N. 920 ORDINANZA (Atto di promovimento) 7 luglio 2003

Ordinanza  emessa  il 7 luglio 2003 dal giudice di pace di Trento nel
procedimento civile vertente tra Zulberti Martino e Russo Gabriele

Procedimento  civile  -  Procedimento  davanti  al  Giudice di pace -
  Giudizio  secondo  equita' nelle cause di valore fino a 1100 euro -
  Configurazione  in  base  al  diritto  vivente come applicazione di
  un'equita'  sostitutiva, fondata su un giudizio di tipo intuitivo e
  svincolata  dall'individuazione della norma giuridica astrattamente
  applicabile  alla  fattispecie  - Conseguente potere del giudice di
  disattendere  le  norme sostanziali vigenti (pur se inderogabili) e
  di creare la sua legge personale - Mancanza di certezza del diritto
  -  Possibilita'  che la decisione secondo equita' affermi soluzione
  opposta  a  quella  secondo  diritto  -  Disparita'  di trattamento
  sostanziale  e processuale fra situazioni analoghe (in relazione al
  valore  della  causa,  alla  competenza funzionale del tribunale in
  materia di locazioni e lavoro subordinato, ed alla stipulazione del
  contratto  mediante  moduli e formulari) - Violazione del principio
  di  ragionevolezza - Lesione del diritto di azione e del diritto di
  difesa  - Contrasto con il dovere dei giudici di applicare le norme
  precostituite  alle quali sono soggetti - Limitazione del principio
  della ricorribilita' delle sentenze in Cassazione per violazione di
  legge  -  Sottrazione  alla  Corte  costituzionale del sindacato di
  costituzionalita' sulle leggi applicate in quanto eque (e come tali
  devolute  al  sindacato  della  Corte  di cassazione) - Scostamento
  della   giurisdizione   dalla   sua  funzione  tipica  -  Incidenza
  sull'affidamento del cittadino nella certezza giuridica.
- Codice   di   procedura   civile,  art. 113,  comma  secondo  (come
  modificato dall'art. 21 della legge 21 novembre 1991, n. 374, e poi
  sostituito  dall'art. 1  del  decreto-legge 8 febbraio 2003, n. 18,
  convertito con modiche nella legge 7 aprile 2003, n. 63).
- Costituzione,  artt. 3  (in  relazione agli artt. 40, commi sesto e
  settimo,  409  e  447-bis  del codice di procedura civile), 24 ( in
  relazione  all'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia
  dei   diritti  dell'uomo  firmata  a  Roma  il  4 novembre  1950  e
  ratificata  con  legge  4 agosto 1955, n. 848), 101, comma secondo,
  111, comma settimo (in relazione all'art. 65, r.d. 30 gennaio 1941,
  n. 12), e 134.
(GU n.46 del 19-11-2003 )
                         IL GIUDICE DI PACE

    A  scioglimento della riserva formulata all'udienza del 30 giugno
2003,  nel  procedimento civile n. 463/2003 R.G. promosso da Zulberti
Martino contro Russo Gabriele, ha emesso la seguente ordinanza.
    Visto  che  la  parte  attrice  ha  prospettato  la  questione di
legittimita'   costituzionale  dell'art.  113,  comma  2,  c.p.c.  in
relazione  agli  artt. 3, 24, 101 comma 2, 111 comma 7, e 134 a sensi
dell'art. 23, comma 1, legge n. 87/1953, per i seguenti motivi:
        premette che la causa in epigrafe e' del valore di euro 170 e
pertanto  per la soluzione di essa il giudice e' chiamato a giudicare
secondo equita' ai sensi dell'art. 113, comma 2, c.p.c.;
        che  per  la  soluzione  della  controversia  il  giudice  e'
chiamato   ad   applicare  diverse  disposizioni  di  diritto  ed  in
particolare  gli artt. 1272, 1703, 1709, e 1720 c.c., nonche' piu' in
generale  quelle  di  cui  agli  artt. 1362  e  segg.  c.c.  relative
all'interpretazione del contratto.
    Tra  l'altro  la  controversia  non  pare di facile soluzione non
fosse  altro per il fatto che sul punto (e cioe' se al rappresentante
processuale  ex  artt. 317 e 82 c.c., non tecnico del diritto, spetti
un  compenso  ed  in  particolare  quale  esso sia e come lo si debba
determinare)    vi   e'   una   completa   mancanza   di   precedenti
giurisprudenziali.
    Spettera'  quindi  al  giudice  adito, nell'interpretare le norme
summenzionate,  determinare se in base ad esse compenso e spese siano
dovute dal mandante al rappresentate processuale e poi individuare le
modalita'   per   quantificare   il  compenso  stesso  e  soprattutto
verificare  che  spetti  la legittimazione passiva al convenuto, sig.
Russo, e non piu' al debitore originario, sig. Ceretti;
        che  tuttavia  l'art.  113, comma 2, c.p.c. stabilisce che la
decisione venga presa secondo equita' con tutte le conseguenze che ne
conseguono  sul  piano  dei motivi di impugnazione, primo fra i quali
l'impossibilita'  di denunciare la violazione o falsa applicazione di
norme  di  diritto, che come poc'anzi si e' accennato, sono alla base
delle pretese attoree;
        che  pertanto  l'eventuale  incostituzionalita'  della  norma
(art. 113  comma  2  c.p.c.)  ha  una  diretta rilevanza nel presente
giudizio,  in quanto, ove fosse reputata incostituzionale, il giudice
adito dovrebbe pronunciare secondo diritto anziche' secondo equita';
        che  inoltre  la  questione  sollevata  non e' manifestamente
infondata per i motivi di cui ora si dira'.

                           P r e m e s s o

    Che l'art. 113 c.p.c. comma 2, cosi' come modificato dall'art. 21
legge n. 374/1991 ed in seguito dal d.l. 8 febbraio 2003, n. 18 conv.
con  mod.  in  legge  n. 63/2003,  stabilisce che «Il giudice di pace
decide  secondo  equita' la causa il cui valore non eccede millecento
euro,  salvo  quelle  derivanti  da  rapporti  giuridici  relativi  a
contratti  conclusi  secondo le modalita' di cui all'art. 1342 c.c.»,
essendo quindi venuto meno, gia' a seguito della riforma del 1991, il
riferimento  ai  «principi  regolatori della materia» che il medesimo
articolo faceva.
    Le  conseguenze  della  portata di tale previsione vanno valutate
tenendo  ben  presente  la  impostazione  seguita  dalla piu' recente
giurisprudenza    di   legittimita'   che   ha   fedelmente   seguito
l'impostazione  che le sezioni unite della S.C. avevano fornito nella
sentenza   716   del  1999,  risolvendo  i  contrasti  che  si  erano
manifestati    in   seno   alle   sezioni   semplici   in   relazione
all'interpretazione dell'art. 113 comma 2 c.p.c.
    Le  impostazioni che le sezioni semplici della Cassazione avevano
seguito erano le seguenti:
        a)  il  g.d.p.  e'  comunque  tenuto  a  seguire  i  principi
regolatori  della  materia  anche  nei casi in cui debba, ex art. 113
c.p.c., decidere secondo equita' (Cass., 30 ottobre 1998, 10904);
        b)  il g.d.p. deve in ogni caso procedere alla qualificazione
giuridica  dei  fatti ed all'esame delle loro conseguenze giuridiche,
pur potendo derogare, in riferimento a tali operazioni, alle nonne di
diritto,  in  applicazione  dei  principi  equitativi  enucleabili da
giudizi  di  valore  conformi,  secondo  la  sua  interpretazione, al
sentire  comune,  con  la  conseguenza  che le sentenze di merito del
g.d.p.   sono   ricorribili   per   cassazione   nei   casi  previsti
dall'art. 360 c.p.c. comma 1 n. 1, 2, 3, 4, 5 con l'unica limitazione
che  in  relazione  al  n. 3  la  violazione  delle norme puo' essere
riferita solo a norme costituzionali o dell'ordinamento comunitario e
riguardo al n. 5 sono ricorribili per vizi motivazionali in relazione
agli  accertamenti  di  fatto  posti  a  base del giudizio di equita'
(Cass., 28 agosto 1998, n. 8569);
        c) il giudizio di equita' si snoda attraverso due momenti: 1)
individuazione della regola di diritto applicabile alla fattispecie e
l'attenuazione,  motivata e consapevole, nel momento decisorio, della
regola   cosi'   individuata,   con   la  conseguenza  che  l'erronea
individuazione  delle  norme astrattamente applicabili e' censurabile
in  cassazione  ai sensi dell'art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., mentre la
successiva operazione di temperamento non potra' essere sottoposta ad
alcun  controllo  di  esaustivita', logicita' e completezza (Cass., 2
aprile 1998, n. 3397 e Cass. 24 agosto 1998, n. 8397);
        d)  la  pronuncia  del g.d.p. secondo equita' e' vincolata al
rispetto della Costituzione e dei principi generali dell'ordinamento,
ma  non  soggetta all'osservanza delle norme che esprimono i principi
regolatori  della  materia  oggetto  del giudizio (per tali dovendosi
intendere   quelli  regolanti  gli  istituti  giuridici  relativi  al
rapporto   dedotto),   con  la  conseguenza  che,  non  essendo  piu'
necessaria   la   determinazione  delle  conseguenze  giuridiche,  ma
altresi'  la  qualificazione  del  fatto  controverso, ed, esprimendo
un'equita'  sostitutiva  e non correttiva, si fonda su di un giudizio
di  tipo  intuitivo  e  non  sillogistico, percio' non richiedente la
preventiva  individuazione  della  norma astratta applicabile al caso
concreto e prescindente da ogni indagine razionale tra tale norma e i
valori emergenti dalla realta' sociali posti alla base dell'equita'.
    La   sentenza   del   g.d.p.  sarebbe  pertanto  ricorribile  per
cassazione  solo  nei  casi  di  violazione  della Costituzione e dei
principi  generali  dell'ordinamento,  e  non  per  inosservanza  dei
principi  regolatori  della  materia,  ne' per violazione delle norme
sostanziali  eventualmente  applicate  perche'  ritenute  conformi ad
equita'  e  neppure  per  violazione o falsa applicazione delle norme
applicabili  al  caso  concreto (la cui individuazione non e' neanche
richiesta). (Cass. 20 febbraio 1998, n. 1784; Cass., 1° ottobre 1998,
n. 9754, Cass., 25 novembre 1998, n. 11970;
        e)  infine  l'ultimo  filone giurisprudenziale ritiene che la
sentenza  del  g.d.p., di valore inferiore ad Euro 1.100,00 e' sempre
pronunciata secondo equita', anche ove il giudice abbia applicato una
norma  di legge riconosciuta corrispondente all'equita', ovvero abbia
espressamente  menzionato  norme  di  diritto senza alcun riferimento
all'equita',  dovendosi  presumere  implicita la corrispondenza della
norma  giuridica  applicata alla regola di equita'. La conseguenza e'
che la sentenza del g.d.p., pronunciata a norma dell'art. 113 comma 2
c.p.c.  e'  impugnabile  solo  per gli errores in procedendo e non in
iudicando. (Cass., 11 giugno 1988, n. 5794).
    Nel  risolvere  il  conflitto  le  sezioni unite della Cassazione
hanno  deciso,  nella  sentenza  n. 716 del 1999, che con particolare
riferimento alla natura del giudizio:
        il giudice non e' tenuto a seguire i principi che regolano la
materia;
        non  e' necessaria ne' l'individuazione di tali principi, ne'
l'individuazione  delle  norme giuridiche astrattamente applicabili e
quindi  non  e'  necessaria  la qualificazione giuridica del rapporto
dedotto;
        l'equita'  non  opera  in  via  vicaria  rispetto  alla norma
giuridica  ove  questa  non sia .adeguata al caso concreto in ragione
delle  condizioni  sociali, economiche, istituzionali, ma costituisce
la  regola  della  decisione, con la conseguenza che il g.d.p. non e'
tenuto  a  compiere  un  previo  accertamento  della norma di diritto
applicabile  al  caso concreto, ma deve senz'altro giudicarlo facendo
applicazione delle norme di equita';
        l'equita'  con  la  quale  decide  il  g.d.p.  e'  un'equita'
sostitutiva  e  non  correttiva/integrativa e si fonda su un giudizio
intuitivo.
    Tutto cio' comporta delle dirette conseguenze anche sul piano dei
possibili  motivi di impugnazione e le sezioni unite hanno deciso che
le  sentenze del g.d.p. sono ricorribili per cassazione solamente nei
seguenti casi:
        violazione di norme processuali;
        per  violazione  di  norme  costituzionali e comunitarie (con
esclusione quindi anche dei principi generali dell'ordinamento);
        per motivazione meramente apparente.
    A  seguito  di  quanto  esposto il principio di diritto formulato
dalla S.C. nella sentenza 716 del 1999 e' il seguente:
        «a  seguito  della  nuova  formulazione dell'art. 113 comma 2
c.p.c.  nella decisione di una controversia di valore non superiore a
lire   due   milioni,  il  g.d.p.  non  deve  procedere  alla  previa
individuazione  della  norma di diritto applicabile alla fattispecie,
ma   deve  giudicarla  facendo  immediata  applicazione  dell'equita'
formativa  (sostitutiva), non correttiva (integrativa), fondata su di
un  giudizio di tipo intuitivo e non sillogistico, con osservanza, ai
sensi  dell'art.  311  c.p.c.,  delle  norme  processuali, nonche' di
quelle  in  cui  la  regola del giudizio e' contenuta in una norma di
procedura  che  rinvia  ad  una  norma  sostanziale, senza obbligo di
rispetto  dei  principi  regolatori  della  materia  e  dei  principi
generali  dell'ordinamento,  ma  osservando  le  norme costituzionali
nonche'  quelle comunitarie, quando siano di rango superiore a quelle
ordinarie.  Pertanto  il  ricorso  per cassazione avverso la suddetta
sentenza  costituisce  un'impugnazione di sentenza di equita' - abbia
il  giudice  dichiarato  di aver applicato una norma equitativa o una
norma  di  legge perche' rispondente all'equita' o si sia limitato ad
applicare  una  norma  di legge - ed e' ammissibile per violazione di
norme  processuali, nel senso sopra esposto (art. 360 comma 1 n. 1, 2
e 4 c.p.c.) laddove la censura di violazione di legge, attinente alla
decisione   di   merito,   e'  consentita  per  violazione  di  norme
costituzionali  e  di  norme comunitarie, mentre la pronunzia secondo
equita'  non  esclude  poi  la  configurablilta'  di censure ai sensi
dell'art. 360,   n. 4,   c.p.c.   nei   casi   di  inesistenza  della
motivazione,   ovvero  ai  sensi  dell'art. 360  c.p.c.  n. 5  c.p.c.
allorche'   l'enunciazione  del  criterio  di  equita'  adottato  sia
inficiato  da  un  vizio  che  attenendo  ad  un punto decisivo della
controversia,  si  risolva  in  un'ipotesi  di  mera  apparenza  o di
radicale ed insanabile contraddittorieta' della motivazione».
    Tale  lettura  della  norma  e'  da  ritenersi  diritto vivente e
pertanto l'eventuale incostituzionalita' della stessa e' da riferirsi
proprio in relazione a tale diritto vivente.
    Tale  impostazione e' stata infatti fedelmente seguita ed accolta
da  tutte  le  successive sentenze della Suprema Corte in particolare
nelle  seguenti: Cass., sez. III, n. 13958 del 1999; Cass., sez. III,
n. 4592  del  2000;  Cass.,  sez. I, n. 9799 del 2000; Cass., sez. I,
n. 12395  del  2000;  Cass.,  sez. I, 3673 del 2001; Cass., sez. III,
9213  del  2001; Cass., sez. III, n. 10667 del 2001; Cass., sez. III,
n. 10486  del  2001;  Cass.,  sez. III, n. 7448 del 2001; Cass., sez.
III, n. 4223 del 2001; Cass., sez. II, n. 10429 del 2001; Cass., sez.
III, n. 7540 del 2002.
    Pare  quindi  evidente che a seguito della sentenza delle sezioni
unite si e' consolidato, nella giurisprudenza della suprema Corte, un
uniforme  indirizzo  giurisprudenziale che ha accolto il principio di
diritto  fissato dalle sezioni unite, con la conseguenza il principio
di  diritto  che  emerge dall'art. 113 comma 2 c.p.c. e' da ritenersi
diritto vivente, ma tuttavia un diritto vivente incostituzionale.
    Tali   conclusioni  rimangono  valide  anche  dopo  le  modifiche
introdotte  dal  d.l.  8  febbraio  2003  il  quale, per quel che qui
rileva,  ha  solamente  innalzato ad Euro 1.100,00 il limite sotto il
quale viene in rilievo il giudizio obbligatorio di equita'.
    Le principali conseguenze che tale norma viene cosi' a porre sono
le seguenti:
        a) Viene completamente a mancare la certezza del diritto, che
la  codificazione ha introdotto nell'ordinamento, valore che la Corte
costituzionale e' arrivata a definire «di valenza costituzionale». Le
norme  di  diritto  sulla  base  delle  quali  si  debbono svolgere i
rapporti  giuridici  finiscono  per perdere qualunque utilita' atteso
che  poi  non  e'  data  azione  per far valere il loro rispetto ed i
diritti  che  da  esse  discendono  in  violazione dell'art. 24 Cost.
Infatti  se una norma giuridica protegge un particolare interesse, la
violazione  della  norma  o  di quell'interesse, che abbia comportato
delle  conseguenze patrimoniali del valore tuttavia inferiore ad Euro
1.100,00  non potra' essere fatta valere in giudizio giacche', atteso
il valore della controversia il giudice non dovra' neppure cercare di
individuare  quella  norma  giuridica  (Cass., sez. I, 17 maggio 1995
n. 5422, e sez. III, 18 aprile 1995, n. 4328).
        b)  La  sentenza  del  giudice di pace, che ha deciso secondo
equita'   non   potra'   essere  impugnata  al  pari  delle  sentenze
pronunciate secondo diritto, neppure sotto il profilo della logicita'
e non contraddittorieta' della motivazione.
        c)  Tale  previsione  comporta  uno  stallo  nei  casi in cui
l'applicazione delle norme di diritto sia necessaria per la soluzione
del  caso  in quanto non sostituibile da regole d'equita'. Molteplici
sono  le  ipotesi  in  cui  l'applicazione  delle  norme  di diritto,
anziche'  di  quelle  d'equita' appare necessaria per la soluzione di
una controversia.
    Inoltre  l'equita' e il diritto non si puo' presumere coincidano,
ma  anzi,  al  contrario  spesso  il  diritto  disciplina  i rapporti
giuridici  in  maniera  del  tutto  contraria  «al comune sentire del
giusto e dell'ingiusto».
    Si pensi ad esempio al caso oggi sottoposto all'ill.mo giudice di
pace.
    L'odierno  istante  si era impegnato a rappresentare un amico, il
sig.  Ceretti, avanti al g.d.p., per evitare che lo stesso, che aveva
seri  problemi  finanziari,  dovesse  rivolgersi  ad  un avvocato per
difendersi nella causa di opposizione proposta dalla sig.ra Barocchi.
Considerando   poi  che  l'instaurazione  della  causa,  nella  quale
l'attrice  Barocchi  era  rappresentata  da  ben  due  legali,  aveva
comportato  nello stesso gravi ansie al punto da non farlo dormire la
notte.  Ora  pare  forse  che, secondo quello che potrebbe essere «il
comune  sentire  del giusto e dell'ingiusto» e considerati l'ambiente
in cui l'obbligazione e' sorta, i criteri etici e sociali diffusi, un
amico  che  abbia  assunto la rappresentanza davanti al giudice di un
altro  amico, nel nostro caso il Ceretti, principalmente per aiutarlo
a  superare  le  ansie che l'instaurazione del procedimento gli aveva
causato,  non  possa ed anzi, moralmente, non debba poi pretendere di
essere pagato per l'opera compiuta.
    Questa  forse  potrebbe  essere  la  soluzione  di un giudizio di
equita',  ma  non  di  un  giudizio di diritto, il quale disciplina i
rapporti fra i soggetti dell' ordinamento indipendentemente da quelli
che  siano  i rapporti sociali fra di essi. Ebbene se al diritto tali
rapporti  sono  del  tutto  indifferenti,  tali potrebbero non essere
all'equita' del giudice.
    Pare  quindi  evidente  come  un  giudizio  secondo diritto e uno
secondo equita' potrebbero portare ad una decisione del tutto opposta
della controversia in epigrafe.
        d)  Ma  l'art. 113  comma  2  c.p.c. crea altre inammissibili
distorsioni  nell'ordinamento.  Si  pensi  ad  esempio a tutte quelle
norme  che  sono  ritenute,  per volere del legislatore, inderogabili
dalla  volonta'  delle  parti.  Tali  norme  sono  spesso  poste  nel
superiore  interesse  pubblico, che, anche nei rapporti privatistici,
si affianca a quello privato. Tuttavia nel momento in cui le parti si
rivolgono  al giudice esso, come specificato dalla suprema Corte, non
dovra'  «procedere  alla  previa individuazione della norma giuridica
applicabile».  Orbene  se  appunto  il  giudice all'individuazione di
detta   norma   non   dovra'   procedere  altresi'  ignorera'  quelle
disposizioni  inderogabili,  poste  per  finalita'  pubbliche e cosi'
potra'   pervenire  ad  una  sentenza  che  frusta  la  volonta'  del
legislatore  la  quale  appunto risulta dal carattere inderogabile di
determinate norme sostanziali.
    Tali  incongruenze  sono frutto di una norma incostituzionale nei
confronti degli artt. 3, 24, 101 comma 2, e 111 comma 7, 134 comma 1,
Cost.,  contrarieta' che, seppur non colta o addirittura negata dalla
sopracitata   giurisprudenza   di   legittimita',   e'  stata  invece
acutamente sottolineata in dottrina.
    Infatti  il  consentire  al  giudice  di  disattendere il diritto
vigente  e di creare una sua legge personale costituisce un attentato
ai principi fondamentali dello Stato di diritto e non appare ultroneo
il   dubbio  di  legittimita'  costituzionale  di  un  sistema  cosi'
congegnato.
    L'art.  113 comma 2 c.p.c. e' da ritenersi incostituzionale per i
seguenti motivi:
    A) Contrarieta' all'art. 3 della Costituzione.
    Va  preliminarmente  sottolineato  come l'art. 113 comma 2 c.p.c.
abbia  quale  naturale conseguenza, nelle sole controversie di valore
inferiore  ad  Euro  1.100,00, la riduzione della vigenza delle norme
sostanziali  le  quali,  non  essendo  vincolanti per il giudice, non
rilevano sul rapporto al quale sarebbero astrattamente applicabili.
    Il   trattamento   sostanziale  differente  (con  le  conseguenze
processuali  conseguenti  quale  l'impossibilita'  di  ricorrere  per
cassazione  in  caso  di  violazione  di  legge)  ha alla sua base il
criterio del valore.
    Determinati  rapporti,  perche' ritenuti bagatellari, non possono
venire risolti secondo diritto, ma solo secondo equita'.
    1.  - Innanzitutto va sottolineato come nelle relazioni di minore
entita'  si  esauriscono  solitamente  le situazioni sociali dei meno
abbienti  e tuttavia in quei rapporti di minor valore a tali soggetti
sarebbe  precluso  richiedere  l'applicazione  del diritto positivo e
quindi  di  far  valere  ex  art. 24  Cost. in sede giurisdizionale i
diritti  e  il  rispetto  delle  norme positivamente date, al pari di
coloro  che  invece  abbiano da far valere in giudizio un rapporto di
maggior valore (e precisamente superiore ad Euro 1.100,00).
    Inoltre   tenuto  presente  che  la  decisione  di  equita'  puo'
innegabilmente    condurre,   nel   caso   singolo,   ad   un   esito
imprevedibilmente diverso da quello cui il giudice dovrebbe pervenire
applicando  il diritto, comporta una evidente contrarieta' all'art. 3
Cost.  in  quanto  una  medesima  situazione  sostanziale  riceve nel
processo  un trattamento radicalmente differente per il sol fatto che
il valore della causa sia o meno inferiore ad Euro 1.100,00.
    2.  -  Ma  la disparita' risulta ancora maggiormente evidente nel
caso in cui una pretesa della medesima natura e valore (ad esempio un
credito di denaro o di altre cose fungibili e comunque di valore fino
ad Euro 1.100,00) di una che invece sarebbe di competenza del giudice
di  pace  ex  art. 7 c.p.c., trovi tuttavia origine in un rapporto di
competenza  funzionale  di  altro giudice (es. Tribunale; commissione
tributaria).
    Il  riferimento  va  fatto  in primo luogo a quei crediti, pur di
valore inferiore ad Euro 1.100,00, che trovano origine in un rapporto
di  locazione  o  comodato  e  pertanto  rientrano  nella  competenza
funzionale del tribunale ai sensi dell'art. 447-bis del c.p.c. ovvero
a quelli relativi ad una causa di lavoro.
    In  quelle  cause in materia di comodato e locazione il tribunale
(cosi'  come  prima  faceva  il  Pretore) giudichera' secondo diritto
anche  se il valore della causa e' inferiore ad Euro 1.100,00, per il
sol  fatto  che  non  e'  previsto  che il tribunale nelle cause, pur
devolute  alla  sua  competenza funzionale, ma fino ad Euro 1.100,00,
giudichi   secondo   equita'.  Cosicche'  ad  esempio  una  causa  di
risarcimento  danni  (di  valore inferiore ad Euro 1.100,00) relativa
alla  violazione  dei  doveri  di  conduttore sara' giudicata secondo
diritto   dal   tribunale;   una   causa,  come  quella  odierna,  di
risarcimento   danni  trovante  origine  nella  violazione  di  norme
estranee  alla materia della locazione (o del comodato) verra' invece
giudicata secondo equita'.
    Lo stesso dicasi per le cause in materia di lavoro subordinato le
quali  pure  indipendentemente  dal valore rientrano nella competenza
funzionale   del  tribunale  in  composizione  monocratica  ai  sensi
dell'art. 409  c.p.c.  La  situazione  risulta  davvero  disparitaria
giacche' una controversia avente ad oggetto credito di lavoro (sempre
inferiore   ad  Euro  1.100,00)  riconducibile  all'area  del  lavoro
subordinato sara' decisa secondo diritto dal tribunale, una causa che
invece  abbia  ad  oggetto  crediti  del medesimo valore derivanti da
un'attivita'  lavorativa  autonoma  sara'  decisa secondo equita' dal
giudice di pace.
    Cosicche'  una  causa  della  medesima  natura  e  valore  di una
competenza  del giudice di pace (credito di cose fungibili del valore
inferiore  ad  Euro 1.100,00), per il sol fatto di trovare origine in
un rapporto devoluto alla competenza funzionale di un giudice diverso
dal  giudice  di  pace,  ed  appunto  il  tribunale, verra' giudicata
secondo  diritto,  sara'  ammesso  il doppio grado di giurisdizione e
sara'  possibile  il  ricorso per cassazione in tutti i casi previsti
dall'art. 360 c.p.c.
    Orbene se la logica sottesa alla previsione della possibilita' di
un  giudizio di equita' fosse che, in considerazione del basso valore
di  una  causa,  e'  possibile  non applicare la legge, cio' dovrebbe
valere  innanzi  a  tutti i giudici (giudice di pace e Tribunale) per
cause analoghe e del medesimo valore.
    Tale   disparita'  sostanziale  e  processuale  accordata  a  due
situazioni analoghe (credito di cose fungibili di valore inferiore ad
Euro  1.100,00)  pare  in  contrasto  con  l'art. 3  Cost.  e  con il
principio  di  ragionevolezza. Infatti se il giudizio d'equita' trova
una  sua  ragion  d'essere  nel fatto che la causa e' di poco valore,
dovrebbero subire il medesimo trattamento tutte le cause del medesimo
valore,  perche' tutte bagatellari. Invece il legislatore ha, con una
scelta  del  tutto irragionevole, sottoposto al giudizio obbligatorio
d'equita'  le  sole  cause  (a  parita'  di valore) di competenza del
g.d.p.  e  tra l'altro non tutte, ma solo quelle che non ineriscano a
rapporti  giuridici  conseguenti  alla  sottoscrizione  di  moduli  o
formulari.
    Cio'  precisato  si  denuncia l'incostituzionalita' nei confronti
dell'art. 3  Cost.  dell'art. 113  comma  secondo c.p.c. in relazione
agli artt. 409 c.p.c. e 447-bis c.p.c.
    3. - Il  profilo  della  contrarieta'  all'art. 3  Cost. e con il
principio  di  ragionevolezza  emerge  ancor  piu' evidente a seguito
della recente modifica dell'art. 113 comma 2 c.p.c. ad opera del d.l.
n. 18 del 2003 convertito, con modifiche, in legge n. 63/2003.
    Infatti  e'  fatta  una deroga ai giudizi di equita' per le cause
derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo
le  modalita'  di cui all'art. 1342 c.c. e cioe' a contratti conclusi
compilando moduli o formulari.
    Il  legislatore  si  e'  infatti  reso  conto  che un giudizio di
equita'  puo'  portare  a  pronunce  difformi  riferite  a  identiche
tipologie  contrattuali ed ha voluto quindi escludere dal giudizio di
equita' tutti i contratti conclusi mediante formulari o moduli.
    Il  legislatore  ha quindi emanato il decreto-legge citato in una
situazione  di ritenuta urgenza in cui un giudizio di equita' avrebbe
potuto, a suo parere, portare ad un collasso del settore assicurativo
a  fronte  delle recenti e numerose iniziative giudiziarie intraprese
dai  consumatori che hanno ritenuto di aver subito un danno a seguito
del   comportamento   anticoncorrenziale   tenuto   da  39  compagnie
assicurative  e  sanzionato  dall'Antitrust. Ha quindi ritenuto che i
contratti di assicurazione sono di solito predisposti su di un modulo
o formulario e quindi ha, con una norma generale ed astratta, escluso
che  i  rapporti  dedotti in giudizio su di essi fondati siano decisi
secondo equita'.
    Una  tale previsione non ha fatto altro che escludere per tutti i
contratti  conclusi  secondo quelle modalita' (e non solo i contratti
di  assicurazione) i dubbi di costituzionalita' espressi nel presente
scritto, ma ha accentuato i dubbi per quanto attiene a tutte le altre
controversie che ancora dovranno essere giudicate secondo equita'.
    Tuttavia  nell'attuale  vigenza  del  d.l.  n. 18 (conv. in legge
n. 63/2003)   e'   possibile   prospettare   un   altro   profilo  di
incostituzionalita'  che  null'altro  e'  che  una  specificazione di
quello  enunciato al punto precedente: cause del medesimo valore sono
da  una  parte  giudicate secondo legge (quelle derivanti da rapporti
giudici  relativi  a  contratti stipulati secondo le modalita' di cui
all'art. 1342   c.c.)   e   dall'altra   secondo  soggettivi  criteri
equitativi.
    Risulta  ancora piu' contrastante con l'art. 3 della Costituzione
il  fatto  che  controversie rientranti nella competenza del medesimo
giudice siano talune decise equitativamente ed altre secondo diritto,
per una scelta di politica legislativa per nulla ragionevole.
    Il  legislatore  si  e'  infatti  reso conto (cfr. prefazione del
decreto-legge)   che   l'equita'   puo'   a   causa  «del  soggettivo
apprezzamento  da  parte  dei  singoli  giudici  di  pace, comportare
pronunce  difformi  riferite  a identiche tipologie contrattuali», ma
tuttavia  si  e'  limitato  a  stabilire  che  solo  in  relazione ai
contratti  conclusi  mediante  formulari  tale rischio sia evitato, e
quindi ha previsto per essi il giudizio secondo diritto.
    Orbene,  va  valutato innanzi tutto cosa si intenda per identiche
tipologie  contrattuali.  Ritiene l'odierno istante che una tipologia
contrattuale  null'altro sia che un particolare tipo di contratto. Si
potra'  avere una tipologia contrattuale relativa alla compravendita,
una relativa al mutuo, una relativa alla locazione, una relativa alla
somministrazione  etc.  ...  I contratti rientranti in tali tipologie
potranno  poi essere conclusi in diverse forme. Ove le parti scelgano
la  forma scritta ma non utilizzino un modulo od un formulario (e non
si verifichi quindi la conclusione secondo una delle modalita' di cui
all'art. 1342   c.c.)  l'eventuale  controversia  avente  ad  oggetto
rapporti  giuridici  derivante da quel contratto sara' decisa secondo
equita'.
    Se  invece le parti utilizzino un modulo o un formulario potranno
ottenere   un   giudizio   di   diritto:  applicazione  della  legge,
possibilita' di appello, ricorribilita' per cassazione.
    E' palese la irragionevolezza della scelta del legislatore: se e'
stato  predisposto  un  formulario  o  un  modulo per disciplinare in
maniera  uniforme  determinati  rapporti  contrattuali il giudizio di
equita'  viene  meno. Se quel medesimo rapporto le parti hanno deciso
di  disciplinarlo  senza  ricorrere al formulario invece non potranno
veder  applicata  la  legge  dal  giudice,  il  quale  dovra'  invece
applicare l'equita'.
    E'  palese  che  tutti  i  rapporti  giuridici,  anche relativi a
fattispecie  contrattuali identiche, pur devoluti alla competenza del
giudice di pace, che non trovino il loro fondamento in un modulo o un
formulario, saranno giudicati secondo equita', mentre a quelli che su
detti moduli sara' aperta la strada del doppio grado di giurisdizione
e di una pronuncia secondo diritto.
    L'incostituzionalita'    nei    confronti    dell'art. 3    della
Costituzione  sta proprio qui: una tipologia contrattuale non dipende
dalla  forma  (mediante  formulari  o  meno)  con cui il contratto e'
concluso,  ma dagli elementi costitutivi ed identificanti il rapporto
giuridico!   Non  si  puo'  confondere  la  forma  con  la  tipologia
contrattuale,   ne'   far   dipendere  dalla  forma  il  tipo  tutela
giurisdizionale apprestata ad una identica situazione giuridica.
    Tutto cio' premesso, si ritiene che sia contrario al principio di
ragionevolezza  far  dipendere  dalla  forma del contratto il tipo di
tutela giudiziale che esso puo' trovare.
    Pertanto  si  ritiene  l'art. 113  comma  2 incostituzionale, per
contrarieta'  con  l'art. 3  della Costituzione e con il principio di
ragionevolezza,  nella parte in cui esclude, solo in base ad elementi
formali,  il  giudizio di diritto previsto invece per i contratti che
sono stati conclusi mediante sottoscrizione di moduli o formulari.
    4. - Infine  l'ulteriore  profilo  di  contrarieta' si coglie nel
caso  in  cui la causa di competenza del giudice di pace inferiore ad
Euro  1.100,00  e  quindi  sottoposta  al giudizio di equita' risulti
connessa  con  altra  causa di competenza di altro giudice. L'art. 40
commi  6  e 7 c.p.c. prevede infatti la realizzazione del simultaneus
processus  con  la conseguenza che una causa (anche di valore fino ad
Euro  1.100,00)  di  competenza  del giudice di pace che tuttavia sia
connessa ad altra causa pendente avanti al tribunale, verra' attratta
nella sfera di competenza di quest'ultimo.
    Il  giudice  di  pace  infatti dovra', ex art. 40 comma 7 c.p.c.,
pronunciare anche d'ufficio la connessione a favore del tribunale.
    Cosicche' quella controversia che, se non fosse connessa, sarebbe
stata  decisa  secondo  equita',  per  il  sol fatto che e' pendente,
avanti  al  Tribunale,  una  causa  cui e' connessa, rientrando cosi'
nella  competenza  di quest'ultimo giudice, non verra' decisa secondo
equita', ma secondo diritto.
    Orbene  la  circostanza  che  il  criterio  di  giudizio (secondo
equita' o secondo diritto) venga a dipendere, in concreto, dalla mera
proposizione  di  una  domanda  connessa  non  puo'  tradursi  in una
irragionevole  disparita'  di  trattamento  di  identiche  situazioni
sostanziali.
    Va  quindi rilevata la contrarieta' all'art. 3 della Costituzione
dell'art. 113  comma  2  c.p.c.  in relazione all'art. 40 commi 6 e 7
c.p.c.
    5. - Un ulteriore profilo di incostituzionalita' si avra' in quei
casi in cui l'applicazione delle norme di diritto si ponga necessaria
per la soluzione della controversia in quanto insostituibili da norme
di equita'.
    Il  legislatore non ha infatti preso in considerazione il caso in
cui  il giudice civile non debba applicare norme civili per risolvere
la controversia, ma sia tenuto ad applicare norme penali in quanto il
danneggiato  da  reato  ha  deciso  di  agire  in  sede civile per il
risarcimento del danno (inferiore ad Euro 1.100,00).
    Orbene  secondo  quanto  dispone  l'art. 113  comma  2  c.p.c. il
giudizio  innanzi al giudice di pace e' un giudizio intuitivo che non
presuppone  e  non  richiede  la  conoscenza della norma giuridica da
applicare alla fattispecie.
    Pertanto  legittimato sarebbe il g.d.p. a non prendere neppure in
considerazione   la   norma  penale  ovvero  applicarla  come  regola
d'equita' solo nel caso in cui la reputi conforme all'equita'.
    La  differenza delle conseguenze sostanziali fra la richiesta del
risarcimento nell'ambito del giudizio penale mediante la costituzione
di  parte civile ovvero direttamente in sede civile si risolve in una
inaccettabile   differenziazione  in  contrasto  con  l'art. 3  della
Costituzione.
    B) Contrarieta' all'art. 24 della Costituzione.
    1. - La  contrarieta'  dell'art. 113 comma 2 c.p.c. nei confronti
dell'art. 24   della  Costituzione,  non  avvertita  dalla  Corte  di
cassazione,  e'  invece  stata  fermamente  sostenuta  da  autorevole
dottrina  (Cipriani,  Il giudizio di equita' necessario, in Foro it.,
1985,  V,  39; E.F. Ricci, Note sul giudizio di equita', in Riv. dir.
proc.,  1993,  408;  R. Martino,  Il  giudizio  di equita' necessario
secondo  le  Sezioni unite: profili di illegittimita' costituzionale,
in Giust. civ., 1999, 3252, ss.).
    L'art. 24 comma 1 stabilisce che «Tutti possono agire in giudizio
per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi».
    Cio'  significa  che se un diritto soggettivo e' attribuito ad un
qualsiasi  soggetto  da  una  norma di diritto sostanziale, non vi e'
«azione»  degna di questo nome, se il giudice adito puo' disapplicare
la  norma  dalla quale il diritto soggettivo discende o, addirittura,
se,  come impone l'art. 113 comma 2 quale diritto vivente, il giudice
non e' tenuto nemmeno a ricercare quella norma.
    Pertanto  e' da ritenere che il giudizio di equita', nel quale si
possa  prescindere o addirittura non sia neppure necessario conoscere
le norme di legge astrattamente applicabili, finisce per disconoscere
i  diritti  soggettivi  che  proprio  quelle norme pongono, ponendosi
cosi' in contrasto con l'art. 24 della Costituzione.
    A  siffatta  conclusione  ancor  piu'  si giunge utilizzando come
ausilio interpretativo dell'art. 24 della Costituzione l'art. 6 della
Convenzione  europea  dei diritti dell'uomo, secondo un procedimento,
che si sta diffondendo nella giurisprudenza costituzionale e non solo
del   nostro   Paese   (cfr.   Corte   Est.  sent.  n. 168/1994),  di
interpretazione, anche evolutiva, della Costituzione alla luce di una
convenzione internazionale sui diritti dell'uomo.
    Tale  art. 6 Conv. cit. stabilisce che «Ogni persona ha diritto a
che  la  sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un
termine  ragionevole  da  un  tribunale  indipendente  ed imparziale,
costituito  per  legge,  il  quale  sia chiamato a pronunciarsi sulle
controversie  sui  suoi  diritti e doveri di carattere civile o sulla
fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti».
    Come   si  vede  se  da  un  lato  l'art. 24  della  Costituzione
stabilisce  che  «Tutti  possono  agire a tutela dei propri diritti»,
l'art. 6  della CEDU a sua volta dispone che esiste un vero e proprio
diritto  dell'uomo a rivolgersi ad un giudice che decida sui «rights»
and  «obligations»  (cosi'  diritti  e  doveri nella versione inglese
della  Convenzione).  Ora, se tuttavia il giudice non deve ricercare,
giusta  l'art.  113  comma 2, la norma applicabile al caso sottoposto
finira'  per  non  decidere  su  quel diritto che detta norma prevede
proprio perche' essa non ha ricercato.
    Pertanto  ancora  piu'  evidente e' la contrarieta' dall'art. 113
comma  2 c.pc. all'art. 24 della Costituzione, letto questo alla luce
del  disposto  dell'art. 6  della  Convenzione  europea  dei  diritti
dell'uomo.
    2. - Se  da  una  parte l'art. 113 comma 2 c.p.c. lede il diritto
all'azione, dall'altra lede il diritto alla difesa del convenuto.
    Infatti  e'  noto  che  il  valore della causa si determina dalla
domanda  (art. 10  c.p.c.)  secondo  il  valore indicato dalla parte,
sicche'  criteri meramente soggettivi delle parti vengono ad incidere
sulla  forma  secondo  la  quale  al  giudice sara' imposto decidere:
secondo equita' o secondo diritto.
    Pertanto la parte che vanti un credito superiore ad Euro 1.100,00
semplicemente  frazionando la pretesa risarcitoria in piu' azioni (la
frazionabilita'  del  credito e' stata ritenuta conforme al principio
di  buona  fede  da Cass., sez. un., sentenza n. 108 del 2000) potra'
far  si' che la sentenza impugnata non solo sia frutto di un giudizio
di  equita',  ma anche che non sia appellabile e altresi' che non sia
ricorribile  per  cassazione  per  violazione delle norme di diritto,
nonche' non sia censurabile sotto il profilo della motivazione se non
nel  caso  in  cui  essa  sia solo apparente o radicale od insanabile
contraddittorieta'.
    E' palese che il diritto del convenuto di godere del doppio grado
di giurisdizione, il diritto della possibilita' di veder applicate le
norme  di  diritto, che prima ancora del giudizio, avevano regolato i
rapporti  fra  le  parti,  il  diritto di ricorrere per cassazione ex
art. 24  e  111  comma 7 della Costituzione, possono venire frustrati
per solo volere della controparte che, astutamente, abbia indicato un
valore della controversia inferiore ad Euro 1.100,00.
    Tale  possibilita'  rimessa  ad  una  delle  parti  di  ledere le
garanzie  procedurali e sostanziali della controparte, che null'altro
sono  che  espressione  del  diritto  alla  difesa di cui all'art. 24
Cost.,   si  risolve  proprio  nella  violazione  dell'art. 24  della
Costituzione.
    C) Contrarieta' all'art. 101 comma 2 della Costituzione.
    L'art. 101  comma  2  statuisce  che  «I  giudici  sono  soggetti
soltanto  alla  legge».  Cio'  comporta  l'esclusiva  soggezione  del
giudice  alla  legge  ed  impone  che l'apprezzamento del giudice con
riferimento  a canoni e criteri extragiuridici sia circoscritto entro
margini precostituiti.
    La  contrarieta'  della norma nei confronti dell'art. 101 comma 2
della  Costituzione  e'  stata  sostenuta dalla piu' accorta dottrina
processualistica (Cerino Canova, Principio di legalita' e giudizio di
equita',  in  Foro  it.,  1985, V, 30; Balena, Il processo davanti al
giudice  di  pace, in Scritti in onore di E. Fazzalari, Torino, 1993,
II, 732).
    Pare  utile  per  analizzare  il  significato dell'art. 101 della
Costituzione,  partire  da  un'analisi  dei  lavori preparatori della
Costituzione.  I  lavori preparatori dell'art. 101 della Costituzione
hanno  la  loro  genesi  nella  commissione  per  la  Costituzione  e
specificatamente  nella  seduta  del  13 dicembre 1946 venne discusso
l'art. 2  del  progetto  Calamandrei  cosi'  concepito:  «I  giudici,
nell'esercizio  delle  loro  funzioni, dipendono soltanto dalla legge
che  essi interpretano ed applicano nel caso concreto secondo la loro
coscienza,  in  quanto  la  riscontrino  conforme alla Costituzione».
Questa  formulazione  veniva  criticata  in  seno alla commissione da
Giovanni  Leone - per parte sua proponente del seguente precetto: «Il
potere  giudiziario provvede alla interpretazione ed applicazione del
diritto»  -  per  il  fatto che la soggezione del giudice alla legge,
essendo  comune  a  tutti  i  cittadini,  avrebbe  rappresentato  una
disposizione  superflua.  La  replica  del  proponente Calamandrei e'
illuminante.  Egli  ritenne  infatti  «che  sia necessario affermare,
contrariamente   al   parere   dell'on.  Leone,  il  principio  della
dipendenza  del  giudice  dalla  legge,  che ha una grande importanza
anche  pratica,  in  relazione  particolarmente  a quegli ordinamenti
giudiziari, in cui il giudice non e' vincolato dalla legge, ma decide
caso  per  caso».  La  precisazione  di  Calamandrei convinceva anche
l'on. Leone  e  faceva si che la commissione approvasse la formula da
lui  proposta,  sia  pure  con l'eliminazione della conformita' della
legge alla Costituzione.
    La regola cosi' stabilita formava oggetto di discussione da parte
dell'assemblea  costituente  il  20  novembre  1947  quando  venivano
proposti  emendamenti  soppressivi  di  essa tra i quali quelli volti
alla soppressione dell'espressione «secondo coscienza». A tale ultimo
proposito   l'on.   Ruini,   presidente   della  commissione  per  la
Costituzione,  osservava  che  «A  fronte della formula originaria si
presenta  un dilemma: o questa e' una dichiarazione generica di ovvio
significato,  ed  allora  possiamo  anche  abbandonarla,  senza molto
rincrescimento;  o  apre  la  via  ad una interpretazione che sarebbe
pericolosa,  ed allora vi e' una ragione in piu' per abbandonarla. Io
non  credo che, parlando di coscienza del giudice, si possa intendere
la   tendenza   e   l'ammissione  del  cosiddetto  «diritto  libero»,
costruzione  teorica  per  me  inammissibile; ma non discara, fra gli
altri,  all'hitlerismo. Ad ogni modo, poiche' e' stato manifestato un
dubbio,  ed il togliere l'inciso non nuoce, il comitato consente alla
sua soppressione».
    Il testo che veniva cosi' abbreviato e successivamente approvato,
si  condensava  nella  formula  del vigente art. 101 cpv.: «I giudici
sono soggetti soltanto alla legge».
    Ed  e'  questo  un  precetto  che  racchiude  in  se'  due tratti
espliciti  e  confermati  nei  lavori preparatori: l'indipendenza del
giudice e pero' il dovere di conformarsi ad una norma precostituita.
    Pertanto la disposizione dell'art. 113 comma 2 c.p.c. che rimette
al  giudice  il  potere  di  decidere senza doversi conformare ad una
norma  precostituita  e quindi, soggetto ad essa, farne applicazione,
pare in conflitto con l'art. 101 comma 2 della Costituzione.
    D) Contrarieta' all'art. 111 comma 7 della Costituzione.
    L'art. 111  comma  7 della Costituzione stabilisce che «Contro le
sentenze  (...),  pronunciate dagli organi giurisdizionali ordinari e
speciali,  e' sempre ammesso ricorso per Cassazione per violazione di
legge.  Si  puo'  derogare  a tale norma soltanto per le sentenze dei
tribunali militari in tempo di guerra».
    Tuttavia  il  ricorso  per  Cassazione per violazione di legge e'
escluso  nelle  sentenze  pronunciate secondo equita', proprio per il
fatto  che  in  quelle  sentenze  non  viene applicato il diritto, ma
sempre ed in ogni caso una regola d'equita'.
    La  conseguenza,  sostenuta dalla S.C., e' quindi che le sentenze
del  g.d.p.  pronunciate secondo equita' non possono essere impugnate
ex  art.  360  comma  3,  c.p.c.  appunto  per violazione di norme di
diritto,  se non nel limitato caso in cui le norme di diritto violate
siano quelle costituzionali o comunitarie.
    Tuttavia  l'art. 111  comma  7  della  Costituzione non limita il
ricorso  per  Cassazione alla violazione del diritto costituzionale o
comunitario,  ma  si  riferisce  in  generale  alla «legge». Non puo'
quindi  ammettersi  «che il controllo di determinate sentenze in sede
di  legittimita' sia circoscritto ad alcune soltanto delle violazioni
di  legge  ipoteticamente  denunciabili»  (Balena, Il processo, cit.,
732).
    E'  quindi da ritenere che la lettura sistematica degli artt. 111
comma  7  Cost. e 101 comma 2 Cost., implichi che le sentenze debbano
essere  pronunciate  sempre secondo diritto con la conseguenza che e'
diritto     costituzionalmente    garantito    di    ogni    soggetto
dell'ordinamento  denunciare  la  violazione di quel diritto mediante
ricorso  per cassazione (Verde, La nuova competenza del pretore e del
conciliatore, in Riv. dir. proc., 1985, 171).
    Una diversa previsione, quale quella dell'art. 113 comma 2 c.p.c.
che comporta da un lato che le sentenze non siano pronunciate secondo
diritto  e  dall'altro  che  non  siano impugnabili per violazione di
norme  di  diritto  (che  appunto non vengono applicate) e' contraria
all'art. 111 comma 7 della Costituzione.
    E) Contrarieta' all'art. 134 della Costituzione.
    La  previsione  secondo  la  quale  il  giudice  non  debba  fare
applicazione  della  norma  giuridica comporta un ulteriore ordine di
problemi.
    La suprema Corte ha ammesso che il giudice debba conformarsi alla
Costituzione  e  solo  in caso di violazione della stessa la sentenza
possa  essere  impugnata  per violazione di legge ex art. 360 comma 1
n. 3.
    Tuttavia   tale   previsione  e'  contraria  all'art.  134  della
Costituzione  in  quanto, in taluni casi, finirebbe per togliere alla
Corte  costituzionale  il  suo ruolo istituzionale di sindacare sulla
costituzionalita' delle leggi.
    Infatti  va  valutato  il  caso  in  cui il giudice di pace abbia
applicato  una legge in quanto, a suo parere, equa, ma tale legge sia
in  conflitto e violi la Costituzione. Secondo quanto affermato dalla
suprema  Corte  in  caso di violazione della Costituzione la sentenza
puo' essere impugnata per violazione o falsa applicazione di norme di
diritto  e  nel qual caso la norma di diritto violata sarebbe proprio
la Costituzione, ma violata proprio sul presupposto dell'applicazione
di una legge incostituzionale.
    Pertanto  la  Cassazione chiamata a pronunciarsi sulla violazione
della   Costituzione   dovrebbe   pronunciarsi   sulla   legittimita'
costituzionale proprio di quella legge, equa, ma incostituzionale.
    Cio'  facendo  vi  sarebbe  un'impropria sostituzione di ruoli in
quanto  la  incostituzionalita'  di  una  legge  finirebbe per essere
decretata,  nel  caso  di specie, da un organo differente dalla Corte
costituzionale.
    Cosi' di fatto verrebbe meno il rispetto del sistema di sindacato
accentrato  della  costituzionalita' delle leggi, in favore invece di
uno  diffuso,  o  meglio,  accentrato  nella  Cassazione  (essendo le
sentenze cosi' emesse unicamente ricorribili per cassazione).
    Pertanto  l'art. 113 comma 2 c.p.c., quale diritto vivente, e' da
reputarsi in conflitto anche con l'art. 134 della Costituzione.
    Va  infine  aggiunto  che una lettura sistematica degli artt. 24,
101  comma 2 e 111 comma 7 della Costituzione milita a sostegno della
tesi  di  incostituzionalita'  sostenuta, cosi' come appunto rilevato
dalla dottrina.
    L'art. 24  sancisce  il  diritto  d'azione  e  lo riconnette alla
«tutela di un proprio diritto soggettivo ed interesse legittimo».
    L'art.  101  completa questo concetto stabilendo che quella norma
giuridica,   che  e'  fondamento  del  diritto  e  della  sua  tutela
giudiziale,  e'  anche  la  misura  della  decisione  del giudice: il
vincolo  posto  all'attore  trova  piena corrispondenza in un omologo
vincolo per il giudice.
    L'art. 111  comma  7  della  Costituzione,  con la previsione del
ricorso  per  cassazione per violazione di legge conferisce ulteriore
consistenza  a questa relazione biunivoca diritto sostantivo-processo
che regge l'intera vicenda giudiziale dalla domanda alla pronuncia.
    La  recezione  costituzionale  dell'impugnazione  di legittimita'
implica   «la   consacrazione   delle  due  funzioni  essenziali  che
istituzionalmente   appartengono   alla  Cassazione:  nomofilachia  e
uniformita'  della  giurisprudenza»  (Cerino Canova, op. cit., 31). E
queste  sono  funzioni  che  si  esplicano  verso le sole pronunce di
merito  e  consistono  soprattutto  nel  controllo  degli  errores in
iudicando  e  cioe' nelle violazioni delle norme di diritto materiale
vincolanti per il giudice. Dette funzioni sono espressamente affidate
alla  suprema  Corte  dall'art. 65  r.d.  n. 12  del  1941  che cosi'
dispone:  «La Corte suprema di cassazione, quale organo supremo della
giustizia,  assicura l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione
della  legge,  l'unita'  dal diritto oggettivo nazionale, il rispetto
dei  limiti  delle  diverse giurisdizioni». Tali attribuzioni ad essa
affidate   dalla   legge   ordinaria   hanno  poi  assunto  il  rango
costituzionale   attraverso   il   disposto   dell'art.   111   della
Costituzione.  E  tuttavia  la  suprema  Corte,  nei  confronti delle
pronunce  del g.d.p. nelle cause di valore inferiore ad Euro 1.100,00
pronunciate  secondo  equita'  senza  applicazione  del  diritto, non
potra'  esercitare  dette funzioni in evidente contrasto non solo con
l'art. 65  r.d.  cit.,  ma proprio con l'art. 111 della Costituzione.
Dal  quadro costituzionale sovra esposto e' quindi da ritenere che la
giurisdizione  altro  non  sia  che  l'attuazione di norme di diritto
materiale  preesistenti con la conseguenza che una norma che discosti
la  funzione  giurisdizionale  da tale compito e' in conflitto con la
Costituzione  ed in particolare con gli articoli 24, 101 comma 2, 111
comma7.
    Non   vi   e'   dubbio  che  la  questione  di  costituzionalita'
presupponga  il  recepimento  della  dottrina  del  diritto  vivente,
poiche',  si  preme  sottolinearlo,  e'  impugnato l'art. 113 comma 2
c.p.c.  secondo  il  diritto  vivente e non l'art. 113 comma 2 c.p.c.
come norma suscettibile di molteplici e differenti interpretazioni.
    Sembra  pertanto  utile  brevemente riassumere il rapporto fra il
diritto  vivente  e  il  giudizio  di costituzionalita' cosi' come e'
stato affrontato dalla piu' recente giurisprudenza costituzionale.
    Ove  la  questione  di  costituzionalita',  come  nel  caso  oggi
all'attenzione di codesto ill.mo giudice, abbia ad oggetto il diritto
vivente,  cio'  significa  che  si chiede che la Corte costituzionale
sindachi  la  disposizione  impugnata  per  il  significato normativo
attribuitole  dall'interpretazione giurisprudenziale che si e' venuta
consolidando.
    Gia'  a  partire  dalla sent. 24 del 1978 la Corte costituzionale
osservava:    «L'interpretazione    data    alla   norma   denunziata
dall'ordinanza  di  remissione  riflette l'ordinamento ormai pacifico
degli    organi   giurisdizionali   istituzionalmente   chiamati   ad
applicarla.  Pertanto  questa  Corte  non  puo' non prenderne atto ed
esaminare,  movendo  da  tale  presupposto, il dubbio di legittimita'
costituzionale  sollevato  con  l'ordinanza  in  epigrafe». E' poi in
numerose  altre  decisioni  riconosce che alla norma vivente «occorre
aver    riguardo   per   la   soluzione   della   questione»   (Corte
costituzionale, sent. n. 32 del 1971), ovvero che la Corte e' «tenuta
a   pronunciarsi   sulla  legittimita'  costituzionale  della  norma»
espressione  «di  una  cosi'  diffusa  linea  interpretativa  da  non
consentire  che  la si possa disattendere nella presente sede» (Corte
costituzionale, sent. 113 del 1986).
    Tuttavia  l'esistenza  di  un  diritto vivente «non significa che
esso   equivale   a   diritto   conforme  alla  Costituzione»  (Corte
costituzionale,  sentt. 69 del 1982 e 167 del 1984). E quindi proprio
nei  casi in cui detto diritto vivente espressione di una consolidata
giurisprudenza  sia in conflitto con i precetti costituzionali potra'
essere oggetto del sindacato di costituzionalita'.
    Il   ruolo  delle  sezioni  unite  risulta  secondo  la  Consulta
essenziale, in particolare quando risolvendo un contrasto ermeneutico
si  determina  il prevalere di una soluzione normativa sull'altra. In
particolate  pare  utile  citare  la  sentenza n. 260 del 1992 ove si
parla  di  «diritto  vivente  formatosi  per  effetto della soluzione
adottata  dalle  sezioni  unite della Cassazione» ovvero la decisione
n. 292  del  1985  ove  si  parla di «diritto vivente, autorevolmente
rappresentato  dalle  sezioni  unite penali della Corte di cassazione
che,  con  due  ordinanze,  ha  eliminato il contrasto tra giudici di
merito».  E  proprio  nei  confronti  di  un  diritto  vivente basato
sull'interpretazione  delle  sezioni  unite  della Cassazione si sono
avute  declaratorie  di  incostituzionalita',  in  particolare  nelle
sentenze  n. 185  del 1995; n. 332 del 1988; n. 692 del 1988; n. 1143
del 1988; n. 61 del 1991; 156 del 1991.
    Piu'   recentemente   a   far  chiarezza  sulla  possibilita'  di
sottoporre  al  vaglio  della  Corte costituzionale una consolidata e
ferma esegesi della Cassazione sovvengono le sentenze n. 110 del 1995
e 118 del 1995.
    Nella sentenza n. 110 del 1995 cosi' si esprime la Consulta:
    «Quando il giudice a quo assume una interpretazione in termini di
diritto  vivente allora e' consentito chiedere l'intervento di questa
Corte    affinche'   controlli   la   compatibilita'   dell'indirizzo
consolidato con i principi costituzionali».
    Nella successiva sentenza n. 118 del 1995 la Corte costituzionale
ha ribadito il concetto gia' precedentemente espresso:
    «Assumendo  l'interpretazione  consolidata della Cassazione quale
diritto  vivente  e' possibile chiederne una verifica sul piano della
costituzionalita',  rientrando  cio' nel sindacato di legittimita' di
questa Corte».
    Ed il caso odierno va guardato proprio in quest'ottica. Vi e' una
sentenza  delle  sezioni  unite della Cassazione, la n. 716 del 1999,
cui  ha fatto seguito una serie di pronunce delle sezioni semplici ad
essa conformi, che si sono susseguite negli anni, accogliendone senza
discostarsene  l'insegnamento  interpretativo. Pertanto proprio sulla
base  di  quell'interpretazione  delle  sezioni  unite, fatta propria
anche  dalle  sezioni  semplici,  si puo' affermare l'esistenza di un
diritto vivente dell'art. 113 comma 2 c.p.c.
    Ed  e'  nei  confronti  di  esso  che  si  chiede  che  la  Corte
costituzionale   si   pronunci  sulla  sua  conformita'  ai  precetti
costituzionali  nei  sensi  che la Consulta ha ammesso, tra le altre,
nelle succitate sentenze n. 110 del 1995 e 118 del 1995.
    Pertanto  a nulla rilevano le altre interpretazioni possibili del
concetto  di  equita'  che sono state respinte dall'ormai consolidato
indirizzo della giurisprudenza di legittimita'.
    L'equita'  come  risulta  dall'art.  113,  comma  2  c.p.c. sara'
quindi,  secondo  quanto  specificato  nella sentenza n. 716 del 1999
della  Cassazione,  un'equita'  sostitutiva,  non  integrativa, e nel
procedimento  di  equita'  il  giudice  non dovra' ricercare la norma
astrattamente applicabile.
    Infine   merita   attenzione   un'ultima  riflessione  sulla  non
manifesta   infondatezza   della   questione  sollevata.  Va  infatti
precisato  che  al  giudice  a  quo  e' rimesso un giudizio sulla non
manifesta  infondatezza  e  quindi  sull'esistenza di un fumus che la
questione  di  costituzionalita'  puo' avere, poiche', per volere del
legislatore   costituzionale,  il  giudizio  sulla  fondatezza  della
domanda  spettera'  solo  ed  unicamente  alla  Corte costituzionale.
Ritiene  l'odierno  istante che le tesi sopra esposte non siano prive
di  un  loro  senso  e,  se  non  altro  perche' prospettate anche da
dottrina  di indubbia autorevolezza (cfr. Cerino Canova, Balena), non
possano ritenersi manifestamente infondate. Ed inoltre nella presente
istanza sono state sollevati numerosi profili di illegittimita' della
norma   e  certamente  taluni  di  essi  appaiono  senza  dubbio  non
manifestamente    infondati.    Sara'   poi   compito   della   Corte
costituzionale  analizzare ogni singolo profilo di illegittimita' qui
sollevato.
    In  particolare  nel  valutare  la  non  manifesta fondatezza dei
profili  di  illegittimita' costituzionale si sottolinea l'importanza
di   tener   presente   quel   principio   sottolineato  dalla  Corte
costituzionale   nella   sentenza   n. 349/1985   secondo   la  quale
«L'affidamento  del  cittadino  nella  certezza giuridica costituisce
elemento  fondamentale  e  indispensabile  dello  Stato  di diritto».
Risulta  certo  evidente  come  una  tutela  giurisdizionale  che non
permetta  di  richiedere l'applicazione delle norme, ma si basi sulla
applicazione  di  soggettive  regole  (varianti da giudice a giudice)
certamente  configge  e mina quel principio di certezza giuridica che
sta,  secondo  la  Corte  costituzionale,  alla  base  dello Stato di
diritto.
    Per  tutti i suesposti motivi e' da ritenersi che la questione di
costituzionalita'  sollevata dell'art. 113 comma 2 c.p.c., secondo il
diritto vivente, nei confronti degli artt. 3, 24, 101, comma 2 e 111,
comma 7, 134 della Costituzione non sia manifestamente infondata.
    E' inoltre indubbio che l'eventuale incostituzionalita' dell'art.
113,  comma  2  c.p.c. ha una diretta rilevanza nel presente giudizio
poiche'   la   caducazione   della   norma   ad   opera  della  Corte
costituzionale imporrebbe a S. V. ill.ma di giudicare secondo diritto
anziche' secondo equita'.
    La rilevanza non consiste quindi solo nel fatto che l'esito delle
controversia  potrebbe essere differente se giudicata secondo diritto
o  secondo equita' sulla base di una possibile discrepanza fra regola
d'equita'  e regola di diritto, ma in particolare rileva per il fatto
che  la  decisione,  sia  essa  di  accoglimento  o  di rigetto delle
richieste attoree, sara' contenuta in una sentenza d'equita' o in una
sentenza  di diritto. Nel primo caso alla parte soccombente, attore o
convenuto  che  sia,  sara'  impedito  da  una  parte  ricorrere  per
violazione  di legge in Cassazione, perche' in ogni caso e' applicata
la  norma  d'equita'  (foss'anche  coincidente con il dato legale), e
dall'altra la sentenza non potra' essere censurata ove la motivazione
appaia illogica o contraddittoria.
    L'art.  113,  comma  2 c.p.c. preclude infatti la possibilita' di
denunciare  in  Cassazione i vizi logici e di motivazione, tranne nei
casi  ove  la  motivazione  sia  da  ritenersi  meramente apparente o
inesistente.   Nei   casi  invece  di  motivazione  solo  illogica  e
contraddittoria  non sara' ammessa alcuna forma di censura. E' quindi
chiara  la  rilevanza  della  questione  poiche'  investe  due  punti
fondamentali della decisione del presente procedimento:
        1)  l'obbligo  di  applicare  la legge ovvero di applicare la
regola  d'equita'  e  quindi  l'impossibilita'  in  quest'ultimo caso
prescritto  dall'art.  113,  comma  2  c.p.c.  di ricorrere contro la
sentenza  per  violazione  di  legge  poiche'  la stessa non e' stata
applicata  essendo  invece  stata applicata la regola d'equita' anche
nel caso in cui essa coincida con la legge;
        2)   la   necessita'  per  il  giudice  di  motivare  con  un
procedimento  logico-giuridico  ineccepibile  la sua decisione attesa
l'impossibilita'  del  ricorso per cassazione ex art. 360 n. 5 c.p.c.
tranne nei casi di mera apparenza o inesistenza della motivazione.
    Pertanto   la  questione  sollevata  e'  rilevante  nel  presente
giudizio in quanto direttamente incidente sulla natura della sentenza
d'equita'  o  di  diritto,  decisoria della controversia con tutte le
connesse  conseguenze  sul piano dell'impugnazione e sull'obbligo per
il   giudice   di   motivare  adeguatamente  e  secondo  un  processo
argomentativo esente da vizi logici.
    La  rilevanza  della  questione attiene inoltre anche ad un altro
profilo:  l'interprete,  ed  in primis il giudice, e' sempre tenuto a
seguire  il procedimento esegetico di cui agli articoli 1362 ss. c.c.
per  interpretare  un  contratto. L'eventuale errore nel procedimento
interpretativo  seguito  sara'  sempre, in un normale procedimento di
diritto,  denunciabile  sotto il profilo della violazione delle norme
relative all'interpretazionne dei contratti. Pertanto la questione e'
altresi'    rilevante    in    quanto    l'eventuale    dichiarazione
dell'illegittimita'  della  norma  imporrebbe  a  codesto  giudice il
rispetto  anche  delle  norme  sull'interpretazione  dei contratti al
quale invece nell'attuale vigenza dell'art. 113, comma 2 c.pc. non e'
affatto tenuto.
    Si  precisa infine che nella presente causa si e' di fronte a due
contratti  intervenuti uno fra lo Zulberti ed il Ceretti (mandato) ed
un  secondo  fra  lo Zulberti ed il Russo (espromissione) e quindi le
norme  di cui agli articoli 1362 c.c. e segg. sarebbero certamente la
fonte  per  l'interpretazione  di detti contratti e vincolerebbero il
giudice  in un procedimento secondo diritto, ma non lo vincolano come
ora in un giudizio secondo equita».
    Dopo  quanto esposto, si ritiene quindi di sollevare nei limiti e
nel   senso   come   sopra  prospettati,  questione  di  legittimita'
costituzionale.
                              P. Q. M.
    Visti  gli  articoli  134 Costituzione e 23, legge 11 marzo 1955,
n. 87;
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita'   costituzionale  dell'art.  113, comma  2,  c.p.c.  nei
confronti  degli  artt.  3,  24,  101,  secondo comma, e 111, settimo
comma, della Costituzione;
    Sospende il presente procedimento e dispone la trasmissione degli
atti alla Corte costituzionale;
    Manda  alla  cancelleria  per  gli adempimenti di cui all'art. 23
della legge n. 87/1953.
        Trento, addi' 7 luglio 2003
                          Il giudice: Serra
03C1192