N. 1017 ORDINANZA (Atto di promovimento) 10 luglio 2003
Ordinanza emessa il 10 luglio 2003 dalla Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di Tega Claudio ed altri Processo penale - Mezzi di ricerca della prova - Intercettazioni di comunicazioni tra presenti nei luoghi indicati dall'art. 614 cod. pen. - Modalita' di attuazione delle intercettazioni - Mancata previsione - Lesione del principio dell'inviolabilita' del domicilio. - Cod. proc. pen., art. 266, comma 2; decreto legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, art. 13. - Costituzione, art. 14.(GU n.48 del 3-12-2003 )
LA CORTE DI CASSAZIONE Ha pronunciato la seguente ordinanza sui ricorsi proposti da: 1) Tega Claudio, nato a Milano l'11 gennaio 1952, 2) Fassi Maurizio, nato a Marcallo con Casone (MI) il 15 maggio 1955, 3) Bruschi Daniela, nata a Milano il 31 dicembre 1961, 4) Pungetti Marco, nato a Milano il 25 dicembre 1960, 5) Bravi Alberto, nato a Sabbioneta (MN) il 19 giugno 1951, 6) D'Avino Michele, nato a Ferrara il 25 aprile 1945, 7) Dinardi Giuseppe, nato ad Altamura (BA) il 4 maggio 1963, 8) Delisse Corinne Josephine, nata a Namur (Belgio) il 9 giugno 1966, 9) Grieco Maria, nata a Cerignola (FG) il 15 febbraio 1942, 10) Leoni Daniele Gualtiero, nato a Milano il 2 ottobre 1956, 11) Peregalli Roberto, nato a Voghera (PV) il 9 aprile 1954, 12) Pristeri Emilio, nato a Milano il 28 agosto 1969, 13) Saias Vittorio, nato a Cassina De' Pecchi (MI) il 24 dicembre 1968, 14) Wohinz Massimiliano, nato a Milano il 14 ottobre 1958, avverso la sentenza resa il 23 ottobre 2001 dalla Corte di appello di Milano. Vista la sentenza denunciata e il ricorso; Udita la relazione svolta in udienza dal consigliere Pierluigi Onorato; Udito il pubblico ministero in persona del sostituto procuratore generale Gioacchino Izzo, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso; Udito il difensore della parte civile, avv. == ; Uditi i difensori deghi imputati, avv. Dario Bolognesi per Pristeri, avv. Simon Pietro Ciotti, in sostituzione dell'avv. Perla Sciretti, per Fassi, avv. Sergio Oliosi per Delisse, e avv. Paolo Emilio Quaranta per Tega e Bruschi, che hanno chiesto l'accoglimento dei rispettivi ricorsi, osserva: Svolgimento del processo 1. - Pronunciando in sede di rinvio, a seguito di annullamento di una precedente sentenza disposto dalla quarta sezione penale di questa Corte di cassazione in data 12 gennaio 1999, la Corte di appello di Milano, con l'epigrafata sentenza del 23 ottobre 2001, in gran parte confermava e in parte riformava quella resa il 19 novembre 1996 dal tribunale milanese, che aveva condannato Claudio Tega e altri sedici imputati per svariati episodi di detenzione, spaccio e acquisto di stupefacenti di cui all'art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309/1990, due dei quali aggravati ex art. 80 cpv. per ingente quantita', e uno anche ex art. 112, n. 2, c.p. (per i promotori, organizzatori e direttore dell'attivita' criminale) ed ex art. 73, comma 6, (per il concorso di tre o piu' persone) dello stesso d.P.R. n. 309/1990: tutti commessi nell'arco temporale tra il 7 aprile 1994 e il 6 febbraio 1994. Le indagini avevano preso avvio dalle dichiarazioni rese in altro procedimento da tale Pasquale Cardinale, che aveva parlato di illecite attivita' di Claudio Tega, ed erano proseguite con servizi di osservazione presso i luoghi di lavoro e di abitazione dello stesso Tega e con intercettazioni telefoniche e ambientali. In seguito a queste intercettazioni gli operanti avevano accertato che il Tega doveva ricevere una grossa fornitura di cocaina (10 kg) dalla torinese Maria Adela Costa; che il giorno 5 dicembre 1994 egli ne aveva gia' ritirato un quantitativo pari a 2 kg e un altro quantitativo di 2 kg doveva riceverlo il giorno successivo, effettuando il pagamento con denaro raccolto da vari soggetti interessati. Percio' la sera del 6 dicembre 1994 gli operanti procedettero all'arresto del Tega, che stava uscendo dalla sua abitazione milanese di via dei Frassini n. 33, unitamente alla predetta Maria Adele Costa, avendo appreso dall'ascolto delle intercettazioni che i due si stavano recando presso Gualtiero Leoni a ritirare la somma di lire sessanta milioni che doveva servire per il pagamento della fornitura di 2 kg di cocaina ricevuta quello stesso giorno. Si procedette anche all'arresto di Daniela Bruschi, convivente col Tega nell'appartamento di via dei Frassini n. 33, nonche' di Maurizio Fassi, che verso le ore 12 dello stesso giorno era stato visto uscire dallo stesso appartamento e trovato in possesso di 200 grammi di cocaina. In primo grado era stata stralciata la posizione di tre imputati (Amighetti, Canini e Mamone). La condanna di un altro imputato (Salvatore Nuara) era passata in giudicato. 2. - La succitata sentenza 12 gennaio 1999 di questa Corte suprema aveva annullato con rinvio la pronuncia di secondo grado perche' aveva utilizzato a fini probatori la trascrizione delle intercettazioni telefoniche e ambientali disposta dal g.u.p. dopo che aveva gia' emesso il decreto dispositivo del giudizio e quindi dopo che si era spogliato della competenza funzionale. Il giudice del rinvio, quindi, disponeva una nuova trascrizione delle intercettazioni telefoniche e ambientali, tramite periti appositamente incaricati. Il compendio probatorio utilizzato consisteva principalmente nelle anzidette intercettazioni e nelle testimonianze degli operatori delegati per gli appostamenti e gli ascolti. Nello stesso giudizio di rinvio veniva stralciata la posizione di Marco Fabio Maderna e di Maria Adele Costa. 3. - Gli imputati condannati con la predetta sentenza del 23 ottobre 2001, hanno proposto ricorso per cassazione deducendo a sostegno i motivi appresso esposti con riferimento alla posizione dei singoli imputati. Claudio Tega e' stato condannato alla pena della reclusione di 15 anni e 10 mesi e della multa di lire 290.000.000, essendo stato ritenuto colpevole di diciotto espisodi di detenzione, cessione e acquisto di cocaina. In particolare e' stato ritenuto responsabile dei seguenti delitti: capo 11: reato di cui all'art. 73, comma 1, e 80 cpv. d.P.R. n. 309/1990, per aver detenuto, in concorso con Sergio Amighetti, un imprecisabile ma ingente quantitativo di cocaina pari a diversi chilogrammi: in Milano il 4 maggio 1994; capo 29: reato di cui all'art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309/1990, per aver detenuto, in concorso con Daniela Bruschi, grammi 120/130 di cocaina: in Milano l'11 ottobre 1994; capo 32: reato di cui agli artt. 110 e 112, n. 2 c.p., 73, commi 1 e 6, 80 cpv. d.P.R. n. 309/1990, per aver acquistato, in concorso con altri, un quantitativo ingente di cocaina, pari a 10 Kg, partecipando alla fase ideativa e organizzativa, e per averne materialmente ricevuto e distribuito kg 4, custodendoli nella propia abitazione: in Milano sino al 5 e 6 dicembre 1994. Il Tega ha presentato ricorso per cassazione, deducendo quattro motivi a sostegno. In particolare denuncia: 3.1) mancanza o illogicita' di motivazione in relazione al capo 11. Sostiene che la prova del reato non poteva essere desunta dalla conversazione intercettata il 4 maggio 1994 tra lo stesso Tega e un secondo uomo identificato in Sergio Amighetti, nel corso della quale il secondo chiede «quanti chili sono?», il primo risponde «tanti» e l'altro esclama «minchia!». Aggiunge che siffatto colloquio poteva riferirsi a una detenzione non attuale, ma futura della droga; 3.2) mancanza o illogicita' di motivazione, nonche' violazione della norma incriminatrice in ordine al capo 32. Sostiene che la sua responsabilita' doveva essere limitata all'acquisto di 4 kg, e non al restante quantitativo della partita di 10 kg per il quale non si era raggiunto l'accordo e non era stato pagato il prezzo. Per integrare il reato di acquisto di sostanze stupefacenti, invero, non basta l'accordo verbale tra le parti, ma e' necessaria l'effettiva traditio della sostanza; 3.3) mancanza o illogicita' di motivazione, nonche' violazione di norme penali e processuali, in punto di accertamento della aggravante della ingente quantita', contestata nel capo 32. Sostiene che la ingente quantita' non poteva essere affermata neppure per i 4 Kg di cocaina effettivamente acquistati, giacche' a tal fine non bastava la considerazione - contenuta nella sentenza impugnata - che la quantita' «era tale da agevolare il consumo di un rilevante numero di tossicodipendenti», essendo anche necessario valutare la qualita' della sostanza e la situazione del mercato nella zona interessata; 3.4) mancanza e manifesta illogicita' di motivazione, nonche' violazione degli artt. 62-bis e 133 c.p. in ordine al diniego delle attenuanti generiche e alla misura della pena. 4. - Maurizio Fassi e' stato condannato alla pena di quattro anni di reclusione e lire 40.000.000 di multa, essendo stato riconosciuto colpevole solo della detenzione di 200 grammi di cocaina, di cui fu trovato in possesso, concesse le attenuanti generiche e recuperata la diminuente ex art. 442 c.p.p. Sul punto e' stata quindi riformata la sentenza del tribunale, che lo aveva ritenuto partecipe e cointeressato all'acquisto della partita di 10 kg di cocaina, lmitatamente al quantitativo di 2 kg pervenuto al Tega il 6 dicembre 1994. Il difensore del Fassi ha presentato ricorso, deducendo inosservanza degli artt. 73 e 75 d.P.R. n. 309/1990 e vizio di motivazione, laddove la Corte milanese ha escluso che la cocaina fosse destinata a uso personale o che si trattasse di acquisto di gruppo, o in subordine che ricorresse l'attenuante di lieve entita' di cui al comma 5 dell'art. 73. Lamenta in particolare che la Corte abbia apoditticamente negato la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per ascoltare in udienza quello spezzone di dialogo Tega/Fossi captato in via dei Frassini il 2 settembre 1994, per chiarire il passaggio in cui il Fossi chiede al Tega di «procurare un ... qualche mezzo ettini»: sostiene infatti che le ultime parole dovevano intendersi come «pezzettini». Con memoria depositata il 26 maggio 2003 il difensore allega sentenza resa il 20 febbraio 2003 dal Tribunale di Milano, che assolve il Fassi (e altri attuali riccorrenti) dal reato associativo di cui all'art. 74 d.P.R. n. 309/1990 perche' il fatto non sussiste, e insiste sulla tesi del consumo personale o di gruppo della cocaina detenuta al momento dell'arresto. 5. - Daniela Bruschi, in parziale riforma della sentenza di primo grado, e' stata condannata, in concorso con le attenuanti generiche, alla pena di dieci anni e sei mesi di reclusione e lire 45.000.000 di multa, essendo stata riconosciuta colpevole dei seguenti reati: capo 30: reato di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990, perche' - in concorso con Claudio Tega - aveva ceduto in due occasioni a Marco Maderna due modici quantitativi di cocaina (di pochi grammi ciascuno): in Milano il 12 ottobre 1994; capo 32: reato di cui agli artt. 73, commi 1 e 6, e 80 cpv. d.P.R. n. 309/1990, perche' - in concorso con Claudio Tega e altri - avevano illecitamente acquistato un ingente quantitativo di di 10 kg di cocaina, 4 kg dei quali materialmente ricevuti e distribuiti tra diversi acquirenti da Tega e Bruschi, che li custodivano nella propria abitazione. La Bruschi ha proposto ricorso per cassazione, deducendo quattro motivi a sostegno. In particolare lamenta: 5.1) mancanza e/o illogicita' della motivazione in punto di responsabihita' per i reati suddetti. Per il reato sub 32 sostiene di non aver partecipato all'acquisto della partita di cocaina, avendo svolto il ruolo di mera connivente non punibile. Al limite poteva essere ritenuta responsabile solo per la sua quota nell'affare, e cioe' per i 500 grammi rivenduti al non meglio identificato «Pierre». Per il reato sub 30, sostiene che apoditticamente la Corte di rinvio aveva disatteso la tesi difensiva secondo cui il colloquio captato il 12 ottobre 1994 tra Tega, il Maderna e la stessa Bruschi faceva riferimento non a cocaina ma a un maglione; 5.2) mancanza o illogicita' di motivazione, nonche' violazione di norme penali e processuali, in punto di accertamento dell'aggravante della ingente quantita', contestata dal capo 32. Sostiene che la ingente quantita' non poteva essere affermata neppure per i 4 kg di cocaina effettivamente acquistati, giacche' a tal fine non bastava la considerazione - contenuta nella sentenza impugnata - che la quantita' «era tale da agevolare il consumo di un rilevante numero di tossicodipendenti», essendo anche necessario valutare la qualita' della sostanza e la situazione del mercato nella zona interessata; 5.3) mancanza e/o illogicita' della motivazione, nonche' erronea applicazione della legge penale, laddove la sentenza impugnata ha escluso l'applicabilita' dell'attenuante di cui all'art. 114 c.p. in ragione del suo minimo contributo causale; 5.4) mancanza e/o illogicita' di motivazione, nonche' erronea applicazione dell'art. 62-bis c.p., laddove la Corte territoriale non ha applicato la massima diminuzione di pena possibile per le concesse attenuanti generiche. 6. - Marco Pungetti, in riforma parziale della sentenza di primo grado, e' stato condannato alla pena di otto anni di reclusione e lire 66.665.000 di multa, ivi computata la diminuente ex art. 442 c.p.p., essendo stato riconosciuto colpevole del reato di cui al capo 32, per aver partecipato - in concorso con Tega e altri - come cointeressato almeno per la quota parte di sua spettanza all'acquisto della partita di cocaina di 2 kg pervenuta al Tega il 6 dicembre 1994, non risultando sufficientemente provato il suo concorso alla complessiva transazione per 10 kg. Su tale limitazione di responsabilita' il giudice di rinvio ha ritenuto non convincente la motivazione del tribunale, ma ha confermato il dispositivo del primo giudice stante il divieto di refomatio in peius, con la conseguenzza che e' rimasta esclusa l'aggravante dell'ingente quantita'. Il difensore del Pungetti ha proposto ricorso, formulando quattro motivi a sostegno. In particolare lamenta: 6.1) manifesta illogicita' di motivazione in ordine alla responsabilita' del Pungetti; 6.2) erronea applicazione della legge penale in ordine alla misura della pena; 6.3) vizio di motivazione in ordine all'entita' della pena; 6.4) erronea applicazione dell'art. 62-bis c.p. e vizio di motivazione in ordine al diniego delle attenuanti generiche. 7. - Alberto Bravi, detto «Gianni», in parziale riforma della sentenza di primo grado, e' stato condannato alla pena della reclusione di tre anni, nove mesi e dieci giorni e della multa di lire 30.000.000, essendo riconosciuto colpevole del delitto di cui al capo 20 (art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309/1990) per aver - in concorso con Luigi Rizzi - illecitamente detenuto, trasportato e ceduto a Corinne Delisse e Claudio Tega un imprecisato non modico quantitativo di cocaina: in Milano il 13 maggio 1994. Il Bravi ha presentato ricorso deducendo come unico motivo erronea applicazione dell'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 390/1990 e manifesta illogicita' in ordine al diniego della ipotesi lieve. Sul punto la tesi dell'imputato (v. interrogatorio reso al g.i.p. il 3 ottobre 1995) era di essersi recato in via dei Frassini, su richiesta del Tega, per consegnare alla Delisse un piccolo quantitativo di cocaina pari a 1,5 grammi, prelevato da un quantitativo di 2 grammi, precedentemente acquistato per uso personale. 8. - Per Michele D'Avino la Corte di rinvio ha ridotto la pena a sei anni e due mesi di reclusione e lire 50.000.000 di multa, avendolo riconosciuto colpevole dei seguenti reati: capo 1: (art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309/1990) per aver illecitamente detenuto e offerto in vendita, a Corinne Delisse un imprecisato non modico quantitativo di cocaina per un prezzo di lire 150.000 al grammo: in Milano il 29 marzo 1994; capo 2: (art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309/1990) perche', fuori dall'ipotesi di cui all'art. 75, d.P.R. n. 309/1990 aveva acqiustato da Claudio Tega e Sergio Amighetti un quantitativo di circa 50 gr di cocaina corrispondente a un prezzo di lire 4.000.000: in Milano il 7 aprile 1994. In ordine al primo reato la prova della responsabilita' era desunta dalla intercettazione di una sequenza di conversazioni telefoniche intervenute tra D'Avino e Delisse e tra questa e Luigi Rizzi, da cui risultava che la Delisse, dovendo procurare cocaina all'amico Rizzi in un peniodo in cui il Tega (all'epoca suo convivente) era assente da Milano, si era rivolta a D'Avino, e che, siccome questi chiedeva un prezzo troppo alto, il Rizzi aveva rinunciato all'acquisto in attesa del ritorno del Tega. In ordine al secondo reato la prova della responsabilita' era desunta da alcune intercettazioni telefoniche e ambientali di conversazioni tra Tega e D'Amico intervenute il 7 aprile 1994. Nella prima conversazione telefonica (ore 11,14) i due parlano della consegna di lire 4.000.000 da parte di D'Avino a Sergio Amighetti presso il suo bar, con riferimento dapprima a una «fattura» e poi a «cambiale». Nella seconda conversazione telefonica (ore 11,47) D'Avino dice a Tega che Sergio (Amighetti) non c'e', e gli chiede se deve lasciare i soldi a una persona di sesso femminile (Maria Grieco, moglie di Sergio Amighetti). Alle 12,15 viene intercettata una conversazione tra i presenti Tega e D'Avino nell'appartamento di via dei Frassini n. 33, in cui si parla di lire 4.000.000 consegnate e di altre 500.000 da versare e poi si parla di qualita' della droga. Il D'Avino ha proposto ricorso deducendo tre motivi a sostegno: 8.1) col primo lamenta mancanza e manifesta illogicita' di motivazione in relazione al capo 1. Sostiene che mancava la prova della detenzione della cocaina, presupposto imprescindibile per integrare il reato di offerta in vendita: nella conversazione telefonica intercettata non vi era stata un'offerta di vendita, ma solo una discussione sui prezzi praticati sul mercato; 8.2) col secondo motivo lamenta mancanza e manifesta illogicita' di motivazione in ordine al capo 2. Sostiene che del tutto illogicamente la Corte milanese ha interpretato la «fattura» e la «cambiale» come metafora criptica per sostanza stupefacente; 8.3) col terzo motivo il ricorrente lamenta ancora mancanza e manifesta illogicita' di motivazione laddove la sentenza impugnata ha negato la ricorrenza della ipotesi lieve di cui al comma 5 dell'art. 73 per entrambi i reati contestati. 9. - Giuseppe Dinardi e Vittorio Saias sono stati riconosciuti colpevoli del reato di cui al capo 32 (art. 73, commi 1 e 6, 80 cpv. d.P.R. n. 309/1990), perche', in concorso con Claudio Tega, Daniela Bruschi e altri, avevano partecipato all'illecito acquisto di un ingente quantitativo di 10 kg di cocaina, in particolare contribuendo alla conclusiva attivita' di trasporto della sostanza stupefacente presso l'abitazione di Tega e Bruschi nei giomi 5 e 6 dicembre 1994, per quantitativi pari a 2 kg per volta, nonche' rendendosi direttamente cessionari di una quota di 200 grammi, ricevuta da Dinardi il 5 dicembre 1994 e una quota di 100 grammi ricevuta da Saias il 6 dicembre 1994. Il Dinardi, al quale sono state negate le attenuanti generiche ed e' stata applicata la diminuente del rito ex art. 442 c.p.p., e' stato condannato alla pena di 10 anni e due mesi di reclusione e lire 116.000.000 di multa. Il Saias, e' stato condannato, con le attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti contestate, e con la diminuente per il rito abbreviato, alla pena di cinque anni e otto mesi di reclusione e lire 60.000.000 di multa. I giudici di merito hanno ritenuto che Dinardi e Saias avevano apportato il loro consapevole contributo causale alla transazione relativa ai 10 kg di cocaina che il Tega aveva acquistati dalla torinese Maria Adele Costa. La prova e' stata desunta soprattutto da alcune intercettazioni telefoniche; dalla intercettazione di una conversazione ambientale intercorsa il 5 dicembre 1994 (ore 17,54) tra Tega, Dinardi e Saias, in cui i tre discutevano del piano di distribuzione della partita e della contabilizzazione del denaro da utilizzare per l'acquisto; dalle dichiarazioni rese dagli imputati in dibattimento, nelle quali Dinardi aveva ammesso di aver ricevuto da Tega 200 grammi di cocaina il 5 dicembre 1994, e Saias aveva ammesso di aver trattato con Tega l'acquisto di 100 grammi di cocaina il successivo 6 dicembre 1994. Il Saias inoltre si era reso immediatamente disponibile ad accompagnare Tega a Torino per l'acquisto il giorno 6 dicembre 1994, essendo il Tega impossibilitato a guidare l'auto per un forte mal di schiena. Il difensore dei predetti imputati ha presentato ricorso, con unico atto, deducendo due motivi: 9.1) col primo lamenta manifesta illogicita' di motivazione, laddove la Corte milanese ha negato la rinnovazione parziale del dibattimento per sentire direttamente la registrazione delle conversazioni telefoniche intervenute il 28 novembre 1994 e il 5 dicembre 1994, da cui sarebbe risultato che il Dinardi declino' senza mezzi termini l'invito del Tega di accompagnarlo a Torino. Chiede quindi che il Dinardi sia riconosciuto «esente da qualsiasi responsabilita' per il trasporto della droga da Torino a Milano» e il Saias venga ritenuto «colpevole di ausilio occasionale al Tega nella sola circostanza del 6 dicembre 1994»; 9.2) col secondo motivo il difensore lamenta manifesta illogicita' di motivazione e inosservanza degli artt. 62-bis e 133 c.p. Sostiene che la pena doveva essere ridotta rispetto a quella irrogata dal tribunale, posto che la Corte aveva limitato la responsabilita' solo all'acquisto e al trasporto di 4 kg di cocaina, rispetto all'intera partita di 10 kg. Si chiede inoltre perche' non sono state concesse al Dinardi le attenuanti generiche. 10. - Per Corinne Delisse, la Corte milanese, riconosciute le attenuanti generiche, ha ridotto la pena a cinque anni e otto mesi di reclusione e lire 40.000.000 di multa, siccome colpevole del reato contestatole al capo 21 (art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309/1990) perche' in concorso con Claudio Tega, fuori dall'ipotesi di cui all'art. 75 d.P.R. n. 309/1990, aveva illecitamente ricevuto da Alberto Bravi e detenuto nell'appartamento abitato col Tega un imprecisato non modico quantitativo di cocaina (di cui al capo 20): in Milano il 13 maggio 1994. La prova della sua responsabilita' era desunta dalla intercettazione della telefonata fatta dal Tega (mentre era fuori di casa) all'utenza di via dei Frassini alle ore 19,45 del 13 maggio 1994. Parlando con la Delisse il Tega l'avverti' che doveva arrivare il meccanico (Alberto Bravi) che gli doveva portare un «pezzo di ricambio», le chiedeva di farlo salire, di ritirare la roba e di dirgli che si sarebbero sentiti l'indomani. Poco dopo giungeva nell'appartamento Alberto Bravi. Nel colloquio che ne segui' (captato) si capiva che l'uomo consegnava la droga, e la donna commentava la cattiva qualita' della sostanza ricevuta in precedenza. Lo stesso Bravi ha poi ammesso - come gia' sottolineato - che quel giorno si era recato in via dei Frassini per consegnare alla Delisse - su richiesta del Tega - un piccolo quantitativo di cocaina, pari a grammi 1,5, per uso personale. Il difensore della Delisse ha proposto ricorso per cassazione, deducendo tre motivi a sostegno. In particolare lamenta: 10.1) con i primi due motivi, inosservanza di norme penali e processuali, nonche' mancanza e/o manifesta illogicita' della motivazione, laddove la Corte milanese ha escluso l'uso personale dello stupefacente portato dal Bravi e la lieve entita' del fatto; 10.2) col terzo motivo, inosservanza di norme penali e mancanza e/o manifesta illogicita' della motivazione, giacche' la sentenza impugnata ha confermato ex art. 86 d.P.R. n. 309/1990 la pena accessoria della espulsione dal territorio dello Stato a pena principale espiata, ritenendo la pericolosita' sociale dell'imputata. 11. - Per Maria Grieco (moglie di Sergio Amighetti, gestore del Garden Bar e socio di Tega nel fraffico di cocaina) la sentenza impugnata ha ridotto a cinque anni e otto mesi di reclusione e a 40.000.000 di lire di multa la pena inflitta, quale colpevole del delitto di cui al capo 22 (art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309/1990), perche' aveva illecitamente detenuto e ceduto a Claudio Tega, in concorso con Sergio Amighetti, un imprecisato non modico quantitativo di cocaina: Milano il 2 settembre 1994. La prova della sua responsabilita' era fondata sul contenuto di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali del 2 settembre 1994, da cui risultava che: a) l'Amighetti telefono' da casa sua alla moglie che si trovava al bar, avvertendola che il Tega si sarebbe recato da lei per prelevare dalla cantina del bar «le cose dalle ruote»; b): nel pomeriggio di quello stesso giorno il Tega aveva disponibilita' di cocaina, che cedette al Fassi (tre gramini), a tale Leonardo e a uno sconosciuto. I difensori della Grieco hanno proposto ricorso per cassazione, deducendo quattro motivi a sostegno. In particolare lamentano: 11.1) mancanza e manifesta illogicita' di motivazione, nonche' travisamento delle risultanze processuali, perche' la sentenza impugnata ha mal interpretato il contenuto del suddetto colloquio telefonico tra i due coniugi, traendone immotivatamente la conclusione che la donna fosse consapevole della detenzione e della cessione della sostanza stupefacente; 11.2) carenza e manifesta illogicita' di motivazione in relazione alla mancata applicazione della attenuante di cui all'art. 114 c.p., per la minima importanza del contributo offerto dalla Grieco alla preparazione o alla esecuzione del reato; 11.3) carenza e illogicita' di motivazione, laddove la Corte territoriale ha escluso l'attenuante della modica quantita' di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990; 11.4) carenza di motivazione in ordine alla determinazione della pena. 12. - Per Daniele Gualtiero Leoni la Corte di rinvio ha integralmente confermato Ia sentenza di primo grado, che, negate le attenuanti generiche, ritenuta la continuazione e riconosciuta la diminuente per il rito abbreviato, lo aveva condannato alla pena di dodici anni di reclusione e lire 128.000.000 di multa, siccome colpevole dei seguenti reati: capo 14: (art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309/1990) perche', a partire almeno dall'ottobre 1993, aveva acquistato e ricevuto da Claudio Tega non modici quantitativi di cocaina, per un ammontare complessivo di 4 o 5 kg, aveva acquistato il 4 maggio 1994 almeno 10 grammi di cocaina, e aveva ricevuto il 6 maggio 1994 un quantitativo di 5 grammi di cocaina come campione di una maggiore fornitura di 50 grammi; capo 26: (art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990) perche', fuori dall'ipotesi di cui all'art. 75 d.P.R. n. 309/1990, aveva illecitamente acquistato da Claudio Tega 5 granimi di cocaina al prezzo di lire 700.000: in Milano il 1° ottobre 1994; capo 32: (artt. 73, commi 1 e 6, 80 cpv. d.P.R. n. 309/1990) perche', in concorso con Claudio Tega, Daniela Bruschi e altri, aveva partecipato all'illecito acquisto di un ingente quantitativo di 10 kg di cocaina, 4 kg dei quali materialmente ricevuti e distribuiti da Tega e Bruschi, partecipando il Leoni quale codetentore e cointeressato, almeno per la sua quota parte, all'illecita operazione. Il difensore del Leoni ha proposto ricorso per cassazione, deducendo quattro motivi a sostegno: 12.1) col primo lamenta erronea applicazione della legge penale e mancanza o illogicita' di motivazione: in ordine al reato contestato al capo 14: a) sia per l'episodio del 4 maggio 1994 (acquisto di un quantitativo di cocaina pari ad almeno 10 gr), posto che non poteva dirsi con certezza che la conversazione tra presenti intercettata quello stesso giorno fosse intervenuta tra Tega e Leoni trovandosi in casa del Tega, almeno altre due persone; b) sia per l'episodio del 6 maggio l994 (ricezione di 5 gr di cocaina, campione per una maggior fornitura di 50 gr), posto che dalla intercettazione ambientale si poteva dedurre solo che era in corso una trattativa, ma che questa non era stata conclusa per disaccordo sul prezzo; c) sia per l'acquisto complessivo di 4/5 chili di cocaina, giacche' configurava una contestazione generica non temporalmente definita; in ordine al reato, contestato al capo 26, giacche' la Corte milanese ha erroneamente ritenuto che la trattativa si fosse perfezionata, e inoltre ha erroneamente escluso che ricorresse l'ipotesi di lieve entita ex comma 5, art. 73; in relazione al capo 32, giacche' dalle intercettazioni effettuate non risultava alcuna partecipazione del Leoni all'acquito della partita di 10 kg, o al massimo risultava un suo interessamento limitato all'acquisto di un chilo e mezzo di cocaina, sicche' doveva essere esclusa l'aggravante specifica di cui all'art. 80 c.p.v.; 12.2) col secondo motivo, il ricorrente deduce erronea applicazione dell'art. 73, comma 6, d.P.R. n. 309/1990 e carenza di motivazione in ordine all'aggravante della partecipazione di piu' di tre persone; 12.3) col terzo motivo si denuncia violazione dell'art. 133 c.p. nella determinazione della pena; 12.4) col quarto motivo, infine, si lamenta violazione dell'art. 62-bis c.p. in relazione al diniego delle attenuanti generiche. 13. - Nei confronti di Roberto Peregalli la Corte d'appello ha ridotto a sei anni e quattro mesi di reclusione e a lire 54.000.000 di multa la pena infittagli quale responsabile dei seguenti reati: capo 4: (art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309/1990), perche', fuori dall'ipotesi di cui all'art. 75; d.P.R. n. 309/1990, aveva acquistato da Claudio Tega e Sergio Amighetti un quantitativo di circa 100 grammi di cocaina, corrispondente a un prezzo di lire 8.000.000: in Milano il 12 aprile 1994; capo 9: (art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309/1990), perche', fuori dall'ipotesi di cui all'art. 75 d.P.R. n. 309/1990, aveva acquistato da Claudio Tega un quantitativo di circa 50 grammi di cocaina, corrispondente a un prezzo di lire 4.000.000: in Milano il 27 aprile 1994. Il difensore del Peregalli (avv. Patrizio Spinelli) ha proposto ricorso per cassazione, deducendo due motivi a sostegno: 13.1) col primo lamenta erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicita' di motivazione, laddove la sentenza impugnata ha tratto la prova della responsabilita' dell'imputato dalle intercettazioni ambientali del 12 e 27 aprile 1994, le quali - al contrario - offrivano soltanto indizi ne' gravi ne' precisi; 13.2) col secondo motivo il difensore denuncia erronea applicazione della legge penale e omessa motivazione, giacche' la sentenza impugnata ha omesso di indicare gli elementi di prova da cui desumere una finalita' di spaccio, anziche' di uso personale. Altro difensore del Peregalli (avv. Claudio Cangelosi) ha presentato ulterione ricorso, deducendo tre motivi a sostegno: 13.3) col primo il ricorrente lamenta erronea applicazione della norma incriminatrice nonche' carenza e contraddittorieta' di motivazione laddove la Corte milanese ha escluso l'uso personale della sostanza stupefacente acquistata dall'imputato; 13.4) col secondo motivo il difensore denuncia ancora violazione di legge e mancanza o manifesta illogicita' di motivazione laddove la Corte milanese ha negato la concessione delle attenuanti generiche senza prenderne in considerazione le argomentazioni prospettate sul punto nell'atto di appello; 13.5) col terzo motivo il ricorrente lamenta ancora erronea applicazione della legge penale e mancanza o manifesta illogicita' di motivazione in ordine alla esclusione della ipotesi lieve di cui al quinto comma dell'art. 73 d.P.R. n. 309/1990. 14. - Nei confronti di Emilio Pristeri la Corte d'appello ha sostituito la interdizione perpetua dai pubblici uffici con l'interdizione temporanea per cinque anni e ha revocato l'interdizione legale, ma ha confermato la pena principale di quattro anni di reclusione e lire 30.000.000 di multa (concesse le generiche e applicata la diminuente ex art. 442 c.p.p.), inflitta all'imputato siccome colpevole del reato di cui al capo 12 (art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309/1990), perche', fuori dall'ipotesi di cui all'art. 75 d.P.R. n. 309/1990, aveva acquistato da Claudio Tega un quantitativo di almeno 50 grammi di cocaina, per un controvalore di lire 5.000.000: in Milano il 4 maggio 1994. La prova della responsabilita' e' stata tratta a): dalla intercettazione ambientale del 4 maggio 1995 (ore 18,37), quando nell'abitazione del Tega era giunto Emilio Pristeri per effettuare il pagamento di una fornitura di cocaina dal medesimo destinata allo spaccio; b): dalle operazioni di ascolto e di appostamento degli operanti, che avevano identificato con certezza nel Pristeri la persona giunta nell'appartamento del Tega nella suddetta circostanza e ne avevano riconosciuto la voce. Il difensore del Pristeri ha proposto ricorso per cassazione deducendo cinque motivi a sostegno: 14.1) col primo denuncia inutilizzabilita' assoluta dei risultati delle intercettazioni ambientali, mancanza di motivazione in ordine alla necessita' dell'intercettazione per il prosieguo delle indagini, e illogicita' di motivazione in ordine alla necessita' di uno specifico decreto di autorizzazione all'introduzione nell'appartamento di via dei Frassini in cui sono state effettuate le intercettazioni ambientali. In particolare, sostiene che il decreto emesso ai sensi dell'art. 13, d.l. 13 maggio 1991, n. 152, per autorizzare le intercettazioni ambientali era assolutamente carente di motivazione quanto al requisito della loro necessita' per la prosecuzione delle indagini. Aggiunge che per procedere alla captazione delle conversazioni tra presenti nei luoghi di cui all'art. 614 c.p. attraverso microspie e' necessario uno specifico decreto di autorizzazione per introdursi nei luoghi di privata dimora al fine di posizionare le microspie. Laddove al contrario si accettasse una diversa interpretazione dell'art. 266, comma 2, c.p.p., la norma sarebbe costituzionalmente illegittima per violazione dell'art. 14 Cost.; 14.2) col secondo motivo il difensore deduce illogicita' e mancanza di motivazione in ordine alla individuazione del Pristeri come l'interlocutore di Tega nella conversazione intercorsa nell'appartamento di questi in data 4 maggio 1994; 14.3) col terzo motivo il ricorrente lamenta mancanza di motivazione laddove la sentenza impugnata ha escluso che la dazione di denaro di cui si parlo' nella citata conversazione del 4 maggio 1994, avesse la causale lecita prospettata dalla difesa (versamento pecuniario da parte del Pristeri per fronteggiare esposizioni debitorie dell'autolavaggio Gedepark, gestito dal Tega); 14.4) col quarto motivo si denuncia erronea applicazione dell'art. 73 d.P.R. n. 309/1990 e mancanza di motivazione sul punto laddove la sentenza impugnata ha ritenuto che nella piu' volte citata conversazione Pristeri/Tega si fosse perfezionato un acquisto di sostanza stupefacente; 14.5) infine col quinto motivo il ricorrente deduce mancanza di motivazione in ordine alla commisurazione della pena base; 14.6) con memoria depositata in udienza il difensore, oltre a riprendere con nuovi argomenti il secondo motivo del ricorso (14.2), deduce ulteriore profilo di inutilizzabilita' delle intercettazioni ambientali disposte nell'appartamento di via dei Frassini, atteso che il decreto attuativo del 29 marzo 1994 con cui il pubblico ministero delegava gli ufficiali di p.g. a disporre il noleggio di apparati idonei presso Ia ditta T.R.S. di Torino, difettava di motivazione in ordine ai presupposti delle eccezionali ragioni di urgenza e della insufficienza o inidoneita' degli impianti esistenti presso la Procura della Repubblica, cosi' come richiesto dal terzo comma dell'art. 268 c.p.p. 15. - Nei confronti di Massimiliano Wohinz la Corte d'appello ha ridotto a cinque anni e sei mesi di reclusione e a lire 40.000.000 di multa, la pena inflittagli siccome colpevole del reato contestato al capo 16 (art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309/1990) perche', fuori dalla ipotesi di cui all'art. 75 d.P.R. n. 309/1990, aveva acquistato 25 grammi di cocaina da Claudio Tega: in Milano il 9 maggio 1994. Il difensore del Wohinz ha proposto ricorso per cassazione, deducendo in sostanza, due motivi a sostegno: 15.1) anzitutto denuncia violazione di norme processuali e contraddittorieta' di motivazione laddove la sentenza impugnata ha ritenuto che il decreto di autorizzazione alle intercettazioni ambientali contenesse anche l'autorizzazione all'introduzione nell'appartamento di via dei Frassini; 15.2) in secondo luogo il difensore lamenta violazione dell'art. 73, comma 5, d.P.R n. 309/1990 e contraddittorieta' di motivazione laddove la Corte d'appello ha escluso l'ipotesi di lieve entita'. Motivi della decisione 16. - Preliminare e' la questione della legittimita' dei decreti autorizzativi delle intercettazioni, in particolare di quelle c.d. ambientali, e quindi della utilizzabilita' delle intercettazioni stesse, i cui risultati - come si evince dalla precedente narrativa - costituiscono la fonte principale, se non esclusiva, del giudizio di responsabilita' emesso nei confronti di tutti gli imputati ricorrenti. Connessa inscindibilmente a tale questione e' poi l'eccezione di incostituzionalita' della disciplina legislativa che regola le intercettazioni (c.d. ambientali) delle comunicazioni tra presenti. Al riguardo, sotto il profilo giuridico, occorre chiarire che nel caso concreto le intercettazioni sono state autorizzate in quanto ricorreva una delle fattispecie previste dall'art. 266 c.p.p. (procedimento relativo a delitti concernenti le sostanze stupefacenti) e sono stati ritenuti sussistenti i presupposti richiesti dall'art. 13, d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991, n. 203, per i procedimenti relativi a delitti di criminalita' organizzata (tali essendo considerati, per giurisprudenza costante, anche i delitti de quibus: cfr. plurimis Cass Sez. VI, sent. n. 7 del 4 marzo 1997, Pacini Battaglia, rv. 207363): e cioe', in deroga all'art. 267 c.p.p., i sufficienti (anziche' gravi) indizi di reato e la necessita' (anziche' l'assoluta indispensabilita) per lo svolgimento delle indagini. Sotto il profilo fattuale, per quanto riguarda in particolare le intercettazioni ambientali, va posto in evidenza che le captazioni dei colloqui tra i soggetti presenti nell'appartamento milanese di via dei Frassini furono effettuate tramite microspie inserite nelle scatole delle prese telefoniche, anche se, come ammette la sentenza impugnata, «non sono note ne' le modalita' ne' i tempi di introduzione nell'alloggio per il collocamento delle microspie». Gli ufficiali di polizia giudiziaria sentiti come testi hanno dichiarato che le microspie furono istallate da «personale tecnico» durante l'allaccio dei telefoni; e in base a cio' la Corte territoriale non ha escluso che l'accesso nel domicilio sia avvenuto col consenso del titolare. Sul punto pero' bisogna osservare che l'uso di un mezzo fraudolento (entrare per allacciare il telefono, ma approfittarne per istallare microspie) e' condotta che trae in inganno la volonta' del titolare dello jus excludendi, e che ha l'indubbio risultato di offendere, senza il consenso di quest'ultimo, la tranquillita' e la riservatezza della vita domestica che l'art. 14 Cost. intende tutelare. Sicche' l'introduzione invito domino di microspie nel domicilio privato per catturare quelle conversazioni intime che si sogliono riservare nelIambito delle mura domestiche configura indubbiamente una violazione della privacy, la quale puo' essere tollerata dall'ordinamento solo con le garanzie, nei casi e nei modi imposti dalla norma costituzionale. Tanto che, a rigore logico, qualsiasi captazione di conversazione domestica (avvenga con microspie istallate nella privata dimora o nascoste in oggetti spediti al domicilio, oppure con microfoni direzionali a distanza o altri simili apparecchi collocati fuori dell'appartamento) comporta una lesione della liberta' di domicilio. Dal punto di vista del soggetto interessato alla propria riservatezza domestica non fa differenza che l'intrusione avvenga attraverso apparecchi collocati piu o meno abusivamente dentro la privata dimora o con apparecchi piu' sofisticati collocati all'esterno. In questo senso, lo sviluppo tecnologico puo' modificare le modalita' di aggressione al bene tutelato, ma non deve indurre ad abbandonare qualsiasi tutela giuridica contro l'aggressione stessa a quello specifico bene. Se la liberta' di domicilio consiste nel diritto di preservare da interferenze esterne determinati luoghi in cui si svolge la vita privata di ciascun individuo (Corte cost. n. 135 dell'11 aprile 2002), non si vede perche' questo diritto debba essere violato solo da intrusioni corporali (della persona fisica che si introduce abusivamente nel domicilio) e non anche da qualsiasi apparecchio elettronico di captazione sonora delle conversazioni domestiche (microspie o microfoni direzionali ovunque e comunque collocati). In altri termini, cio' significa che se la captazione di conversazioni che si svolgono fuori dei luoghi di privata dimora attiene solo alla sfera di applicazione dell'art. 15 Cost. (liberta e riservatezza della corrispondenza), l'intercettazione di comunicazioni che avvengono nei luoghi di privata dimora interferisce insieme sia sull'ambito applicativo dell'art. 15, sia su quello dell'art. 14 Cost. (liberta' e riservatezza del domicilio). Per queste ragioni la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 266 c.p.p. e 13 d.l. n. 152/1991 risulta indubbiamente rilevante, giacche' dalla sua soluzione dipende la utilizzabilita' o meno delle intercettazioni ambientali eseguite, e quindi la valutazione delle prove assunte a fondamento della responsabilita' degli imputati. 17. - Cosi' verificata la rilevanza, va quindi deliberata la fondatezza della questione. In sostanza, secondo la tesi formulta dal difensore, la disciplina che regola la intercettazione di comunicazione tra i presenti nei luoghi indicati dall'art. 614 c.p.p., ai sensi dell'art. 266, comma 2, c.p.p. e dell'art. 13, d.l. 13 maggio 1991, n. 152, viola l'art. 14 Cost., almeno laddove non stabilisce i modi in cui puo' avvenire la limitazione all'inviolabilita' di domicilio. Cosi' impostata la questione non appare manifestamente infondata. Nel caso di specie si tratta di una limitazione alla liberta' domiciliare dettata da esigenze di giustizia costituzionalmente tutelate: viene quindi in rilievo il secondo comma dell'art. 14, della Carta repubblicana e non il terzo comma, relativo alle limitazioni per esigenze sanitarie o economico-fiscali. Orbene, il secondo comma dell'art. 14 - come ha chiarito la citata sentenza costituzionale n. 135/2002 - non intende ridurre le possibili limitazioni alla liberta' di domicilio a quei mezzi tipici di ricerca della prova che sono le ispezioni, le perquisizioni e i sequestri, dovendo il legislatore e l'interprete tener conto anche di altre forme di intrusione sconosciute al Costituente e divenute attuali per effetto dei progressi tecnologici; cosi' come non intende discriminare tra forme di intrusione palesi (quali appunto ispezioni, perquisizioni e sequestri) e forme di intrusione occulte (quali sarebbero i moderni mezzi di captazione sonora). Tuttavia, la norma costituzionale ammette la limitazione della liberta' domiciliare soltanto nei casi e modi stabiliti dalla legge (riserva di legge) e per atto motivato dell'autorita' giudiziaria (riserva di giurisdizione). Sia l'art. 266, comma 2, c.p.p., sia l'art. 13 del succitato d.l. n. 152/1991 (a cui ora fa rinvio l'art. 3 del recente d.l. 18 ottobre 2001, n. 374, convertito in legge 15 dicembre 2001, n. 438, recante disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale), tipizzano i «casi» in cui l'autorita' giudiziaria puo' disporre l'intercettazione di comunicazione tra presenti nei luoghi di cui all'art. 614 c.p., ma non disciplinano minimamente i «modi» in cui questa intercettazione puo' essere realizzata, sicche' sia il giudice sia il pubblico ministero, nell'ambito delle rispettive competenze di cui agli artt. 267 e 268 c.p.p., possono dettarne le modalita' operative indipendentemente da qualsiasi parametro normativo. La stessa Corte costituzionahe, con l'ordinanza n. 304 dell'11 gennaio 2000, ha precisato che l'art. 266, comma 2, c.p.p. «prevede la possibilita' di effettuare intercettazioni di comunicazioni tra presenti anche ove queste avvengano nei luoghi indicati dall'art. 614 c.p. ma non ne disciplina le relative modalita', che spetta al legislatore determinare nel rispetto dei limiti previsti dalla Costituzione». E' infatti evidente che queste modalita' non riguardano le procedure di autorizzazione, di verbalizzazione e di registrazione disciplinate negli artt. 267 e 268 c.p.p., ma attengono ai modi operativi in cui deve effettuarsi la intrusione nella sfera domiciliare, affinche' essa realizzi un equilibrato bilanciamento tra il diritto individuale e le esigenze investigative connesse all'esercizio dell'azione penale (modi, per intendersi, del tipo di quelli stabiliti dall'art. 251 c.p.p. per la esecuzione delle perquisizioni domiciliari). Per queste ragioni non si puo' condividere quella giurisprudenza secondo cui «in tema di intercettazioni tra presenti, la collocazione di microspie all'interno di un luogo di privata dimora, costituendo una naturale modalita' attuativa di tale mezzo di ricerca della prova, deve ritenersi ammessa dalla legge (in particolare, dall'art. 266, secondo comma, cod. proc. pen.), e, essendo funzionale al soddisfacimento dell'interesse pubblico all'accertamento di gravi delitti, non viola l'art. 14 Cost., precetto che deve essere coordinato, al pari di quello di cui all'art. 15 Cost., con il predetto interesse pubblico, tutelato dall'art.112 Cost.» (Cass Sez. VI, n. 4397 del 21 gennaio 1998, Greco rv. 210062). Questa tesi e' contrastata autorevolmente dalla dottrina, nonche' dalla citata ordinanza n. 304/2000 della Consulta, laddove precisa che le modalita' operative delle intercettazioni ambientali nei luoghi di privata dimora «non richiedono necessariamente una intrusione arbitraria nel domicilio», atteso che la moderna tecnologia offre possibilita' di intercettare conversazioni domestiche con apparecchi collocati all'esterno del domicilio. Ma la tesi e' piu' radicalmente inaccettabile ove si consideri che, per le ragioni sopra sviluppate, qualsiasi captazione di conversazioni avvenute nell'ambito del domicilio, effettuata con apparecchi interni o esterni al domicilio stesso, configura una lesione dell'inviolabilita' domiciliare che deve rispettare i parametri imposti dall'art. 14 Cost., anche se avvenga per soddisfare il principio costituzionale dell'obbligatorieta' dell'azione penale. Vero e' che nella omologa materia della liberta' personale una recente pronuncia della Consulta ha ritenuto la legittimita' costituzionale della norma di legge che facoltizza l'autorita' di pubblica sicurezza ad adottare un provvedimento provvisorio di limitazione della liberta', senza indicare «tassativamente» i casi eccezionali di necessita' e urgenza che l'art. 13, comma 2, Cost. richiede come presupposto di legittimita'. La sentenza n. 512/2002, infatti, ha ritenuto che il presupposto di eccezionale necessita' e urgenza prescritto dalla norma costituzionale, pur non essendo previsto «tassativamente» dall'art. 6, comma 2, della legge 13 dicembre 1989, n. 401, laddove attribuisce al questore il potere di prescrivere ai «tifosi» violenti la comparizione personale negli uffici di polizia negli orari coincidenti con le competizioni sportive, e' comunque pienamente vigente nell'ordinamento, sicche' deve costituire il criterio sia del provvedimento amministrativo del questore sia del relativo giudizio di convalida spettante all'autorita' giudiziaria. Sembra quindi possibile nella materia della liberta' personale, come in quella «strumentale» della liberta' domiciliare, una interpretazione adeguatrice della disciplina legislativa che attribuisca al pubblico potere legittimato a limitare autoritativamente quelle liberta' il compito di definire quei presupposti costituzionali che la disciplina legislativa ha omesso di precisare. Ma ritiene questo collegio che una siffatta interpretazione, invero piu' integratrice che adeguatrice, lodevolmente intesa a bilanciare valori costituzionali parimenti imprescindibili nelle moderne societa democratiche, piu' che all'autorita' giudiziaria ordinaria competa al giudice delle leggi, attraverso lo strumento vincolante delle sentenze interpretative di rigetto. Oltre tutto, una siffatta interpretazione appare inibita al giudice ordinario dalla gia citata osservazione dell'ordinanza costituzionale n. 304/2000, secondo cui «spetta al legislatore» determinare le modalita' di interferenza alla liberta' domiciliare.
P. Q. M. La Corte suprema di cassazione dichiara non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 266, comma 2, c.p.p. e 13, d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991, n. 203, in riferimento all'art. 14 Cost. Sospende il processo e manda alla cancelleria per la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, nonche' per la notificazione al Presidente del Consiglio dei ministri e per la comunicazione ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Cosi' deciso in Roma, il giorno 11 giugno 2003. Il Presidente: Toriello Il consigliere estensore: Onorato 03C1240