeva dall'applicazione dei principi di proporzionalita' dei termini di custodia cautelare e di riduzione al minimo necessario del sacrificio della liberta' personale; che, va soggiunto, poco dopo questa Corte era tornata sulla questione con l'ordinanza n. 429 del 1999, la quale riaffermava come soluzione costituzionalmente obbligata quella secondo cui il superamento di un periodo di custodia pari al doppio del termine stabilito per la fase presa in considerazione determina la perdita di efficacia della custodia anche se quei termini hanno iniziato a decorrere nuovamente a seguito della regressione del processo; che era poi intervenuta la sentenza Musitano (Cass., sez. un., n. 4 del 2000), per la quale, quando l'articolo 303, comma 2, fa riferimento ai termini che decorrono di nuovo, a questi si potrebbero sommare solo entita' omogenee, e cioe' periodi di custodia cautelare trascorsi nella stessa fase; che ben due ordinanze di questa Corte avevano pero' ribadito come costituzionalmente vincolata, in forza del valore espresso dall'art. 13 Cost., l'interpretazione secondo cui la custodia cautelare perde efficacia allorquando la sua durata abbia superato un periodo pari al doppio del termine stabilito per la fase presa in considerazione, anche nei casi di regressione del procedimento (ordinanza n. 214 del 2000), e non avevano mancato di avvertire che l'orientamento seguito e' il solo coerente con l'art. 13 Cost., il quale impone di privilegiare la soluzione interpretativa che riduca al minimo il sacrificio della liberta' personale (ordinanza n. 529 del 2000); che nonostante la univocita' delle pronunce di questa Corte, i remittenti sostengono che nella ricordata sentenza Musitano vi fosse un evidente collegamento tra l'interpretazione prescelta circa il computo dei termini in caso di regressione e i principi costituzionali affermati da questa Corte nella ricordata sentenza n. 292 del 1998; che invero, si sostiene nelle ordinanze di rimessione, il principio di proporzionalita' dovrebbe essere inteso nel senso di consentire, permanendo la custodia cautelare, il compimento di specifici atti processuali, e cio' impedirebbe di imputare alla fase in cui il procedimento regredisce un periodo di restrizione della liberta' personale durante il quale non e' dato svolgere le attivita' proprie di quella fase; che, secondo i giudici a quibus, anche se in caso di regressione non vengono conteggiati i periodi di detenzione sofferti in fasi non omogenee, la garanzia dell'art. 13 Cost. e il principio del minor sacrificio della liberta' personale non risulterebbero vanificati, poiche' tali periodi verrebbero computati in futuro, quando il procedimento avra' raggiunto la fase successiva; che dunque, per affermare la soluzione posta a base dell'odierna questione, le ordinanze di rimessione non adducono una lettura degli articoli 303, comma 2, e 304, comma 6, cod. proc. pen. condotta alla stregua della sola legislazione ordinaria, ma muovono proprio da una interpretazione dei principi costituzionali che presidiano la materia, subordinando pero' il principio di proporzionalita' all'appagamento delle esigenze della fase processuale e riducendo il principio del minor sacrificio della liberta' personale ad una sorta di «credito di liberta» spendibile nelle eventuali fasi successive; che peraltro non viene qui in rilievo l'accezione, piu' o meno ristretta, dei principi costituzionali che i remittenti assumono, quanto la struttura argomentativa delle ordinanze di rimessione, che si fondano sull'interpretazione contenuta nell'ordinanza n. 529 del 2000 di questa Corte, proprio mentre riservano ad essa, sul piano della consistenza di quei principi, critiche severe; che tanto meno puo' essere ritenuto ammissibile un simile approccio alla giustizia costituzionale se si considera che l'ordinanza delle sezioni unite, oltre ad apparire perplessa (in una motivazione tutta protesa, nella sostanza, a dimostrare l'infondatezza della questione, il denunciato contrasto si riduce ad un laconico «forse»), si chiude con l'esplicito invito al «rispetto delle reciproche attribuzioni», come se a questa Corte fosse consentito affermare i principi costituzionali soltanto attraverso sentenze caducatorie e le fosse negato, in altri tipi di pronunce, interpretare le leggi alla luce della Costituzione; che, pertanto, la questione deve essere dichiarata manifestamente inammissibile. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
Per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE Riuniti i giudizi Dichiara la manifesta inammissibilita' della questione di legittimita' costituzionale dell'articolo 303, comma 2, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 13 della Costituzione, dalla Corte di cassazione, sezioni unite penali, e dal Tribunale - sezione per il riesame di Milano, con le ordinanze indicate in epigrafe. Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 giugno 2003. Il Presidente: Chieppa Il redattore: Mezzanotte Il cancelliere:Di Paola Depositata in cancelleria il 15 luglio 2003. Il direttore della cancelleria:Di Paola 03C0819