N. 15 ORDINANZA (Atto di promovimento) 22 ottobre 2003

Ordinanza  emessa  il  22  ottobre  2003  dal tribunale di Genova nel
procedimento civile vertente tra Bognolo Fortunato e Rete Ferroviaria
Italiana S.p.a.

Impiego  pubblico  -  Dipendenti  dell'Ente  Ferrovie  dello  Stato -
  Compensi  per  lavoro  straordinario  corrisposti per l'anno 1993 -
  Inclusione  nel  blocco degli automatismi stipendiali - Lesione del
  diritto  dei  lavoratori  ad un tasso retributivo maggiorato per le
  prestazioni  di  lavoro  straordinario  sancito dalla Carta sociale
  europea (art. 4) - Violazione di obbligo internazionale dello Stato
  -  Richiamo alle sentenze della Corte costituzionale nn. 242/1999 e
  470/2002.
- Decreto-legge   19 settembre   1992,   n. 384,   art. 7,   comma 5,
  convertito,   con  modificazioni,  nella  legge  14 novembre  1992,
  n. 438;  legge  24 dicembre  1993,  n. 537, art. 3, comma 36; legge
  23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, comma 66; legge 23 dicembre 1999,
  n. 488, art. 22; legge 27 dicembre 2002, n. 289, art. 36.
- Costituzione, art. 117.
(GU n.8 del 25-2-2004 )
                            IL TRIBUNALE

    Il  ricorrente  premesso di lavorare alle dipendenze della S.p.a.
Rete  Ferroviaria  Italiana  (gia'  Ferrovie  dello Stato societa' di
trasporti e servizi per azioni), di avere svolto lavoro straordinario
risultante  dai  prospetti  paga  prodotti,  e  retribuito  in misura
addirittura inferiore al lavoro ordinario, anziche' maggiorata almeno
del  tasso del 10% come prescritto dalla legge; che ha invece diritto
a  tale  maggiorazione;  tutto cio' premesso chiede la condanna della
convenuta al pagamento delle conseguenti differenze retributive oltre
accessori  per  il  lavoro straordinario prestato sino al 31 dicembre
1999.
    La  convenuta  si  costituisce  e chiede il rigetto della domanda
invocando una complessa normativa a giustificazione della correttezza
del  suo  operato.  E'  opportuna,  per  bene  intendere le complesse
questioni   dedotte  nel  presente  giudizio,  una  panoramica  sulla
normativa,  legale  e  contrattuale,  che  attiene  alla  materia del
contendere.
    La  contrattazione  collettiva del settore cosi' provvede in tema
di prestazione di lavoro straordinario.
    L'art.  44  C.C.N.L.  1990/1992,  rubricato  «compenso per lavoro
straordinario» testualmente dispone:
        «Per lavoro straordinario si intende quello prestato oltre il
normale  orario  di  lavoro,  secondo  i  criteri  di cui alle D.C.A.
approvate  con  legge  n. 34  dell'11  febbraio  1970,  e  successive
modificazioni ed integrazioni.
    Le  misure  orarie  del compenso per lavoro straordinario vengono
determinate al 1° gennaio di ciascun anno maggiorando la retribuzione
convenzionale  di  cui  all'art.  36  del  presente  contratto, nelle
seguenti percentuali:
        lavoro straordinario diurno feriale 21%;
        lavoro straordinario diurno festivo 40%;
        lavoro straordinario notturno feriale 40%;
        lavoro straordinario notturno festivo 62%».
    Il  concetto  di  «retribuzione convenzionale» e' stabilito a sua
volta dall'art. 36 del medesimo C.C.N.L., ai cui sensi:
    «La  retribuzione  convenzionale  e'  costituita  dalla somma dei
seguenti elementi:
        a) stipendio  mensile  tabellare, comprensivo delle classi di
stipendio in vigore al 1° gennaio di ciascun anno;
        b) indennita' integrativa speciale in vigore al 1° gennaio di
ciascun anno;
        c) rateo  della  tredicesima mensilita' corrisposta nell'anno
precedente».
    Ai  sensi  dell'art. 35 C.C.N.L. «retribuzione normale» e' invece
costituita da:
        retribuzione  base  di  cui  al  precedente art. 33, punto 1,
ovvero:
          a) stipendio   (minimo   tabellare,  successive  classi  di
stipendio, aumenti periodici biennali, anche convenzionali, eventuale
assegno personale pensionabile ed eventuale EDR);
          b) indennita' integrativa speciale;
        indennita' quadri;
        indennita'  di  utilizzazione  -  per la parte corrisposta in
relazione all'effettiva presenza in servizio;
        rateo  della  tredicesima  mensilita'  e  rateo del premio di
esercizio spettanti nell'anno precedente.
    Da  un  raffronto  tra le due norme contrattuali risulta evidente
che  la «retribuzione convenzionale» non comprende tutti gli elementi
retributivi inclusi invece nella «retribuzione normale».
    Restano in particolare esclusi:
        a) l'indennita'  quadri  (per il personale inquadrato in 8° e
9° livello);
        b) l'indennita' di utilizzazione (per il personale inquadrato
dal 1° al 7° livello retributivo);
        c) il rateo del premio di esercizio dell'anno precedente;
        d) l'EDR.
    Poiche' peraltro il C.C.N.L. 1990/1992 prevedeva la maggiorazione
del  21%  per lo straordinario feriale e la maggiorazione del 40% per
lo  straordinario  festivo,  la  retribuzione  oraria  per  il lavoro
straordinario  risultava  (come  e'  pacifico  tra le parti) comunque
superiore a quella prevista per il lavoro ordinario.
    E'  pure  pacifico  tra  le  parti  che la societa' convenuta, in
ottemperanza  a  quanto previsto dall'art. 44, comma 2 e 36, C.C.N.L.
1990/1992,  ha  regolarmente  provveduto ad adeguare la misura oraria
del   compenso   per   lavoro  straordinario  fino  al  gennaio  1992
(compreso).
    E'  nel frattempo entrato in vigore l'art. 7 del decreto-legge 19
settembre 1992, n. 384, convertito, con modificazioni, nella legge 14
novembre 1992, n. 438, ai cui sensi:
    «Resta  ferma  sino  al  31  dicembre  1993 la vigente disciplina
emanata  sulla  base  degli  accordi di comparto di cui alla legge 29
marzo 1983, n. 93, e successive modificazioni e integrazioni. I nuovi
accordi  avranno  effetto  dal  1°  gennaio  1991. Per l'anno 1993 al
personale  destinatario dei predetti accordi e' corrisposta una somma
forfetaria   di  lire  20.000  mensili  per  tredici  mensilita'.  Al
personale  disciplinato  dalle leggi 1° aprile 1981, n. 121, 8 agosto
1990,  n. 231,  11  luglio  1988,  n. 266,  30 maggio 1988, n. 186, 4
giugno  1985,  n. 281,  15  dicembre  1990,  n. 395, 10 ottobre 1990,
n. 287,  ed  al  personale  comunque  dipendente da enti pubblici non
economici,  nonche'  a  quello  degli  enti, delle aziende o societa'
produttrici   di   servizi  di  pubblica  utilita'  si  applicano  le
disposizioni  di  cui  al  presente  comma,  fatta  salva  la diversa
decorrenza del periodo contrattuale» (comma 1).
    «Tutte  le  indennita'  compensi,  gratifiche  ed  emolumenti  di
qualsiasi  genere,  comprensivi,  per  disposizione  di  legge o atto
amministrativo previsto dalla legge, o per disposizione contrattuale,
di  una quota di indennita' integrativa speciale di cui alla legge 27
maggio 1959, n. 324, e successive modificazioni, o dell'indennita' di
contingenza  prevista  per  il settore privato o che siano, comunque,
rivalutabili  in relazione alla variazione del costo della vita, sono
corrisposti  per  l'anno  1993  nella  stessa  misura dell'anno 1992»
(comma 5).
    In definitiva il citato art. 7 ha bloccato per l'anno 1993 sia la
contrattazione,   sia   l'adeguamento   automatico  dei  compensi  in
qualunque modo legati alla indennita' integrativa speciale o a quella
di contingenza.
    Il  «blocco»  della  contrattazione  (comma  1)  non e' stato poi
rinnovato,  mentre  quello  di cui al quinto comma e' stato prorogato
dapprima  (per il triennio 1994-1996) dall'art. 3, comma 36, legge 24
dicembre  1993,  n. 537, poi (per il triennio 1997-1999) dall'art. 1,
comma  66,  legge  23 dicembre 1996, n. 662, successivamente ( per il
triennio  2000-2002)  dall'art. 22, legge n. 488/1999, infine (per il
triennio 2003-2005) dall'art. 36 della legge n. 289/2002.
    Il citato art. 7 e successive integrazioni e modificazioni (d'ora
in   poi   art.   7)   secondo   un  ormai  consolidato  orientamento
giurisprudenziale  e'  applicabile nei confronti dei dipendenti delle
Ferrovie   dello   Stato,  poiche'  l'ambito  di  applicazione  della
disciplina  in esso contenuta si estende, alla luce della ratio della
norma  e  del  suo  espresso disposto «...... al personale .... degli
enti,  delle  aziende  o  societa' produttrici di servizi di pubblica
utilita'  ....»  categoria  nella  quale  indubbiamente  deve  essere
compresa anche la S.p.a. Ferrovie dello Stato (tale applicabilita' e'
stata  ritenuta  chiaramente,  se  pur  implicitamente,  dalla  Corte
costituzionale, sentenza del 17 giugno 1999, n. 242).
    Secondo  un  consolidato  orientamento  della Corte di cassazione
l'art.  7,  comma  5,  va inteso, in coerenza con il tenore letterale
della  disposizione,  nel  senso che ad essere corrisposte per l'anno
1993  (e seguenti) nella stessa misura dell'anno 1992 siano «tutte le
indennita',  compensi,  gratifiche ed emolumenti di qualsiasi genere,
comprensivi  di  una  quota  di  indennita'  integrativa  speciale  o
dell'indennita'  di  contingenza o comunque rivalutabili in relazione
alla  variabilita'  del  costo  della  vita,  e  non le sole quote di
indennita'  integrativa  speciale  o  di  indennita'  di  contingenza
contenute   nei  ricordati  emolumenti»  (Cass.,  11  febbraio  2002,
n. 1932;  nonche'  Cass.,  12  febbraio  2002, n. 1996; Cass., ord. 7
marzo  2002,  n. 154;  Cass., 28 marzo 2002, n. 4554; Cass., 14 marzo
2003, n. 3770; Cass., 2 maggio 2003, n. 6708).
    In  attuazione  dell'art.  7,  comma  5,  come  interpretato  dal
consolidato   orientamento   della   S.C.,   i  compensi  per  lavoro
straordinario  svolto  dal  personale dipendente delle Ferrovie dello
Stato  S.p.a.  sono  stati  erogati,  nel 1993 e negli anni seguenti,
nella  stessa  misura  prevista  per  il  1992. L'art. 5, punto 6 del
C.C.N.L.   18   novembre  1994  (c.d.  Articolato)  ha  espressamente
stabilito   che   «rimangono   invariati   gli   importi   scaturenti
dall'applicazione  dell'art.  44  del C.C.N.L. 1990/1992». L'art. 85,
punto  2 del C.C.N.L. 6 febbraio 1998 ha a sua volta ribadito che «le
misure  del  compenso  per lavoro straordinario sono confermate negli
importi attualmente vigenti».
    Poiche'  la  contrattazione  collettiva  del  settore  ha  invece
apportato  dei  miglioramenti  in ordine alle altre voci retributive,
l'esito  della  complessa  vicenda  e' stato proprio quello lamentato
nell'atto   introduttivo  del  presente  giudizio,  cioe'  il  lavoro
straordinario  e'  stato,  a  decorrere  da  un  determinato momento,
retribuito in misura inferiore rispetto al lavoro ordinario.
    Ne  e'  derivato un nutrito contenzioso nel corso del quale si e'
assunto  che  l'art.  7,  comma 5, nella parte in cui consente che la
prestazione di lavoro straordinario sia retribuita meno di quella del
lavoro   ordinario,   si  pone  in  contrasto  con  l'art.  36  della
Costituzione.
    La Consulta con la citata sentenza del 17 giugno 1999, n. 242, ha
dichiarato  infondata  la  questione di illegittimita' costituzionale
della  norma  osservando  tra  l'altro  che  «dinanzi  a  una  scelta
interpretativa  suscettibile di determinare un contrasto fra la norma
censurata e la Costituzione, l'interprete deve ricercarne una diversa
che  eviti  il  supposto  conflitto;  e  nel caso di specie l'opzione
interpretativa del rimettente non era l'unica plausibile.
    Con  il  decreto-legge  n. 384  del  1992  il  legislatore  si e'
prefisso  di contenere la spesa pubblica agendo lungo due direttrici:
da  un  lato,  impedire  la  stipulazione  di nuovi accordi economici
collettivi;  dall'altro,  far  cessare  la  crescita automatica delle
retribuzioni  per  effetto  dei meccanismi di indicizzazione. Poiche'
tale  crescita  puo' avvenire in seguito a una nuova contrattazione o
attraverso  l'indicizzazione,  il  legislatore  ha  dunque  mirato  a
precludere sia l'una che l'altra. Tuttavia, mentre l'art. 7, comma 1,
del  d.l.  n. 384 del 1992 impeditivo di nuove contrattazioni, non e'
stato  prorogato,  lo  e'  stato  invece  l'art. 7, comma 5, del d.l.
n. 384  del 1992 che si applichera' sino al 31 dicembre 1999. L'esame
diacronico  del  «blocco», determinato dalle norme sin qui esaminate,
dimostra  che  il  legislatore  ha  inteso inibire aumenti automatici
della retribuzione, e non quelli contrattati.
    L'art.  7,  comma 5, del d.l. n. 384 del 1992 citato, va pertanto
interpretato  nel  senso  che  la  norma  ha  riguardo  unicamente ai
meccanismi  automatici  di indicizzazione e soltanto su questi ultimi
ha  prodotto  effetti  di  «blocco».  In  quei casi invece, in cui la
dinamica retributiva sia agganciata non a voci indicizzate, ma a voci
contrattate   (come,  appunto,  nel  caso  del  compenso  per  lavoro
straordinario)  la  crescita di queste, che non e' vietata dal citato
art.  7,  comma 1, non impedisce neppure la crescita deI compenso per
lavoro straordinario».
    Tale  esito  interpretativo non e' stato condiviso dalla S.C. che
ha, con ordinanza del 7 marzo 2002, nuovamente sollevato la questione
di  illegittimita'  costituzionale della norma in questione ribadendo
il proprio consolidato orientamento interpretativo disatteso, come si
e' visto, dalla Corte costituzionale.
    La  Corte  costituzionale  (sentenza 22 novembre 2002, n. 470) ha
dichiarato  infondata  la questione di illegittimita' costituzionale,
pur  interpretando  la  norma  non  nel  senso  accolto nella propria
precedente decisione (appunto sentenza n. 242 del 1999), ma nel senso
ribadito dalla Corte di cassazione.
    Nella  sentenza  n. 470  del  2002  la Corte costituzionale ha in
particolare   cosi'  motivato:  «deve  ribadirsi  ...  ...  .....  il
principio  consolidato secondo cui la proporzionalita' ed adeguatezza
della  retribuzione va riferita non gia' alle sue singole componenti,
ma  alla  globalita'  di  essa,  ed altresi' il corollario che ... il
silenzio  dell'art.  36  Cost.  sulla  struttura della retribuzione e
sull'articolazione  delle  voci  che  la  compongono significa che e'
rimessa   insindacabilmente   alla   contrattazione   collettiva   la
determinazione    degli    elementi   che   concorrono   a   formare,
condizionandosi  a  vicenda, il trattamento economico complessivo dei
lavoratori,  del  quale  il  giudice  potra'  poi  essere  chiamato a
verificare   la   corrispondenza  ai  minimi  garantiti  dalla  norma
costituzionale».
    Sempre  in  ordine al quadro normativo concernente la materia del
contendere si osserva che l'art. 14 della legge n. 210/1985 (la legge
che  ha  istituito  l'Ente  Ferrovie  dello Stato quale ente pubblico
economico ed ha provveduto alla privatizzazione dei relativi rapporti
di lavoro) sancisce: «Tutte le disposizioni di legge e di regolamento
vigenti  alla  entrata  in vigore della presente legge ed applicabili
all'organizzazione, all'esercizio ferroviario, alla materia contabile
e finanziaria ed ai servizi di igiene e sanita' dell'Azienda autonoma
delle  Ferrovie  dello  Stato,  sempreche'  siano  compatibili con la
disciplina dettata dalla presente legge e da norme non derogabili del
codice  civile o della comunita' economica europea, restano in vigore
sino all'adozione dei regolamenti di cui ai successivi terzo e quarto
comma».  La  norma attua una delegificazione nel settore, vale a dire
che,  in ordine a specifiche materie del settore ferroviario, dispone
la   abrogazione   delle  preesistenti  leggi  speciali,  abrogazione
rinviata al momento in cui saranno adottati i relativi regolamenti.
    Lo  stesso  articolo  precisa poi che i regolamenti dell'ente non
possono  derogare la contrattazione collettiva del settore, lasciando
tuttavia   nella   esclusiva   sfera   regolamentare  talune  materie
tassativamente elencate.
    Il  successivo  art.  21  dopo  avere disposto che il rapporto di
lavoro  del  personale  dipendente  dall'ente  e'  regolato  su  base
contrattuale  collettiva  ed individuale, aggiunge il seguente inciso
«Fermo  restando  quanto  stabilito»  dal  precedente  art.  14.  Per
valutare   la   portata   dell'inciso   si  osserva  che  il  termine
«organizzazione», che si legge nel richiamato art. 14, deve ritenersi
comprensivo  della  disciplina  dei  rapporti di lavoro col personale
dipendente   dalle  ferrovie.  Come  e'  noto  puo'  ritenersi  ormai
acquisito  alla  scienza  lavoristica che caratteristica fondamentale
del  lavoro  subordinato,  atta a distinguerlo da quello autonomo, va
rinvenuta  nella  circostanza  che  il  dipendente  vede  la  propria
attivita'  inserirsi  nell'apparato  produttivo  in  cui opera, quale
elemento  essenziale  dello stesso, e parte integrante della relativa
organizzazione.  L'inciso  «fermo restando» va quindi inteso non solo
nel  senso  di  confermare  l'ambito riservato dal richiamato art. 14
alla  disciplina  regolamentare  dell'ente,  ma  anche  nel  senso di
estendere   la   c.d.  delegificazione  al  rapporto  di  lavoro  dei
dipendenti  delle  ferrovie; vale a dire che le speciali disposizioni
di  legge (oltre i regolamenti) che disciplinano il suddetto rapporto
saranno   abrogati  al  momento  dell'entrata  in  vigore  del  primo
contratto  collettivo del settore, dopo la privatizzazione introdotta
dalla legge n. 210/1985.
    Rimangono  ovviamente  in  vigore,  come  del  resto ribadito dal
citato  art.  14,  le  leggi  di carattere generale, che cioe' non si
limitano a disciplinare lo specifico settore ferroviario.
    L'interpretazione  ora  delineata  trova  puntuale conferma nello
stesso  art.  21 che aggiunge: «..... i contratti ed i regolamenti di
organizzazione  che,  in  sede  di  prima  applicazione  della legge,
rechino  modifiche al vigente regime di costituzione e cessazione dei
dipendenti, non possono, a pena di nullita', contenere una disciplina
meno  favorevole  ai lavoratori di quella vigente all'atto di entrata
in  vigore  della presente legge ....». Tale disposizione sarebbe del
tutto superflua se le norme di legge, che specificamente attengono al
rapporto  dei dipendenti delle ferrovie, restassero in vigore; in tal
caso  infatti  il  contratto  collettivo  del  settore  non  potrebbe
derogarle in senso peggiorativo per i lavoratori.
    La prospettata interpretazione trova ulteriore conferma sul piano
sistematico. La normativa che in determinati settori ha, come in tema
di  trasporto  per  ferrovia,  privatizzato  il  pubblico impiego, ha
altresi'  disposto che le norme di legge disciplinanti il rapporto di
lavoro  in  quello  specifico  settore  sarebbero  state  abrogate al
momento  dell'entrata  in vigore del successivo contratto collettivo.
Cosi'  in tema di privatizzazione del rapporto di lavoro con le Poste
l'art.  6,  comma  6,  del  d.l.  n. 487/1993,  convertito  con legge
n. 71/1994,   dispone:   «Ai   dipendenti   dell'ente  continuano  ad
applicarsi  i  trattamenti vigenti alla data di entrata in vigore del
presente  decreto  fino alla stipulazione di un nuovo contratto». «Ed
analogamente,  in  tema di privatizzazione del rapporto di lavoro con
le   pubbliche   amministrazioni,   l'art.  2,  comma  2  del  d.lgs.
n. 165/2001  dispone: «Eventuali disposizioni di legge, regolamento o
statuto,  che  introducano  discipline  dei rapporti di lavoro la cui
applicabilita'  sia  limitata  ai  dipendenti  delle  amministrazioni
pubbliche   o  a  categorie  di  essi,  possono  essere  derogate  da
successivi  contratti  o accordi collettivi e, per la parte derogata,
non  sono  ulteriormente  applicabili,  salvo  che  la legge disponga
espressamente in senso contrario».
    Attese  le  considerazioni  svolte  la  preesistente  (alla legge
n. 210/1985) specifica normativa, disciplinante la materia del lavoro
straordinario prestato alle dipendenze delle ferrovie, deve ritenersi
abrogata  al  momento  dell'entrata  in  vigore  del  primo contratto
collettivo  del  settore  che  e'  stato stipulato dopo la emanazione
della summenzionata legge n. 210/1985.
    Devono quindi ritenersi ormai abrogate, quale disciplina speciale
concernente l'orario dei ferrovieri, la legge 13 agosto 1969, n. 591,
la legge 11 febbraio 1970, n. 34, il d.P.R. 9 novembre 1971, n. 1372,
la  legge  2  marzo  1974,  n. 77;  deve  altresi' ritenersi abrogato
l'ultimo  comma  dell'art.  1  del r.d.l. 15 marzo 1923, n. 692 nella
parte  in  cui  dispone,  sempre  in  tema  di  disciplina del lavoro
straordinario,  che,  in  materia di trasporto per ferrovia (la norma
parla  piu'  genericamente  di  pubblici servizi), si provvedera' con
specifiche disposizioni.
    Al termine della complessa disamina svolta si puo' concludere che
al  lavoro straordinario prestato dai dipendenti delle Ferrovie dello
Stato  sono  applicabili  le norme di legge che dettano la disciplina
generale  sulla  materia,  vale a dire l'art. 2108 c.c., il r.d.l. 15
marzo  1923, n. 692, salva la parte di cui si e' appena detto, l'art.
13  della  legge  24  giugno 1997, n. 196, il d.lgs. n. 66/2003, e le
norme  della  contrattazione  collettiva  del  settore.  Alla materia
stessa  e'  altresi'  applicabile,  lo  si  e' visto, il quinto comma
dell'art.   7.  E  proprio  in  adempimento  di  quanto  disposto  da
quest'ultima  norma  il  contratto collettivo del settore, come si e'
accennato, ha bloccato la retribuzione del lavoro straordinario negli
importi   vigenti   al   1992,  con  gli  esiti  lamentati  nell'atto
introduttivo e di cui si e' detto.
    Tali esiti appaiono quindi del tutto conformi al complesso quadro
normativo  che  si  e'  prospettato,  cosi'  come interpretato da una
consolidata giurisprudenza della S.C., e che ha superato il vaglio di
legittimita'  costituzionale  sotto  il profilo del preteso contrasto
con l'art. 36 della Costituzione.
    A   questo   punto  del  discorso  le  doglianze  del  ricorrente
dovrebbero   ritenersi  infondate  con  conseguente  reiezione  della
domanda attrice.
    Resta   tuttavia   da   esaminare   il  delicato  problema  della
compatibilita'  fra  l'art.  7,  quinto  comma  (nell'interpretazione
accolta  dalla  S.C., non in quella piu' restrittiva resa dalla Corte
costituzionale  nel  suo  primo intervento del 1999) e l'art. 4 della
seconda  parte  della  Carta sociale europea che recita, fra l'altro:
«Per   garantire   l'effettivo   esercizio  del  diritto  ad  un'equa
retribuzione le parti si impegnano:
        ........  2)  a  riconoscere  il diritto dei lavoratori ad un
tasso  retributivo  maggiorato  per le ore di lavoro straordinario ad
eccezione di alcuni casi particolari ....».
    Per le ragioni appresso svolte gli esiti lamentati dal ricorrente
appaiono in contrasto con la norma appena trascritta; ne consegue una
questione  di  illegittimita'  costituzionale  dell' art. 7, comma 5,
sotto  un  profilo  non  esaminato  nelle precedenti decisioni, delle
quali  si e' gia' detto, della Corte costituzionale; questione che il
giudicante  ritiene  non manifestamente infondata e rilevante al fine
del decidere.
    Un approfondimento del problema impone un preliminare esame circa
la portata della Carta sociale europea.
    La Carta sociale europea riveduta, fatta a Strasburgo il 3 maggio
1996,  e'  stata  ratificata  dall'Italia  con legge 9 febbraio 1999,
n. 30  -  Gazzetta Ufficiale 23 febbraio 1999, supplemento ordinario,
ed e' entrata in vigore il 1° settembre 1999, a seguito dello scambio
degli  strumenti  di ratifica avvenuto il 6 luglio 1999, e comunicato
nella Gazzetta Ufficiale 5 ottobre 1999, n. 234.
    Giova,  per  ben  comprendere  la  complessa  problematica che la
presente  controversia  solleva,  uno sguardo, sia pur sommario, alla
suddetta Carta.
    Il  documento,  dopo il preambolo, si svolge in diverse parti. La
prima  cosi'  inizia  «Le  Parti  riconoscono  come  obiettivo di una
politica  che perseguiranno con tutti i mezzi, a livello nazionale ed
internazionale,  la  realizzazione  di  condizioni  atte  a garantire
l'esercizio  effettivo dei seguenti principi: ....» E segue una lunga
elencazione di principi da ritenersi qui integralmente trascritta.
    La  parte  seconda e' composta da 31 articoli, ciascuno dei quali
contempla  un  diritto. Cosi' il citato art. 4 e' intestato: «diritto
ad un'equa retribuzione».
    La successiva parte terza all'art. A recita: «.... ciascuna delle
parti si impegna:
          a)   a considerare la parte prima della presente Carta come
una  dichiarazione  che  determina  gli  obiettivi di cui perseguira'
l'attuazione  con  ogni  mezzo  utile,  secondo  le  disposizioni del
paragrafo introduttivo di tale parte;
          b) a considerarsi vincolata da almeno sei dei nove articoli
seguenti  della  seconda parte della Carta: artt. 1, 5, 6, 7, 12, 13,
16, 19 e 20;
          c) a  considerarsi  vincolata  a  sua  scelta  da un numero
supplementare  di  artt.  o di paragrafi numerati nella seconda parte
della  Carta,  a condizione che il numero totale degli articoli o dei
paragrafi  numerati  che  la  obbligano  non  sia  inferiore a sedici
articoli od a sessantatre' paragrafi numerati.
        2)  gli  articoli  od  i  paragrafi  selezionati  secondo  le
disposizioni  dei  capoversi  b)  e c) del paragrafo uno del presente
articolo  saranno  notificati  al  Segretario  generale del Consiglio
d'Europa  al  momento  del  deposito  dello strumento di ratifica, di
accettazione o di approvazione».
    Al  momento  del deposito degli strumenti di ratifica della Carta
sociale  europea l'Italia ha formulato la seguente dichiarazione: «In
accending  to  the  European  Social Carter (revised), Italy does not
consider  itself  bound  by  article  25 (The right of workers to the
protection  of  their  claims in the event of the insolvency of their
employer) of the Charter».
    L'Italia,  dichiarando  di  non  ritenersi obbligata dall'art. 25
della   Carta   sociale   europea   (e   soltanto   da   questo),  ha
implicitamente,  quanto univocamente affermato di ritenersi vincolata
dagli  altri  articoli  della seconda parte della Carta, ivi compreso
l'art. 4, comma 2.
    Va  inoltre  segnalato  l'art.  G  della  parte V della Carta che
recita:  «I diritti ed i principi enunciati nella prima parte, quando
saranno  effettivamente  attuati,  e  l'esercizio  effettivo  di tali
diritti  e  principi  come  previsto nella seconda parte non potranno
essere  oggetto di restrizioni o di limitazioni non specificate nelle
parti  I e II ad eccezione di quelle stabilite dalla legge e che sono
necessarie,  in  una  societa' democratica, per garantire il rispetto
dei  diritti  e  delle  liberta'  altrui  o  per  proteggere l'ordine
pubblico,  la  sicurezza  nazionale,  la  salute  pubblica  o il buon
costume».
    Ora  l'art. 4, comma 2, della Carta sociale europea e' gia' stato
attuato  dall'art.  2108  c.c. e dal r.d.l. n. 692/l923 il cui art. 5
stabilisce  per  il  lavoro straordinario un aumento non inferiore al
10%  del  compenso previsto per il lavoro ordinario (si e' gia' detto
che  le  specifiche disposizioni di legge nel settore del lavoro alle
dipendenze  delle  ferrovie,  e  preesistenti alla legge n. 210/1985,
sono state abrogate).
    Tirando le fila del discorso sin qui svolto e' agevole concludere
che  l'art. 4, comma 2, della Carta sociale europea e' vincolante per
lo  Stato  italiano  sia perche' oggetto della apposita dichiarazione
formulata  dall'Italia  al  momento  del  deposito degli strumenti di
ratifica,  sia - ai sensi dell'art. G della parte V - perche' attuato
nell'ordinamento interno.
    E  giova  sottolineare  che l'art. 4, comma 2,era presente, negli
stessi termini, nel primo testo della Carta sociale europea del 1961,
ratificata con legge 3 luglio 1965, n. 929.
    Deve a questo punto esaminarsi quale sia la efficacia delle norme
della   Carta   sociale  europea  che  il  trattato  stesso  dichiara
vincolanti  per  lo  Stato  contraente; vale a dire se tale efficacia
operi  direttamente  nell'ordinamento  interno  dello  Stato, o se si
concreti   esclusivamente   in   impegni   giuridici   di   carattere
internazionale.
    Ritiene  il giudicante che sia da condividere la diffusa opinione
secondo  cui  le norme della Carta sociale, che sanciscono principi e
diritti,  non  sono  direttamente  applicabili nell'ordinamento degli
Stati  contraenti,  limitandosi  a configurare un impegno nell'ambito
delle relazioni internazionali degli Stati stessi.
    Diverse considerazioni inducono a tale conclusione.
    Innanzitutto la chiara lettera del trattato.
    Va  in proposito richiamata la formula (sopra trascritta) con cui
inizia  la  parte  prima.  I  principi  da  essa  parte  sanciti sono
espressamente  qualificati  «obiettivo» di una politica da perseguire
«con tutti i mezzi utili».
    Inoltre  i  diritti  elencati  nella  parte  seconda  non vengono
prospettati come automaticamente riconosciuti dagli stati contraenti;
il  trattato  usa,  significativamente,  la  espressione «le Parti si
impegnano»  che  puntualmente  ricorre  in  tutti  gli articoli della
seconda parte.
    Tale  interpretazione  sulla  portata  della  Carta sociale viene
confermata  dall'art.  1  della parte V che recita: «Attuazione degli
impegni sottoscritti.
    1.  -  Fatti  salvi  i  mezzi  di  attuazione enunciati in questi
articoli,  le  disposizioni  pertinenti  degli  artt. da 1 a 31 della
seconda parte della presente Carta sono attuate da:
          A) la legislazione o la regolamentazione;
          B) le   convenzioni  stipulate  tra  datori  di  lavoro  od
organizzazioni di datori di lavoro e organizzazioni di lavoratori;
          C) una combinazione di questi due metodi;
          D) altri mezzi appropriati .....».
    La  norma appena trascritta conferma appunto che l'attuazione dei
principi  e  dei  diritti  contemplati dalla Carta sociale europea e'
demandata  agli  Stati  contraenti  che  provvedono,  in  forza di un
impegno  assunto, con ampia discrezionalita' quanto ai modi, ai tempi
ed ai mezzi.
    La  prospettata  interpretazione  circa  la  portata  della Carta
sociale  europea  trova  infine  puntuale  ed  espressa  conferma nel
documento  annesso  alla  Carta  sociale  europea riveduta, in cui si
legge  testualmente:  «Si  intende  che  la  Carta  contiene  impegni
giuridici   a   carattere   internazionale  la  cui  applicazione  e'
sottoposta  unicamente  al  controllo  di  cui alla parte IV». E tale
controllo  si  realizza  attraverso  la  procedura  dei  c.d. reclami
collettivi,  procedura  oggetto di una specifica disciplina ed il cui
esito  non  produce  effetti diretti nell'ambito dell'ordinamento del
singolo Stato contraente il cui inadempimento sia stato accertato.
    Attese le considerazioni svolte l'art. 7, comma 5, nella parte in
cui  per  le  prestazioni  rese  oltre  il normale orario esclude una
retribuzione maggiorata, o addirittura consente un compenso inferiore
rispetto  al  lavoro  ordinario,  si  pone in contrasto con l'art. 4,
comma  2,  della  Carta  sociale europea ed integra gli estremi di un
inadempimento   da   parte   dello   Stato   italiano   ad   obblighi
internazionali che traggono origine dalla Carta stessa.
    E'  stato  sostenuto  che  il cennato contrasto non sussisterebbe
poiche'  l'art. 4, comma 2, con l'inciso «ad eccezione di taluni casi
particolari»  avrebbe riconosciuto agli Stati contraenti una facolta'
di deroga senza limiti (vedi in tal senso Corte di appello di Torino,
sentenza  del  1371/2003 n. 73). La tesi non e' condivisibile; appare
infatti  insanabilmente  contraddittorio  attribuire al singolo Stato
contraente  la  facolta',  senza limiti, di derogare ad una norma che
nel contempo si configura come vincolante per lo Stato medesimo.
    La contraddittorieta' si supera individuando limiti alla suddetta
facolta' di deroga.
    Nella  ricerca  di tali limiti, che rendano coerente il trattato,
soccorre  un  principio, che circola nell'ordinamento internazionale,
secondo  cui eventuali limitazioni a principi e diritti fondamentali,
non  possono  risolversi  nella loro sostanziale soppressione, e sono
ammissibili  purche' giustificate da finalita' di interesse generale,
ed il mezzo non sia sproporzionato allo scopo.
    Si  segnala  il  principio di proporzionalita' quale parametro di
ragionevolezza  per stabilire i termini e la misura di tollerabilita'
di eventuali limitazioni alla concorrenza (vedi in particolare l'art.
81, par. 3 ed art. 87, paragrafo 3 del TCE).
    La  sentenza  della  Corte  di giustizia (sentenza 13 aprile 2000
causa  C - 292/977), in tema di controllo sulle eccedenze strutturali
sul  mercato  del  latte,  afferma al punto 45 della motivazione che:
«restrizioni  a  diritti  fondamentali  possono  essere  operate,  in
particolare  nell'ambito  di  una  organizzazione  comune di mercato,
purche'  tali  restrizioni  rispondano  effettivamente a finalita' di
interesse  generale  perseguite  dalla  comunita' e non si risolvano,
considerato  lo  scopo perseguito, in un intervento sproporzionato ed
inammissibile che pregiudicherebbe la sostanza stessa di tali diritti
(vedi  in  tal  senso anche la sentenza 13 luglio 1989, causa 5/1988,
Wachauf, raccolta pag. 2609, punto 18)».
    Ed in tema di divieto di discriminazione la direttiva 27 novembre
2000,  n. 2000/78/CE,  dispone  all'art.  6:  «Fatto  salvo l'art. 2,
paragrafo  2, gli Stati membri possono prevedere che le disparita' di
trattamento  in  ragione  dell'eta' non costituiscano discriminazione
laddove  esse  siano  oggettivamente  e ragionevolmente giustificate,
nell'ambito  del  diritto  nazionale,  da  una  finalita'  legittima,
compresi  giustificati  obiettivi  di politica del lavoro, di mercato
del   lavoro  e  di  formazione  professionale,  e  i  mezzi  per  il
conseguimento di tali finalita' siano appropriati e necessari.».
    Il principio viene ribadito dall'art. 52 della Carta di Nizza del
7  dicembre  2000  ai cui sensi: «eventuali limitazioni all'esercizio
dei diritti e delle liberta' riconosciuti dalla presente Carta devono
essere   previste  dalla  legge  che  deve  rispettare  il  contenuto
essenziale di detti diritti e liberta'. Nel rispetto del principio di
proporzionalita'  possono  essere  apportate limitazioni solo laddove
siano necessarie e rispondano effettivamente a finalita' di interesse
generale  riconosciute  dall'Unione  o  all'esigenza  di proteggere i
diritti  e le liberta' altrui». E' opportuno rilevare che la Carta di
Nizza  non  e'  stata  ratificata,  e'  quindi  priva  di  un  valore
giuridicamente    vincolante,    tuttavia,    risolvendosi   in   una
dichiarazione  di intenti degli Stati firmatari, ben puo' porsi quale
criterio orientativo in tema di interpretazione.
    E  sempre  circa  i limiti a sacrifici di diritti fondamentali il
protocollo  addizionale  alla  CEDU dispone all'art. 1: «Ogni persona
fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno puo'
essere  privato  della  sua  proprieta'  se non per causa di utilita'
pubblica  e  nelle  condizioni  previste  dalla  legge e dai principi
generali del diritto internazionale». Secondo la giurisprudenza della
Corte   europea  dei  diritti  dell'uomo  ogni  diritto  puo'  essere
considerato  bene  ai  fini della disposizione in oggetto, compresi i
diritti  di  credito (vedi sentenza 20 novembre 1995 nel caso Pressos
Compagnia  Naviera  ed altri contro Belgio; e sentenza del 9 dicembre
nel  caso  Raffinerie  Greche Stran e Stratis Andreadis c. Grecia). E
sempre  secondo la giurisprudenza della suddetta Corte il limite alla
tutela di cui al citato art. 1 deve essere subordinato alla esistenza
dei  seguenti  requisiti:  giusto equilibrio tra l'interesse generale
della  collettivita'  e gli imperativi della salvaguardia dei diritti
fondamentali  dell'individuo, ovvero una ragionevole proporzionalita'
tra  i  mezzi  impiegati  ed  il  fine  perseguito,  in modo tale che
l'interessato  non  venga ad essere gravato da un onere eccessivo (in
tal  senso  sentenza  19  dicembre  1989  Mellancher  ed altri contro
Austria; 23 aprile 1996 Phocas contro Francia; 23 aprile 1987 Erkner,
Hofauer contro Austria).
    Del  resto,  in  linea  col  quadro ora delineato la stessa Carta
sociale  europea  nel  documento  annesso dispone: «Una differenza di
trattamento  fondata  su  un  motivo  obiettivo  ragionevole  non  e'
considerata discriminatoria».
    Alla  stregua  dei principi appena esposti va inteso l'inciso «ad
eccezione di taluni casi particolari» che si legge nell'art. 4, comma
2,  della  Carta  sociale  europea.  In  altri termini tale eccezione
dovra'  essere  assistita  da  un  giusto  equilibrio  fra il fine di
interesse  generale  perseguito, che nel caso in esame va chiaramente
individuato  nell'esigenza di arginare spinte inflazionistiche, ed il
sacrificio  imposto  al  lavoratore  che  perde  la maggiorazione del
compenso per la prestazione resa oltre l'ordinario orario di lavoro.
    E, a ben guardare, tale giusto equilibrio viene a mancare proprio
nella  parte  in  cui  l'art. 7, comma 5, non si limita a bloccare la
sola voce indennita' integrativa speciale o indennita' di contingenza
(come   aveva   stabilito  la  Corte  costituzionale  nel  suo  primo
intervento),   ma   blocca   altresi'  nel  loro  complesso  (secondo
l'orientamento  della  S.C.  sopra illustrato) le voci retributive di
cui le suddette indennita' costituiscono una componente.
    E'  opportuno ricordare quanto si e' sopra accennato, e cioe' che
il  primo  comma  del  citato  art. 7 aveva, per il 1993, bloccato la
contrattazione collettiva nella parte economica, mentre il successivo
comma   5  aveva  bloccato  le  indennita'  soggette  ad  adeguamenti
automatici    che    prescindono   dagli   esiti   della   successiva
contrattazione  collettiva. Il legislatore aveva quindi perseguito un
disegno  razionale,  e  giustificato da un interesse pubblico, vale a
dire   il   blocco  temporaneo  degli  stipendi  per  frenare  spinte
inflazionistiche.  Successivamente  all'anno  1993,  come  si e' gia'
visto,  il  blocco  della  contrattazione  e'  venuto meno, mentre e'
rimasto,  ed e' tuttora in vigore, quello stabilito dal quinto comma.
In  questo nuovo quadro ha senso il blocco della sola voce indennita'
integrativa  speciale, od indennita' di contingenza, voce soggetta ad
adeguamenti  automatici.  Trattasi  infatti  di  una  misura  volta a
fermare  quegli aumenti retributivi che, per il loro automatismo, non
essendo  oggetto  di contrattazione collettiva, sfuggono al controllo
delle  parti  stipulanti. Si tratta di una misura che ben si coordina
col   proposito   di   mantenere,   con   la   collaborazione   delle
organizzazioni  sindacali, il controllo degli aumenti del costo della
vita.  Ma  la  misura  in  esame diventa priva di ogni ragionevolezza
nella  parte  in cui estende il blocco ad una intera voce per il solo
fatto  che  contiene fra le sue componenti le indennita' di cui sopra
(nel  caso  che  ci  occupa  la  voce relativa al compenso per lavoro
straordinario),  mentre  il  contratto  collettivo  del  settore puo'
aumentare   altre   voci   retributive  senza  alcun  limite  legale.
L'irragionevolezza   ora   segnalata  (che  del  resto,  come  si  e'
accennato,  era  stata sottolineata dalla prima decisione della Corte
costituzionale,  sentenza  n. 242  del 1999) appare in tutta evidenza
ove   si   consideri  che  il  blocco  del  compenso  per  il  lavoro
straordinario dipende dal fatto, del tutto accidentale, che una delle
indennita'  di  cui  sopra  sia  dal contratto collettivo del settore
posta quale sua componente; e' un fatto del tutto accidentale poiche'
nessuna  norma  lo  impone.  In  un settore in cui tale evenienza non
ricorra il compenso per lavoro straordinario puo' essere aumentato in
sede di contrattazione collettiva senza limiti legali.
    L'esattezza  dei  rilievi  svolti  trova puntuale conferma ove si
consideri che in ordine al rapporto di lavoro con le Ferrovie la voce
compenso  per  lavoro  straordinario  potrebbe essere aumentata senza
alcun  limite  legale;  sarebbe  sufficiente  a  tal fine, in sede di
contrattazione   collettiva,   ridisegnare   la   suddetta  voce  con
l'accortezza   di   escludere   dalle   sue  componenti  l'indennita'
integrativa speciale, esito contrattuale questo non vietato da alcuna
norma.
    La illustrata irragionevolezza consente agevolmente, richiamati i
principi sopra esposti, di concludere che nella specie non sussistono
quegli  estremi,  cui  allude  l'art. 4, comma 2, parte seconda della
Carta  sociale  europea,  idonei  ad  escludere  il tasso retributivo
maggiorato   per  le  ore  di  lavoro  straordinario  prestate.  Tale
irragionevolezza  consente  a  maggior ragione di escludere che nella
specie  ricorrano,  a  giustificazione  della  norma  interna, quelle
esigenze che, ai sensi dell'art. G della Carta sociale europea, sopra
trascritto,  attengono alla necessita' di «.... garantire il rispetto
dei  diritti  e  delle  liberta'  altrui  o  .... proteggere l'ordine
pubblico,  la  sicurezza  nazionale,  la  salute  pubblica od il buon
costume».
    Si  ravvisa  quindi  un  chiaro  contrasto  fra l'art. 7, comma 5
(purche',  e'  bene  sottolineare,  inteso secondo la interpretazione
piu' ampia sostenuta dal consolidato orientamento della Cassazione) e
l'art. 4, comma 2, della Carta sociale europea.
    Ne'  il  contrasto  puo'  escludersi sulla base delle ragioni che
hanno  indotto  la  Corte  costituzionale  (vedi  la  citata sentenza
n. 470/2002)  a ritenere la suddetta norma di legge conforme all'art.
36  della  Costituzione.  La  Consulta, come emerge dalla motivazione
della sentenza nella parte gia' trascritta, e' pervenuta alla cennata
conclusione  sul  presupposto  «......  che  il silenzio dell'art. 36
Cost.  sulla  struttura della retribuzione e sull'articolazione delle
voci  che  la  compongono  significa che e' rimessa insindacabilmente
alla  contrattazione  collettiva la determinazione degli elementi che
concorrono  a  formare,  condizionandosi  a  vicenda,  il trattamento
economico complessivo dei lavoratori, del quale il giudice potra' poi
essere  chiamato  a  verificare la corrispondenza ai minimi garantiti
dalla  norma  costituzionale.». Ebbene proprio tale presupposto manca
in  ordine  al  raffronto fra l'art. 7, comma 5, e l'art. 4, comma 2,
della  Carta  sociale  europea,  atteso  che  quest'ultima  norma,  a
differenza  dell'art.  36  della  Costituzione  italiana, considera e
disciplina  la  retribuzione  anche  nelle  sue  articolazioni, ed in
particolare  in  quell'articolazione  costituita  dal compenso per il
lavoro straordinario.
    Deve  quindi  concludersi  che  l'art. 7, comma 5, giova ribadire
nella  parte  in  cui  consente  di  escludere  la  maggiorazione del
compenso  per il lavoro straordinario, ponendosi in contrasto con una
norma  della  Carta sociale (l'art. 4, comma 2) che lo Stato italiano
e'   tenuto   ad   osservare   in   forza   d  impegni  di  carattere
internazionale,  viola  l'art.  117  della  Costituzione  cosi'  come
recentemente  riformulato  (art.  3,  legge costituzionale 18 ottobre
2001, n. 3).
    Tale  norma  della  Costituzione  pone  infatti  un  vincolo alla
potesta'  legislativa  dello  Stato  e  delle regioni, costituito dal
rispetto  degli  impegni  di carattere internazionale, vincolo che il
cennato art. 7, comma 5, ha violato nel senso gia' precisato.
    Ed   e'   appena   il  caso  di  rilevare  che  l'istituto  della
illegittimita'  costituzionale  si  riferisce  non  solo  alle  leggi
posteriori  alla  Costituzione, ma anche a quelle anteriori (nel caso
in  esame  a  quelle  anteriori alla nuova formulazione dell'art. 117
della  Costituzione). Sul punto non sono che da richiamare i principi
affermati  nella  sentenza della Corte costituzionale n. 1/1956, e le
considerazioni ivi svolte.
    Atteso  quanto  sopra esposto appare non manifestamente infondata
la  prospettata questione di illegittimita' costituzionale che, sotto
il  profilo  sopra delineato, non e' stata sottoposta al vaglio della
Corte costituzionale.
    Nel  corso  dell'ampia discussione orale la difesa della societa'
convenuta ha sostenuto che la prospettata questione di illegittimita'
costituzionale non sarebbe rilevante al fine del decidere. Ha infatti
sostenuto  che  la  disciplina  dettata  dal contratto collettivo del
settore,  sarebbe  comunque piu' favorevole, per il lavoratore, della
disciplina  legale;  e  cio' in quanto la mancata maggiorazione della
retribuzione del lavoro straordinario, o addirittura la sua riduzione
a  livelli  piu'  bassi  di  quelli  fissati per il lavoro ordinario,
sarebbe  uno  svantaggio  ampiamente  compensato  da  altri  vantaggi
attribuiti  dal  contratto collettivo stesso. Sicche', sempre secondo
la  difesa  della  convenuta,  l'eliminazione dell'art. 7, comma 5, a
seguito    dell'accoglimento    della    prospettata   questione   di
illegittimita' costituzionale, non farebbe venire meno l'applicazione
del  contratto  collettivo,  che  cristallizza il compenso del lavoro
straordinario  alle  misure  risalenti  al 1992, e non cambierebbe la
soluzione  della  presente  controversia; la domanda attrice andrebbe
comunque respinta. Tale obiezione, si ripete ampiamente sviluppata in
sede di discussione orale, solleva un problema di fondo.
    Come  e'  noto  nel  settore  del lavoro e' operante il principio
della c.d. inderogabilita' unilaterale, vale a dire le norme di legge
che  delineano  diritti  a  favore  dei  lavoratori  subordinati  non
possono, salvo specifiche eccezioni, essere derogate in peggio (per i
lavoratori)  sia  dalla contrattazione collettiva del settore, sia in
sede  di  autonomia  individuale. Le eventuali clausole derogative in
peggio  sono  sostituite  di  diritto  dalle  piu' favorevoli (per il
dipendente) norme di legge.
    Sul   concreto   operare   di   questo  principio,  pacificamente
riconosciuto  dalla dottrina e dalla giurisprudenza, si sono, come e'
noto,   contrapposte  due  tesi:  quella  del  cumulo  e  quella  del
conglobamento.   La   prima  circoscrive  alle  singole  clausole  la
comparazione   fra   le  fonti  concorrenti,  sicche'  il  meccanismo
sostitutivo  si  attuerebbe automaticamente per il solo contrasto fra
la  clausola  contrattuale  e  la  corrispondente  previsione legale.
L'altra  teoria  ritiene  invece che la valutazione di miglior favore
dovrebbe  fondarsi  su  di una considerazione dell'intero trattamento
contrattuale,  o quanto meno della complessiva disciplina dei singoli
istituti, ed in tale diversa prospettiva il carattere peggiorativo di
una singola clausola potrebbe essere compensato, ai fini del giudizio
comparativo finale, dal miglior trattamento nel suo insieme accordato
al  prestatore  a  livello  di  autonomia contrattuale (individuale o
collettiva).
    Ritiene questo giudice, in adesione ad autorevole dottrina che si
e'  specificamente  occupata  del problema, che sia da condividere la
teoria del cumulo.
    Piu' ordini di considerazioni inducono a siffatta conclusione.
    Il   criterio   del   conglobamento   e'   chiaramente   ispirato
dall'esigenza  di  salvaguardare  il prodotto dell'autonomia privata,
conservando  il  «voluto»  dei  contraenti,  vale  a  dire l'armonia,
l'equilibrio,  il  collegamento  organico  tra le varie condizioni da
essi  stabilite, l'interdipendenza tra le varie parti della struttura
contrattuale.
    Ma  siffatta prospettiva appare in netto contrasto con i principi
ispiratori  della  disciplina  del  rapporto  di  lavoro  subordinato
fortemente   caratterizzata  da  eteronomia,  cioe'  dalla  massiccia
presenza  di norme unilateralmente inderogabili, dettate a tutela del
lavoratore   considerato,  quale  contraente  debole,  meritevole  di
protezione  (una  significativa  manifestazione  di  tale fenomeno si
ravvisa  proprio nella Carta sociale europea). Si tratta quindi di un
settore  che  pone ai margini l'autonomia privata ed i suoi prodotti;
come   e'   stato  osservato  da  autorevole  dottrina  il  contratto
individuale  fa  nascere il rapporto di lavoro subordinato, ma non lo
governa.
    La  teoria  del  cumulo  appare  quindi  da  condividere sotto il
profilo sistematico. L'interpretazione sistematica trova poi conferma
nella chiara lettera della legge.
    Infatti,   in  ordine  al  conflitto  fra  legge  da  un  lato  e
contrattazione  (collettiva ed individuale) dall'altro, il meccanismo
di  risoluzione configurato dalla teoria del cumulo, trova un preciso
riscontro nel modello delineato dagli artt. 1339 e 1419 secondo comma
del codice civile. Come e' stato autorevolmente sostenuto l'art. 1339
c.c.  delinea un meccanismo di integrazione che viene innescato dalla
difformita'  di  ogni  singola  clausola  apposta dalle parti, e che,
mentre  trova puntuale conferma nel secondo comma dell'art. 1419 c.c.
(volto   chiaramente  a  privare  di  ogni  rilievo,  ai  fini  della
conservazione  del  contratto, le eventuali connessioni esistenti tra
le  singole clausole contrattuali), non riceve alcuna smentita, anche
nel settore del lavoro, sul piano della disciplina positiva.
    Un  ulteriore  pregnante argomento induce a condividere la teoria
del cumulo.
    Invero  le  norme  imperative  di legge sono volte alla tutela di
interessi   sociali   generali,  mentre  la  previsione  contrattuale
migliorativa  e' rivolta alla soddisfazione di un interesse meramente
individuale,   o   al   piu'   collettivo.   Sicche'  la  teoria  del
conglobamento  ponendo  sullo  stesso piano, in sede di comparazione,
interessi  di  diversa  natura,  comporterebbe  la compressione di un
interesse  generale  per la soddisfazione di un interesse individuale
o,  al  piu',  collettivo,  conseguenza  in  palese  contrasto  con i
principi  in  tema  di rilevanza e gerarchia degli interessi tutelati
dall'ordinamento.
    Attesa,  per  le  ragioni gia' esposte, la teoria del cumulo, nel
caso  in  esame  le  norme  di  legge  sulla  retribuzione del lavoro
straordinario  (e'  bene  ribadire  l'art.  2108  c.c.  ed  il r.d.l.
n. 692/1923,    e   le   successive   modifiche)   si   sostituiscono
automaticamente  alle  norme  del contratto collettivo del settore da
ritenere  illegittime nei sensi e nei limiti che si sono specificati.
E   la   sostituzione   prescinde  da  una  valutazione  globale  del
trattamento  delineato  in  sede  di contrattazione collettiva. E' da
aggiungere  che  le  norme  di legge appena citate vanno, secondo una
consolidata   giurisprudenza,  intese  nel  senso  che  il  tasso  di
maggiorazione,  pari  al  10%, va calcolato sulla retribuzione per il
lavoro ordinario normalmente e di fatto percepita dal lavoratore.
    Tuttavia,  ad  una  ulteriore  meditazione,  la  questione che ci
occupa presenta ancora un nodo da sciogliere.
    Le norme di legge che disciplinano la materia dello straordinario
(art.  2108  c.c.,  r.d.l. n. 692/1923, e successive modificazioni ed
integrazioni)  non  solo  dispongono il tasso minimo di maggiorazione
(appunto   il  10%),  ma  determinano  anche  il  limite  del  lavoro
ordinario.
    E  su questo ultimo punto, la durata della prestazione lavorativa
ordinaria,  il  C.C.N.L.  del  settore  delinea per il prestatore una
disciplina  piu'  favorevole  di  quella  legale, in quanto riduce la
suddetta durata.
    Ecco  quindi  il  nodo  da  sciogliere;  nel  caso  in  esame  la
sostituzione  delle  norme  di  legge  alla  disciplina  dettata  dal
C.C.N.L.  del  settore  deve  limitarsi  alla  applicazione del tasso
minimo di maggiorazione per il lavoro straordinario svolto, lasciando
al   contratto   collettivo  la  determinazione  del  discrimine  fra
prestazione  ordinaria  e  straordinaria? Oppure la sostituzione deve
estendersi anche a tale discrimine?
    Quanto  si  e'  detto  circa  le  opposte teorie del cumulo e del
conglobamento,  ed  in ordine alle ragioni che inducono ad accogliere
la   prima,   non   fornisce   un   sicuro   criterio  per  risolvere
l'interrogativo appena prospettato.
    Per  la  individuazione  di  siffatto  criterio  si  osserva che,
secondo  la teoria del cumulo come sopra prospettata, la composizione
dei   conflitti  fra  legge  inderogabile  da  un  lato  e  contratto
collettivo od individuale dall'altro, opera con riferimento a singole
clausole;   pertanto   un  approfondimento  del  problema  impone  di
determinare  la  nozione  di  clausola  quale  ambito di operativita'
dell'effetto sostitutivo.
    Nel   contesto  che  si  sta  esaminando  la  clausola  non  puo'
identificarsi  con  una  proposizione  autonoma  dal  punto  di vista
sintattico  e grammaticale, come viene ad esempio delineata dall'art.
1363  c.c.  ai  fini  del problema interpretativo. Il problema che ci
occupa  e'  ben  diverso.  Invero  se, come e' stato autorevolmente e
convincentemente  argomentato,  la  nullita'  che  sta  alla base del
meccanismo  sostitutivo  legale  deriva  dall'essere l'atto negoziale
contrario  a  norme  imperative, appare coerente ricercare il valore,
l'ampiezza  ed  i caratteri del precetto legale che si assume violato
per  accertare  se  l'atto  negoziale lo rispetti o meno. Pertanto in
questo ordine di idee la comparazione ai fini di un eventuale effetto
sostitutivo  deve assumere, quale punto di partenza, una proposizione
legale  dotata  di  una  autonoma  finalita'  imperativa e volta alla
tutela  di un interesse inscindibile; in altri termini, come e' stato
efficacemente  detto,  la  unitarieta'  della  clausola  precetto  e'
unitarieta' di scopo.
    A  questo punto del complesso discorso si rinvengono agevolmente,
ad avviso del giudicante, gli strumenti per risolvere il problema che
il caso in esame solleva.
    La   disciplina   legale  del  lavoro  straordinario  chiaramente
risponde   alla   finalita'  di  scoraggiare  il  ricorso  al  lavoro
straordinario,  e,  nel  contempo, di premiare la maggiore onerosita'
delle prestazioni eccedenti l'orario normale. Ebbene a tale finalita'
indubbiamente   concorrono   sia   le   disposizioni   sul  tasso  di
maggiorazione  e  sulla  sua base di computo, sia quelle sulla durata
della  normale  prestazione lavorativa. E' evidente che una normativa
contrattuale  che,  rispetto  a  quella  legale,  riduca  la  base di
computo,   ma   piu'   che  proporzionalmente  aumenti  il  tasso  di
maggiorazione,  deve  ritenersi piu' favorevole perche' nel complesso
comporta  una  retribuzione  del lavoro straordinario piu' elevata di
quella  calcolata  secondo  i  criteri  legali, e quindi meglio della
disciplina  legale  persegue  le  finalita'  sopra  accennate.  Ed un
discorso  del  tutto  analogo si puo' fare con riferimento anche alla
durata della normale prestazione lavorativa.
    La  soluzione  prospettata e' stata affermata dalla Suprema Corte
in  un caso in cui il contratto collettivo del settore che, in ordine
alla retribuzione per il lavoro straordinario, prevedeva, a confronto
con la disciplina legale, un tasso di maggiorazione superiore ma, nel
contempo,  una  piu'  ristretta  base  di  computo. Ebbene la S.C. ha
affermato  che  la  validita'  o  meno  del  sistema  contrattuale va
verificata  nel  suo  complesso, di modo che se risulta assicurato al
prestatore un vantaggio economico pari o superiore a quello derivante
dall'applicazione dei criteri legislativi, non si attua il meccanismo
di  sostituzione  automatica (Cass. sez. unite civili 28 aprile 1959,
n. 1245; in Riv. giur. lav. 1959, II, p. 259).
    Pertanto  alla  disciplina  contrattuale  andrebbe  sostituita la
disciplina  legale  per  quanto  riguarda  sia  la  maggiorazione del
compenso, sia la durata del lavoro ordinario.
    Ed  in  quest'ordine  di  idee  sembra  porsi la S.C. (Cass. sez.
lavoro  sentenza  n. 6708  del 2003) in un passo del seguente tenore:
«Orbene  il  fatto che la contrattazione collettiva e la piu' recente
normativa  del  settore  - in ragione di una maggiore flessibilita' -
abbiano  comportato  una diversa modulazione del lavoro su di un arco
temporale  multiperiodale,  comporta  che  il superamento dell'orario
contrattualmente definito come "normale" in un periodo piu' ristretto
(giorno  o  settimana), non puo' far considerare le norme "eccedenti"
dal  punto  di  vista  legale;  donde la inapplicabilita' dell'intera
normativa  - anche attuativa dell'art. 4 della Carta sociale europea,
ratificata  con  legge  9 febbraio 1999, n. 30 - avente ad oggetto il
compenso per lo straordinario stricto sensu inteso.».
    Il passo appena trascritto impone un chiarimento.
    Nel  caso  in  esame,  atteso  che  la  retribuzione  del  lavoro
straordinario  e'  ad  un  certo  momento divenuta inferiore a quella
stabilita  per  il  lavoro  ordinario,  la  disciplina legale risulta
comunque  nel  complesso  piu' favorevole per il dipendente di quella
dettata   dal   contratto   collettivo   del  settore.  E'  opportuno
sottolineare  che,  nella  specie,  il  carattere piu' favorevole del
trattamento  legale dipende anche, paradossalmente, dalla circostanza
che  la  durata  della normale prestazione lavorativa stabilita dalla
legge  sia  piu' ampia di quella stabilita in sede contrattuale; tale
paradossale  risultato discende dal fatto che in sede contrattuale il
lavoro  straordinario  e'  retribuito  in  misura  inferiore a quello
ordinario.
    Va  quindi  comunque  ritenuto il carattere piu' favorevole della
disciplina legale, che residuerebbe dopo la eliminazione dell'art. 7,
comma 5, con conseguente accoglimento, almeno in parte, della domanda
attrice.
    La  prospettata  questione  di  illegittimita'  costituzionale va
quindi ritenuta rilevante.
                              P. Q. M.
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
illegittimita'  costituzionale,  per  contrasto  con l'art. 117 della
Costituzione,  dell'art.  7,  comma  5,  del  d.l. 19 settembre 1992,
n. 384,  convertito  con legge 14 novembre 1992, n. 438, dell'art. 3,
comma  36,  della  legge 24 dicembre 1993, n. 537, dell'art. 1, comma
66,  della  legge  23  dicembre  1996,  n. 662,  dell'art.  22, legge
n. 488/1999,  e  dell'art. 36, legge n. 289/2002, nella parte in cui,
nello   stabilire   il  blocco  degli  aumenti,  non  hanno  riguardo
unicamente   ai   meccanismi  automatici  di  indicizzazione,  ma  si
estendono  anche  a  voci contrattate, come il compenso per il lavoro
straordinario;
    2) dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e
sospende il presente giudizio;
    3) ordina che la presente ordinanza, di cui e' stata data lettura
in  udienza,  sia, a cura della cancelleria, notificata al Presidente
del  Consiglio  dei  ministri,  e  sia comunicata ai Presidenti della
Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
        Genova, addi' 22 ottobre 2003
                   Il giudice: (firma illeggibile)
04C0165