N. 286 ORDINANZA 10 - 30 luglio 2003

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Processo  penale  -  Spese  processuali  - Ipotesi di proscioglimento
  dell'imputato,  per  divieto  di  un  secondo giudizio - Esclusione
  della  condanna  dello  Stato  al  rimborso  delle  spese in favore
  dell'imputato  -  Prospettata  violazione  del principio di parita'
  delle  parti,  del  principio di ragionevolezza e di eguaglianza, e
  del diritto di difesa - Manifesta infondatezza della questione.
- Cod. proc. pen., artt. 529 e 649, comma 2.
- Costituzione, artt. 111, secondo comma, 3 e 24.
(GU n.31 del 6-8-2003 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
  Presidente: Gustavo ZAGREBELSKY;
  Giudici: Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Guido NEPPI MODONA, Piero
Alberto  CAPOTOSTI,  Annibale  MARINI,  Franco  BILE,  Giovanni Maria
FLICK,  Francesco  AMIRANTE,  Ugo DE SIERVO, Romano VACCARELLA, Paolo
MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO;
ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel giudizio di legittimita' costituzionale degli articoli 529 e 649,
comma 2,  del  codice di procedura penale, promosso con ordinanza del
24 maggio  2002  dal Tribunale di Terni, in composizione monocratica,
iscritta  al  n. 363  del  registro ordinanze 2002 e pubblicata nella
Gazzetta   Ufficiale  della  Repubblica  n. 34,  1ª  serie  speciale,
dell'anno 2002.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del 9 aprile 2003 il giudice
relatore Carlo Mezzanotte.
    Ritenuto   che,  con  ordinanza  emessa  il  24 maggio  2002,  il
Tribunale  di  Terni,  in  composizione  monocratica, nel corso di un
procedimento  nei  confronti  di  una  persona  imputata dei reati di
ingiuria  e  violenza  privata,  ha  sollevato,  in  riferimento agli
articoli 111,  secondo comma, 3 e 24 della Costituzione, questione di
legittimita'  costituzionale  degli  articoli 529 e 649, comma 2, del
codice  di  procedura  penale,  nella  parte  in cui non prevedono la
condanna dello Stato al rimborso delle spese in favore dell'imputato,
quando  si  pronuncia  nei suoi confronti sentenza di proscioglimento
per il divieto di un secondo giudizio;
        che  il remittente ricorda che con precedente ordinanza aveva
sollevato,   in  riferimento  ai  medesimi  parametri,  questione  di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 530  cod.  proc.  pen., nella
parte  in  cui  non prevede la condanna dello Stato al rimborso delle
spese in favore dell'imputato da assolversi, e che tale questione era
stata dichiarata manifestamente inammissibile perche' l'art. 530 cod.
proc.  pen.  non  avrebbe  potuto  trovare  applicazione nel giudizio
principale;
        che,  nel riproporre la questione, il giudice a quo riferisce
che  l'imputato  era  stato giudicato con una sentenza pronunciata il
16 aprile  1999  ed  era  stato  rinviato  a giudizio con decreto del
18 maggio  1999,  nonostante  che nella denuncia-querela, dalla quale
era  scaturito  il  decreto  di  citazione  a  giudizio,  fosse stata
indicata  la  pendenza di altro procedimento in relazione al medesimo
fatto;
        che,  evidenzia  ancora  il  giudice  a  quo,  non  essendovi
contrasto  tra  la  difesa  dell'imputato  e  il  pubblico  ministero
sull'esito  del  secondo  giudizio  per  il  medesimo  fatto,  avendo
entrambi  chiesto  il  proscioglimento  per  il divieto di un secondo
giudizio sugli stessi fatti, la difesa dell'imputato ha chiesto anche
la  condanna  alle  spese  nei  confronti dello Stato, depositando la
relativa nota spese;
        che,  quindi,  prosegue  il  remittente,  essendo  passata in
giudicato   la  prima  sentenza  di  condanna  emessa  nei  confronti
dell'imputato  per  il  medesimo fatto, non si dovrebbe piu' dubitare
che  le disposizioni applicabili siano quelle di cui agli artt. 529 e
649, comma 2, cod. proc. pen., sicche' la questione sarebbe rilevante
ai fini della decisione che egli e' chiamato ad adottare sul punto;
        che, quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo
rileva,  in  primo  luogo,  che  in base all'attuale normativa non e'
consentito  al giudice condannare lo Stato alla rifusione delle spese
sostenute dall'imputato quando questi venga assolto, neanche nel caso
in  cui  l'azione penale sia stata promossa, come nella specie, sulla
base  di  un  evidente  errore  da  parte del pubblico ministero, non
avvedutosi  della esistenza di una precedente sentenza per i medesimi
fatti;
        che   le  disposizioni  censurate  si  porrebbero  quindi  in
contrasto,   ad   avviso   del   remittente,  con  il  secondo  comma
dell'art. 111  Cost.,  il  quale,  nel  testo  risultante dalla legge
costituzionale n. 2 del 1999, stabilisce che «Ogni processo si svolge
nel  contraddittorio  tra le parti, in condizioni di parita', davanti
ad  un giudice terzo ed imparziale», dovendosi riferire l'espressione
«in condizioni di parita» non al solo contraddittorio, ma «a tutto lo
svolgimento del processo, compresa la fase delle spese»;
        che,    pertanto,    prosegue    il    remittente,   per   la
regolamentazione  del  regime  delle spese processuali dovrebbe farsi
riferimento  a  quanto  stabilito  per  il  processo  civile,  con la
conseguenza  che,  anche  nel  processo  penale,  la parte vittoriosa
(imputato assolto) dovrebbe avere diritto all'integrale ristoro delle
spese sostenute per difendersi da un'accusa rivelatasi infondata;
        che  la  mancata  previsione  della condanna dello Stato alle
spese  non  potrebbe  trovare  piu'  giustificazione  nell'originaria
configurazione  del  pubblico  ministero  come  parte  dotata  di una
posizione  preminente,  in  quanto tale posizione sarebbe venuta meno
con  l'introduzione,  in  Costituzione,  del  principio della parita'
delle  parti  dinanzi  a  un  giudice  terzo,  che potrebbe ritenersi
pienamente realizzata solo se al giudice venisse attribuito il potere
di  condannare  alle spese lo Stato soccombente: non potrebbe infatti
sostenersi, ad avviso del remittente, che le parti siano in posizione
di  parita'  se il giudice puo', anzi deve, condannare una di esse al
pagamento  delle spese in caso di soccombenza (rectius: condanna), ma
non  puo'  fare altrettanto in caso di diversa soluzione (assoluzione
o, come nella specie, proscioglimento per errore nell'attivazione del
secondo  giudizio,  in  violazione  del  divieto di cui all'art. 649,
comma 2, cod. proc. pen.);
        che  le  disposizioni censurate contrasterebbero poi, secondo
il  giudice  a  quo,  con  il  principio  di  ragionevolezza, che non
verrebbe  rispettato da una normativa che prevede per una parte di un
processo  (l'accusa)  il  favore  delle  spese  e  per  l'altra parte
(l'imputato)  solo la condanna in caso di soccombenza e nessun favore
delle  spese  in  caso  di  vittoria:  in  ogni  caso, l'imputato, se
dichiarato  innocente,  subirebbe  un  depauperamento  delle  proprie
sostanze   in   misura  quantomeno  pari  all'esborso  sostenuto  per
affrontare il processo;
        che,  prosegue  il remittente, l'art. 3 Cost. sarebbe violato
anche sotto un diverso profilo, poiche' «se non si concede il ristoro
delle  spese  in caso di vittoria (assoluzione o proscioglimento), ma
si  condanna  in  caso  di  soccombenza  (condanna) al rimborso delle
spese,  i  due  casi (i due cittadini), benche' uguali, sono trattati
diversamente dal giudice»;
        che,  infine,  sarebbe violato l'art. 24 Cost., in quanto chi
deve  spendere  ingenti  somme per difendersi, sapendo che certamente
non  le recuperera', potrebbe non difendersi adeguatamente e cosi' il
diritto di difesa potrebbe non essere garantito;
        che  e'  intervenuto  nel presente giudizio il Presidente del
Consiglio   dei  ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura
generale  dello  Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non
fondata;
        che  la difesa erariale contesta in primo luogo l'assunto dal
quale  muove  il  remittente, e cioe' che le condizioni di parita' di
cui  all'art. 111,  secondo  comma,  Cost.,  possano  coinvolgere  la
tematica   delle  spese  processuali:  il  testo  della  disposizione
costituzionale,  infatti,  si riferirebbe esclusivamente alla parita'
delle parti rispetto al contraddittorio e quindi alle tematiche della
prova,  ma non si estenderebbe alle spese processuali, come del resto
dimostrerebbero  i lavori preparatori della legge costituzionale n. 2
del 1999;
        che,  prosegue  l'Avvocatura,  sarebbe  forzato il tentativo,
posto in essere dal giudice a quo, di instaurare una perfetta parita'
tra  processo civile e processo penale per affermare la necessita' di
adeguamento,  in punto di spese, delle rispettive regole processuali,
giacche'  troppo  diversi sono, sul piano strutturale e su quello dei
principi ispiratori, il processo civile e quello penale;
        che    le    censure    sarebbero    infondate,   ad   avviso
dell'Avvocatura,  anche  per  quel che riguarda la dedotta violazione
dell'art. 3   Cost.,   non   potendosi   instaurare   alcuna   valida
comparazione tra il regime del processo civile, nel quale e' la parte
privata che decide se e come esercitare l'azione, e nel quale sarebbe
quindi   del   tutto   ragionevole  la  previsione  dell'onere  della
anticipazione delle spese necessarie e del successivo ristoro in caso
di   accoglimento  della  domanda,  e  quello  del  processo  penale,
caratterizzato dal fatto che la parte pubblica esercita un'azione che
non e' affatto nella sua disponibilita' ed i cui oneri sono sostenuti
dallo  Stato  secondo  una  logica  anticipatoria  che nulla ha a che
vedere con il processo civile;
        che,  pertanto,  sarebbe  del  tutto logico il recupero delle
spese   in  caso  di  condanna  e  altrettanto  logica  l'assenza  di
corresponsione delle spese in caso di assoluzione, in quanto le spese
risultano  gia'  sostenute  dall'accusa  che  fa  parte  dello stesso
apparato giudiziario;
        che  per le medesime ragioni sarebbe insussistente la dedotta
violazione dell'art. 24 Cost.
    Considerato   che   il   remittente   dubita  della  legittimita'
costituzionale  degli  articoli 529  e  649,  comma 2,  del codice di
procedura  penale, nella parte in cui non prevedono la condanna dello
Stato  al  rimborso  delle  spese  in  favore dell'imputato quando si
pronuncia  nei  suoi  confronti  sentenza  di  proscioglimento per il
divieto di un secondo giudizio;
        che,  in  sostanza, il giudice a quo ritiene che il principio
della   parita'   delle  parti  nel  processo  penale,  oggi  sancito
dall'art. 111,  secondo  comma, della Costituzione, riguarderebbe non
solo lo svolgimento del processo e in particolare la formazione della
prova, ma anche le spese, non potendosi dire quel principio osservato
se   l'imputato,  ingiustamente  sottoposto  a  procedimento  penale,
dovesse restare gravato di tutti gli oneri della propria difesa;
        che  due  preliminari  ordini  di considerazioni si oppongono
alla prospettazione del remittente;
        che, in primo luogo, nel quadro di una visione solidaristica,
che investe anche il processo, l'art. 24, terzo comma, Cost., dispone
che  siano assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi
per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione, garanzia questa
che  e'  stata  attuata  per il processo penale dalla legge 30 luglio
1990,   n. 217,   e  successive  modificazioni,  e  ora  dal  decreto
legislativo 30 maggio 2002, n. 113;
        che,  in  relazione  alla  posizione degli abbienti, i soli a
potersi  lamentare  degli  oneri  economici  che il processo comporta
comunque,  anche nel caso di assoluzione, nessuna utile comparazione,
quanto  al  regime  delle  spese,  puo'  essere compiuta tra processo
penale e altri processi, specie quello civile, essendo consolidata la
giurisprudenza  di  questa  Corte nel senso che non esiste un vincolo
costituzionale alla identita' di disciplina dei diversi procedimenti,
rientrando   nella  discrezionalita'  del  legislatore  conformare  i
singoli istituti;
        che  troppo  lontani  sono  i due modelli in comparazione, il
processo civile, dominato dal principio di disponibilita' dell'azione
privata,  e  quello  penale, nel quale vige il contrapposto principio
dell'obbligatorieta'   dell'azione  penale,  per  immaginare  che  il
legislatore,  non  prevedendo  la  condanna  dello  Stato  in caso di
assoluzione dell'imputato, sia incorso in classificazione arbitraria;
        che,  d'altronde,  la  tesi  del  remittente  non  ha  alcuna
rispondenza  nei  lavori  preparatori, dai quali con nettezza risulta
che   il   principio   della   parita'   delle  parti  trova  la  sua
concretizzazione  nell'eguale  diritto  alla prova e nella regola che
questa deve formarsi in contraddittorio, ma non comporta che i poteri
e  i  mezzi  di  cui  le parti sono dotate debbano essere gli stessi,
essendovi invece, a questo riguardo, nel processo penale una naturale
asimmetria  che  puo'  essere  bensi'  attenuata  ma  non  eliminata,
collegata,  come  e',  allo  jus  puniendi  che  solo allo Stato puo'
spettare;
        che,  nel  processo penale, atteso l'ineliminabile squilibrio
di  posizioni,  il problema non e' quello della rifusione delle spese
da  parte  dello  Stato  nel  caso di infondatezza dell'azione penale
esercitata,  che  non  realizzerebbe  alcuna parita' di mezzi, ma del
contemperamento  tra  l'esigenza  dello  Stato di svolgere la propria
potesta' punitiva a tutela della sicurezza collettiva e l'aspettativa
del  soggetto  ingiustamente  sottoposto  al  procedimento  penale di
vedersi   ristorato   degli   eventuali  pregiudizi  subiti  dall'uso
illegittimo di quella potesta';
        che  si  comprende  allora  come  la  condanna dello Stato al
pagamento  delle  spese  processuali  non sia soluzione imposta dalla
Costituzione:  non  irragionevolmente il legislatore ha bilanciato le
contrapposte  istanze,  entrambe espressive di valori costituzionali,
sul   piano   della  individuazione  di  ipotesi  di  responsabilita'
conseguenti  all'esercizio  dell'azione  penale  e  piu'  in generale
dell'attivita'  giudiziaria  nei  casi  di  dolo e colpa grave (legge
13 aprile 1988, n. 117);
        che    pertanto   la   questione   deve   essere   dichiarata
manifestamente infondata in relazione a tutti i parametri evocati.
    Visti  gli articoli 26, comma secondo, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  secondo  comma,  delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.
                          Per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
    Dichiara   la   manifesta   infondatezza   della   questione   di
legittimita'  costituzionale  degli  articoli 529 e 649, comma 2, del
codice   di   procedura   penale,   sollevata,  in  riferimento  agli
articoli 111, secondo comma, 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale
di  Terni,  in  composizione monocratica, con l'ordinanza indicata in
epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 10 luglio 2003.
                     Il Presidente: Zagrebelsky
                      Il redattore: Mezzanotte
                       Il cancelliere:Di Paola
    Depositata in cancelleria il 30 luglio 2003.
               Il direttore della cancelleria:Di Paola
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