N. 1017 ORDINANZA (Atto di promovimento) 10 luglio 2003

Ordinanza  emessa  il  10  luglio  2003 dalla Corte di cassazione nel
procedimento penale a carico di Tega Claudio ed altri

Processo  penale  - Mezzi di ricerca della prova - Intercettazioni di
  comunicazioni  tra  presenti nei luoghi indicati dall'art. 614 cod.
  pen.  -  Modalita'  di  attuazione  delle intercettazioni - Mancata
  previsione   -   Lesione   del  principio  dell'inviolabilita'  del
  domicilio.
- Cod.  proc.  pen., art. 266, comma 2; decreto legge 13 maggio 1991,
  n. 152,  convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991,
  n. 203, art. 13.
- Costituzione, art. 14.
(GU n.48 del 3-12-2003 )
                       LA CORTE DI CASSAZIONE

    Ha  pronunciato la seguente ordinanza sui ricorsi proposti da: 1)
Tega  Claudio,  nato  a  Milano l'11 gennaio 1952, 2) Fassi Maurizio,
nato  a  Marcallo  con  Casone  (MI)  il  15  maggio 1955, 3) Bruschi
Daniela, nata a Milano il 31 dicembre 1961, 4) Pungetti Marco, nato a
Milano  il 25 dicembre 1960, 5) Bravi Alberto, nato a Sabbioneta (MN)
il  19  giugno  1951, 6) D'Avino Michele, nato a Ferrara il 25 aprile
1945, 7) Dinardi Giuseppe, nato ad Altamura (BA) il 4 maggio 1963, 8)
Delisse Corinne Josephine, nata a Namur (Belgio) il 9 giugno 1966, 9)
Grieco  Maria,  nata  a Cerignola (FG) il 15 febbraio 1942, 10) Leoni
Daniele  Gualtiero,  nato  a  Milano il 2 ottobre 1956, 11) Peregalli
Roberto,  nato  a Voghera (PV) il 9 aprile 1954, 12) Pristeri Emilio,
nato  a  Milano il 28 agosto 1969, 13) Saias Vittorio, nato a Cassina
De'  Pecchi (MI) il 24 dicembre 1968, 14) Wohinz Massimiliano, nato a
Milano  il  14  ottobre  1958, avverso la sentenza resa il 23 ottobre
2001 dalla Corte di appello di Milano.
    Vista la sentenza denunciata e il ricorso;
    Udita  la  relazione  svolta in udienza dal consigliere Pierluigi
Onorato;
    Udito  il pubblico ministero in persona del sostituto procuratore
generale  Gioacchino  Izzo,  che ha concluso chiedendo il rigetto del
ricorso;
    Udito il difensore della parte civile, avv. == ;
    Uditi  i  difensori  deghi  imputati,  avv. Dario  Bolognesi  per
Pristeri,  avv. Simon  Pietro Ciotti, in sostituzione dell'avv. Perla
Sciretti,  per  Fassi,  avv.  Sergio Oliosi per Delisse, e avv. Paolo
Emilio  Quaranta per Tega e Bruschi, che hanno chiesto l'accoglimento
dei rispettivi ricorsi, osserva:

                      Svolgimento del processo

    1. - Pronunciando in sede di rinvio, a seguito di annullamento di
una  precedente  sentenza  disposto  dalla  quarta  sezione penale di
questa  Corte  di  cassazione  in  data  12 gennaio 1999, la Corte di
appello  di Milano, con l'epigrafata sentenza del 23 ottobre 2001, in
gran parte confermava e in parte riformava quella resa il 19 novembre
1996  dal  tribunale  milanese,  che  aveva condannato Claudio Tega e
altri  sedici  imputati per svariati episodi di detenzione, spaccio e
acquisto   di  stupefacenti  di  cui  all'art. 73,  comma  1,  d.P.R.
n. 309/1990,  due  dei  quali  aggravati  ex art. 80 cpv. per ingente
quantita',  e  uno  anche  ex  art. 112, n. 2, c.p. (per i promotori,
organizzatori  e  direttore  dell'attivita' criminale) ed ex art. 73,
comma  6, (per il concorso di tre o piu' persone) dello stesso d.P.R.
n. 309/1990:  tutti commessi nell'arco temporale tra il 7 aprile 1994
e  il  6  febbraio  1994.  Le  indagini  avevano  preso  avvio  dalle
dichiarazioni  rese in altro procedimento da tale Pasquale Cardinale,
che  aveva  parlato  di  illecite attivita' di Claudio Tega, ed erano
proseguite con servizi di osservazione presso i luoghi di lavoro e di
abitazione  dello  stesso  Tega  e  con intercettazioni telefoniche e
ambientali.
    In   seguito   a  queste  intercettazioni  gli  operanti  avevano
accertato che il Tega doveva ricevere una grossa fornitura di cocaina
(10  kg)  dalla  torinese Maria Adela Costa; che il giorno 5 dicembre
1994  egli  ne  aveva  gia' ritirato un quantitativo pari a 2 kg e un
altro  quantitativo  di  2  kg doveva riceverlo il giorno successivo,
effettuando  il  pagamento  con  denaro  raccolto  da  vari  soggetti
interessati.
    Percio'  la  sera  del  6 dicembre 1994 gli operanti procedettero
all'arresto del Tega, che stava uscendo dalla sua abitazione milanese
di  via  dei  Frassini  n. 33,  unitamente  alla predetta Maria Adele
Costa, avendo appreso dall'ascolto delle intercettazioni che i due si
stavano  recando  presso  Gualtiero Leoni a ritirare la somma di lire
sessanta  milioni che doveva servire per il pagamento della fornitura
di 2 kg di cocaina ricevuta quello stesso giorno. Si procedette anche
all'arresto di Daniela Bruschi, convivente col Tega nell'appartamento
di  via  dei  Frassini n. 33, nonche' di Maurizio Fassi, che verso le
ore  12  dello  stesso  giorno  era  stato  visto uscire dallo stesso
appartamento e trovato in possesso di 200 grammi di cocaina.
    In  primo grado era stata stralciata la posizione di tre imputati
(Amighetti, Canini e Mamone).
    La condanna di un altro imputato (Salvatore Nuara) era passata in
giudicato.
    2.  -  La  succitata  sentenza  12 gennaio  1999  di questa Corte
suprema  aveva  annullato  con  rinvio  la pronuncia di secondo grado
perche'  aveva  utilizzato  a  fini  probatori  la trascrizione delle
intercettazioni telefoniche e ambientali disposta dal g.u.p. dopo che
aveva  gia'  emesso il decreto dispositivo del giudizio e quindi dopo
che si era spogliato della competenza funzionale.
    Il  giudice  del rinvio, quindi, disponeva una nuova trascrizione
delle   intercettazioni  telefoniche  e  ambientali,  tramite  periti
appositamente   incaricati.   Il   compendio   probatorio  utilizzato
consisteva  principalmente  nelle  anzidette  intercettazioni e nelle
testimonianze  degli  operatori  delegati  per gli appostamenti e gli
ascolti.
    Nello stesso giudizio di rinvio veniva stralciata la posizione di
Marco Fabio Maderna e di Maria Adele Costa.
    3.  -  Gli  imputati  condannati  con la predetta sentenza del 23
ottobre  2001,  hanno  proposto  ricorso  per  cassazione deducendo a
sostegno i motivi appresso esposti con riferimento alla posizione dei
singoli imputati.
    Claudio Tega e' stato condannato alla pena della reclusione di 15
anni  e  10  mesi  e  della  multa di lire 290.000.000, essendo stato
ritenuto  colpevole  di  diciotto  espisodi di detenzione, cessione e
acquisto di cocaina.
    In  particolare  e'  stato  ritenuto  responsabile  dei  seguenti
delitti:
        capo  11: reato di cui all'art. 73, comma 1, e 80 cpv. d.P.R.
n. 309/1990,  per aver detenuto, in concorso con Sergio Amighetti, un
imprecisabile  ma  ingente  quantitativo  di  cocaina  pari a diversi
chilogrammi: in Milano il 4 maggio 1994;
        capo   29:   reato   di  cui  all'art. 73,  comma  1,  d.P.R.
n. 309/1990,  per  aver  detenuto,  in  concorso con Daniela Bruschi,
grammi 120/130 di cocaina: in Milano l'11 ottobre 1994;
        capo  32:  reato  di cui agli artt. 110 e 112, n. 2 c.p., 73,
commi  1  e  6,  80  cpv. d.P.R. n. 309/1990, per aver acquistato, in
concorso con altri, un quantitativo ingente di cocaina, pari a 10 Kg,
partecipando  alla  fase  ideativa  e  organizzativa,  e  per  averne
materialmente  ricevuto e distribuito kg 4, custodendoli nella propia
abitazione: in Milano sino al 5 e 6 dicembre 1994.
    Il  Tega  ha presentato ricorso per cassazione, deducendo quattro
motivi a sostegno. In particolare denuncia:
        3.1)  mancanza  o  illogicita' di motivazione in relazione al
capo  11.  Sostiene  che la prova del reato non poteva essere desunta
dalla  conversazione intercettata il 4 maggio 1994 tra lo stesso Tega
e  un  secondo uomo identificato in Sergio Amighetti, nel corso della
quale  il  secondo  chiede  «quanti  chili  sono?», il primo risponde
«tanti» e l'altro esclama «minchia!». Aggiunge che siffatto colloquio
poteva riferirsi a una detenzione non attuale, ma futura della droga;
        3.2)   mancanza   o   illogicita'   di  motivazione,  nonche'
violazione  della norma incriminatrice in ordine al capo 32. Sostiene
che  la  sua responsabilita' doveva essere limitata all'acquisto di 4
kg,  e  non  al  restante  quantitativo della partita di 10 kg per il
quale  non  si  era  raggiunto  l'accordo  e  non era stato pagato il
prezzo.  Per integrare il reato di acquisto di sostanze stupefacenti,
invero,  non  basta  l'accordo verbale tra le parti, ma e' necessaria
l'effettiva traditio della sostanza;
        3.3)   mancanza   o   illogicita'   di  motivazione,  nonche'
violazione  di  norme  penali e processuali, in punto di accertamento
della  aggravante  della  ingente  quantita', contestata nel capo 32.
Sostiene che la ingente quantita' non poteva essere affermata neppure
per  i 4 Kg di cocaina effettivamente acquistati, giacche' a tal fine
non  bastava la considerazione - contenuta nella sentenza impugnata -
che  la  quantita'  «era tale da agevolare il consumo di un rilevante
numero  di  tossicodipendenti»,  essendo anche necessario valutare la
qualita'  della  sostanza  e  la  situazione  del  mercato nella zona
interessata;
        3.4) mancanza e manifesta illogicita' di motivazione, nonche'
violazione  degli  artt. 62-bis e 133 c.p. in ordine al diniego delle
attenuanti generiche e alla misura della pena.
    4. - Maurizio Fassi e' stato condannato alla pena di quattro anni
di  reclusione e lire 40.000.000 di multa, essendo stato riconosciuto
colpevole  solo  della detenzione di 200 grammi di cocaina, di cui fu
trovato in possesso, concesse le attenuanti generiche e recuperata la
diminuente  ex art. 442 c.p.p. Sul punto e' stata quindi riformata la
sentenza   del   tribunale,   che   lo  aveva  ritenuto  partecipe  e
cointeressato  all'acquisto  della  partita  di  10  kg  di  cocaina,
lmitatamente  al quantitativo di 2 kg pervenuto al Tega il 6 dicembre
1994.  Il  difensore  del  Fassi  ha  presentato  ricorso,  deducendo
inosservanza  degli  artt. 73  e  75  d.P.R.  n. 309/1990  e vizio di
motivazione,  laddove  la  Corte  milanese  ha escluso che la cocaina
fosse  destinata  a  uso  personale o che si trattasse di acquisto di
gruppo,  o  in subordine che ricorresse l'attenuante di lieve entita'
di cui al comma 5 dell'art. 73.
    Lamenta  in particolare che la Corte abbia apoditticamente negato
la  rinnovazione  dell'istruttoria  dibattimentale  per  ascoltare in
udienza  quello  spezzone  di  dialogo  Tega/Fossi captato in via dei
Frassini  il  2  settembre  1994, per chiarire il passaggio in cui il
Fossi  chiede  al  Tega  di  «procurare un ... qualche mezzo ettini»:
sostiene  infatti  che  le  ultime  parole  dovevano  intendersi come
«pezzettini».
    Con  memoria  depositata  il  26 maggio  2003 il difensore allega
sentenza  resa  il  20  febbraio  2003  dal  Tribunale di Milano, che
assolve  il Fassi (e altri attuali riccorrenti) dal reato associativo
di  cui all'art. 74 d.P.R. n. 309/1990 perche' il fatto non sussiste,
e  insiste sulla tesi del consumo personale o di gruppo della cocaina
detenuta al momento dell'arresto.
    5. - Daniela Bruschi, in parziale riforma della sentenza di primo
grado,  e' stata condannata, in concorso con le attenuanti generiche,
alla pena di dieci anni e sei mesi di reclusione e lire 45.000.000 di
multa, essendo stata riconosciuta colpevole dei seguenti reati:
        capo   30:   reato   di  cui  all'art. 73,  comma  5,  d.P.R.
n. 309/1990, perche' - in concorso con Claudio Tega - aveva ceduto in
due  occasioni a Marco Maderna due modici quantitativi di cocaina (di
pochi grammi ciascuno): in Milano il 12 ottobre 1994;
        capo  32:  reato di cui agli artt. 73, commi 1 e 6, e 80 cpv.
d.P.R.  n. 309/1990, perche' - in concorso con Claudio Tega e altri -
avevano  illecitamente acquistato un ingente quantitativo di di 10 kg
di  cocaina,  4 kg dei quali materialmente ricevuti e distribuiti tra
diversi  acquirenti  da  Tega  e  Bruschi,  che  li custodivano nella
propria  abitazione.  La  Bruschi ha proposto ricorso per cassazione,
deducendo quattro motivi a sostegno.
    In particolare lamenta:
        5.1)  mancanza  e/o illogicita' della motivazione in punto di
responsabihita' per i reati suddetti. Per il reato sub 32 sostiene di
non  aver  partecipato  all'acquisto della partita di cocaina, avendo
svolto  il  ruolo  di  mera connivente non punibile. Al limite poteva
essere  ritenuta  responsabile  solo  per la sua quota nell'affare, e
cioe' per i 500 grammi rivenduti al non meglio identificato «Pierre».
    Per  il  reato  sub  30, sostiene che apoditticamente la Corte di
rinvio  aveva  disatteso  la  tesi difensiva secondo cui il colloquio
captato  il  12 ottobre 1994 tra Tega, il Maderna e la stessa Bruschi
faceva riferimento non a cocaina ma a un maglione;
        5.2)   mancanza   o   illogicita'   di  motivazione,  nonche'
violazione  di  norme  penali e processuali, in punto di accertamento
dell'aggravante  della  ingente  quantita',  contestata  dal capo 32.
Sostiene che la ingente quantita' non poteva essere affermata neppure
per  i 4 kg di cocaina effettivamente acquistati, giacche' a tal fine
non  bastava la considerazione - contenuta nella sentenza impugnata -
che  la  quantita'  «era tale da agevolare il consumo di un rilevante
numero  di  tossicodipendenti»,  essendo anche necessario valutare la
qualita'  della  sostanza  e  la  situazione  del  mercato nella zona
interessata;
        5.3)  mancanza  e/o  illogicita'  della  motivazione, nonche'
erronea   applicazione   della  legge  penale,  laddove  la  sentenza
impugnata   ha   escluso   l'applicabilita'  dell'attenuante  di  cui
all'art. 114 c.p. in ragione del suo minimo contributo causale;
        5.4) mancanza e/o illogicita' di motivazione, nonche' erronea
applicazione dell'art. 62-bis c.p., laddove la Corte territoriale non
ha applicato la massima diminuzione di pena possibile per le concesse
attenuanti generiche.
    6.  - Marco Pungetti, in riforma parziale della sentenza di primo
grado,  e'  stato  condannato  alla pena di otto anni di reclusione e
lire  66.665.000  di  multa,  ivi computata la diminuente ex art. 442
c.p.p., essendo stato riconosciuto colpevole del reato di cui al capo
32,  per  aver  partecipato  -  in  concorso  con Tega e altri - come
cointeressato almeno per la quota parte di sua spettanza all'acquisto
della  partita  di  cocaina  di  2 kg pervenuta al Tega il 6 dicembre
1994,  non  risultando  sufficientemente provato il suo concorso alla
complessiva   transazione   per   10   kg.  Su  tale  limitazione  di
responsabilita'  il  giudice di rinvio ha ritenuto non convincente la
motivazione  del tribunale, ma ha confermato il dispositivo del primo
giudice  stante il divieto di refomatio in peius, con la conseguenzza
che e' rimasta esclusa l'aggravante dell'ingente quantita'.
    Il difensore del Pungetti ha proposto ricorso, formulando quattro
motivi a sostegno.
    In particolare lamenta:
        6.1)  manifesta  illogicita'  di  motivazione  in ordine alla
responsabilita' del Pungetti;
        6.2)  erronea  applicazione della legge penale in ordine alla
misura della pena;
        6.3) vizio di motivazione in ordine all'entita' della pena;
        6.4)  erronea  applicazione  dell'art. 62-bis c.p. e vizio di
motivazione in ordine al diniego delle attenuanti generiche.
    7.  -  Alberto  Bravi,  detto «Gianni», in parziale riforma della
sentenza  di  primo  grado,  e'  stato  condannato  alla  pena  della
reclusione  di  tre  anni,  nove mesi e dieci giorni e della multa di
lire 30.000.000, essendo riconosciuto colpevole del delitto di cui al
capo 20 (art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309/1990) per aver - in concorso
con  Luigi  Rizzi  -  illecitamente  detenuto, trasportato e ceduto a
Corinne Delisse e Claudio Tega un imprecisato non modico quantitativo
di cocaina: in Milano il 13 maggio 1994.
    Il  Bravi  ha  presentato  ricorso  deducendo  come  unico motivo
erronea  applicazione  dell'art. 73,  comma  5,  d.P.R. n. 390/1990 e
manifesta  illogicita'  in ordine al diniego della ipotesi lieve. Sul
punto  la  tesi  dell'imputato (v. interrogatorio reso al g.i.p. il 3
ottobre 1995) era di essersi recato in via dei Frassini, su richiesta
del  Tega,  per  consegnare  alla  Delisse un piccolo quantitativo di
cocaina  pari a 1,5 grammi, prelevato da un quantitativo di 2 grammi,
precedentemente acquistato per uso personale.
    8.  - Per Michele D'Avino la Corte di rinvio ha ridotto la pena a
sei  anni  e  due  mesi  di  reclusione  e  lire 50.000.000 di multa,
avendolo riconosciuto colpevole dei seguenti reati:
        capo  1:  (art. 73,  comma  1,  d.P.R.  n. 309/1990) per aver
illecitamente  detenuto  e  offerto  in vendita, a Corinne Delisse un
imprecisato  non  modico  quantitativo  di  cocaina  per un prezzo di
lire 150.000 al grammo: in Milano il 29 marzo 1994;
        capo 2: (art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309/1990) perche', fuori
dall'ipotesi  di cui all'art. 75, d.P.R. n. 309/1990 aveva acqiustato
da  Claudio Tega e Sergio Amighetti un quantitativo di circa 50 gr di
cocaina  corrispondente  a  un prezzo di lire 4.000.000: in Milano il
7 aprile 1994.
    In  ordine  al  primo  reato  la  prova della responsabilita' era
desunta  dalla  intercettazione  di  una  sequenza  di  conversazioni
telefoniche  intervenute  tra  D'Avino e Delisse e tra questa e Luigi
Rizzi,  da  cui  risultava  che la Delisse, dovendo procurare cocaina
all'amico  Rizzi  in  un  peniodo  in  cui  il  Tega  (all'epoca  suo
convivente)  era  assente da Milano, si era rivolta a D'Avino, e che,
siccome  questi  chiedeva  un  prezzo  troppo  alto,  il  Rizzi aveva
rinunciato all'acquisto in attesa del ritorno del Tega.
    In  ordine  al  secondo  reato la prova della responsabilita' era
desunta   da  alcune  intercettazioni  telefoniche  e  ambientali  di
conversazioni  tra Tega e D'Amico intervenute il 7 aprile 1994. Nella
prima  conversazione  telefonica  (ore  11,14)  i  due  parlano della
consegna  di  lire  4.000.000  da parte di D'Avino a Sergio Amighetti
presso  il  suo bar, con riferimento dapprima a una «fattura» e poi a
«cambiale».   Nella  seconda  conversazione  telefonica  (ore  11,47)
D'Avino  dice a Tega che Sergio (Amighetti) non c'e', e gli chiede se
deve lasciare i soldi a una persona di sesso femminile (Maria Grieco,
moglie  di  Sergio  Amighetti).  Alle  12,15  viene  intercettata una
conversazione  tra i presenti Tega e D'Avino nell'appartamento di via
dei Frassini n. 33, in cui si parla di lire 4.000.000 consegnate e di
altre 500.000 da versare e poi si parla di qualita' della droga.
    Il D'Avino ha proposto ricorso deducendo tre motivi a sostegno:
        8.1)  col  primo  lamenta mancanza e manifesta illogicita' di
motivazione  in  relazione  al  capo 1. Sostiene che mancava la prova
della  detenzione  della  cocaina,  presupposto  imprescindibile  per
integrare  il  reato  di  offerta  in  vendita:  nella  conversazione
telefonica  intercettata  non  vi era stata un'offerta di vendita, ma
solo una discussione sui prezzi praticati sul mercato;
        8.2)   col   secondo  motivo  lamenta  mancanza  e  manifesta
illogicita'  di  motivazione  in  ordine  al capo 2. Sostiene che del
tutto  illogicamente la Corte milanese ha interpretato la «fattura» e
la «cambiale» come metafora criptica per sostanza stupefacente;
        8.3) col terzo motivo il ricorrente lamenta ancora mancanza e
manifesta illogicita' di motivazione laddove la sentenza impugnata ha
negato   la  ricorrenza  della  ipotesi  lieve  di  cui  al  comma  5
dell'art. 73 per entrambi i reati contestati.
    9.  -  Giuseppe  Dinardi e Vittorio Saias sono stati riconosciuti
colpevoli  del reato di cui al capo 32 (art. 73, commi 1 e 6, 80 cpv.
d.P.R.  n. 309/1990),  perche', in concorso con Claudio Tega, Daniela
Bruschi  e  altri,  avevano  partecipato  all'illecito acquisto di un
ingente quantitativo di 10 kg di cocaina, in particolare contribuendo
alla  conclusiva  attivita'  di trasporto della sostanza stupefacente
presso  l'abitazione di Tega e Bruschi nei giomi 5 e 6 dicembre 1994,
per   quantitativi   pari  a  2  kg  per  volta,  nonche'  rendendosi
direttamente  cessionari  di  una  quota  di  200 grammi, ricevuta da
Dinardi  il  5 dicembre  1994  e  una quota di 100 grammi ricevuta da
Saias il 6 dicembre 1994.
    Il Dinardi, al quale sono state negate le attenuanti generiche ed
e'  stata  applicata  la  diminuente  del rito ex art. 442 c.p.p., e'
stato  condannato  alla  pena  di  10 anni e due mesi di reclusione e
lire 116.000.000 di multa.
    Il  Saias,  e'  stato  condannato,  con  le  attenuanti generiche
prevalenti  sulle  aggravanti  contestate, e con la diminuente per il
rito abbreviato, alla pena di cinque anni e otto mesi di reclusione e
lire 60.000.000 di multa.
    I  giudici  di  merito hanno ritenuto che Dinardi e Saias avevano
apportato  il  loro  consapevole  contributo causale alla transazione
relativa  ai  10  kg  di  cocaina  che il Tega aveva acquistati dalla
torinese  Maria Adele Costa. La prova e' stata desunta soprattutto da
alcune  intercettazioni  telefoniche;  dalla  intercettazione  di una
conversazione  ambientale  intercorsa  il 5 dicembre 1994 (ore 17,54)
tra  Tega,  Dinardi  e  Saias,  in cui i tre discutevano del piano di
distribuzione  della  partita e della contabilizzazione del denaro da
utilizzare per l'acquisto; dalle dichiarazioni rese dagli imputati in
dibattimento,  nelle  quali Dinardi aveva ammesso di aver ricevuto da
Tega  200 grammi di cocaina il 5 dicembre 1994, e Saias aveva ammesso
di  aver  trattato  con  Tega  l'acquisto di 100 grammi di cocaina il
successivo   6   dicembre   1994.   Il  Saias  inoltre  si  era  reso
immediatamente   disponibile   ad  accompagnare  Tega  a  Torino  per
l'acquisto il giorno 6 dicembre 1994, essendo il Tega impossibilitato
a guidare l'auto per un forte mal di schiena.
    Il  difensore  dei  predetti  imputati ha presentato ricorso, con
unico atto, deducendo due motivi:
        9.1)  col primo lamenta manifesta illogicita' di motivazione,
laddove  la  Corte  milanese  ha  negato la rinnovazione parziale del
dibattimento   per   sentire   direttamente  la  registrazione  delle
conversazioni  telefoniche  intervenute  il  28  novembre 1994 e il 5
dicembre 1994, da cui sarebbe risultato che il Dinardi declino' senza
mezzi  termini  l'invito  del  Tega di accompagnarlo a Torino. Chiede
quindi   che   il  Dinardi  sia  riconosciuto  «esente  da  qualsiasi
responsabilita' per il trasporto della droga da Torino a Milano» e il
Saias  venga ritenuto «colpevole di ausilio occasionale al Tega nella
sola circostanza del 6 dicembre 1994»;
        9.2)  col  secondo  motivo  il  difensore  lamenta  manifesta
illogicita'  di  motivazione  e inosservanza degli artt. 62-bis e 133
c.p.
    Sostiene  che  la  pena  doveva  essere ridotta rispetto a quella
irrogata  dal  tribunale,  posto  che  la  Corte  aveva  limitato  la
responsabilita'  solo all'acquisto e al trasporto di 4 kg di cocaina,
rispetto all'intera partita di 10 kg.
    Si  chiede  inoltre perche' non sono state concesse al Dinardi le
attenuanti generiche.
    10.  -  Per  Corinne  Delisse, la Corte milanese, riconosciute le
attenuanti generiche, ha ridotto la pena a cinque anni e otto mesi di
reclusione  e  lire  40.000.000 di multa, siccome colpevole del reato
contestatole  al  capo  21  (art. 73,  comma  1,  d.P.R. n. 309/1990)
perche'  in  concorso  con  Claudio  Tega,  fuori dall'ipotesi di cui
all'art. 75  d.P.R.  n. 309/1990,  aveva  illecitamente  ricevuto  da
Alberto  Bravi  e  detenuto  nell'appartamento  abitato  col  Tega un
imprecisato  non  modico quantitativo di cocaina (di cui al capo 20):
in Milano il 13 maggio 1994.
    La   prova   della   sua   responsabilita'   era   desunta  dalla
intercettazione  della telefonata fatta dal Tega (mentre era fuori di
casa)  all'utenza  di  via  dei Frassini alle ore 19,45 del 13 maggio
1994.  Parlando con la Delisse il Tega l'avverti' che doveva arrivare
il  meccanico  (Alberto  Bravi)  che  gli doveva portare un «pezzo di
ricambio»,  le  chiedeva  di  farlo  salire, di ritirare la roba e di
dirgli  che  si  sarebbero  sentiti  l'indomani.  Poco  dopo giungeva
nell'appartamento   Alberto   Bravi.  Nel  colloquio  che  ne  segui'
(captato)  si  capiva  che  l'uomo  consegnava  la  droga, e la donna
commentava la cattiva qualita' della sostanza ricevuta in precedenza.
Lo  stesso  Bravi  ha poi ammesso - come gia' sottolineato - che quel
giorno  si era recato in via dei Frassini per consegnare alla Delisse
-  su richiesta del Tega - un piccolo quantitativo di cocaina, pari a
grammi 1,5, per uso personale.
    Il  difensore  della  Delisse ha proposto ricorso per cassazione,
deducendo tre motivi a sostegno.
    In particolare lamenta:
        10.1)  con i primi due motivi, inosservanza di norme penali e
processuali,   nonche'   mancanza  e/o  manifesta  illogicita'  della
motivazione,  laddove  la  Corte  milanese ha escluso l'uso personale
dello stupefacente portato dal Bravi e la lieve entita' del fatto;
        10.2)  col  terzo  motivo,  inosservanza  di  norme  penali e
mancanza  e/o  manifesta  illogicita'  della motivazione, giacche' la
sentenza  impugnata  ha  confermato  ex art. 86 d.P.R. n. 309/1990 la
pena  accessoria  della  espulsione dal territorio dello Stato a pena
principale espiata, ritenendo la pericolosita' sociale dell'imputata.
    11.  -  Per Maria Grieco (moglie di Sergio Amighetti, gestore del
Garden  Bar  e  socio  di  Tega  nel fraffico di cocaina) la sentenza
impugnata  ha  ridotto  a  cinque  anni e otto mesi di reclusione e a
40.000.000  di  lire  di  multa la pena inflitta, quale colpevole del
delitto  di  cui  al  capo 22 (art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309/1990),
perche'  aveva  illecitamente  detenuto  e  ceduto a Claudio Tega, in
concorso con Sergio Amighetti, un imprecisato non modico quantitativo
di cocaina: Milano il 2 settembre 1994.
    La  prova  della sua responsabilita' era fondata sul contenuto di
alcune intercettazioni telefoniche e ambientali del 2 settembre 1994,
da  cui  risultava  che:  a)  l'Amighetti  telefono' da casa sua alla
moglie  che  si  trovava  al bar, avvertendola che il Tega si sarebbe
recato  da  lei  per  prelevare  dalla cantina del bar «le cose dalle
ruote»;  b):  nel  pomeriggio  di  quello stesso giorno il Tega aveva
disponibilita' di cocaina, che cedette al Fassi (tre gramini), a tale
Leonardo e a uno sconosciuto.
    I  difensori  della Grieco hanno proposto ricorso per cassazione,
deducendo quattro motivi a sostegno.
    In particolare lamentano:
        11.1)   mancanza  e  manifesta  illogicita'  di  motivazione,
nonche'   travisamento   delle  risultanze  processuali,  perche'  la
sentenza  impugnata  ha  mal  interpretato  il contenuto del suddetto
colloquio  telefonico tra i due coniugi, traendone immotivatamente la
conclusione  che  la donna fosse consapevole della detenzione e della
cessione della sostanza stupefacente;
        11.2)  carenza  e  manifesta  illogicita'  di  motivazione in
relazione   alla   mancata   applicazione  della  attenuante  di  cui
all'art. 114  c.p.,  per  la minima importanza del contributo offerto
dalla Grieco alla preparazione o alla esecuzione del reato;
        11.3)  carenza e illogicita' di motivazione, laddove la Corte
territoriale  ha  escluso  l'attenuante della modica quantita' di cui
all'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990;
        11.4)  carenza  di  motivazione in ordine alla determinazione
della pena.
    12.  -  Per  Daniele  Gualtiero  Leoni  la  Corte  di  rinvio  ha
integralmente  confermato  Ia sentenza di primo grado, che, negate le
attenuanti  generiche,  ritenuta  la  continuazione e riconosciuta la
diminuente  per  il rito abbreviato, lo aveva condannato alla pena di
dodici  anni  di  reclusione  e  lire  128.000.000  di multa, siccome
colpevole dei seguenti reati:
        capo 14:  (art.  73,  comma 1, d.P.R. n. 309/1990) perche', a
partire  almeno  dall'ottobre  1993,  aveva  acquistato e ricevuto da
Claudio  Tega  non  modici  quantitativi di cocaina, per un ammontare
complessivo  di 4 o 5 kg, aveva acquistato il 4 maggio 1994 almeno 10
grammi  di cocaina, e aveva ricevuto il 6 maggio 1994 un quantitativo
di  5 grammi di cocaina come campione di una maggiore fornitura di 50
grammi;
        capo  26:  (art. 73,  comma  5,  d.P.R. n. 309/1990) perche',
fuori  dall'ipotesi  di  cui  all'art. 75  d.P.R.  n. 309/1990, aveva
illecitamente  acquistato  da  Claudio  Tega  5 granimi di cocaina al
prezzo di lire 700.000: in Milano il 1° ottobre 1994;
        capo  32: (artt. 73, commi 1 e 6, 80 cpv. d.P.R. n. 309/1990)
perche', in concorso con Claudio Tega, Daniela Bruschi e altri, aveva
partecipato all'illecito acquisto di un ingente quantitativo di 10 kg
di  cocaina,  4  kg dei quali materialmente ricevuti e distribuiti da
Tega   e   Bruschi,   partecipando   il  Leoni  quale  codetentore  e
cointeressato,   almeno   per   la   sua  quota  parte,  all'illecita
operazione.
    Il  difensore  del  Leoni  ha  proposto  ricorso  per cassazione,
deducendo quattro motivi a sostegno:
        12.1)  col  primo  lamenta  erronea  applicazione della legge
penale e mancanza o illogicita' di motivazione:
          in  ordine  al  reato  contestato  al  capo  14: a) sia per
l'episodio  del 4 maggio 1994 (acquisto di un quantitativo di cocaina
pari ad almeno 10 gr), posto che non poteva dirsi con certezza che la
conversazione  tra  presenti  intercettata quello stesso giorno fosse
intervenuta  tra  Tega  e  Leoni  trovandosi in casa del Tega, almeno
altre due persone; b) sia per l'episodio del 6 maggio l994 (ricezione
di  5  gr  di  cocaina, campione per una maggior fornitura di 50 gr),
posto che dalla intercettazione ambientale si poteva dedurre solo che
era in corso una trattativa, ma che questa non era stata conclusa per
disaccordo sul prezzo; c) sia per l'acquisto complessivo di 4/5 chili
di  cocaina,  giacche'  configurava  una  contestazione  generica non
temporalmente definita;
          in  ordine  al  reato,  contestato  al capo 26, giacche' la
Corte  milanese  ha  erroneamente ritenuto che la trattativa si fosse
perfezionata,  e  inoltre  ha  erroneamente  escluso  che  ricorresse
l'ipotesi di lieve entita ex comma 5, art. 73;
          in  relazione  al  capo  32, giacche' dalle intercettazioni
effettuate  non risultava alcuna partecipazione del Leoni all'acquito
della  partita di 10 kg, o al massimo risultava un suo interessamento
limitato  all'acquisto di un chilo e mezzo di cocaina, sicche' doveva
essere esclusa l'aggravante specifica di cui all'art. 80 c.p.v.;
        12.2)  col  secondo  motivo,  il  ricorrente  deduce  erronea
applicazione  dell'art. 73,  comma 6, d.P.R. n. 309/1990 e carenza di
motivazione  in ordine all'aggravante della partecipazione di piu' di
tre persone;
        12.3)  col  terzo motivo si denuncia violazione dell'art. 133
c.p. nella determinazione della pena;
        12.4)  col  quarto  motivo,  infine,  si  lamenta  violazione
dell'art. 62-bis  c.p.  in  relazione  al  diniego  delle  attenuanti
generiche.
    13.  -  Nei  confronti di Roberto Peregalli la Corte d'appello ha
ridotto  a  sei anni e quattro mesi di reclusione e a lire 54.000.000
di multa la pena infittagli quale responsabile dei seguenti reati:
        capo  4:  (art. 73,  comma  1,  d.P.R. n. 309/1990), perche',
fuori  dall'ipotesi  di  cui  all'art. 75;  d.P.R. n. 309/1990, aveva
acquistato  da  Claudio  Tega  e  Sergio Amighetti un quantitativo di
circa  100  grammi  di  cocaina,  corrispondente  a un prezzo di lire
8.000.000: in Milano il 12 aprile 1994;
        capo  9:  (art. 73,  comma  1,  d.P.R. n. 309/1990), perche',
fuori  dall'ipotesi  di  cui  all'art. 75  d.P.R.  n. 309/1990, aveva
acquistato  da  Claudio  Tega  un  quantitativo di circa 50 grammi di
cocaina,  corrispondente  a un prezzo di lire 4.000.000: in Milano il
27 aprile 1994.
    Il  difensore  del Peregalli (avv. Patrizio Spinelli) ha proposto
ricorso per cassazione, deducendo due motivi a sostegno:
        13.1)  col  primo  lamenta  erronea  applicazione della legge
penale  e  manifesta  illogicita' di motivazione, laddove la sentenza
impugnata  ha  tratto  la  prova  della responsabilita' dell'imputato
dalle  intercettazioni ambientali del 12 e 27 aprile 1994, le quali -
al contrario - offrivano soltanto indizi ne' gravi ne' precisi;
        13.2)  col  secondo  motivo  il  difensore  denuncia  erronea
applicazione  della  legge  penale  e omessa motivazione, giacche' la
sentenza impugnata ha omesso di indicare gli elementi di prova da cui
desumere una finalita' di spaccio, anziche' di uso personale.
    Altro   difensore   del  Peregalli  (avv. Claudio  Cangelosi)  ha
presentato ulterione ricorso, deducendo tre motivi a sostegno:
        13.3)  col  primo  il ricorrente lamenta erronea applicazione
della  norma  incriminatrice  nonche' carenza e contraddittorieta' di
motivazione  laddove  la  Corte  milanese  ha escluso l'uso personale
della sostanza stupefacente acquistata dall'imputato;
        13.4)   col  secondo  motivo  il  difensore  denuncia  ancora
violazione di legge e mancanza o manifesta illogicita' di motivazione
laddove  la  Corte milanese ha negato la concessione delle attenuanti
generiche   senza   prenderne  in  considerazione  le  argomentazioni
prospettate sul punto nell'atto di appello;
        13.5)  col  terzo motivo il ricorrente lamenta ancora erronea
applicazione della legge penale e mancanza o manifesta illogicita' di
motivazione  in  ordine alla esclusione della ipotesi lieve di cui al
quinto comma dell'art. 73 d.P.R. n. 309/1990.
    14.  -  Nei  confronti  di  Emilio Pristeri la Corte d'appello ha
sostituito   la   interdizione   perpetua  dai  pubblici  uffici  con
l'interdizione   temporanea   per   cinque   anni   e   ha   revocato
l'interdizione legale, ma ha confermato la pena principale di quattro
anni  di reclusione e lire 30.000.000 di multa (concesse le generiche
e  applicata la diminuente ex art. 442 c.p.p.), inflitta all'imputato
siccome  colpevole  del  reato  di  cui al capo 12 (art. 73, comma 1,
d.P.R.  n. 309/1990),  perche', fuori dall'ipotesi di cui all'art. 75
d.P.R.  n. 309/1990, aveva acquistato da Claudio Tega un quantitativo
di  almeno  50  grammi  di  cocaina,  per  un  controvalore  di  lire
5.000.000: in Milano il 4 maggio 1994.
    La   prova  della  responsabilita'  e'  stata  tratta  a):  dalla
intercettazione  ambientale  del  4 maggio  1995  (ore 18,37), quando
nell'abitazione del Tega era giunto Emilio Pristeri per effettuare il
pagamento  di  una  fornitura  di cocaina dal medesimo destinata allo
spaccio;  b):  dalle  operazioni  di  ascolto e di appostamento degli
operanti,  che  avevano  identificato  con  certezza  nel Pristeri la
persona  giunta nell'appartamento del Tega nella suddetta circostanza
e ne avevano riconosciuto la voce.
    Il  difensore  del  Pristeri  ha  proposto ricorso per cassazione
deducendo cinque motivi a sostegno:
        14.1)  col  primo  denuncia  inutilizzabilita'  assoluta  dei
risultati  delle  intercettazioni ambientali, mancanza di motivazione
in ordine alla necessita' dell'intercettazione per il prosieguo delle
indagini,  e  illogicita' di motivazione in ordine alla necessita' di
uno    specifico    decreto    di   autorizzazione   all'introduzione
nell'appartamento di via dei Frassini in cui sono state effettuate le
intercettazioni ambientali.
    In   particolare,   sostiene  che  il  decreto  emesso  ai  sensi
dell'art. 13,   d.l. 13 maggio   1991,  n. 152,  per  autorizzare  le
intercettazioni  ambientali  era assolutamente carente di motivazione
quanto  al  requisito della loro necessita' per la prosecuzione delle
indagini.   Aggiunge   che   per   procedere  alla  captazione  delle
conversazioni  tra  presenti  nei  luoghi  di  cui  all'art. 614 c.p.
attraverso   microspie   e'   necessario  uno  specifico  decreto  di
autorizzazione per introdursi nei luoghi di privata dimora al fine di
posizionare  le  microspie.  Laddove  al  contrario si accettasse una
diversa  interpretazione  dell'art. 266,  comma  2,  c.p.p., la norma
sarebbe  costituzionalmente  illegittima  per violazione dell'art. 14
Cost.;
        14.2)  col  secondo  motivo il difensore deduce illogicita' e
mancanza  di  motivazione  in ordine alla individuazione del Pristeri
come   l'interlocutore   di   Tega   nella  conversazione  intercorsa
nell'appartamento di questi in data 4 maggio 1994;
        14.3)  col  terzo  motivo  il  ricorrente lamenta mancanza di
motivazione  laddove  la sentenza impugnata ha escluso che la dazione
di  denaro  di  cui si parlo' nella citata conversazione del 4 maggio
1994,  avesse  la causale lecita prospettata dalla difesa (versamento
pecuniario   da  parte  del  Pristeri  per  fronteggiare  esposizioni
debitorie dell'autolavaggio Gedepark, gestito dal Tega);
        14.4)  col  quarto  motivo  si  denuncia erronea applicazione
dell'art. 73  d.P.R.  n. 309/1990 e mancanza di motivazione sul punto
laddove la sentenza impugnata ha ritenuto che nella piu' volte citata
conversazione  Pristeri/Tega  si  fosse  perfezionato  un acquisto di
sostanza stupefacente;
        14.5)  infine col quinto motivo il ricorrente deduce mancanza
di motivazione in ordine alla commisurazione della pena base;
        14.6) con memoria depositata in udienza il difensore, oltre a
riprendere  con nuovi argomenti il secondo motivo del ricorso (14.2),
deduce  ulteriore  profilo di inutilizzabilita' delle intercettazioni
ambientali disposte nell'appartamento di via dei Frassini, atteso che
il  decreto attuativo del 29 marzo 1994 con cui il pubblico ministero
delegava  gli  ufficiali  di  p.g. a disporre il noleggio di apparati
idonei  presso Ia ditta T.R.S. di Torino, difettava di motivazione in
ordine  ai  presupposti  delle eccezionali ragioni di urgenza e della
insufficienza  o  inidoneita'  degli  impianti  esistenti  presso  la
Procura  della  Repubblica,  cosi'  come  richiesto  dal  terzo comma
dell'art. 268 c.p.p.
    15.  - Nei confronti di Massimiliano Wohinz la Corte d'appello ha
ridotto a cinque anni e sei mesi di reclusione e a lire 40.000.000 di
multa,  la pena inflittagli siccome colpevole del reato contestato al
capo  16  (art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309/1990) perche', fuori dalla
ipotesi  di  cui  all'art. 75 d.P.R. n. 309/1990, aveva acquistato 25
grammi di cocaina da Claudio Tega: in Milano il 9 maggio 1994.
    Il  difensore  del  Wohinz  ha  proposto  ricorso per cassazione,
deducendo in sostanza, due motivi a sostegno:
        15.1)  anzitutto  denuncia  violazione di norme processuali e
contraddittorieta'  di  motivazione  laddove la sentenza impugnata ha
ritenuto  che  il  decreto  di  autorizzazione  alle  intercettazioni
ambientali   contenesse   anche   l'autorizzazione   all'introduzione
nell'appartamento di via dei Frassini;
        15.2)  in  secondo  luogo  il  difensore  lamenta  violazione
dell'art. 73,  comma 5,  d.P.R  n. 309/1990  e  contraddittorieta' di
motivazione  laddove la Corte d'appello ha escluso l'ipotesi di lieve
entita'.

                       Motivi della decisione

    16.  - Preliminare e' la questione della legittimita' dei decreti
autorizzativi  delle  intercettazioni,  in particolare di quelle c.d.
ambientali,  e  quindi  della  utilizzabilita'  delle intercettazioni
stesse, i cui risultati - come si evince dalla precedente narrativa -
costituiscono  la fonte principale, se non esclusiva, del giudizio di
responsabilita'   emesso   nei   confronti   di  tutti  gli  imputati
ricorrenti.
    Connessa  inscindibilmente a tale questione e' poi l'eccezione di
incostituzionalita'   della  disciplina  legislativa  che  regola  le
intercettazioni (c.d. ambientali) delle comunicazioni tra presenti.
    Al riguardo, sotto il profilo giuridico, occorre chiarire che nel
caso  concreto  le  intercettazioni  sono state autorizzate in quanto
ricorreva   una   delle  fattispecie  previste  dall'art. 266  c.p.p.
(procedimento    relativo   a   delitti   concernenti   le   sostanze
stupefacenti)   e  sono  stati  ritenuti  sussistenti  i  presupposti
richiesti  dall'art. 13,  d.l. 13 maggio  1991, n. 152, convertito in
legge  12 luglio  1991, n. 203, per i procedimenti relativi a delitti
di   criminalita'   organizzata   (tali   essendo   considerati,  per
giurisprudenza  costante,  anche  i  delitti de quibus: cfr. plurimis
Cass  Sez.  VI,  sent.  n. 7  del 4 marzo 1997, Pacini Battaglia, rv.
207363):  e  cioe',  in  deroga  all'art. 267  c.p.p.,  i sufficienti
(anziche' gravi) indizi di reato e la necessita' (anziche' l'assoluta
indispensabilita) per lo svolgimento delle indagini.
    Sotto  il profilo fattuale, per quanto riguarda in particolare le
intercettazioni  ambientali,  va  posto in evidenza che le captazioni
dei  colloqui  tra  i soggetti presenti nell'appartamento milanese di
via  dei  Frassini furono effettuate tramite microspie inserite nelle
scatole  delle  prese telefoniche, anche se, come ammette la sentenza
impugnata,   «non   sono  note  ne'  le  modalita'  ne'  i  tempi  di
introduzione  nell'alloggio per il collocamento delle microspie». Gli
ufficiali  di polizia giudiziaria sentiti come testi hanno dichiarato
che  le  microspie  furono  istallate  da «personale tecnico» durante
l'allaccio  dei  telefoni; e in base a cio' la Corte territoriale non
ha  escluso che l'accesso nel domicilio sia avvenuto col consenso del
titolare.
    Sul   punto  pero'  bisogna  osservare  che  l'uso  di  un  mezzo
fraudolento (entrare per allacciare il telefono, ma approfittarne per
istallare  microspie) e' condotta che trae in inganno la volonta' del
titolare  dello  jus  excludendi,  e  che  ha l'indubbio risultato di
offendere,  senza  il consenso di quest'ultimo, la tranquillita' e la
riservatezza   della  vita  domestica  che  l'art. 14  Cost.  intende
tutelare.  Sicche'  l'introduzione  invito  domino  di  microspie nel
domicilio  privato  per  catturare quelle conversazioni intime che si
sogliono   riservare   nelIambito  delle  mura  domestiche  configura
indubbiamente  una  violazione  della  privacy,  la quale puo' essere
tollerata  dall'ordinamento solo con le garanzie, nei casi e nei modi
imposti  dalla  norma  costituzionale.  Tanto  che,  a rigore logico,
qualsiasi   captazione   di   conversazione  domestica  (avvenga  con
microspie  istallate  nella  privata  dimora  o  nascoste  in oggetti
spediti  al  domicilio, oppure con microfoni direzionali a distanza o
altri  simili  apparecchi collocati fuori dell'appartamento) comporta
una  lesione  della  liberta'  di  domicilio.  Dal punto di vista del
soggetto  interessato  alla  propria  riservatezza  domestica  non fa
differenza  che  l'intrusione avvenga attraverso apparecchi collocati
piu  o  meno  abusivamente  dentro la privata dimora o con apparecchi
piu'  sofisticati collocati all'esterno. In questo senso, lo sviluppo
tecnologico  puo'  modificare  le  modalita'  di  aggressione al bene
tutelato,  ma  non  deve  indurre  ad  abbandonare  qualsiasi  tutela
giuridica  contro l'aggressione stessa a quello specifico bene. Se la
liberta'   di   domicilio  consiste  nel  diritto  di  preservare  da
interferenze  esterne  determinati  luoghi  in  cui si svolge la vita
privata  di  ciascun  individuo  (Corte  cost.  n. 135 dell'11 aprile
2002),  non  si vede perche' questo diritto debba essere violato solo
da  intrusioni  corporali  (della  persona  fisica  che  si introduce
abusivamente  nel  domicilio)  e  non  anche da qualsiasi apparecchio
elettronico  di  captazione  sonora  delle  conversazioni  domestiche
(microspie o microfoni direzionali ovunque e comunque collocati).
    In  altri  termini,  cio'  significa  che  se  la  captazione  di
conversazioni  che  si  svolgono  fuori  dei luoghi di privata dimora
attiene solo alla sfera di applicazione dell'art. 15 Cost. (liberta e
riservatezza     della    corrispondenza),    l'intercettazione    di
comunicazioni che avvengono nei luoghi di privata dimora interferisce
insieme  sia  sull'ambito  applicativo  dell'art. 15,  sia  su quello
dell'art. 14 Cost. (liberta' e riservatezza del domicilio).
    Per  queste  ragioni  la questione di legittimita' costituzionale
degli  artt. 266  c.p.p.  e 13 d.l. n. 152/1991 risulta indubbiamente
rilevante,  giacche' dalla sua soluzione dipende la utilizzabilita' o
meno   delle   intercettazioni   ambientali  eseguite,  e  quindi  la
valutazione  delle  prove  assunte a fondamento della responsabilita'
degli imputati.
    17.  -  Cosi'  verificata  la  rilevanza, va quindi deliberata la
fondatezza della questione.
    In   sostanza,   secondo  la  tesi  formulta  dal  difensore,  la
disciplina  che  regola  la  intercettazione  di  comunicazione tra i
presenti nei luoghi indicati dall'art. 614 c.p.p., ai sensi dell'art.
266,  comma  2,  c.p.p.  e dell'art. 13, d.l. 13 maggio 1991, n. 152,
viola  l'art. 14  Cost.,  almeno laddove non stabilisce i modi in cui
puo' avvenire la limitazione all'inviolabilita' di domicilio.
    Cosi' impostata la questione non appare manifestamente infondata.
    Nel  caso  di  specie  si tratta di una limitazione alla liberta'
domiciliare  dettata  da  esigenze  di  giustizia  costituzionalmente
tutelate:  viene  quindi  in  rilievo  il secondo comma dell'art. 14,
della  Carta  repubblicana  e  non  il  terzo  comma,  relativo  alle
limitazioni per esigenze sanitarie o economico-fiscali.
    Orbene,  il  secondo  comma  dell'art. 14  -  come ha chiarito la
citata  sentenza  costituzionale n. 135/2002 - non intende ridurre le
possibili  limitazioni alla liberta' di domicilio a quei mezzi tipici
di  ricerca  della  prova che sono le ispezioni, le perquisizioni e i
sequestri, dovendo il legislatore e l'interprete tener conto anche di
altre  forme  di  intrusione  sconosciute  al  Costituente e divenute
attuali per effetto dei progressi tecnologici; cosi' come non intende
discriminare tra forme di intrusione palesi (quali appunto ispezioni,
perquisizioni  e  sequestri)  e  forme  di  intrusione occulte (quali
sarebbero i moderni mezzi di captazione sonora).
    Tuttavia,  la  norma  costituzionale ammette la limitazione della
liberta'  domiciliare  soltanto nei casi e modi stabiliti dalla legge
(riserva  di  legge)  e  per atto motivato dell'autorita' giudiziaria
(riserva di giurisdizione).
    Sia l'art. 266, comma 2, c.p.p., sia l'art. 13 del succitato d.l.
n. 152/1991 (a cui ora fa rinvio l'art. 3 del recente d.l. 18 ottobre
2001,  n. 374,  convertito in legge 15 dicembre 2001, n. 438, recante
disposizioni  urgenti  per contrastare il terrorismo internazionale),
tipizzano  i  «casi»  in  cui  l'autorita'  giudiziaria puo' disporre
l'intercettazione  di  comunicazione  tra  presenti nei luoghi di cui
all'art. 614  c.p.,  ma  non disciplinano minimamente i «modi» in cui
questa intercettazione puo' essere realizzata, sicche' sia il giudice
sia il pubblico ministero, nell'ambito delle rispettive competenze di
cui  agli  artt. 267  e  268  c.p.p.,  possono  dettarne le modalita'
operative indipendentemente da qualsiasi parametro normativo.
    La  stessa  Corte  costituzionahe, con l'ordinanza n. 304 dell'11
gennaio  2000,  ha precisato che l'art. 266, comma 2, c.p.p. «prevede
la  possibilita'  di  effettuare intercettazioni di comunicazioni tra
presenti anche ove queste avvengano nei luoghi indicati dall'art. 614
c.p.  ma  non  ne  disciplina  le  relative  modalita', che spetta al
legislatore  determinare  nel  rispetto  dei  limiti  previsti  dalla
Costituzione».   E'   infatti   evidente  che  queste  modalita'  non
riguardano  le  procedure  di autorizzazione, di verbalizzazione e di
registrazione disciplinate negli artt. 267 e 268 c.p.p., ma attengono
ai  modi  operativi in cui deve effettuarsi la intrusione nella sfera
domiciliare, affinche' essa realizzi un equilibrato bilanciamento tra
il   diritto   individuale   e  le  esigenze  investigative  connesse
all'esercizio  dell'azione  penale (modi, per intendersi, del tipo di
quelli   stabiliti  dall'art. 251  c.p.p.  per  la  esecuzione  delle
perquisizioni domiciliari).
    Per  queste ragioni non si puo' condividere quella giurisprudenza
secondo cui «in tema di intercettazioni tra presenti, la collocazione
di  microspie  all'interno di un luogo di privata dimora, costituendo
una  naturale  modalita'  attuativa  di  tale  mezzo di ricerca della
prova,   deve   ritenersi   ammessa   dalla  legge  (in  particolare,
dall'art. 266, secondo comma, cod. proc. pen.), e, essendo funzionale
al  soddisfacimento dell'interesse pubblico all'accertamento di gravi
delitti,   non  viola  l'art. 14  Cost.,  precetto  che  deve  essere
coordinato,  al  pari  di  quello  di  cui  all'art. 15 Cost., con il
predetto  interesse pubblico, tutelato dall'art.112 Cost.» (Cass Sez.
VI,  n. 4397  del  21 gennaio 1998, Greco rv. 210062). Questa tesi e'
contrastata  autorevolmente  dalla  dottrina,  nonche'  dalla  citata
ordinanza   n. 304/2000   della  Consulta,  laddove  precisa  che  le
modalita'  operative  delle  intercettazioni ambientali nei luoghi di
privata   dimora   «non  richiedono  necessariamente  una  intrusione
arbitraria  nel  domicilio»,  atteso  che la moderna tecnologia offre
possibilita'  di intercettare conversazioni domestiche con apparecchi
collocati  all'esterno del domicilio. Ma la tesi e' piu' radicalmente
inaccettabile  ove si consideri che, per le ragioni sopra sviluppate,
qualsiasi   captazione  di  conversazioni  avvenute  nell'ambito  del
domicilio,  effettuata  con apparecchi interni o esterni al domicilio
stesso,  configura  una  lesione  dell'inviolabilita' domiciliare che
deve  rispettare  i  parametri  imposti  dall'art. 14 Cost., anche se
avvenga     per     soddisfare     il     principio    costituzionale
dell'obbligatorieta' dell'azione penale.
    Vero  e'  che  nella omologa materia della liberta' personale una
recente   pronuncia   della  Consulta  ha  ritenuto  la  legittimita'
costituzionale  della  norma  di  legge che facoltizza l'autorita' di
pubblica  sicurezza  ad  adottare  un  provvedimento  provvisorio  di
limitazione  della  liberta',  senza indicare «tassativamente» i casi
eccezionali  di  necessita'  e  urgenza che l'art. 13, comma 2, Cost.
richiede  come  presupposto di legittimita'. La sentenza n. 512/2002,
infatti,  ha  ritenuto che il presupposto di eccezionale necessita' e
urgenza  prescritto  dalla  norma  costituzionale,  pur  non  essendo
previsto  «tassativamente»  dall'art. 6,  comma  2,  della  legge  13
dicembre  1989,  n. 401, laddove attribuisce al questore il potere di
prescrivere  ai  «tifosi»  violenti  la  comparizione personale negli
uffici  di  polizia  negli  orari  coincidenti  con  le  competizioni
sportive,  e'  comunque  pienamente vigente nell'ordinamento, sicche'
deve  costituire il criterio sia del provvedimento amministrativo del
questore   sia   del   relativo   giudizio   di  convalida  spettante
all'autorita' giudiziaria.
    Sembra  quindi  possibile nella materia della liberta' personale,
come   in   quella  «strumentale»  della  liberta'  domiciliare,  una
interpretazione   adeguatrice   della   disciplina   legislativa  che
attribuisca    al    pubblico    potere    legittimato   a   limitare
autoritativamente   quelle  liberta'  il  compito  di  definire  quei
presupposti costituzionali che la disciplina legislativa ha omesso di
precisare.    Ma   ritiene   questo   collegio   che   una   siffatta
interpretazione,    invero   piu'   integratrice   che   adeguatrice,
lodevolmente  intesa  a  bilanciare  valori  costituzionali parimenti
imprescindibili   nelle   moderne   societa  democratiche,  piu'  che
all'autorita'  giudiziaria  ordinaria competa al giudice delle leggi,
attraverso  lo  strumento vincolante delle sentenze interpretative di
rigetto.  Oltre tutto, una siffatta interpretazione appare inibita al
giudice   ordinario  dalla  gia  citata  osservazione  dell'ordinanza
costituzionale  n. 304/2000,  secondo  cui  «spetta  al  legislatore»
determinare le modalita' di interferenza alla liberta' domiciliare.
                              P. Q. M.
    La  Corte  suprema  di  cassazione  dichiara  non  manifestamente
infondata   la   questione   di   legittimita'  costituzionale  degli
artt. 266,  comma  2,  c.p.p.  e  13,  d.l. 13  maggio  1991, n. 152,
convertito   in   legge   12  luglio  1991,  n. 203,  in  riferimento
all'art. 14 Cost.
    Sospende il processo e manda alla cancelleria per la trasmissione
degli atti alla Corte costituzionale, nonche' per la notificazione al
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  e  per la comunicazione ai
Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
    Cosi' deciso in Roma, il giorno 11 giugno 2003.
                                              Il Presidente: Toriello
                 Il consigliere estensore: Onorato
03C1240