N. 11 ORDINANZA (Atto di promovimento) 8 agosto 2003

Ordinanza  emessa  l'8  agosto 2003 dal Magistrato di sorveglianza di
Cagliari, atti relativi a Tekaia Ali'

Straniero e apolide - Straniero detenuto condannato a pena detentiva,
  anche  residua,  non superiore a due anni - Espulsione disposta dal
  magistrato  di  sorveglianza  a  titolo  di  sanzione sostitutiva o
  alternativa   alla   detenzione   -  Afflittivita'  dell'espulsione
  configurata  quale  sanzione  penale  -  Automatismo della stessa -
  Violazione  del  principio della finalita' rieducativa della pena -
  Irragionevolezza sotto diversi profili - Contrasto del procedimento
  di applicazione della sanzione con i diritti inviolabili dell'uomo,
  con i principi del giusto processo, in particolare con il principio
  del contraddittorio tra le parti, in condizione di parita'.
- D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 16, come modificato dalla legge
  30 luglio 2002, n. 189.
- Costituzione, artt. 2, 3, 27, comma terzo, e 111.
(GU n.8 del 25-2-2004 )
                    IL MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA

    Visti   gli  atti  del  procedimento  nei  confronti  di  Absamat
Moustapha, nato il 2 gennaio 1981 in Marocco, detenuto presso la Casa
di reclusione di Isili, condannato alla pena di anni due e mesi dieci
di  reclusione  determinata con provvedimento di unificazione di pene
concorrenti   emesso  dal  Procuratore  della  Repubblica  presso  il
Tribunale  di  Padova  in  data  12  giugno  2002 (ord. es. n. 300/02
R.E.S.),   con  fine  pena  al  21  marzo  2004,  avente  ad  oggetto
l'espulsione  dal territorio,dello Stato ai sensi dell'art. 16 d.lgs.
25  luglio 1998, n. 286 come modificato dall'art. 15, legge 30 luglio
2002, n. 189;

                            O s s e r v a

    Con  sentenza  del  Tribunale  di  Padova in data 20 luglio 2001,
Absamat  Moustapha  fu  condannato  alla  pena  di  anni uno e sei di
reclusione  e  di  8.090.000  di  lire di multa, siccome riconosciuto
colpevole  dei  delitti di cui agli artt. 73, comma 1, t.u. 9 ottobre
1990, n. 309, 495 cod. pen.
    Con  le  diverse  generalita'  di  Tekaia  Ali', egli fu altresi'
condannato  alla  pena  di  un anno e quattro mesi di reclusione e di
3.000.000  lire  di multa inflitta per il delitto di cui all'art. 73,
comma 1, t.u. 9 ottobre 1990, n. 309.
    In  data  12  giugno  2002  fu  quindi emesso il provvedimento di
cumulo  specificato  in epigrafe, con inizio pena al 10 luglio 2001 e
fine al 21 marzo 2004.
    La  residua  pena  espianda  e'  pertanto inferiore a due anni di
reclusione.
    L'istruttoria  fin  qui esperita conduce a rinvenire il complesso
delle  condizioni di cui all'art. 13, comma 2, d.lgs. 25 luglio 1998,
n. 286.
    Per   quanto  concerne,  in  primo  luogo  la  sussistenza  delle
condizioni  soggettive,  devesi  rilevare  come  dal provvedimento di
cumulo  sopra  menzionato sia dato evincere la presenza, a carico del
ristretto,   di   numerosi   alias  accanto  alle  generalita'  prima
riportate: Tekaia Ali', nato il 5 aprile 1972 a Sousse o a Teboulba o
a  Khalifa  (Tunisia),  alias  Ben  Said,  nato  il  5 aprile 1976 in
localita' non precisata, alias Aziz Abdessamed, nato il 4 luglio 1973
a  Casablanca  (Marocco), alias Hamed Ben Alir, nato il 5 aprile 1970
in localita' non precisata. Secondo quanto riferito dalla Questura di
Padova  egli  e'  stato  comunque  identificato, tramite il Consolato
della  Tunisia  a  Milano,  con le esatte generalita' di Tekaia Ali',
nato  il  5 aprile  1972  a  Teboulba  -  Monastir  (Tunisia);  dalle
informazioni in possesso delle Forze di polizia, inoltre, il soggetto
non risulta avere mai regolarizzato la propria posizione di soggiorno
(v.  nota  informativa  in data 3 giugno 2003, in atti, da cui emerge
altresi'  che  egli  non risulta aver ottemperato a due intimazioni a
lasciare il territorio nazionale emesse dalle Questure di Agrigento e
di  Modena).  A  cio'  deve  aggiungersi che non sono stati acquisiti
elementi  significativi  che  inducano ad affermare la sussistenza di
alcuna delle condizioni ostative all'espulsione previste dall'art. 19
del t.u. delle leggi sull'immigrazione.
    Pertanto  essendo egli stato condannato per un delitto diverso da
quelli  contemplati  dall'art. 407,  comma  2,  lettera a) cod. proc.
pen.,  ovvero  dai  delitti  previsti  dal  testo  unico  delle leggi
sull'immigrazione   deve   ritenersi,  conclusivamente,  che  rimanga
perfettamente integrata la fattispecie prevista dall'art. 16, comma 5
e  seguenti,  del  t.u.  citato,  cosi'  come  modificato dalla legge
189/2002.
    Ritiene  tuttavia  questo  giudice,  analogamente  a  quanto gia'
rilevato  nella  propria  ordinanza  in  data  23 gennaio 2003 (proc.
n. 1/02   S.11B),   che  rispetto  alla  suddetta  fattispecie  possa
fondatamente  ipotizzarsi  una censura di legittimita' costituzionale
per  violazione  degli  artt. 3,  27,  comma  terzo,  e 111 Cost., in
relazione ai profili di seguito individuati.
    1.  -  Per  quanto  attiene  al ritenuto contrasto con l'art. 27,
comma  terzo,  Cost.,  ovvero  con  il  principio  del c.d. finalismo
rieducativo  della  pena, si osserva preliminarmente che l'espulsione
prevista  dalla disposizione censurata appare sicuramente ascrivibile
al novero delle sanzioni penali.
    Non   ignora,   al   riguardo,   il   remittente   che  la  Corte
costituzionale,    chiamata   a   pronunciarsi   sulla   legittimita'
costituzionale  delle  fattispecie  disciplinate  dall'art. 7,  commi
12-bis  e  ter,  d.l.  30  dicembre  1989, n. 416 (che prevedevano un
meccanismo  sostanzialmente  analogo  a  quello descritto dal comma 1
dell'art. 16, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 come modificato dall'art.
15,  legge  30  luglio 2002, n. 189), abbia ritenuta, con le sentenze
n. 62  e  283  del  1994  che  la  fattispecie  in esame configurasse
un'ipotesi di sospensione dell'esecuzione della pena, condizionata al
mancato  rientro  del  condannato  nel territorio dello Stato entro i
termini  previsti dalla legge. Nondimeno, l'opzione ricostruttiva ora
esposta   -  la  quale  porterebbe,  all'evidenza,  ad  escludere  la
necessita'  di  una  proiezione funzionale della fattispecie verso la
rieducazione  del  sottoposto  -  non  appare  pienamente persuasiva.
Quantomeno   nell'ipotesi  disciplinata  dal  comma  5  dell'art. 16,
l'espulsione  rappresenta, infatti, un quid pluris rispetto alla mera
sospensione  dell'esecuzione  della  pena: essa si configura come una
sanzione penale che si giustappone al meccanismo sospensivo.
    Sul   punto,   l'analisi   della   struttura   e  della  funzione
dell'istituto,   conducono  ad  affermarne  non  soltanto  la  natura
sanzionatoria, ma altresi' il carattere chiaramente afflittivo.
    Circa la natura di sanzione in senso tecnico, cioe' di meccanismo
attraverso  cui  la norma giuridica pone le condizioni per la propria
osservanza,  essa  e'  del  tutto  ovvio  e non sembra abbisognare di
particolari argomentazioni. La sua stretta correlazione con una norma
penale  incriminatrice,  alla  quale  e' logicamente e giuridicamente
«conseguente»  (sul  punto  v.  infra),  induce  a  ritenere che essa
risponda  ad  una  funzione  di  «prevenzione  speciale»:  attraverso
l'allontanamento coatto del soggetto dal territorio dello Stato, essa
neutralizza  -  o comunque circoscrive entro margini tollerabili - il
rischio  di  condotte  recidivanti e, quindi, assicura indirettamente
una  tutela  degli  interessi  protetti dalle norme incriminatici che
costituiscono il tessuto del nostro sistema giuridico-penale.
    Quanto   al   carattere   affittivo   dell'espulsione   non  pare
condivisibile  il  rilievo  secondo  cui, accompagnandosi essa ad una
sorta di rinuncia all'esecuzione della pena principale, finirebbe per
tradursi,  concretamente,  in  una  misura di favore, in una sorta di
beneficio.  Come  noto, tale impostazione, e' alla base della censura
di incostituzionalita' per violazione dell'art. 3 Cost. sollevata con
le  ordinanze di rimessione pronunciate dai Tribunali di Bergamo e di
Roma  in  data  15  luglio  e  15  ottobre 1993, con riferimento alla
disciplina, ora abrogata, dettata dai commi 12-bis e ter dell'art. 7,
d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286.
    La  tesi  ora esposta, senz'altro condivisibile in relazione alle
ipotesi  di  mera  sospensione  dell'esecuzione  della pena (come, ad
esempio,  nel  caso della sospensione condizionale disciplinata dagli
artt. 163   ss.   cod.  pen.),  non  sembra  tuttavia  persuasiva  in
riferimento alla fattispecie che ci occupa.
    Al  riguardo,  deve preliminarmente rilevarsi che l'analisi della
natura  del  meccanismo  sanzionatorio  da essa delineato deve essere
compiuto in astratto, cioe' in relazione al dato ontologico della sua
modalita' di esecuzione e degli interessi su cui l'espulsione incide.
Diversamente opinando, si giungerebbe all'assurdo di considerare come
un  beneficio  finanche  la  pena detentiva, quantomeno in tutti quei
casi in cui l'immissione del condannato nel circuito penitenziario lo
sottragga ad una condizione di marcata emarginazione socio ambientale
(si  pensi al caso, tutt'altro che infrequente e ben conosciuto dagli
operatori  del  settore,  in  cui  l'ingresso  in carcere finisca per
assicurare  al detenuto un alloggio, un'alimentazione e un'assistenza
sanitaria altrimenti inadeguati).
    Proprio  l'astratta disamina del meccanismo sanzionatorio conduce
ad  affermarne  l'intrinseca  afflittivita',  atteso  che il coattivo
accompagnamento  alla  frontiera  a  mezzo  della  forza pubblica (v.
l'attuale  comma  7  dell'art. 15,  d.lgs.  25  luglio  1998, n. 286)
concretizza,  per  citare quanto la Corte costituzionale ha affermato
nella  sentenza  n. 105/2001  in  relazione  alla diversa ipotesi del
trattenimento  dello  straniero  nei  centri  di  permanenza, «quella
mortificazione  della  dignita'  dell'uomo  che  si  verifica in ogni
evenienza di assoggettamento fisico all'altrui potere e che e' indice
sicuro   dell'attinenza   della  misura  alla  sfera  della  liberta'
personale».  In  altri  termini l'afflittivita' deriva specificamente
dalla  immediata  incidenza dell'espulsione sulla liberta' personale,
attuata  attraverso  l'allontanamento  coatto  dal  territorio  dello
Stato:  con  la  conseguente  traumatica  rottura  del  complesso  di
relazioni  socio-ambientali,  non  necessariamente illecite, poste in
essere  e  magari consolidate da parte dello straniero nel territorio
italiano.
    Non   sembra   pertanto  condivisibile  l'opinione,  espressa  in
occasione   delle  menzionate  ordinanze  di  rimessione  alla  Corte
costituzionale,  secondo  cui  l'espulsione  possa essere qualificata
come  un  beneficio:  tesi fondata sul fatto che l'allontanamento dal
territorio  dello Stato consente al condannato, ovvero - nel caso che
qui   interessa   -   al   detenuto,   di  sottrarsi  definitivamente
all'espiazione  della  pena  (posto  che  dopo il decorso del termine
previsto  dal  comma  8,  senza  che  il  soggetto  sia rientrato nel
territorio  italiano,  essa  verrebbe  ad estinguersi). Anche a voler
prescindere  dall'evidente  assurdita'  di  voler  qualificare  come,
misura favorevole un intervento restrittivo della liberta' personale,
dovrebbe  in  tal  caso consentirsi al «beneficiario» di rinunciarvi:
cio' che non avviene nel caso di specie, dovendo il giudice procedere
ex  officio  (come  del resto e' avvenuto nel presente procedimento).
Tale  circostanza,  costruisce  la  conferma conclusiva del carattere
afflittivo della fattispecie in esame.
    Riconosciuta l'aflittivita' della sanzione dell'espulsione appare
necessario  procedere  alla  sua  qualificazione  dogmatica,  non per
ragioni  di mera esercitazione speculativa, ma perche' dal suo esatto
inquadramento   puo'   conseguire,  appunto,  la  soggezione  o  meno
all'art. 27,  comma  terzo,  Cost.  ed  al  principio  del  finalismo
rieducativo.
    Sul  punto non pare esservi dubbio che ci si trovi in presenza di
una sanzione penale. Cio' e' evidente nell'ipotesi prevista dal comma
1  dell'art. 16,  d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286. In tal caso, anche a
voler  prescindere  dal  dato formale del nomen juris adoperato nella
rubrica  (ovvero  quello di «sanzione sostitutiva» della detenzione),
si  e'  in  presenza  di  una  conseguenza  affittiva  che il giudice
applica,  in  esito  ad un processo penale, una volta riconosciuta la
responsabilita'  dell'imputato, in sostituzione di una pena detentiva
(reclusione  o  arresto) non superiore ai due anni. E dal momento che
l'ipotesi prevista dal successivo comma 5 differisce da quella appena
descritta   solamente   per  la  fase  in  cui  e'  emessa  (e  cioe'
successivamente  al  passaggio  in  giudicato  della  sentenza) e per
l'organo giudiziario competente (nonche', di riflesso, per il tipo di
procedimento  e di provvedimento che dispone la sanzione), ma non per
contenuto  e  funzione (tipicamente specialpreventiva: v. supra), non
vi  e'  ragione  di  dubitare  che  essa  presenti la medesima natura
giuridica di quella.
    Orbene,  nel nostro sistema giuridico-penale - fondato sul regime
del   c.d.  doppio  binario  -  le  sanzioni  penali  possono  essere
ricondotte  esclusivamente  a  due tipologie fondamentali diverse per
funzione  e  per  presupposti  applicativi:  la  pena  e la misura di
sicurezza.
    Nel  primo  caso  lo strumento sanzionatorio deve necessariamente
orientarsi,  come  noto,  verso  una  prospettiva di rieducazione del
condannato (e quindi di acquisizione da parte dello stesso, del senso
del  disvalore  della  condotta di reato e, al contempo del senso del
valore attribuito dall'ordinamento all'interesse tutelato dalla norma
incriminatrice).
    Nel   secondo   caso,  l'afflizione  (realizzata  attraverso  una
limitazione della liberta' o del patrimonio del sottoposto) e' invece
esclusivamente  finalizzata  a  circoscrivere  il  rischio  di  nuovi
episodi di reita' da parte di un soggetto socialmente pericoloso.
    Ogni  sanzione  penale  deve  necessariamente essere ricondotta a
questi   due   paradigmi.  In  caso  contrario  si  consentirebbe  al
legislatore  di eludere i vincoli posti dalla Costituzione in materia
di  pene  e  di  misure di sicurezza (posti, ad esempio, dall'art. 25
Cost.)  attraverso  una  sorta di «truffa delle etichette» realizzata
con  la  previsione di un tertium genus di sanzioni penali atipiche e
comunque incidenti sulla liberta' personale.
    Tanto   premesso,  non  sembra  realisticamente  ipotizzabile  un
inquadramento  della  fattispecie in esame nel novero delle misure di
sicurezza (nel cui catalogo sono peraltro previste, come noto, alcune
ipotesi  di  espulsione  dello straniero dal territorio dello Stato);
soluzione  che  pure  rappresenterebbe - a parere di questo giudice -
l'unica  opzione  ricostruttiva  idonea a renderla compatibile con il
vigente assetto costituzionale.
    L'esclusione   di  una  siffatta  ipotesi  esegetica  si  impone,
infatti,  in  considerazione dell'assenza di un qualsiasi riferimento
all'accertamento  della  concreta pericolosita' sociale del soggetto,
ora assolutamente necessaria - a mente dell'art. 31, legge 10 ottobre
1986, n. 663 - ai fini dell'applicazione di ogni misura di sicurezza.
Sarebbe  inoltre  del  tutto irragionevole, in rapporto alla funzione
tipica  di  questa categoria di sanzioni penali, che l'espulsione sia
obbligatoria per i reati piu' lievi e non sia, invece, consentita per
i  reati  piu'  gravi,  tendenzialmente  rivelatori  di  una maggiore
pericolosita' del colpevole.
    Consegue   all'analisi  che  precede  che  l'espulsione  prevista
dall'art. 16,   d.lgs.  25  luglio  1998,  n. 286  sia  qualificabile
necessariamente  come pena: cio' che ulteriormente conduce a ritenere
indispensabile  la  sua  conformita' al principio posto dall'art. 27,
comma 3, Cost.; conformita' che - per le ragioni piu' sopra esposte -
deve, al contrario, ragionevolmente escludersi.
    Non  sarebbe  conferente  opinare,  al  riguardo, che la tesi ora
accolta,  escludendo  ontologicamente  la  compatibilita' tra la pena
dell'espulsione  ed il principio rieducativo, porterebbe ad escludere
tout  court la possibilita' di conservare la fattispecie in esame nel
nostro   sistema   penale.   Al  contrario,  deve  rilevarsi  che  il
legislatore  ben  potrebbe  congegnare  l'espulsione  come  misura di
sicurezza,  ancorando  - beninteso - l'applicazione della sanzione al
presupposto-cardine    dell'attuale    pericolosita'    sociale   del
condannato.
    2.  -  Nell'applicazione  dell'art. 16,  d.lgs.  25  luglio 1998,
n. 286  sorge,  inoltre,  un dubbio di legittimita' costituzionale in
relazione  agli  artt. 3  e 3 Cost., rispettivamente sotto il profilo
della  ragionevolezza  delle  scelte del legislatore nella previsione
del  meccanismo  di  espulsione  e  dei relativi presupposti, nonche'
sotto  il profilo della lesione dei diritti inviolabili della persona
umana riconosciuti e garantiti dalla Repubblica italiana.
    Quanto  al  primo  aspetto, la censura e' suggerita proprio dalle
considerazioni  compiute  dalla  Corte costituzionale con le sentenze
n. 62  e  283  del 1994, in relazione alle fattispecie, ora abrogata,
previste dai commi 12-bis e ter dell'art. 7 t.u. 286/98.
    Si  e'  gia'  osservato  che, con tali sentenze, il giudice delle
leggi  aveva  ricostruito  la  espulsione come ipotesi di sospensione
dell'esecuzione della pena, escludendone cosi' la necessaria funzione
rieducativa.
    Nella  stessa  occasione  la Consulta aveva comunque affermato la
legittimita'    di   un   sindacato   sulla   (eventuale)   manifesta
irragionevolezza  della  scelta  del  legislatore  di rinunciare alla
attuale applicazione della pena.
    A  tale  proposito  la  Corte  aveva precisato che, affinche' una
siffatta rinuncia possa ritenersi non irragionevole e' necessario che
possa (ragionevolmente) presumersi che la parte di pena espiata abbia
gia' raggiunto la finalita' rieducativa richiesta dalla Costituzione,
ovvero  nel  caso  in  cui  l'esecuzione  della  pena  non sia ancora
iniziata)  che  non  vi  sia necessita' di rieducazione. Una siffatta
valutazione,   ha   continuato  la  Corte  costituzionale,  non  puo'
ovviamente  prescindere  dall'acquisizione  di  adeguate informazioni
degli  organi di polizia, ma anche - si puo' ragionevolmente pensare,
pur in assenza di un'espressa indicazione in tal senso da parte della
Consulta  -  di  ogni  elemento  utile  ai  fini  del  giudizio sulla
personalita'  (a  sua  volta strumentale all'accertamento della reale
necessita' di un'effettiva rieducazione del reo).
    Tanto  premesso,  occorre  muovere  dalla  considerazione  che il
meccanismo dell'espulsione ora in esame si fonda, al contrario, su un
mero  automatismo: una volta accertata la sussistenza dei presupposti
richiesti  dalla  norma,  il giudice deve espellere il detenuto senza
avere  alcuna  alternativa.  Ne  consegue  che  al  fine  di ritenere
compatibile  la disciplina descritta con il principio di rieducazione
sara'  necessario  ipotizzare  che il legislatore abbia formulato una
presunzione assoluta di gia' avvenuta rieducazione del detenuto.
    Orbene, anche a voler prescindere dalla circostanza che la stessa
previsione   di   una   presunzione   assoluta  appare  evidentemente
confliggere  con  l'esigenza  di  consentire  al  giudice la concreta
valutazione   dell'avvenuta   rieducazione  del  condannato,  la  cui
necessita'    sembra    affermata    proprio   dalla   giurisprudenza
costituzionale, giova altresi' rilevare che una siffatta presunzione,
in  ogni  caso,  non  appare  fondata su alcuna massima di esperienza
verificabile  non  ravvisandosi  alcuna plausibile giustificazione al
fatto   che   il   detenuto  non  sia  «bisognevole»  di  trattamento
rieducativo  per  il solo fatto che la pena espianda sia inferiore ai
due anni di detenzione.
    Tale rilievo conduce ad affermare l'irragionevolezza della scelta
legislativa,  anche  tenuto conto del fatto che ove si consentisse al
Parlamento di costruire delle presunzioni insuperabili non fondate su
una   attendibile   regola   di  esperienza,  la  scelta  legislativa
diverrebbe  logicamente  inattaccabile  e,  come  tale,  sottratta  a
qualunque  tipo  di  controllo.  Del  resto  questa esigenza e' stata
debitamente   rappresentata   dalla   stessa   Corte   costituzionale
allorche', sia pure nella diversa materia tributaria ha precisato che
«se   e'   pur  lecito  formulare  previsioni  logicamente  valide  e
attendibili,  non  e' peraltro consentito trasformare tali previsioni
in  certezze assolute, imperativamente statuite senza la possibilita'
che  si  ammetta la prova del contrario» (Corte cost. 28 luglio 1976,
n. 200).
    Ne'   appare  in  alcun  modo  giustificabile  che  una  siffatta
presunzione  possa  essere  legittimamente circoscritta nei confronti
dei  soli  extracomunitari  non  aventi  titolo  di  soggiornare  nel
territorio   italiano,   a   meno   di   ipotizzare  un'irragionevole
presunzione  secondo  cui  nei confronti di tali soggetti il percorso
rieducativo sia, per qualche oscura ragione, piu' celere.
    Inoltre,  equiparandosi,  in  virtu' della descritta presunzione,
situazioni  potenzialmente  diverse  -  quali  ad esempio, quella del
detenuto  la  cui condotta penitenziaria sia stata pessima, e quella,
opposta,  di chi abbia fruttuosamente seguito il percorso rieducativo
-  viene  all'evidenza  violato,  sotto  altro profilo (con specifico
riferimento    al   principio   di   uguaglianza),   l'art. 3   Cost.
L'irragionevolezza   della   fattispecie  in  esame  si  apprezza  in
relazione  ad un ulteriore aspetto. La fattispecie censurata infatti,
statuisce  per  un  verso  il divieto di procedere all'espulsione con
riferimento  ai gravi reati previsti dall'art. 407, comma 2, lett. a)
cod.  proc.  pen.;  e per altro verso l'obbligo di disporla per tutti
gli  altri  reati  (salvo  il  rispetto  dei gia' ricordati limiti di
pena). Per questa via, mentre nell'ipotesi di condanna per detenzione
a  fini  di  spaccio  di  modeste  quantita' di sostanza stupefacente
l'espulsione   e'  necessitata,  viceversa  qualora  il  quantitativo
detenuto    fosse   addirittura   ingente   (nell'ipotesi   delineata
dall'art. 80,  comma  2, t.u. 9 ottobre 1990, n. 309) l'espulsione in
fase  esecutiva  sarebbe  invece  preclusa.  E  qualora, peraltro, il
magistrato  di  sorveglianza dovesse ritenere, a pena espiata, che il
condannato  non  sia  persona socialmente pericolosa (ad esempio, per
avere  egli  acquisito  una  valida opportunita' lavorativa o potendo
essere  inserito  in  valido  tessuto  socio-ambientale idoneo al suo
reinserimento)  non  potrebbe  neanche  farsi luogo all'espulsione ex
art. 86 t.u. stupefacenti. Rimane cosi' dimostrata l'irragionevolezza
di  una  disciplina che da un lato prevede il divieto di applicazione
di  una  sanzione  afflittiva per alcuni gravi reati e che dall'altro
lato  obbliga  invece  e  il giudice ad applicarla nelle ipotesi piu'
lievi   in   aggiunta   alla   residua  pena  detentiva  (che  verra'
integralmente  espiata  in caso di rientro nel termine di dieci anni:
con  la  conseguenza  che  l'ipotesi meno grave viene sanzionata piu'
duramente).
    Per quanto attiene, infine, al profilo del ritenuto contrasto con
l'art. 2 Cost., occorre evidenziare che e' ancora una volta la stessa
Corte costituzionale ad evidenziare - nella sentenza n. 62 del 1994 -
che  a  garanzia «di un diritto inviolabile dovrebbe prescriversi che
l'espulsione  sia  ancorata  all'iniziativa del condannato». Circa la
incidenza  dell'espulsione  su  un  diritto espressamente qualificato
come  inviolabile  dall'art. 13, comma 1, Cost., si e' gia' detto (v.
supra  pag. 3). Cosi' come e' gia' stata rilevata la natura officiosa
del relativo procedimento di applicazione.
    3.  -  Le  censure di incostituzionalita' si estendono inoltre, a
giudizio  del  remittente,  sul  procedimento  di  applicazione della
«sanzione  alternativa  alla  detenzione»  in relazione all'art. 111,
commi 1 e 2, Cost.
    A   questo   riguardo   giova  preliminarmente  rilevare  che  il
procedimento  delineato  dai  commi  5  e  ss.  dell'art. 16,  d.lgs.
25 luglio  1998,  n. 286,  ha  natura  sicuramente  giurisdizionale -
avendo  ad  oggetto  l'applicazione,  da  parte  di  un giudice ed in
sostituzione di una pena detentiva principale, di una sanzione penale
-  e  come  tale  deve  ritenersi riconducibile all'alveo del comma 1
dell'art. 111  Cost.,  a  mente  del quale «la giurisdizione di attua
mediante   il   giusto  processo  regolato  dalla  legge».  Anche  il
procedimento   di   espulsione  in  fase  esecutiva,  pertanto,  deve
conformarsi - analogamente ad ogni altro procedimento giurisdizionale
-  ai  principi  del c.d. giusto processo, i cui caratteri essenziali
(ed  imprescindibili  affinche' detto procedimento possa considerarsi
conforme  al  dettato  costituzionale),  sono  indicati  dal  comma 2
dell'art. 111  Cost.,  laddove  si  statuisce  che  «ogni processo si
svolge  nel  contraddittorio  tra le parti, in condizioni di parita',
davanti  a un giudice terzo e imparziale». Nessun argomento contrario
potrebbe  trarsi  dal  mero  dato letterale, rinvenibile nel predetto
enunciato  normativo, laddove viene fatto riferimento alla nozione di
«processo»;   nozione   che   se  intesa  in  una  stretta  accezione
processualpenalistica  dovrebbe essere circoscritta a quella fase del
processo   di   cognizione   (cioe'  diretto  all'accertamento  della
responsabilita'    penale    dell'imputato)    che    si    incardina
successivamente  all'esercizio  dell'azione  penale e che si conclude
con  la  sentenza  di  condanna  o di proscioglimento. Questa ipotesi
ermeneutica,   che   comporterebbe   -   ad  esempio  -  l'esclusione
dall'ambito  della norma del procedimento di sorveglianza e di quello
di   esecuzione,   contrasta   tuttavia   con  un  insuperabile  dato
sistematico: il secondo comma dell'art. 111 Cost. riprende il termine
di  «processo»,  gia'  adoperato  dal  primo comma nella locuzione di
«giusto  processo»  che, come detto, compendia in termini sintetici i
caratteri   indefettibili   della   giurisdizione,   cioe'   di  ogni
procedimento giurisdizionale.
    Consegue   alla  prospettazione  ora  accolta  che  un  carattere
essenziale di ogni procedimento penale, ivi compreso quello in esame,
va necessariamente rinvenuto nel principio del contraddittorio.
    Detto  principio  presenta  una  duplice connotazione funzionale,
oggettiva  e  soggettiva.  Esso  di  configura,  in primo luogo, come
fondamentale  strumento di conoscenza del giudice (profilo oggettivo)
in   quanto   prezioso   collettore   di   elementi   e   circostanze
giuridico-fattuali   potenzialmente   significativi   ai  fini  della
decisione.
    La  funzione  del  contraddittorio, peraltro, non si esaurisce in
un'esigenza,  per  cosi' dire, meramente «efficientistica» (nel senso
di  favorire  una  decisione  qualitativamente  migliore, ossia «piu'
giusta»)  ma  e'  strumentale al soddisfacimento dell'interesse delle
parti del procedimento a rappresentare compiutamente il proprio punto
di  vista ai fini del perseguimento delle diverse istanze di cui esse
sono  portatori (c.d. profilo soggettivo). Per questa via, ad esempio
la  facolta'  dell'imputato  di  contraddire  i testi dell'accusa non
sara' finalizzata, esclusivamente, a fornire degli elementi utili per
l'acquisizione   di   una  verita'  processuale  quanto  piu'  vicina
possibile  alla  verita' storica, migliorando in tal modo la qualita'
della   decisione   del   giudice,  ma  rispondera'  -  ovviamente  -
soprattutto    all'esigenza   della   parte   privata   di   tutelare
adeguatamente  il  proprio interesse a difendersi dall'accusa di aver
commesso un reato. In quest'ultima prospettiva, il contraddittorio e'
quindi  funzionale  a garantire il diritto a confrontarsi con l'altra
parte.
    A  tale  riguardo,  deve  peraltro  sottolinearsi  che sebbene la
genesi  storica  della  modifica dell'art. 111 Cost. vada sicuramente
ricondotta   alla  necessita'  di  rafforzare  i  poteri  processuali
dell'imputato,  non  puo'  tuttavia  dubitarsi  che  il principio del
contraddittorio  sia  funzionale  anche alla tutela delle prerogative
processuali   del   pubblico   ministero   cui  deve  necessariamente
consentirsi  di  esplicare,  in  condizioni di parita' con la difesa,
ogni  attivita' procedimentale finalizzata a soddisfare gli interessi
istituzionali   tipici   della   propria   funzione  giudiziaria:  il
rappresentare  l'accusa nel processo di cognizione, ma anche, in ogni
altro  procedimento  penale,  l'esercizio  del controllo di legalita'
sull'attivita'  del  giudice  ex art. 73, regio decreto n. 12/1941 (a
mente  del  quale «il pubblico ministero veglia alla osservanza delle
leggi»).
    Peraltro,  e  ad  ulteriore  conferma  dell'indefettibilita'  del
contraddittorio,  giova rilevare che anche nei casi in cui il vigente
sistema  processuale  sia  civile che penale prevede che la decisione
possa  essere  assunta senza contraddittorio (e' il caso, ad esempio,
dei procedimenti monitori per decreto ingiuntivo e per decreto penale
di   condanna)   essa   decisione   viene   comunque   adottata  solo
provvisoriamente,   fino  all'esito  dell'eventuale  procedimento  di
opposizione  nel corso del quale il contraddittorio verra' pienamente
reintegrato.
    A  questo  riguardo,  l'analisi  anche  sommaria del procedimento
delineato  dall'art. 16  d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 evidenzia come
il  contraddittorio  patisca un vulnus del tutto incompatibile con il
dettato costituzionale.
    E', infatti, evidente che per un verso risulta violata l'esigenza
immanente al profilo oggettivo del contraddittorio, atteso che pur in
presenza  di un potere ex officio del magistrato di sorveglianza, non
rimane  comunque  soddisfatta l'esigenza di implementare - attraverso
la   prospettazione  delle  parti  -  l'acquisizione  degli  elementi
necessari  ai fini di una decisione piu' consapevole; per altro verso
e'  di  tutta  evidenza  come  anche  il profilo soggettivo non venga
adeguatamente garantito.
    A  quest'ultimo  proposito, va infatti evidenziato che il comma 6
dell'art. 16,  limitandosi  a  prevedere  la  facolta'  di  adire  il
tribunale  di  sorveglianza in capo al solo detenuto, non consente al
pubblico  ministero  di  porre  in essere pienamente quelle attivita'
procedimentali   necessarie  ai  fini  del  perseguimento  delle  sue
attribuzioni   istituzionali,   in   particolare   del  controllo  di
legalita'.  Se  per  un  verso,  infatti,  il pubblico ministero puo'
interloquire  in  ordine alla legittimita' dell'espulsione davanti al
tribunale  di  sorveglianza  adito  dal  detenuto,  per  altro verso,
qualora il condannato non abbia nessun interesse all'impugnazione (ad
esempio  perche'  il  procedimento  ha  tratto  l'abbrivio da una sua
istanza),  il  pubblico ministero si vedrebbe precluso ogni spazio di
intervento,  non  fosse altro in quanto non e' previsto alcun obbligo
di  comunicazione  alla  procura  e  perche'  l'eventuale ricorso per
cassazione  -  da  ritenersi  verosimilmente  ammissibile ex art. 113
Cost.   vertendosi  in  materia  de  libertate  -  non  sospenderebbe
l'esecutivita'  del  decreto,  una  volta decorsi i termini di cui al
comma 6.
    Consegue  alla ricostruzione accolta che qualora, per assurdo, il
magistrato   di   sorveglianza   espellesse  un  detenuto  condannato
all'ergastolo   non  vi  sarebbero  strumenti  processuali  idonei  a
consentire  al  pubblico  ministero  di esercitare tempestivamente il
controllo di legalita'. Con il che la violazione dell'art. 111, comma
1 e 2, Cost. deve ritenersi quantomeno non manifestamente infondata.
    Per  quanto poi attiene alla rilevanza della questione non sembra
potersi  sostenere  che,  non concernendo immediatamente il contenuto
della   decisione   del   giudice   (siccome   inerente   al  profilo
dell'eventuale  reclamo  del  pubblico  ministero),  essa sarebbe del
tutto irrilevante.
    Anche  a  prescindere  dal  fatto  che  il  concetto di rilevanza
accolto  in  alcune  pronunce  della  Corte  costituzionale  (cfr. ex
plurimis  la sentenza n. 148/1983) afferisce alla pertinenza dei dati
normativi   coinvolti  nella  decisione  de  qua  e  che  l'eventuale
accoglimento  della  questione  da  parte  della Consulta produrrebbe
sicuramente  i  suoi effetti sulla disciplina applicabile al presente
procedimento  (cio'  che  induce  a ritenere sussistente la rilevanza
della questione anche in riferimento ai profili indicati ai nn. 1 e 2
della  presente  ordinanza,  e' appena il caso di sottolineare che il
momento   immediatamente  antecedente  rispetto  alla  decisione  del
magistrato  di  sorveglianza  appare  come il limite estremo oltre il
quale  la  questione potrebbe non essere piu' sollevabile, atteso che
sia  l'impugnazione  da  parte  del  detenuto  e sia, di riflesso, il
procedimento  di  secondo  grado  rappresentano  ovviamente  una mera
eventualita',  in  assenza della quale la lesione del contraddittorio
non potrebbe essere eccepita o comunque rilevata.
        4)  Per  le ragioni piu' sopra esposte gli atti devono essere
inviati  alla  Corte  costituzionale  e  il  procedimento deve essere
sospeso in attesa delle determinazioni del giudice delle leggi.
                              P. Q. M.
    Visti  gli  articoli 23 ss., legge 11 marzo 1953, n. 87, 13, 16 e
19  d.lgs.  25 luglio 1998, n. 286, cosi' come modificato dalla legge
30 luglio 2002, n. 189, 2, 3, 27, comma terzo, 111 Cost.
    Ordina  la trasmissione degli atti del presente procedimento alla
Corte  costituzionale,  disponendone  la  sospensione in attesa della
decisione della Corte.
    Manda  alla  cancelleria per le comunicazioni di competenza e, in
particolare,  per  la  notifica all'interessato, al Procuratore della
Repubblica  presso  il  Tribunale  di  Cagliari,  al  Presidente  del
Consiglio  dei  ministri,  nonche' per la comunicazione ai Presidenti
delle due Camere del Parlamento.
        Cagliari, addi' 2 agosto 2003
               Il magistrato di sorveglianza: Renoldi
04C0161