N. 321 ORDINANZA (Atto di promovimento) 22 luglio 2003

Ordinanza   emessa   il   22   luglio   2003  (pervenuta  alla  Corte
costituzionale  il  26  marzo  2004)  dal  tribunale  di Camerino nel
procedimento  civile  vertente  tra  Piloni Ruggero e Trottini Ada ed
altri

Procedimento  civile  -  Spese processuali - Compensazione parziale o
  totale  in  danno  della  parte  vincitrice  - Facolta' del giudice
  quando  concorrono  giusti  motivi  -  Potere  svincolato  (secondo
  l'interpretazione  della  Cassazione  elevata  a «diritto vivente»)
  dall'obbligo  di  espressa e giustificata motivazione - Lesione del
  diritto  di  agire  in giudizio - Incidenza sull'effettivita' della
  tutela  giudiziaria  dei  diritti  -  Contrasto  con  l'obbligo  di
  motivazione  di  tutti  i  provvedimenti giurisdizionali - Richiamo
  alla sentenza n. 4455/1999 della Corte di cassazione.
- Codice di procedura civile, art. 92, comma secondo.
- Costituzione, artt. 24 e 111.
(GU n.17 del 28-4-2004 )
                            IL TRIBUNALE

    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  nel procedimento civile
iscritto al n. 176 del registro generale contenzioso civile dell'anno
1996,  in  corso  tra: Piloni Ruggero, attore, rappresentato e difeso
dall'avv. Wolfango Rivelli ed elettivamente domiciliato presso il suo
studio  in  Camerino,  via  Massei  n. 30,  e: Trottini Ada, Grandoni
Lauretta e Grandoni Massimo Nicola, convenuti, rappresentati e difesi
dall'avv. Torquato Sartori ed elettivamente domiciliati presso il suo
studio in Camerino, via C. Varano n. 6.

                              F a t t o

    Istruito  il processo civile, come sopra promosso, questo giudice
monocratico  ha  trattenuto la causa in decisione. La controversia e'
stata  poi  decisa  con  sentenza del 24 giugno 2003, con la quale e'
stata   sostanzialmente   accolta   la  domanda  attrice.  Ritenendo,
tuttavia,  di dover far uso della facolta' di disporre, in tutto o in
parte,  la  compensazione  delle  spese  processuali affrontate dalla
parte   vittoriosa,   ai  sensi  dell'art. 92,  comma  2,  c.p.c.,  e
ritenendo,  altresi',  che  tale norma, cosi' come interpretata dalla
giurisprudenza   pressoche'  univoca  e  costante  della  Cassazione,
presentasse  profili di illegittimita' costituzionale, per violazione
degli  artt. 24 e 111 della Costituzione, lo scrivente ha disposto la
sospensione  del  processo  limitatamente  alla  pronuncia accessoria
sulle spese legali, in attesa che la Corte costituzionale si pronunci
sulla  seguente  questione  di  incostituzionalita',  che  si solleva
d'ufficio.

                            D i r i t t o

    L'art. 91  del  codice  di procedura civile sancisce il principio
della  «soccombenza  processuale»,  cioe'  la  regola in virtu' della
quale  «la  parte  soccombente  viene  condannata dal giudice, con la
sentenza che definisce il giudizio, al rimborso delle spese sostenute
dalla parte vittoriosa».
    L'art. 92, comma 2, del codice di procedura civile dispone che il
giudice  possa  derogare  a  questo principio legale, compensando, in
tutto  o  in  parte,  le  spese  tra  le  parti, sia per l'ipotesi di
«soccombenza  reciproca» sia allorche' «concorrono giusti motivi». In
realta',  se  si  considera  che  la  compensazione  per l'ipotesi di
soccombenza   reciproca  rispecchia,  sostanzialmente,  il  principio
legale della soccombenza a carico delle parti perdenti, e' ben chiaro
che   l'unica  vera  eccezione  al  principio  della  soccombenza  e'
rappresentato dall'ipotesi in cui il giudice ravvisi «giusti motivi»,
perche'  in  questo  caso  le  spese  vengono  a  gravare sulla parte
vittoriosa.
    Applicando  il  canone  ermeneutico  sancito  dall'art. 12  delle
preleggi  (nell'applicare  la  legge  non  si puo' ad essa attribuire
altro  senso  che  quello  fatto palese dal sisnificato proprio delle
parole secondo la connessione di esse), l'interprete potrebbe trarre,
dal  tenore  testuale dell'art. 92 c.p.c., il legittimo convincimento
che  il giudice sia tenuto ad esporre, nella sentenza, i motivi per i
quali ritiene di poter decretare, ai danni della parte vittoriosa, la
compensazione  per «giusti motivi»: a tanto, invero, induce il tenore
testuale  della  norma  che,  parlando di «giusti motivi», lascerebbe
intendere che il giudice debba «motivare», con giuste argomentazioni,
perche'  dispone,  in  deroga  al principio legale di soccombenza, la
compensazione ai danni della parte vittoriosa.
    A  cio'  induce, inoltre, un'ulteriore argomentazione logica, che
si  puo'  trarre  dalla considerazione che per la condanna alle spese
della  parte  soccombente non occorre alcuna motivazione, trattandosi
di  statuizione  imposta,  ex  lege, dall'art. 91 del c.p.c.: sicche'
sarebbe giocoforza dedurne che per l'ipotesi opposta (cioe' quella in
cui  il  giudice  neghi alla parte vittoriosa il recupero delle spese
legali)   occorra,   necessariamente,   un'esplicita   e  convincente
motivazione perche', in caso contrario, si accorderebbe al giudice il
potere  di  pronunciarsi  sull'onere delle spese ad libitum, cioe' di
scegliere  in  modo  insindacabile  se condannare il soccontente o se
gratificarlo  della  compensazione,  cosi'  vanificando la disciplina
legale  dell'onere  delle  spese  che, in realta', per un verso fissa
come  criterio  legale  quello  della soccombenza e, per altro verso,
prevede  una  deroga  per  la  sola  ipotesi  in  cui,  pur essendovi
soccombenza,  il  giudice conosca la sussistenza di motivi validi per
esonerare  il soccombente dall'onere di rifondere le spese alla parte
vittoriosa.
    Questa  interpretazione  della  norma,  tuttavia, non puo' essere
accolta  da  questo  giudice  perche'  la  giurisprudenza  pressoche'
costante  ed univoca della Cassazione (sostanzialmente smentita dalla
sola  sentenza  5  maggio  1999,  n. 4455 della Prima sezione civile)
afferma  l'esatto  contrario,  e  cioe'  che  il giudice non ha alcun
obbligo  di  «motivare»  il  capo della sentenza col quale dispone la
compensazione  delle  spese  per «giusti motivi», e cio' in quanto si
tratta  di  statuizione «discrezionale», assistita da una presunzione
di  conformita'  a  diritto  (cfr.,  da ultimo, Cass., n. 14095/2002,
Cass., n. 11597/2002, Cass., n. 5988/2001, Cass., 2216/1999).
    Dall'affermazione  giurisprudenziale di questo drastico principio
discende,  dunque,  che  il  giudice puo', a proprio arbitrio e senza
doverne  rendere  conto  ad alcuno, ribaltare a proprio piacimento il
principio  legale  della soccombenza processuale, facendo in tal modo
gravare  le  spese  sulla  parte  incolpevole,  e  cioe'  sulla parte
vittoriosa.
    Il   necessario   corollario  di  questo  principio  -  anch'esso
costantemente  ribadito  dalla  Corte di cassazione - e' che la parte
vittoriosa,  che  si  sia vista compensare le spese di lite, non puo'
far  valere in sede di impugnazione il «difetto di motivazione» della
sentenza,  dolendosi  del fatto che il giudice ha omesso di esporre i
motivi  -  da lui reputati «giusti» - che lo hanno indotto a derogare
al  principio  legale della soccombenza processuale. In realta', solo
nell'ipotesi  in cui il giudice abbia esposto motivi di compensazione
che  risultino  illogici o erronei, una parte della giurisprudenza di
legittimita'  accorda  alla  parte  vittoriosa il diritto di proporre
impugnazione:  si  tratta,  tuttavia,  di  una «opportunita» che puo'
essere esercitata solo se il giudice, pur non essendovi tenuto, abbia
esposto, in sentenza, i motivi della disposta compensazione.
    Ad  avviso del remittente l'art. 92, comma 2 c.p.c., interpretato
secondo  il  «diritto vivente», viola patentemente gli artt. 24 e 111
della Costituzione.
    Si  sottolinea  che  la  stessa  Corte  di  cassazione, Sezione I
civile,  nell'unica sentenza dissenziente (sentenza n. 4455/1999), ha
esplicitamente    dichiarato    che    l'interpretazione    dominante
dell'art. 92  del  c.p.c.  si  poneva  in palese contrasto con le due
richiamate norme costituzionali, cosi' esprimendosi:
        «Non  appare  inutile sottolineare che - se i legittimi costi
del  processo costituiscono il mezzo indispensabile per esercitare il
proprio  diritto  alla tutela giurisdizionale (artt. 24, commi 1 e 3,
Cost e 90 cod. proc. civ.; cfr. Corte costituzionale, e pluribus e da
ultima,  ord.  n.18  del  1999,  ed  ivi i precedenti), cioe' per far
valere  in  giudizio  un  proprio  preteso  diritto  sostanziale  non
spontaneamente realizzato (artt. 99 cod. proc. civ. e 2907 cod. civ.;
e  se  il  ricorso  alla  tutela  giurisdizionale  di  questo diritto
comporta l'assunzione di una responsabilita', appunto, "processuale",
comprendente  anche  i predetti costi - ne consegue che la disciplina
regolatrice  di  siffatta  responsabilita',  in quanto funzionalmente
connessa  all'instaurazione, allo svolgimento ed alla conclusione del
processo,  appartiene totalmente alle regole che lo governano: vera e
propria  "norma  processuale",  al  cui  rispetto  e' tenuto anche il
giudice  di  pace  come "giudice di equita'", in forza del generale e
fondamentale  principio, secondo cui i costi del processo non possono
mai  gravare  sulla parte che ha ragione e che non ha "abusato" della
predetta   tutela   giurisdizionale.   Sicche',  non  appare  neppure
concepibile l'applicazione, tout court, della regola equitativa - che
attiene  esclusivamente  al giudizio di merito sul diritto azionato -
nella  decisione sulla distribuzione "finale" dei costi del processo:
la quale, in quanto giudizio sulla legittimita', o non, del ricorso a
siffatto  mezzo  di tutela, e' necessariamente governato dalle regole
che lo disciplinano ...
    Il  ricorso  merita,  altresi',  accoglimento,  in  quanto  dalla
motivazione della sentenza impugnata non emerge alcun elemento idoneo
a  fondare  la decisione del giudice a quo di compensare (per intero)
tra  le  parti  le  spese  di  giudizio,  assunta, ... sulla base del
disposto  di  cui all'art. 92 comma 2 cod. proc. civ., nella parte in
cui  dispone  che  "se concorrono altri giusti motivi il giudice puo'
compensare ...".   Per   giungere   a  siffatta  conclusione,  appare
indispensabile,  innanzitutto, ripercorrere gli orientamenti espressi
da questa Corte sul rapporto tra esercizio, da parte del giudice, del
potere   discrezionale  di  compensazione  delle  spese  processuali,
attribuitogli  dalla  richiamata  disposizione ("se vi e' soccombenza
reciproca o concorrono altri giusti motivi il giudice puo' compensare
...."), e sua giustificazione nella motivazione del provvedimento che
"chiude il processo davanti a lui" (art. 91 comma 1).
    Com'e'  noto, l'indirizzo, assolutamente prevalente, e' nel senso
che  la  decisione  di  compensare  le  spese  - la quale puo' essere
assunta  anche  nei  confronti della parte totalmente vittoriosa - in
quanto  espressiva  dell'esercizio del predetto potere discrezionale,
non  richiede  alcuna "motivazione specifica" (per la verita', alcune
sentenze  affermano,  esplicitamente  e radicalmente, che non occorre
alcuna motivazione); con la conseguenza che il relativo provvedimento
e'  insindacabile,  anche  in sede di legittimita', sotto il profilo,
appunto,  della  carenza di motivazione; e che, soltanto nell'ipotesi
in  cui  il  giudice  abbia,  tuttavia,  esplicitato le ragioni della
disposta  compensazione, il sindacato e' ammesso ove queste risultino
illogiche  e/o  erronee  e/o  contraddittorie,  vale  a  dire tali da
invalidare  la  stessa  formazione della decisione sul punto (cfr., e
pluribus,  sentt.,  a s.u., nn. 1422 del 1963, 864 del 1973, 9597 del
1994; cfr. anche, fra le ultime, sentt. nn. 4545 e 4997 del 1998).
    D'altro  canto, non sono mancate pronunce, che - tenendo conto di
autorevoli  e  severe  critiche,  espresse dalla dottrina soprattutto
sulla  non  doverosita'  della  motivazione  nell'applicazione di una
norma   (l'art. 92  comma 2,  appunto),  chiaramente  derogatoria  di
quella,  generale,  secondo  cui le spese processuali debbono gravare
definitivamente  sulla  parte  soccombente  (art. 91  comma 1)- hanno
affermato,  in  contrasto  con l'orientamento dominante, che anche la
decisione di compensare le spese processuali deve essere specifamente
giustificata,  sia  pure  in modo conciso, nella motivazione; e cio',
conformemente  al  precetto,  contenuto  nell'art. 111 comma 1 Cost.,
secondo  cui  "tutti  i  provvedimenti  giurisdizionali devono essere
motivati"  (cfr.,  ad  es., sentt. nn. 1684 e 2444 del 1974, 3286 del
1977, 1973 del 1979).
    Deve  sottolinearsi,  infine, che e' stata piu' volte respinta da
questa   Corte,   per  manifesta  infondatezza,  con  riferimento  al
parametro    costituzionale    ora    richiamato,    l'eccezione   di
illegittimita'  costituzionale  dell'art. 92 comma 2 cod.proc. civ. -
interpretato,  secondo  il "diritto vivente", nel senso che la scelta
del  giudice  di  compensare  le  spese  processuali  non  dev'essere
specificamente  motivata  -  sulla  base del rilievo che il principio
sancito   dall'art. 11   comma   1   Cost.   non  e'  applicabile  al
provvedimento  di  compensazione  delle  spese processuali, in quanto
l'affermazione   dell'esistenza  di  ragioni  che  giustificano  tale
compensazione  deve  esser  posta  in  relazione  ed integrata con la
motivazione  e  con  diversi  elementi  di  fatto  (ad  es.,  vicende
processuali;  novita'  e difficolta' delle questioni trattate; natura
della   causa;  comportamento  delle  parti),  tenuto  conto  che  la
pronuncia  sulle  spese  non  costituisce  un provvedimento autonomo,
rispetto a quello che definisce il giudizio (per ragioni di rito o di
merito),  al  quale, invece, "accede" (cfr. sentt. nn. 1 684 del 1974
cit., 3471 del 1989, 12657 del 1992, 1887 del 1998).
    Cio'   premesso,   il   collegio   ritiene   che   l'orientamento
predominante  deve  essere  precisato ed integrato, proprio alla luce
delle  riflessioni  stimolate  da quello minoritario e dalle sentenze
che   hanno  dichiarato  manifestamente  infondate  le  eccezioni  di
illegittimita' costituzionale sollevate.
    A)  Deve  precisarsi, in primo luogo, che il fondamento della non
doverosita',  per  il  giudice,  della  "motivazione specifica" della
decisione   di   compensazione  delle  spese  processuali,  ai  sensi
dell'art. 92  comma  2  cod.proc. civ., non sta affatto nel carattere
discrezionale  dell'esercizio del potere relativo attribuitogli dalla
legge,  bensi'  nella  natura  stessa della pronuncia sulle spese (di
condanna o di compensazione), "conseguenziale ed accessoria" (come e'
stato  costantemente  affermato  da  questa  Corte: cfr., e pluribus,
sentt.  nn.  9859,  del  1997,  a s.u., 6333 del 1985, 3093 del 1981)
rispetto  al  provvedimento  "che chiude il processo davanti a lui" :
sicche' - se la pronuncia sulle spese "dipende" sempre dall'esito (di
rito  o  di  merito) della controversia in un suo determinato momento
processuale  ("il  giudice,  con  la  sentenza che chiude il processo
davanti  a lui ..."): art. 91 comma 1, e, quindi, non costituisce mai
provvedimento autonomo - ne consegue, in linea di principio, che essa
non  necessita  di  una  "specifica"  motivazione,  nel  senso che le
ragioni  della  condanna  alle  spese o della loro compensazione (per
"soccombenza  reciproca",  ovvero  per  il  concorso di "altri giusti
motivi"),  se  non  debbono  (bensi'  possono)  essere specificamente
esplicitate,  devono,  pero', quantomeno, risultare dalla motivazione
complessiva  del  provvedimento  giurisdizionale  (intesa  nel  senso
precisato  dal  combinato  disposto degli artt. 132 comma 2 n. 4 cod.
proc.  civ.  e  118  commi  1 e 2 disp. att. cod. proc. civ.), cui la
pronuncia  stessa  accede.  Solo  cosi' inteso, il "diritto vivente",
costituito  dal predetto orientamento dominante, sfugge a consistenti
dubbi  di  illegittimita'  costituzionale  che,  altrimenti opinando,
potrebbero  insorgere,  sulla  base del semplice ed immediato rilievo
che   altro   e'  affermare  la  non  doverosita'  della  motivazione
"specifica" di un provvedimento giurisdizionale accessorio, nel senso
ora  precisato;  altro  affermare,  tout court, la non doverosita' di
alcuna   motivazione  di  una  "scelta"  giurisdizionale,  fondandola
sull'esercizio,  da  parte  del  giudice,  di un potere discrezionale
attribuitogli  dalla  legge ( cosi', ad es., sentt. nn. 864 del 1973,
9597 del 1994 e 1887 del 1998 citt.).
    Infatti  -  se  si  considera  che,  in  attuazione del principio
secondo  cui  il  costo del processo non deve mai gravare sulla parte
vittoriosa,  la  regola  generale  (art. 91  comma 1 cod.proc. civ. )
impone  al  giudice  di  condannare  il soccombente al rimborso delle
spese   in  favore  della  controparte;  che  la  legge  attribuisce,
altresi',  al  giudice  stesso  il potere discrezionale di derogare a
tale   regola,   cioe'   di   scegliere  se  condannare  parzialmente
(compensazione  parziale)  o  non  condannare  affatto (compensazione
integrale)  il soccombente alle spese (nella qual scelta si sostanzia
il  contenuto di siffatto potere discrezionale), non gia' ad libitum,
ma  soltanto  in  presenza  di  determinate  condizioni  dalla  legge
medesima  prefigurate ("soccombenza reciproca" - rispetto alla quale,
pero',  la  compensazione  non  opera  come  "deroga" ma come diretta
applicazione  del  principio  della  soccombenza - ovvero, come nella
specie,  "altri giusti motivi"); e che il dovere di motivare "tutti i
provvedimenti  giurisdizionali",  imposto dall'art. 111 comma 1 Cost.
quale garanzia di tipo oggettivo e strutturale risponde come ribadito
da   recente   ed   autorevole   dottrina,   sia  ad  una  "finalita'
endroprocessuale",  volta  a  prevenire  qualsiasi  abuso  del potere
giudiziario   in   correlazione   finalistica  con  il  principio  di
legalita',  realizzando  la  "trasparenza"  e  la  "controllabilita'"
esterna  delle  attivita' giurisdizionali da parte del popolo sovrano
nel  cui  nome la giustizia viene amministrata (artt. 1 comma 2 e 101
comma   2  Cost.),  sia  una  "finalita'  endoprocessuale",  volta  a
realizzare  un adeguato esercizio dei diritti di difesa nei confronti
della  stessa  decisione  e nei giudizi di impugnazione - ne consegue
che  il potere discrezionale di compensazione delle spese processuali
in  tanto puo' ritenersi legittimamente esercitato, in quanto risulti
affermata  e  giustificata la sussistenza dei presupposti cui esso e'
subordinato.
    Sicche'  - come il mancato esercizio di tale potere non richiede,
ovviamente, alcuna motivazione (per giurisprudenza costante: cfr., da
ultima,  Cass.  n. 11770  del  1998  )  - cosi', al contrario, il suo
esercizio,   per   non  risolversi  in  mero  arbitrio,  deve  essere
necessariamente  motivato ... E cio', tanto piu' nell'ipotesi - quale
quella  di  specie  - del concorso di "altri giusti motivi" (diversi,
cioe',  da  quello  della  "soccombenza reciproca") di compensazione,
che,  per l'ampiezza della previsione, integra, anche per parte della
dottrina,  l'unico  caso di norma realmente derogatoria del principio
generale,  posto  dall'art. 91 comma 1 cod.proc. civ., della condanna
alle  spese  della parte soccombente. Non senza sottolineare - sempre
sotto   il  profilo  della  conformita'  dell'orientamento  dominante
all'art.  111  comma  1  Cost.  - l'intrinseca contraddittorieta' tra
affermazione  di  insindacabilita',  anche in carenza di motivazione,
della  decisione  di compensazione delle spese, ed affermazione della
sua    sindacabilita',    per    illogicita'   e/o   erroneita'   e/o
contradditiorieta'  dei  motivi "specifici" eventualmente addotti dal
giudice:   infatti   -  a  parte  ogni  considerazione  sulle  prassi
sostanzialmente  arbitrarie,  invalse presso gli uffici giudiziari in
corriva   applicazione  dell'orientamento  dominante  -  se  siffatta
decisione   non  necessita  di  alcuna  motivazione,  questa  e'  per
definizione, sempre non doverosa e, percio', sempre insindacabile.
    Ed infine: l'esercizio "arbitrario", nel senso ora precisato, del
potere discrezionale di compensazione delle spese processuali finisce
con  il  risolversi  - nei non pochi casi, quale quello di specie, in
cui  il  valore  della  causa  sia  di  non rilevante entita', ovvero
risulti,  in  concreto,  economicamente  incomparabile  rispetto alle
spese  processuali  necessarie  per  instaurarla  e  per  condurla  a
termine;  o in quelli in cui, comunque, una parte ha avuto totalmente
ragione  come  nella  specie - nel sostanziale diniego, o dei diritto
alla   tutela   giurisdizionale   (soprattutto  de  minimis),  ovvero
dell'effettiva  realizzazione  del  diritto  sostanziale  accertato e
riconosciuto  in  giudizio:  vale  a dire nella palese violazione sia
dell'art.  24  comma 1 Cost. - il quale, garantendo a tutti la tutela
giurisdizionale,  non  puo'  non  garantire  anche il soddisfacimento
"EFFETTIVO"  di  quel  diritto (cfr., ad es., Corte costituzionale, e
pluribus,  sentt. n. 419 dei 1995 e 26 del 1999), anche attraverso il
rigoroso rispetto della "legalita' processuale" - sia, in definitiva,
del fondamentale principio, secondo cui il processo non deve comunque
andare a danno della parte che ha (avuto) ragione».
    Si  sottolinea  che  questa  sentenza  della  Cassazione e' stata
accolta da un unanime coro di euforici consensi da parte di tutti gli
operatori  giuridici,  che  non  hanno  mancato  di  sottolinearne la
sagacia   e   il   coraggio,   perche'   ha  finalmente  fornito  una
interpretazione   della   norma   sicuramente   conforme  ai  dettami
dell'art. 24 e dell'art. 111 della Costituzione, tentando in tal modo
di  arginare  il  diffuso malcostume di procedere a compensazioni del
tutto  arbitrarie  e  del  tutto  immotivate  (o, spesso, motivate da
ragioni  non  palesabili),  sovente foriere di conseguenze a dir poco
grottesche  (la «parte vittoriosa», in casi estremi e documentati, si
e'  trovata  a  sborsare, per far fronte ai propri oneri processuali,
spese  di  ben 65 volte superiori al valore della «posta in gioco», e
questo solo perche' «colpevole» di aver vinto la causa).
    Purtroppo,  a  distanza  di  ben  quattro  anni  dalla  pronuncia
4455/1999,  si  deve  constatare  che  la  Cassazione  non ha affatto
seguito  il  nuovo  indirizzo  e, anzi, l'ha costantemente disatteso,
contraddetto  e  sconfessato,  giungendo ad affermare, nella sentenza
n. 11597 del 20 agosto 2002, che «il giudice puo' compensare le spese
processuali  per  giusti  motivi  senza obbligo di specificarli», che
«non trova applicazione in tema di compensazione per giusti motivi il
principio   sancito   dall'art. 111  della  Cost.  secondo  cui  ogni
provvedimento  giurisdizionale  deve  essere motivato» e che, infine,
«il  potere del giudice di compensare le spese processuali per giusti
motivi (non esposti e non motivati n.d.r.) non e' in contrasto con il
principio dettato dall'art. 24 della Cost., giacche' il provvedimento
di  compensazione  non  costituisce  ostacolo  alla  difesa di propri
diritti,  non  potendosi  estendere  la garanzia costituzionale della
effettivita' della tutela giurisdizionale sino a ricomprendervi anche
la condanna del soccombente».
    Alla luce di questa incontestabile realta' del «diritto vivente»,
pertanto,   si   impone   la   trasmissione  degli  atti  alla  Corte
costituzionale   perche'   giudichi  sulla  conformita'  dell'art. 92
c.p.c.,  cosi'  interpretato,  con  i  canoni  costituzionali sanciti
dall'art. 24  e  dall'art. 111  della  Costituzione,  trattandosi  di
questioni  manifestamente  non infondate e, anzi, tali ritenute dalla
Cassazione stessa nella sentenza n. 4455 del 1999.
    In  particolare  il  remittente ritiene che le motivazioni adotte
dalla  Cassazione  nella  sentenza  n. 4455 del 1999 siano pienamente
condivisibili e rispondano, nella sostanza, a questo iter logico:
        1°)  l'art. 24  della  Costituzione  accorda  ai cittadini il
diritto  di agire in giudizio per ottenere la tutela dei diritti che,
a  cagione  del  comportamento  della  parte  convenuta, sono rimasti
insoddisfatti:  il ricorso alle vie giudiziarie, peraltro, e' l'unica
alternativa consentita dalla legge, essendo vietato dal codice penale
l'esercizio arbitrario delle proprie ragioni;
        2°)  il  ricorso alle vie giudiziarie non e' gratuito, bensi'
altamente  oneroso,  sia  sotto  il  profilo  tributario sia sotto il
profilo  degli  onorari  e  delle  competenze per le prestazioni rese
dagli  avvocati e, all'occorrenza, dai consulenti d'ufficio: pertanto
vige  la regola (art. 91 c.p.c.), sostanzialmente conforme al dettato
dell'art. 24  della  Costituzione,  secondo  cui le spese processuali
affrontate   dalla  parte  vittoriosa  debbono  gravare  sulla  parte
perdente  che,  col  proprio  comportamento  inottemperante,  ha dato
origine alla causa civile;
        3°) questa regola puo' trovare una deroga nella sola ipotesi,
prevista  dal  comma  2  dell'art. 92  del  c.p.c., in cui il giudice
ravvisi  «giusti  motivi»  per  compensare le spese a discapito della
parte vittoriosa;
        4°)  la  «compensazione per giusti motivi» viene ad incidere,
in modo inconfutabile, sull'«effettivita» del diritto tutelato in via
giudiziaria,  in  quanto ne menoma il riconoscimento sotto il profilo
economico  (in  casi  estremi la menomazione e' totale: in casi ancor
piu'  estremi il mancato riconoscimento del diritto al rimborso delle
spese,  che  superano, di gran lunga, il valore della posta in gioco,
si risolve in una beffa per la parte vittoriosa);
        5°) in considerazione degli innegabili effetti negativi della
compensazione  delle spese sull'effettivita' della tutela giudiziaria
dei  diritti,  la  legge  impone  che  la  compensazione  possa esser
disposta,  ai  danni  della  parte vittoriosa (e, quindi, del diritto
riconosciutole), solo se ricorrono «giusti motivi»;
        6°)  trattandosi  di  «motivi»  che vengono ad incidere sulla
tutela  reale  ed effettiva dei diritti riconosciuti, il giudice deve
necessariamente  esporre, in modo esplicito e coerente, quali siano i
motivi che giustifichino, nel caso di specie, il sacrificio, parziale
o totale, del diritto azionato: in caso contrario, infatti, la scelta
giurisdizionale  del  giudice si risolverebbe in un mero arbitrio, in
flagrante  violazione dell'art. 111 della Costituzione che, imponendo
ai    giudici   l'obbligo   di   motivare   tutti   i   provvedimenti
giurisdizionali,   mira   a  prevenire  qualsiasi  abuso  del  potere
giudiziario,  altresi' realizzando - a favore delle parti processuali
- il diritto alla trasparenza e alla controllabilita' delle decisioni
che,  in  modo  diretto  o  in  modo  indiretto,  vengono comunque ad
incidere  sui  diritti  di  cui si e' chiesta, in via necessariamente
giudiziaria, la tutela.
    E la riprova degli arbitri che vengono soventemente perpetrati la
si  puo' acquisire attraverso la disamina dei relativi provvedimenti,
che spaziano dalle compensazioni routinariamente disposte nei giudizi
in  cui  e'  coinvolta una «certa» parte (per lo piu' enti pubblici),
sino  a  giungere  ai  giudizi  in  cui,  pur  ricorrendo  motivi che
impongono,    obbligatoriamente,   la   compensazione   delle   spese
processuali, la parte perdente viene tuttavia gravata dalla condanna:
tale  si  rivela il caso, a dir poco grottesco, della parte che si e'
vista  respingere il ricorso - e percio' stesso condannata alle spese
-  perche' la controparte - cioe' lo Stato - aveva fornito, nel corso
di  giudizio,  un  «interpretazione autentica» diametralmente opposta
alle  decisioni  gia'  prese  dai  giudici in casi identici, cosi' di
fatto  imponendo  al  giudice  di  «decidere  la  controversia in suo
favore».
    D'altra  parte, non e' fuor di luogo rimarcare che l'art. 323 del
codice penale sanziona come reato di abuso d'ufficio il comportamento
del  pubblico  ufficiale  che,  nello svolgimento delle sue funzioni,
intenzionalmente  procura ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale
ovvero  arreca  ad  altri  un  danno  ingiusto:  se si ammette che la
«discrezionalita»   della   decisione   in  merito  alla  soccombenza
processuale  possa  spingersi  sino al puro arbitrio, cioe' sino alla
decisione  immotivata  e  insindacabile,  di  cui  il  giudice non e'
chiamato  a  risponderne  in  alcuna  sede,  questo  autorizzerebbe i
giudici  a  procurare  vantaggi  economici  o  ad arrecare pregiudizi
economici alle parti del processo impunemente senza che ricorra alcun
«giusto  motivo»  o,  magari,  per  soddisfare  personali  rancori  o
antipatie. Il che appare francamente non giustificabile.
    Da  quanto  esposto  consegue  che  la deroga al principio legale
della  soccombenza  processuale deve essere necessariamente motivata,
come  imposto dall'art. 111 della Costituzione, e che essa, poi, deve
rispondere  a  motivi  realmente giusti, tali, cioe', da giustificare
che  una  parte,  seppur  vittoriosa, debba sopportare, in tutto o in
parte, le spese affrontate per la sua difesa.

                            La rilevanza

    La  questione  che  si  solleva  appare  rilevante  ai fini della
decisione  definitiva in ordine alla soccombenza processuale, essendo
ben  chiaro che, ove si ritenga che la compensazione arbitraria delle
spese   processuali,   attuata   con   provvedimenti  giurisdizionali
immotivati  e,  quindi,  insuscettibili  di  controllo  e  di  rimedi
impugnatori  da parte degli interessati, sia conforme agli artt. 24 e
1111  della Costituzione, questo giudice remittente si pronuncera' in
questo  processo  (come  in  tutti i processi a venire) senza esporre
alcuna  motivazione in merito alla scelta di compensare, parzialmente
o   totalmente,   le   spese  processuali  a  discapito  della  parte
vittoriosa, cosi' derogando, per motivazioni che resteranno occulte e
insuscettibili  di  sindacato,  al principio legale della soccombenza
processuale.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87;
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 92, secondo comma, del codice
di  procedura  civile,  per  violazione  degli  artt. 24  e 111 della
Costituzione,  nella  parte in cui consente al giudice la facolta' di
compensare,  in  tutto  o  in  parte  e  ai danni della parte rimasta
vittoriosa,   le   spese   processuali,   senza  esporre  espressa  e
giustificata motivazione dei «giusti motivi» di tale decisione.
    Conseguentemente:
        ordina   l'immediata   trasmissione  degli  atti  alla  Corte
costituzionale;
        sospende il presente giudizio;
        dispone  che,  a cura della cancelleria, copia della presente
ordinanza  sia  notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e
comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento nonche' alle
parti in causa.
          Camerino, addi' 7 luglio 2003
                    Il giudice monocratico: Tosti
04C0505