N. 161 ORDINANZA (Atto di promovimento) 19 settembre 2003

Ordinanza  emessa  il  19 settembre 2003 dal tribunale di Firenze nel
procedimento penale a carico di Chefdeville Olivier ed altro

Processo  penale - Applicazione della pena su richiesta delle parti -
  Modifiche  normative  -  Possibilita'  per le parti di formulare la
  richiesta  di  cui  all'art. 444  cod.  proc. pen., come novellato,
  anche  nei  processi  penali  in  corso  di dibattimento, nei quali
  risulti  decorso  il  termine previsto dall'art. 446, comma 1, cod.
  proc.   pen.   -   Sospensione   del   dibattimento,  su  richiesta
  dell'imputato, per un periodo non inferiore a quarantacinque giorni
  per  valutare  l'opportunita'  della  richiesta  -  Decorrenza  del
  termine  per  richiedere  la  sospensione  del processo dalla prima
  udienza utile anziche' dalla vigenza della legge - Contrasto con le
  finalita'  deflattive  del  rito speciale - Pregiudizio dei diritti
  della  parte  civile - Violazione del principio di ragionevolezza -
  Lesione del principio della ragionevole durata del processo.
- Legge 12 giugno 2003, n. 134, artt. 1 e 5, commi 1 e 2.
- Costituzione, artt. 3 e 111.
(GU n.12 del 24-3-2004 )
                            IL TRIBUNALE

    Premesso  che  i  difensori  di  Olivier  Chefdeville e Giancarlo
Cometti,  imputati dei reati di cui agli artt. 7 e 58 d.P.R. 19 marzo
1956,  nn. 303  e 590 c.p., hanno chiesto la sospensione del processo
ai sensi dell'art. 5, secondo comma, legge 12 giugno 2003, n. 134.

                            O s s e r v a

    L'art. 5,   legge   12 giugno   2003,   n. 134,   stabilisce  che
l'imputato,  o  il  suo  difensore  munito di procura speciale, ed il
pubblico ministero, nella prima udienza utile successiva alla data di
entrata  in vigore della legge, possono chiedere l'applicazione della
pena,  ai  sensi  dell'art. 444  c.c.p.,  come novellato dalla stessa
legge,   anche  nei  processi  penali  dei  quali  sia  in  corso  il
dibattimento   ed   anche   se   sia   decorso  il  termine  previsto
dall'art. 446,  comma 1,  c.p.p. La facolta' e' concessa anche quando
sia gia' stata presentata tale richiesta, ma vi sia stato il dissenso
da parte del pubblico ministero o la richiesta sia stata rigettata da
parte  del  giudice,  e sempre che la nuova richiesta non costituisca
mera  riproposizone  della  precedente. Su richiesta dell'imputato il
dibattimento e' sospeso per un periodo non inferiore a quarantacinque
giorni  per  valutare  l'opportunita'  della richiesta e durante tale
periodo  sono  sospesi  i  termini  di  prescrizione  e  di  custodia
cautelare.  La richiesta di sospensione - ad avviso di questo giudice
e  della  maggioranza delle pronunce sulla questione finora note, fra
le  quali  numerose  di  questo  tribunale - puo' essere avanzata dal
difensore del contumace o dell'assente anche se non munito di procura
speciale,  dato che la legge richiede la procura speciale solo per la
richiesta  di applicazione della pena, non per quella di sospensione,
ed  in forza della regola secondo la quale tali categorie di imputati
sono   rappresentati   dal   difensore,  oggi  allocata  negli  artt.
420-quater   e   420-quinquies   c.p.p.   e   richiamata,  quanto  al
dibattimento,  dall'art. 484  c.p.p. Peraltro, nel caso di specie, il
difensore di Chefdecille ha, fin dalla sua nomina, procura speciale a
chiedere l'applicazione della pena.
    Il  giudicante  dubita  della  legittimita'  costituzionale della
norma per contrasto con gli articoli 3 e 111 della Costituzione.
    Quanto  all'art. 3,  ed in ispecie al principio di ragionevolezza
che    per   consolidatissima   elaborazione   della   giurisprudenza
costituzionale da esso viene dedotto, la norma non appare ragionevole
a)  perche' consente di formulare la richiesta anche oltre il termine
fissato  dall'art. 446,  primo  comma c.p.p.; quanto all'art. 111, il
contrasto   sussiste   b)  perche'  la  norma  impone,  su  richiesta
dell'imputato,  una sospensione di quarantacinque giorni, fissando il
termine  di decorrenza dalla prima udienza utile successiva alla data
di pubblicazione della legge.
    Sub  a.  Il  cosiddetto  patteggiamento  e'  stato introdotto nel
codice  di  rito  vigente  per  determinare un effetto deflattivo del
processo  penale: si e' concesso alle parti di concordare la pena per
evitare  i  costi in termini di tempo, di risorse umane e finanziarie
che  il  rito  ordinario  comporta;  in  cambio  di  tale  risparmio,
l'imputato  gode  di  uno sconto di un terzo della pena. La finalita'
indicata  e'  stata  ribadita anche dalla corte costituzionale con la
sentenza  n. 129 del 1993, in cui si afferma, con riferimento ai riti
speciali,  che  «l'interesse dell'imputato a beneficiare dei vantaggi
conseguenti  a  tali giudizi in tanto rileva, in quanto egli rinunzia
al  dibattimento e venga percio' effettivamente adottata una sequenza
procedimentale  che consenta di raggiungere l'obiettivo di una rapida
definizione del processo», deducendone la legittimita' costituzionale
della   preclusione  dei  riti  speciali  in  caso  di  contestazione
suppletiva.  Se  questa e' la finalita' dell'applicazione della pena,
lo  sbarramento  previsto dall'art. 446 primo comma e' necessario per
garantire  che la finalita' venga nel concreto perseguita. La novella
opera,  per  i  processi  in  corso  al  momento della sua entrata in
vigore,  una  scelta del tutto contraria: consente infatti il ricorso
al rito speciale in ogni momento, perfino quando sia stato dichiarato
chiuso  il  dibattimento  e  ci si trovi gia' in fase di discussione.
Consente,  cioe',  la  riduzione  della pena anche a chi non ha fatto
risparmiare  alcuna risorsa allo stato, e cio' appare irragionevole e
contrasta  coli  le  finalita'  del  rito  speciale,  cioe' la rapida
definizione  del  singolo  processo  e  l'efficienza  complessiva del
sistema   giudiziario  penale,  oggi  costituzionalmente  valorizzate
dall'art. 111 Cost.
    Sub  b.  La  sospensione  per  quarantacinque giorni del processo
contrasta, ad avviso del giudicante, con l'art. 111 appena richiamato
oltre  che,  sotto  diverso  profilo,  con  l'art. 3  della  Cost. Il
contrasto  con  il  principio  della  ragionevole durata del processo
appare  chiaro  se  si  da'  della riformata norma costituzionale una
lettura  che  abbia  riguardo  non solo all'interesse di ogni singolo
imputato,  ma  anche  a  quello  di tutte le altre parti processuali,
dello  stato  e  dei cittadini in generale. Infatti, se la speditezza
processuale  si intendesse come forma di tutela del singolo imputato,
la richiesta di rito alternativo avanzata nel corso di un processo in
cui   l'istruttoria   dibattimentale   sia   iniziata  o  addirittura
terminata,   non  incontrerebbe  ostacoli  nell'art. 111  Cost.,  dal
momento  che il singolo imputato, a seconda dei casi, ha interesse ad
un  processo  piu' lungo nella speranza della prescrizione del reato,
oppure   piu'   breve,   attraverso   riti   alternativi,  quando  la
prescrizione sia ancora lontana. Si ritiene, invece, piu' fondata una
lettura  del  principio  della  ragionevole durata del processo quale
garanzia dell'intera collettivita', sulla scorta delle considerazioni
che seguono.
    In  primo  luogo  si  osserva  che la regola di cui si discute e'
contenuta  nel  secondo  comma  dell'art. 111,  relativo  a  tutti  i
processi,  non solo a quello penale. Cio' evidenzia in maniera chiara
che  il  principio  non  puo' essere inteso solo come funzionale agli
interessi  di  una  sola  delle  parti  di  uno solo dei vari tipi di
processo  che  il nostro ordinamento prevede. Sono i commi successivi
della  norma che si occupano specificamente del processo penale e che
prevedono  garanzie  dell'imputato, nessuna delle quali, tuttavia, e'
delineata  in  maniera  tale  da  derogare  apertamente  alla  regola
generale  della  ragionevole  durata.  Unica  di tali garanzie che in
qualche modo s'interseca con il principio generale e' quella inerente
il  diritto  dell'imputato  a  disporre  del tempo e delle condizioni
necessarie a preparare la sua difesa, che tuttavia riguarda il merito
dell'accusa, non la semplice strategia processuale, e sarebbe percio'
richiamata  a  sproposito  nella  materia  di  cui si sta discutendo,
soprattutto  quando il punto di scontro fra le due esigenze si situa,
come avviene applicando la norma transitoria, a dibattimento iniziato
o  perfino  concluso,  cioe' in un momento in cui l'imputato ha ormai
impostato od anche attuato la sua linea difensiva.
    L'interpretazione  dell'art. 111  Cost.  che collega il principio
della  ragionevole durata non ai contingenti interessi dell'imputato,
ma  a  quello  della  collettivita',  si avvalora poi alla luce della
produzione legislativa che ha fatto seguito alla modifica della norma
costituzionale.  Si  consideri che la legge 24 marzo 2001, n. 89, che
consente  alle  parti un'equa riparazione allorche' il processo abbia
avuto  una  durata  eccessiva,  indipendentemente  dalle  ragioni che
l'abbiano  determinata,  attribuisce  il diritto all'equa riparazione
non  solo all'imputato, ma anche alla parte civile. Da cio' si evince
che  la ragionevole durata del processo penale non e' un diritto solo
dell'imputato,  ma  anche delle altre parti processuali, ivi compresa
la parte civile, il che costituisce chiaro indice della sua natura di
principio generale, non di forma di tutela di una parte.
    Se   poi  si  ha  riguardo  agli  effetti  concreti  della  norma
denunciata  nello  svolgimento  dei processi, l'implausibilita' della
lettura  del  principio della ragionevole durata come tutela del solo
imputato,  da  questi  disponibile  e rinunciabile discrezionalmente,
risulta  ancor  piu'  chiara. Si consideri che nell'attuale sistema i
poteri  istruttori,  e  conseguentemente quelli decisori, del giudice
sono  stati  ampiamente ridotti in favore di quelli delle parti. Ogni
volta   che   sia   disposta   la   rinnovazione   del  dibattimento,
l'istruttoria  dibattimentale  deve  ricominciare  da capo, salvo nel
caso  in cui le parti prestino il consenso alla lettura degli atti in
precedenza  svolti.  Percio', se il processo ha piu' imputati, di cui
solo  uno  chieda la sospensione, ai sensi dell'art. 5, comma 2 della
legge  134  citata,  il  giudice  deve,  innanzitutto,  stabilire  se
proseguire  il  giudizio nei confronti dei coimputati, stralciando la
posizione  del richiedente - opzione che sembra la piu' corretta alla
luce dell'attuale formulazione dell'art. 18. lett. b), c.p.p., ma che
puo'   rivelarsi   inutile,   se   il   rito  alternativo  non  viene
concretamente  richiesto,  con  dispendio  di  energie e di attivita'
processuali;  oppure  se,  anziche'  sospendere il processo anche nei
confronti   dei  coimputati,  rinviano  in  attesa  del  decorso  dei
quarantacinque   giorni   prescritti.   In   quest'ultimo   caso,  se
l'interessato  poi  chiede  l'applicazione della pena, l'accoglimento
dell'istanza  rende  il  giudice  incompatibile a giudicare gli altri
coimputati,  mentre  il  rigetto  della richiesta lo rende ugualmente
incompatibile a giudicare l'imputato: se non si procede allo stralcio
gia'  al momento della richiesta di sospensione, quindi, il processo,
per  la  parte  che  prosegue  con  rito ordinario, deve in ogni caso
iniziare   ex   novo  innanzi  ad  altro  giudice,  con  rinnovazione
dell'istruttoria   dibattimentale.  In  tale  non  vi  e'  speditezza
processuale  ne'  per  l'interessato  ne'  per  i  coimputati, ma, al
contrario,  una  dilatazione  dei  tempi  della decisione. La cosa e'
particolarmente  evidente  quando  l'istruttoria e' gia' esaurita: ad
una   decisione   con  rito  ordinario  ormai  certa  nel  tempo,  si
sostituisce  un'attivita'  interlocutoria di sospensione che potrebbe
concludersi con il rigetto della richiesta di applicazione della pena
e  con  la  necessita'  di  iniziare  nuovamente il processo con rito
ordinario,  in  caso  di  unico  imputato;  oppure,  se  vi sono piu'
imputati  ed  uno  solo  chiede  il rito alternativo, con lo stralcio
delle  posizioni  degii eventuali coimputati, per i quali il processo
ricomincerebbe, anche se fosse ormai conclusa l'istruttoria.
    Il  giudicante  non  ignora  che  la  corte  costituzionale,  con
sentenza n. 266 del 1992, ha affermato che «l'applicazione della pena
concordata  con  il  pubblico ministero da uno solo degli imputati di
concorso  nel  medesimo  reato costituisce un procedimento congegnato
come pattuizione tra imputato richiedente e parte pubblica, in ordine
al  quale  e  previsto  un  controllo giurisdizionale che non include
pero'  la  valutazione delle posizioni dei coimputati». La questione,
tuttavia,  era  stata esaminata solo con riferimento all'art. 3 Cost.
ed   inoltre  era  relativa  ad  una  disposizione  ordinaria  e  non
all'introduzione   di   una   norma  transitoria,  come  quella  oggi
denunciata,  che  mira ad applicare l'istituto a tutti i procedimenti
in  corso,  anche  se  in  fase  dibattimentale,  sicche' quella oggi
sollevata  e'  questione  nuova e diversa. Inoltre la sentenza citata
era antecedente alla riforma dell'art. 111 Cost.
    Sempre  in  punto  di  effetti concreti delle norme impugnate, si
osserva, ancora, che, nel caso di applicazione della pena in corso di
giudizio,  l'esercizio  del  diritto  di  azione  della  parte civile
costituita,    garantito    dall'art. 24   Cost.,   viene   oltremodo
sacrificato,  giacche'  tutta  l'attivita'  processuale  fino  a quel
momento  svolta  si  vanifica  nel  merito  e  puo' portare solo alla
condanna  alle  spese,  in forza della sentenza n. 443 del 1990 della
Corte  costituzionale.  E  se  e  vero  che il giudice delle leggi ha
risolto   nel   limitato   senso   indicato   il   problema  relativo
all'esclusione della parte civile nel rito de quo, e' anche vero che,
di   nuovo,   la  decisione  si  riferiva  al  sistema  ordinario  di
applicazione  della  pena e non ad una norma transitoria, come quella
in  esame,  che interviene a disciplinare un giudizio in corso in cui
la  parte civile sta gia' esercitando o addirittura ha gia' del tutto
esercitato  il  proprio  diritto  di azione. Sicche' anche sotto tale
aspetto  la  frustrazione  dei  diritti  della  parte  civile e della
ragionevole  durata  -  anche  per essa - del processo finisce con il
violare   i  principi  di  ragionevolezza  e  di  ragionevole  durata
stabiliti dagli artt. 3 e 111 Cost.
    Sia in astratto che in concreto, percio', una norma, quale quella
di  cui  si  discute,  che  consente  all'imputato  di dilazionare ad
libitum  per  ben  quarantacinque  giorni  il  giudizio, senza alcuna
conseguenza negativa in caso di mancato ricorso al patteggiamento, ad
avviso  del  giudicante  stride  in maniera evidente con il principio
della   ragionevole   durata   del   processo  letto  come  interesse
dell'intera collettivita'.
    Il  contrasto  appare poi ancor piu' chiaro, e risulta assai poco
ragionevole  la  disciplina  della  novella, con ulteriore violazione
dell'art. 3  Cost.,  in  relazione  alla  decorrenza  del termine per
udienza  richiedere  la  sospensione del processo dalla prima udienza
utile,  anziche'  dalla pubblicazione della legge. Sotto tale profilo
si  osserva  che  ogni  cittadino  e'  tenuto  a  conoscere  le leggi
pubblicate.  Pertanto  ogni  imputato  e'  stato  posto in grado, nel
momento  in  cui  la  legge in esame e' stata pubblicata, di valutare
l'opportunita'  di  avvalersi della pena concordata, tanto piu' se si
considera  che ogni imputato e' assistito da un difensore, sicche' ha
avuto  modo  di consultarsi con questi per valutare l'opportunita' di
avvalersi  della  novella.  La  concessione  di  un termine di durata
notevole, decorrente dalla prima udienza anziche' dalla vigenza della
legge,  appare  irragionevole. Tale irragionevolezza risulta di tutta
evidenza allorche' la fase istruttoria sia esaurita o il processo sia
addirittura  in  fase  di  discussione,  e,  quindi, l'imputato abbia
potuto  valutare tutto il materiale probatorio e rendersi conto della
convenienza  eventuale di concordare la pena. Una volta accertato che
il  rapporto  esistente tra imputato e difensore consente ad entrambi
di valutare momento per momento le opportunita' di scelte processuali
e  che,  dunque, non v'e' lesione del diritto di difesa se si dispone
che l'imputato, alla prima udienza utile, debba dichiarare se intende
patteggiare  o no, anziche' chiedere un lungo termine di riflessione,
deve  ritenersi  che la sospensione obbligatoria incida - si passi il
bisticcio  - irragionevolmente sulla ragionevole durata del processo.
Nel   bilanciamento   tra  l'interesse  dell'imputato  e  l'interesse
generale  alla ragionevole durata del processo sembra debba prevalere
quest'ultimo, non indiscriminatamente il primo.
    Ancora,  lo  spatium  deliberandi  obbligatorio  appare  istituto
nuovo,  quantomeno  nell'ambito  del  processo penale contrastante le
soluzioni adottate anche di recente dal legislatore: si consideri, ad
esempio,  che  la  legge 25 giugno 1999, n. 205, che ha introdotto la
procedibilita'  a  querela  per  il  reato di furto, nella disciplina
transitoria  dell'esercizio  del  diritto  di  querela  per  i  reati
commessi  prima  dell'entrata  in  vigore  della legge stessa, di cui
all'art. 19,   non   prevedeva,   per  i  processi  pendenti,  alcuna
sospensione  automatica  del  processo  per  un  tempo  necessario  a
decidere  se  proporre  querela,  ma  solo un obbligo di informazione
della  persona  offesa circa la facolta' di esercitare tale diritto e
la decorrenza del termine di cui all'art. 124 c.p. dal momento in cui
veniva  ricevuta  l'informazione  che  se  l'interessato era presente
all'udienza,  si  identificava  con  l'udienza stessa. Per i processi
relativi  a  fatti  anteriori  all'entrata  in vigore della legge, ma
iniziati  successivamente all'entrata in vigore stessa, la legge - in
coerenza  con  l'obbligo  di  conoscenza  delle norme - non prevedeva
invece  alcuna  informazione  ed  il  termine  per  proporre  querela
decorreva  dall'entrata  in  vigore  della  legge.  La  norma  che si
denuncia  ha  invece  operato  scelte  diverse  senza  alcuna ragione
apparente   o   cogente,  ma  -  sembra  di  capire  -  per  mero  ed
ingiustificato  favor  nei  confronti  degli  imputati anche di gravi
reati.
    In  punto  di  rilevanza si osserva innanzitutto che la richiesta
viene  proposta a termine di entrata in vigore della legge ampiamente
trascorso,  e  che  dunque il suo accoglimento dipende dall'esistenza
della norma di favore della cui dubbia costituzionalita' si e' appena
detto. Va poi aggiunto che, pur avendo, in questo processo, tutti gli
imputati  fatto  la  richiesta,  e  non essendovi parti civili la cui
posizione sarebbe pregiudicata, nondimeno il giudicante dovrebbe oggi
sospendere  il processo per consentire di decidere se avvalersi della
novella,  e cio' comporterebbe l'applicazione diretta al caso portato
al  suo  esame  di  una  norma  la cui costituzionalita' e' dubbia in
generale,  essendo  quelle  relative alle posizioni di altri soggetti
processuali  solo  delle argomentazioni volte a dimostrare la portata
generale   del  principio  della  ragionevole  durata  del  processo;
applicazione,  quella  della  norma  ritenuta  incostituzionale,  che
inciderebbe sulla ragionevole durata di questo processo.
                              P. Q. M.
    Vista  la  legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 e l'art. 23
della  legge  11  marzo  1953,  n. 87;  ritenutala non manifestamente
infondata  e  rilevante  ai  fini  del  presente giudizio, solleva la
questione  di  legittimita' costituzionale dell'art. 1 e dell'art. 5,
commi  primo  e  secondo,  della  legge  12  giugno  2003, n. 134 per
contrasto  con  gli artt. 3 e 111 della Costituzione nei limiti e nei
termini di cui in motivazione.
    Sospende il giudizio in corso.
    Ordina trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
    Dispone  che  la  presente ordinanza sia notificata al Presidente
del  Consiglio  dei  ministri  e  comunicata  ai Presidenti delle due
Camere del parlamento.
        Firenze, addi' 19 settembre 2003
                        Il giudice: Lamberti
04C0324