N. 922 ORDINANZA (Atto di promovimento) 7 luglio 2003
Ordinanza emessa il 7 luglio 2003 dal tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di Safadi Abdelkrim Processo penale - Applicazione della pena su richiesta delle parti - Modifiche normative - Disciplina transitoria - Possibilita' per le parti di formulare la richiesta di cui all'art. 444 cod. proc. pen., come modificato, anche nei processi penali in corso di dibattimento, per reati gia' «patteggiabili» prima della novella, nei quali l'imputato non aveva presentato richiesta - Sospensione del dibattimento, su richiesta dell'imputato, per un periodo non inferiore a quarantacinque giorni per valutare l'opportunita' della richiesta - Decorrenza del termine per richiedere la sospensione del processo dalla prima udienza utile anziche' dalla entrata in vigore della legge - Violazione del principio di ragionevolezza - Lesione del principio della ragionevole durata del processo. - Legge 12 giugno 2003, n. 134, artt. 1, comma 1 e 5, commi 1 e 2. - Costituzione, artt. 3 e 111.(GU n.46 del 19-11-2003 )
IL TRIBUNALE Ha emesso la seguente ordinanza. Il giudice, pronunciandosi a scioglimento della riserva assunta all'udienza del 4 luglio 2003 nell'ambito del processo emarginato nei confronti di Safadi Abdelkrim, nato a Casablanca (Marocco) il 4 gennaio 1961, residente in Cuneo, via XXVIII Aprile n. 27, difeso di fiducia avv. Aldo Serale del Foro di Cuneo; Premesso che Safadi Abdelkrim e' stato citato a giudizio per rispondere dei reati di cui agli artt. 648, 474 c.p. commessi in Torino il 17 marzo 2001; che il processo a suo carico si trova gia' in fase dibattimentale, essendo stato dichiarato aperto il dibattimento in data 25 marzo 2003 ed essendo state in pari data ammesse le prove richieste dalle parti, la cui assunzione era prevista all'udienza del 4 luglio u.s.; che, invece, in apertura della scorsa udienza il pubblico ministero ha proposto istanza di applicazione della pena nella misura di anni 1 mesi 6 di reclusione ed Euro 300 di multa ai sensi dell'art. 444, comma 1 c.p.p. come modificato dall'art. 1, legge 12 giugno 2003, n. 134; che, data la gia' avvenuta scadenza dei termini previsti dagli artt. 446, comma 1 e 555, comma 2 c.p.p. per la presentazione, dell'istanza di patteggiamento, il pubblico ministero ha invocato l'applicazione della norma transitoria di cui all'art. 5, comma 1, legge n. 134/2003, il quale testualmente recita: «l'imputato, o il suo difensore munito di procura speciale, e il pubblico ministero, nella prima udienza utile successiva alla data di entrata in vigore della presente legge, in cui sia prevista la loro partecipazione, possono formulare la richiesta di cui all'art. 444 c.p.p., come modificato dalla presente legge, anche nei processi penali in corso di dibattimento nei quali, alla data di entrata in vigore della presente legge, risulti decorso il termine previsto dall'art. 446, comma 1 c.p.p. e cio' anche quando sia gia' stata presentata tale richiesta, ma vi sia stato il dissenso da parte del p.m. o la richiesta sia stata rigettata da parte del giudice e sempre che la nuova richiesta non costituisca mera riproposizione della precedente»; che il difensore dell'imputato, sebbene non munito di procura speciale, ha chiesto - in applicazione dell'art. 5, comma 2, legge n. 34/2003 - la sospensione del dibattimento «per un periodo non inferiore a quarantacinque giorni per valutare l'opportunita' della richiesta»; Tutto cio' premesso; O s s e r v a Ad avviso di questo giudice, la disciplina dettata dalla legge 12 giugno 2003, n. 134, che ha introdotto nell'ordinamento il c.d. «patteggiamento allargato», ed in particolare la norma transitoria dettata dall'art. 5 in relazione alla possibilita' di patteggiare pene contenute entro i due anni di reclusione anche nei processi in corso, si pone in contrasto con la Costituzione, di cui pare violare gli artt. 3 e 111 della Carta fondamentale. La possibilita' di proporre istanza di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. in misura non superiore a due anni di reclusione era gia' prevista prima dell'entrata in vigore della legge n. 134/2003, la quale infatti non ha minimamente inciso su tale facolta'. E' stato evidenziato dai primi commentatori che la legge n. 134/2003 non ha introdotto un «nuovo» istituto (vale a dire una sorta di «terzo» rito alternativo), che si affianca al patteggiamento gia' contemplato nel codice di rito, bensi' - e piu' semplicemente - ha soltanto ridisegnato quest'ultimo, ampliandone l'ambito di applicazione. Infatti, anche a seguito delle modifiche apportate dalla novella, l'istituto rimane disegnato nei suoi caratteri fondamentali in maniera unitaria, come rito alternativo a quello ordinario, legato alla negoziazione dell'entita' della pena tra accusa e difesa, con implicita rinuncia da parte dell'imputato all'accertamento dibattimentale dei fatti contestatigli in cambio dell'applicazione di una pena diminuita fino ad un terzo. In quest'ambito, poi, il legislatore ha tracciato un'inedita linea di demarcazione rappresentata dalla negoziazione di una pena detentiva non superiore ai due anni, ribadendo solo in questi casi l'operativita' dei benefici originariamente collegati alla scelta del rito e ammettendo, sempre solo in questi casi, un accesso indiscriminato al patteggiamento, senza limitazioni cioe' legate al tipo del reato o del suo autore. Stando cosi' le cose, si puo' senz'altro affermare che l'essenza dell'intervento di riforma puo' essere individuata sostanzialmente nell'innalzamento dei limiti della pena detentiva negoziabile ai sensi dell'art. 444 c.p.p. e che l'obiettivo che il legislatore si e' prefisso attraverso la legge n. 134/2003 e' quello di alleggerire il contenzioso penale, conferendo al patteggiamento la massima potenzialita' deflattiva. Nella realta', tuttavia, questo obiettivo non pare veramente perseguito, almeno con riferimento, ai processi in corso, ai quali si applica la norma transitoria di cui all'art. 5 della legge n. 134/2003. Tale norma prevede una generalizzata restituzione in termini per la proposizione (o riproposizione) della richiesta di patteggiamento anche per reati in precedenza patteggiabili con pena contenuta entro i due anni di reclusione ed anche nei casi in cui l'imputato non abbia mai manifestato in passato la volonta' di accedere al patteggiamento e sia stato, di conseguenza, dichiarato aperto il dibattimento. Inoltre, la norma in commento prevede la sospensione obbligatoria del dibattimento per un periodo minimo di 45 giorni, solo che l'imputato ne faccia richiesta, semplicemente per consentire a quest'ultimo di riflettere sull'opportunita' di presentare istanza di patteggiamento, e tale possibilita' e' concessa, ancora una volta, anche nel caso in cui l'imputato - pur avendone avuto la possibilita' - non abbia mai inteso presentare istanza alcuna. La disciplina complessivamente risultante confligge apertamente con l'obiettivo della deflazione del dibattimento perseguito dal legislatore e si pone in contrasto con gli artt. 3 e 111 Costituzione. I profili di incostituzionalita' possono essere enucleati, ad avviso di questo giudice, come segue. Quanto al contrasto con l'art. 3 Costituzione, giova ricordare anzitutto che dalla stessa Corte costituzionale e' stato piu' volte posto in luce il carattere premiale del rito del patteggiamento (cfr. ordinanza n. 172 del 1998), che riposa sul fatto che l'interesse dell'imputato a beneficiare dei vantaggi conseguenti a tale giudizio in tanto rileva in quanto egli rinunzi al dibattimento e venga percio' effettivamente adottata una sequenza procedimentale che consenta di raggiungere l'obiettivo di rapida definizione del processo perseguito dal legislatore con l'introduzione di detto rito speciale (cfr. sentenza n. 129 del 1993). La disciplina transitoria introdotta dall'art. 5, legge n. 134/2003, invece, ha totalmente disatteso il principio della rapida definizione del processo, prevedendo una indiscriminata rimessione in termini nei confronti di tutti gli imputati, per tutti i reati ed in relazione a tutti i processi in corso, a prescindere dalla fase processuale in cui si trovano e, dunque, anche in fase di discussione. L'irragionevolezza di tale disciplina - completamente sbilanciata in favore di un diritto assoluto dell'imputato, che non e' dato rinvenire nell'ordinamento - appare ancora piu' evidente ove si consideri che, a semplice richiesta dell'imputato, occorrerebbe procedere alla sospensione del processo per un periodo non inferiore a 45 giorni anche nel caso in cui, come quello che ci occupa, l'imputato non ha mai presentato nei termini di cui agli artt. 446 comma 1 e 555, comma 2 c.p.p. la benche' minima proposta di patteggiamento. In tal modo, evidentemente, egli ha gia' dimostrato nei fatti che il rito premiale del patteggiamento non rivestiva per lui alcun interesse e che, pertanto, intendeva sottoporsi al giudizio ordinario di merito, con tutte le garanzie anche in relazione all'accertamento del fatto e della responsabilita' che ne costituiscono indefettibile corollario. La riforma del «patteggiamento allargato», dunque, non riguarda tale categoria di imputati, posto che: a) identica e' la pena entro la quale e' gia' possibile il patteggiamento; b) identici sono i benefici sostanziali connessi ad una pronuncia di patteggiamento; c) identici sono gli atti sulla base dei quali operare, se del caso, la scelta del rito deflattivo. Non si comprende, pertanto, in base a quale principio si dovrebbe consentire all'imputato di riflettere per un periodo non inferiore a 45 giorni per nuovamente valutare cio' che egli ha gia' ampiamente valutato. Ed ancor piu' irragionevole appare la disciplina complessiva, ove si rifletta sul fatto che la legge non prevede il termine di sospensione per proporre l'istanza di patteggiamento, ma soltanto per valutare l'opportunita' di tale scelta, con cio' ottenendosi nei fatti un risultato opposto a quello dichiaratamente perseguito dal legislatore: l'ingiustificata lungaggine del processo piuttosto che la sua rapida definizione! Cio' determina un ulteriore profilo di incostituzionalita', ravvisabile nella violazione del principio della ragionevole durata del processo di cui all'art. 111 Costituzione. E' gia' stato posto in luce da piu' parti che il principio della durata ragionevole del processo non e' stato introdotto per beneficio esclusivo dell'imputato, che in realta' in alcuni casi ha l'interesse opposto, cioe' l'interesse a veder procrastinare il piu' possibile la conclusione del processo a suo carico per usufruire degli effetti della prescrizione ovvero per evitare, ad esempio, l'espiazione della pena detentiva, il pagamento di spese processuali o il risarcimento del danno in favore delle parti civili. Il principio della ragionevole durata del processo, viceversa, e' principio di portata generale, posto a tutela e garanzia di tutte le parti processuali e dunque anche della persona offesa e dell'intera collettivita', nonche' dello Stato: la prima interessata a vedere riconosciute le proprie legittime aspettative ed i secondi interessati ad un rapido accertamento dei reati e delle responsabilita' individuali anche a fini di prevenzione sociale. L'interpretazione estensiva dell'art. 111 Costituzione, inoltre, appare fondata anche alla luce della produzione legislativa successiva alla modifica della norma costituzionale. E' noto infatti che l'Italia e' stata piu' volte condannata dalla Corte europea per l'eccessiva durata dei processi e la condanna si fonda sul principio che ciascun paese deve dotarsi di leggi processuali che consentano una rapida definizione dei processi. Per ovviare alle condanne in sede europea, l'Italia ha introdotto la legge 24 marzo 2001, n. 89, che assegna alle parti un'equa riparazione allorche' il processo abbia avuto una durata eccessiva, indipendentemente dalle ragioni che l'abbiano determinata. L'equa riparazione spetta non solo all'imputato, ma anche alla parte civile, dal che si evince che la ragionevole durata del processo non e' un diritto solo dell'imputato, ma anche delle altre parti processuali ed assurge quindi a principio generale. Numerose sono, infatti, le norme processuali che stabiliscono tempi ragionevolmente contenuti per lo svolgimento di attivita' processuali o per l'esercizio di facolta' che il codice di rito riconosce all'imputato, ad esempio la scelta dei riti speciali: basti pensare, sotto il primo profilo, all'art. 477 c.p.p. sulla durata prosecuzione del dibattimento e, sotto il secondo profilo, all'art. 458 c.p.p. per la richiesta di rito abbreviato o del patteggiamento in caso di giudizio immediato (15 giorni dalla notifica del decreto, a pena di decadenza), agli artt. 438 e 446 c.p.p. per la scelta di un rito alternativo all'udienza preliminare (fino a che non siano formulate le conclusioni); agli artt. 446 e 555 c.p.p. per la richiesta di riti alternativi rispettivamente nel giudizio direttissimo e giudizio per citazione diretta (prima della dichiarazione di apertura del dibattimento). Come si vede, si tratta di tempi contenuti e predeterminati, che si giustificano con lo spirito deflattivo del rito perseguito dal legislatore, il quale puo' dirsi rispettato esclusivamente quando l'imputato fa in effetti risparmiare allo Stato tempo e risorse umane ed economiche. Tornando alla disciplina transitoria in esame, si osserva come il legislatore abbia improvvisamente invertito la rotta e, pur vertendosi in materia analoga a quella precedentemente disciplinata dalle norme richiamate, ha introdotto termini eccessivamente dilatati per l'esercizio di una facolta' gia' riconosciuta all'imputato anche prima della riforma e di cui, pur potendo usufruirne, egli aveva deciso di non avvalersi. Ed ancor piu' dilatato il termine appare ove si consideri che quel termine, in realta', non e' concesso per esercitare una facolta', ma soltanto per riflettere sull'opportunita' di esercitare la facolta', ben potendo l'imputato allo scadere del periodo dei 45 giorni decidere unilateralmente di non proporre alcuna istanza di applicazione della pena ovvero di non accettare quella proposta dal pubblico ministero. Deve quindi affermarsi che non corrisponde ai parametri costituzionali di ragionevolezza (art. 3 Cost) e di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.) la norma che consente di sospendere indiscriminatamente il processo per 45 giorni e di richiedere l'applicazione della pena anche nei processi in corso per reati che sarebbero gia' stati prima patteggiabili ad una pena contenuta entro i due anni di reclusione ed in cui l'imputato non aveva presentato alcuna proposta in tal senso. Parimenti irragionevole e', infine, la previsione della decorrenza del termine di riflessione dalla prima udienza utile, anziche' dall'entrata in vigore della legge. Ogni cittadino e' tenuto a conoscere le leggi pubblicate e correlativamente ogni imputato e' posto in grado, dal momento in cui la legge n. 134/2003 e' stata pubblicata, di valutare l'opportunita' di avvalersi della pena concordata. A cio' si aggiunga che ogni imputato e' assistito da un difensore con il quale ha la immediata possibilita' di consultarsi per valutare l'opportunita' della scelta de qua. Ne consegue che non appare rispondere ad alcun principio di ragionevolezza e di contrazione dei termini di durata del processo la concessione di un termine, di durata gia' di per se' notevole, decorrente per di piu' non gia' dall'entrata in vigore della legge, ma dalla prima udienza utile e senza alcuna distinzione fra i processi nei quali l'istruttoria e' gia' in corso o addirittura e' gia' conclusa; processi nei quali, pertanto, il materiale probatorio e' interamente noto all'imputato (e al suo difensore), che e' oggettivamente in grado di valutare fin da subito le scelte processuali e non necessita affatto di una pausa di riflessione - decorrente per di piu' dalla prima udienza utile, che potrebbe anche essere successiva di molti mesi all'entrata in vigore della legge - per dichiarare se intenda patteggiare oppure no, senza che cio' configuri alcuna lesione el diritto di difesa. Anche sotto questo profilo, dunque, l'art. 5, comma 2, legge n. 134/2003 contrasta con il principio costituzionale della durata ragionevole del processo e nel bilanciamento tra l'interesse dell'imputato e l'interesse generale ad una durata ragionevole sembra a questo giudice debba prevalere il secondo. Per quanto sopra detto, la questione di legittimita' costituzionale pare non manifestamente infondata e, quanto alla rilevanza nel presente giudizio, va soltanto osservato che questo giudice dovrebbe obbligatoriamente sospendere il processo in corso, essendosi verificati i presupposti fissati dalla norma transitoria, che se venisse per contro riconosciuta incostituzionale consentirebbe l'immediata ripresa del processo.
P. Q. M. Visti la legge cost. 9 febbraio 1948, n. 1 e l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87; Ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 1, comma 1, 5, comma 1 e 2 legge 12 giugno 2003, n. 134 per contrasto con gli artt. 3 e 111 Costituzione nei limiti e nei termini di cui in motivazione; Dichiara la sospensione del giudizio in corso ed ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Dispone che la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Cosi' deciso in Torino il 7 luglio 2003 Il giudice: Podda 03C1194