N. 321 ORDINANZA (Atto di promovimento) 22 luglio 2003
Ordinanza emessa il 22 luglio 2003 (pervenuta alla Corte costituzionale il 26 marzo 2004) dal tribunale di Camerino nel procedimento civile vertente tra Piloni Ruggero e Trottini Ada ed altri Procedimento civile - Spese processuali - Compensazione parziale o totale in danno della parte vincitrice - Facolta' del giudice quando concorrono giusti motivi - Potere svincolato (secondo l'interpretazione della Cassazione elevata a «diritto vivente») dall'obbligo di espressa e giustificata motivazione - Lesione del diritto di agire in giudizio - Incidenza sull'effettivita' della tutela giudiziaria dei diritti - Contrasto con l'obbligo di motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali - Richiamo alla sentenza n. 4455/1999 della Corte di cassazione. - Codice di procedura civile, art. 92, comma secondo. - Costituzione, artt. 24 e 111.(GU n.17 del 28-4-2004 )
IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento civile iscritto al n. 176 del registro generale contenzioso civile dell'anno 1996, in corso tra: Piloni Ruggero, attore, rappresentato e difeso dall'avv. Wolfango Rivelli ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in Camerino, via Massei n. 30, e: Trottini Ada, Grandoni Lauretta e Grandoni Massimo Nicola, convenuti, rappresentati e difesi dall'avv. Torquato Sartori ed elettivamente domiciliati presso il suo studio in Camerino, via C. Varano n. 6. F a t t o Istruito il processo civile, come sopra promosso, questo giudice monocratico ha trattenuto la causa in decisione. La controversia e' stata poi decisa con sentenza del 24 giugno 2003, con la quale e' stata sostanzialmente accolta la domanda attrice. Ritenendo, tuttavia, di dover far uso della facolta' di disporre, in tutto o in parte, la compensazione delle spese processuali affrontate dalla parte vittoriosa, ai sensi dell'art. 92, comma 2, c.p.c., e ritenendo, altresi', che tale norma, cosi' come interpretata dalla giurisprudenza pressoche' univoca e costante della Cassazione, presentasse profili di illegittimita' costituzionale, per violazione degli artt. 24 e 111 della Costituzione, lo scrivente ha disposto la sospensione del processo limitatamente alla pronuncia accessoria sulle spese legali, in attesa che la Corte costituzionale si pronunci sulla seguente questione di incostituzionalita', che si solleva d'ufficio. D i r i t t o L'art. 91 del codice di procedura civile sancisce il principio della «soccombenza processuale», cioe' la regola in virtu' della quale «la parte soccombente viene condannata dal giudice, con la sentenza che definisce il giudizio, al rimborso delle spese sostenute dalla parte vittoriosa». L'art. 92, comma 2, del codice di procedura civile dispone che il giudice possa derogare a questo principio legale, compensando, in tutto o in parte, le spese tra le parti, sia per l'ipotesi di «soccombenza reciproca» sia allorche' «concorrono giusti motivi». In realta', se si considera che la compensazione per l'ipotesi di soccombenza reciproca rispecchia, sostanzialmente, il principio legale della soccombenza a carico delle parti perdenti, e' ben chiaro che l'unica vera eccezione al principio della soccombenza e' rappresentato dall'ipotesi in cui il giudice ravvisi «giusti motivi», perche' in questo caso le spese vengono a gravare sulla parte vittoriosa. Applicando il canone ermeneutico sancito dall'art. 12 delle preleggi (nell'applicare la legge non si puo' ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal sisnificato proprio delle parole secondo la connessione di esse), l'interprete potrebbe trarre, dal tenore testuale dell'art. 92 c.p.c., il legittimo convincimento che il giudice sia tenuto ad esporre, nella sentenza, i motivi per i quali ritiene di poter decretare, ai danni della parte vittoriosa, la compensazione per «giusti motivi»: a tanto, invero, induce il tenore testuale della norma che, parlando di «giusti motivi», lascerebbe intendere che il giudice debba «motivare», con giuste argomentazioni, perche' dispone, in deroga al principio legale di soccombenza, la compensazione ai danni della parte vittoriosa. A cio' induce, inoltre, un'ulteriore argomentazione logica, che si puo' trarre dalla considerazione che per la condanna alle spese della parte soccombente non occorre alcuna motivazione, trattandosi di statuizione imposta, ex lege, dall'art. 91 del c.p.c.: sicche' sarebbe giocoforza dedurne che per l'ipotesi opposta (cioe' quella in cui il giudice neghi alla parte vittoriosa il recupero delle spese legali) occorra, necessariamente, un'esplicita e convincente motivazione perche', in caso contrario, si accorderebbe al giudice il potere di pronunciarsi sull'onere delle spese ad libitum, cioe' di scegliere in modo insindacabile se condannare il soccontente o se gratificarlo della compensazione, cosi' vanificando la disciplina legale dell'onere delle spese che, in realta', per un verso fissa come criterio legale quello della soccombenza e, per altro verso, prevede una deroga per la sola ipotesi in cui, pur essendovi soccombenza, il giudice conosca la sussistenza di motivi validi per esonerare il soccombente dall'onere di rifondere le spese alla parte vittoriosa. Questa interpretazione della norma, tuttavia, non puo' essere accolta da questo giudice perche' la giurisprudenza pressoche' costante ed univoca della Cassazione (sostanzialmente smentita dalla sola sentenza 5 maggio 1999, n. 4455 della Prima sezione civile) afferma l'esatto contrario, e cioe' che il giudice non ha alcun obbligo di «motivare» il capo della sentenza col quale dispone la compensazione delle spese per «giusti motivi», e cio' in quanto si tratta di statuizione «discrezionale», assistita da una presunzione di conformita' a diritto (cfr., da ultimo, Cass., n. 14095/2002, Cass., n. 11597/2002, Cass., n. 5988/2001, Cass., 2216/1999). Dall'affermazione giurisprudenziale di questo drastico principio discende, dunque, che il giudice puo', a proprio arbitrio e senza doverne rendere conto ad alcuno, ribaltare a proprio piacimento il principio legale della soccombenza processuale, facendo in tal modo gravare le spese sulla parte incolpevole, e cioe' sulla parte vittoriosa. Il necessario corollario di questo principio - anch'esso costantemente ribadito dalla Corte di cassazione - e' che la parte vittoriosa, che si sia vista compensare le spese di lite, non puo' far valere in sede di impugnazione il «difetto di motivazione» della sentenza, dolendosi del fatto che il giudice ha omesso di esporre i motivi - da lui reputati «giusti» - che lo hanno indotto a derogare al principio legale della soccombenza processuale. In realta', solo nell'ipotesi in cui il giudice abbia esposto motivi di compensazione che risultino illogici o erronei, una parte della giurisprudenza di legittimita' accorda alla parte vittoriosa il diritto di proporre impugnazione: si tratta, tuttavia, di una «opportunita» che puo' essere esercitata solo se il giudice, pur non essendovi tenuto, abbia esposto, in sentenza, i motivi della disposta compensazione. Ad avviso del remittente l'art. 92, comma 2 c.p.c., interpretato secondo il «diritto vivente», viola patentemente gli artt. 24 e 111 della Costituzione. Si sottolinea che la stessa Corte di cassazione, Sezione I civile, nell'unica sentenza dissenziente (sentenza n. 4455/1999), ha esplicitamente dichiarato che l'interpretazione dominante dell'art. 92 del c.p.c. si poneva in palese contrasto con le due richiamate norme costituzionali, cosi' esprimendosi: «Non appare inutile sottolineare che - se i legittimi costi del processo costituiscono il mezzo indispensabile per esercitare il proprio diritto alla tutela giurisdizionale (artt. 24, commi 1 e 3, Cost e 90 cod. proc. civ.; cfr. Corte costituzionale, e pluribus e da ultima, ord. n.18 del 1999, ed ivi i precedenti), cioe' per far valere in giudizio un proprio preteso diritto sostanziale non spontaneamente realizzato (artt. 99 cod. proc. civ. e 2907 cod. civ.; e se il ricorso alla tutela giurisdizionale di questo diritto comporta l'assunzione di una responsabilita', appunto, "processuale", comprendente anche i predetti costi - ne consegue che la disciplina regolatrice di siffatta responsabilita', in quanto funzionalmente connessa all'instaurazione, allo svolgimento ed alla conclusione del processo, appartiene totalmente alle regole che lo governano: vera e propria "norma processuale", al cui rispetto e' tenuto anche il giudice di pace come "giudice di equita'", in forza del generale e fondamentale principio, secondo cui i costi del processo non possono mai gravare sulla parte che ha ragione e che non ha "abusato" della predetta tutela giurisdizionale. Sicche', non appare neppure concepibile l'applicazione, tout court, della regola equitativa - che attiene esclusivamente al giudizio di merito sul diritto azionato - nella decisione sulla distribuzione "finale" dei costi del processo: la quale, in quanto giudizio sulla legittimita', o non, del ricorso a siffatto mezzo di tutela, e' necessariamente governato dalle regole che lo disciplinano ... Il ricorso merita, altresi', accoglimento, in quanto dalla motivazione della sentenza impugnata non emerge alcun elemento idoneo a fondare la decisione del giudice a quo di compensare (per intero) tra le parti le spese di giudizio, assunta, ... sulla base del disposto di cui all'art. 92 comma 2 cod. proc. civ., nella parte in cui dispone che "se concorrono altri giusti motivi il giudice puo' compensare ...". Per giungere a siffatta conclusione, appare indispensabile, innanzitutto, ripercorrere gli orientamenti espressi da questa Corte sul rapporto tra esercizio, da parte del giudice, del potere discrezionale di compensazione delle spese processuali, attribuitogli dalla richiamata disposizione ("se vi e' soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi il giudice puo' compensare ...."), e sua giustificazione nella motivazione del provvedimento che "chiude il processo davanti a lui" (art. 91 comma 1). Com'e' noto, l'indirizzo, assolutamente prevalente, e' nel senso che la decisione di compensare le spese - la quale puo' essere assunta anche nei confronti della parte totalmente vittoriosa - in quanto espressiva dell'esercizio del predetto potere discrezionale, non richiede alcuna "motivazione specifica" (per la verita', alcune sentenze affermano, esplicitamente e radicalmente, che non occorre alcuna motivazione); con la conseguenza che il relativo provvedimento e' insindacabile, anche in sede di legittimita', sotto il profilo, appunto, della carenza di motivazione; e che, soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia, tuttavia, esplicitato le ragioni della disposta compensazione, il sindacato e' ammesso ove queste risultino illogiche e/o erronee e/o contraddittorie, vale a dire tali da invalidare la stessa formazione della decisione sul punto (cfr., e pluribus, sentt., a s.u., nn. 1422 del 1963, 864 del 1973, 9597 del 1994; cfr. anche, fra le ultime, sentt. nn. 4545 e 4997 del 1998). D'altro canto, non sono mancate pronunce, che - tenendo conto di autorevoli e severe critiche, espresse dalla dottrina soprattutto sulla non doverosita' della motivazione nell'applicazione di una norma (l'art. 92 comma 2, appunto), chiaramente derogatoria di quella, generale, secondo cui le spese processuali debbono gravare definitivamente sulla parte soccombente (art. 91 comma 1)- hanno affermato, in contrasto con l'orientamento dominante, che anche la decisione di compensare le spese processuali deve essere specifamente giustificata, sia pure in modo conciso, nella motivazione; e cio', conformemente al precetto, contenuto nell'art. 111 comma 1 Cost., secondo cui "tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati" (cfr., ad es., sentt. nn. 1684 e 2444 del 1974, 3286 del 1977, 1973 del 1979). Deve sottolinearsi, infine, che e' stata piu' volte respinta da questa Corte, per manifesta infondatezza, con riferimento al parametro costituzionale ora richiamato, l'eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 92 comma 2 cod.proc. civ. - interpretato, secondo il "diritto vivente", nel senso che la scelta del giudice di compensare le spese processuali non dev'essere specificamente motivata - sulla base del rilievo che il principio sancito dall'art. 11 comma 1 Cost. non e' applicabile al provvedimento di compensazione delle spese processuali, in quanto l'affermazione dell'esistenza di ragioni che giustificano tale compensazione deve esser posta in relazione ed integrata con la motivazione e con diversi elementi di fatto (ad es., vicende processuali; novita' e difficolta' delle questioni trattate; natura della causa; comportamento delle parti), tenuto conto che la pronuncia sulle spese non costituisce un provvedimento autonomo, rispetto a quello che definisce il giudizio (per ragioni di rito o di merito), al quale, invece, "accede" (cfr. sentt. nn. 1 684 del 1974 cit., 3471 del 1989, 12657 del 1992, 1887 del 1998). Cio' premesso, il collegio ritiene che l'orientamento predominante deve essere precisato ed integrato, proprio alla luce delle riflessioni stimolate da quello minoritario e dalle sentenze che hanno dichiarato manifestamente infondate le eccezioni di illegittimita' costituzionale sollevate. A) Deve precisarsi, in primo luogo, che il fondamento della non doverosita', per il giudice, della "motivazione specifica" della decisione di compensazione delle spese processuali, ai sensi dell'art. 92 comma 2 cod.proc. civ., non sta affatto nel carattere discrezionale dell'esercizio del potere relativo attribuitogli dalla legge, bensi' nella natura stessa della pronuncia sulle spese (di condanna o di compensazione), "conseguenziale ed accessoria" (come e' stato costantemente affermato da questa Corte: cfr., e pluribus, sentt. nn. 9859, del 1997, a s.u., 6333 del 1985, 3093 del 1981) rispetto al provvedimento "che chiude il processo davanti a lui" : sicche' - se la pronuncia sulle spese "dipende" sempre dall'esito (di rito o di merito) della controversia in un suo determinato momento processuale ("il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui ..."): art. 91 comma 1, e, quindi, non costituisce mai provvedimento autonomo - ne consegue, in linea di principio, che essa non necessita di una "specifica" motivazione, nel senso che le ragioni della condanna alle spese o della loro compensazione (per "soccombenza reciproca", ovvero per il concorso di "altri giusti motivi"), se non debbono (bensi' possono) essere specificamente esplicitate, devono, pero', quantomeno, risultare dalla motivazione complessiva del provvedimento giurisdizionale (intesa nel senso precisato dal combinato disposto degli artt. 132 comma 2 n. 4 cod. proc. civ. e 118 commi 1 e 2 disp. att. cod. proc. civ.), cui la pronuncia stessa accede. Solo cosi' inteso, il "diritto vivente", costituito dal predetto orientamento dominante, sfugge a consistenti dubbi di illegittimita' costituzionale che, altrimenti opinando, potrebbero insorgere, sulla base del semplice ed immediato rilievo che altro e' affermare la non doverosita' della motivazione "specifica" di un provvedimento giurisdizionale accessorio, nel senso ora precisato; altro affermare, tout court, la non doverosita' di alcuna motivazione di una "scelta" giurisdizionale, fondandola sull'esercizio, da parte del giudice, di un potere discrezionale attribuitogli dalla legge ( cosi', ad es., sentt. nn. 864 del 1973, 9597 del 1994 e 1887 del 1998 citt.). Infatti - se si considera che, in attuazione del principio secondo cui il costo del processo non deve mai gravare sulla parte vittoriosa, la regola generale (art. 91 comma 1 cod.proc. civ. ) impone al giudice di condannare il soccombente al rimborso delle spese in favore della controparte; che la legge attribuisce, altresi', al giudice stesso il potere discrezionale di derogare a tale regola, cioe' di scegliere se condannare parzialmente (compensazione parziale) o non condannare affatto (compensazione integrale) il soccombente alle spese (nella qual scelta si sostanzia il contenuto di siffatto potere discrezionale), non gia' ad libitum, ma soltanto in presenza di determinate condizioni dalla legge medesima prefigurate ("soccombenza reciproca" - rispetto alla quale, pero', la compensazione non opera come "deroga" ma come diretta applicazione del principio della soccombenza - ovvero, come nella specie, "altri giusti motivi"); e che il dovere di motivare "tutti i provvedimenti giurisdizionali", imposto dall'art. 111 comma 1 Cost. quale garanzia di tipo oggettivo e strutturale risponde come ribadito da recente ed autorevole dottrina, sia ad una "finalita' endroprocessuale", volta a prevenire qualsiasi abuso del potere giudiziario in correlazione finalistica con il principio di legalita', realizzando la "trasparenza" e la "controllabilita'" esterna delle attivita' giurisdizionali da parte del popolo sovrano nel cui nome la giustizia viene amministrata (artt. 1 comma 2 e 101 comma 2 Cost.), sia una "finalita' endoprocessuale", volta a realizzare un adeguato esercizio dei diritti di difesa nei confronti della stessa decisione e nei giudizi di impugnazione - ne consegue che il potere discrezionale di compensazione delle spese processuali in tanto puo' ritenersi legittimamente esercitato, in quanto risulti affermata e giustificata la sussistenza dei presupposti cui esso e' subordinato. Sicche' - come il mancato esercizio di tale potere non richiede, ovviamente, alcuna motivazione (per giurisprudenza costante: cfr., da ultima, Cass. n. 11770 del 1998 ) - cosi', al contrario, il suo esercizio, per non risolversi in mero arbitrio, deve essere necessariamente motivato ... E cio', tanto piu' nell'ipotesi - quale quella di specie - del concorso di "altri giusti motivi" (diversi, cioe', da quello della "soccombenza reciproca") di compensazione, che, per l'ampiezza della previsione, integra, anche per parte della dottrina, l'unico caso di norma realmente derogatoria del principio generale, posto dall'art. 91 comma 1 cod.proc. civ., della condanna alle spese della parte soccombente. Non senza sottolineare - sempre sotto il profilo della conformita' dell'orientamento dominante all'art. 111 comma 1 Cost. - l'intrinseca contraddittorieta' tra affermazione di insindacabilita', anche in carenza di motivazione, della decisione di compensazione delle spese, ed affermazione della sua sindacabilita', per illogicita' e/o erroneita' e/o contradditiorieta' dei motivi "specifici" eventualmente addotti dal giudice: infatti - a parte ogni considerazione sulle prassi sostanzialmente arbitrarie, invalse presso gli uffici giudiziari in corriva applicazione dell'orientamento dominante - se siffatta decisione non necessita di alcuna motivazione, questa e' per definizione, sempre non doverosa e, percio', sempre insindacabile. Ed infine: l'esercizio "arbitrario", nel senso ora precisato, del potere discrezionale di compensazione delle spese processuali finisce con il risolversi - nei non pochi casi, quale quello di specie, in cui il valore della causa sia di non rilevante entita', ovvero risulti, in concreto, economicamente incomparabile rispetto alle spese processuali necessarie per instaurarla e per condurla a termine; o in quelli in cui, comunque, una parte ha avuto totalmente ragione come nella specie - nel sostanziale diniego, o dei diritto alla tutela giurisdizionale (soprattutto de minimis), ovvero dell'effettiva realizzazione del diritto sostanziale accertato e riconosciuto in giudizio: vale a dire nella palese violazione sia dell'art. 24 comma 1 Cost. - il quale, garantendo a tutti la tutela giurisdizionale, non puo' non garantire anche il soddisfacimento "EFFETTIVO" di quel diritto (cfr., ad es., Corte costituzionale, e pluribus, sentt. n. 419 dei 1995 e 26 del 1999), anche attraverso il rigoroso rispetto della "legalita' processuale" - sia, in definitiva, del fondamentale principio, secondo cui il processo non deve comunque andare a danno della parte che ha (avuto) ragione». Si sottolinea che questa sentenza della Cassazione e' stata accolta da un unanime coro di euforici consensi da parte di tutti gli operatori giuridici, che non hanno mancato di sottolinearne la sagacia e il coraggio, perche' ha finalmente fornito una interpretazione della norma sicuramente conforme ai dettami dell'art. 24 e dell'art. 111 della Costituzione, tentando in tal modo di arginare il diffuso malcostume di procedere a compensazioni del tutto arbitrarie e del tutto immotivate (o, spesso, motivate da ragioni non palesabili), sovente foriere di conseguenze a dir poco grottesche (la «parte vittoriosa», in casi estremi e documentati, si e' trovata a sborsare, per far fronte ai propri oneri processuali, spese di ben 65 volte superiori al valore della «posta in gioco», e questo solo perche' «colpevole» di aver vinto la causa). Purtroppo, a distanza di ben quattro anni dalla pronuncia 4455/1999, si deve constatare che la Cassazione non ha affatto seguito il nuovo indirizzo e, anzi, l'ha costantemente disatteso, contraddetto e sconfessato, giungendo ad affermare, nella sentenza n. 11597 del 20 agosto 2002, che «il giudice puo' compensare le spese processuali per giusti motivi senza obbligo di specificarli», che «non trova applicazione in tema di compensazione per giusti motivi il principio sancito dall'art. 111 della Cost. secondo cui ogni provvedimento giurisdizionale deve essere motivato» e che, infine, «il potere del giudice di compensare le spese processuali per giusti motivi (non esposti e non motivati n.d.r.) non e' in contrasto con il principio dettato dall'art. 24 della Cost., giacche' il provvedimento di compensazione non costituisce ostacolo alla difesa di propri diritti, non potendosi estendere la garanzia costituzionale della effettivita' della tutela giurisdizionale sino a ricomprendervi anche la condanna del soccombente». Alla luce di questa incontestabile realta' del «diritto vivente», pertanto, si impone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale perche' giudichi sulla conformita' dell'art. 92 c.p.c., cosi' interpretato, con i canoni costituzionali sanciti dall'art. 24 e dall'art. 111 della Costituzione, trattandosi di questioni manifestamente non infondate e, anzi, tali ritenute dalla Cassazione stessa nella sentenza n. 4455 del 1999. In particolare il remittente ritiene che le motivazioni adotte dalla Cassazione nella sentenza n. 4455 del 1999 siano pienamente condivisibili e rispondano, nella sostanza, a questo iter logico: 1°) l'art. 24 della Costituzione accorda ai cittadini il diritto di agire in giudizio per ottenere la tutela dei diritti che, a cagione del comportamento della parte convenuta, sono rimasti insoddisfatti: il ricorso alle vie giudiziarie, peraltro, e' l'unica alternativa consentita dalla legge, essendo vietato dal codice penale l'esercizio arbitrario delle proprie ragioni; 2°) il ricorso alle vie giudiziarie non e' gratuito, bensi' altamente oneroso, sia sotto il profilo tributario sia sotto il profilo degli onorari e delle competenze per le prestazioni rese dagli avvocati e, all'occorrenza, dai consulenti d'ufficio: pertanto vige la regola (art. 91 c.p.c.), sostanzialmente conforme al dettato dell'art. 24 della Costituzione, secondo cui le spese processuali affrontate dalla parte vittoriosa debbono gravare sulla parte perdente che, col proprio comportamento inottemperante, ha dato origine alla causa civile; 3°) questa regola puo' trovare una deroga nella sola ipotesi, prevista dal comma 2 dell'art. 92 del c.p.c., in cui il giudice ravvisi «giusti motivi» per compensare le spese a discapito della parte vittoriosa; 4°) la «compensazione per giusti motivi» viene ad incidere, in modo inconfutabile, sull'«effettivita» del diritto tutelato in via giudiziaria, in quanto ne menoma il riconoscimento sotto il profilo economico (in casi estremi la menomazione e' totale: in casi ancor piu' estremi il mancato riconoscimento del diritto al rimborso delle spese, che superano, di gran lunga, il valore della posta in gioco, si risolve in una beffa per la parte vittoriosa); 5°) in considerazione degli innegabili effetti negativi della compensazione delle spese sull'effettivita' della tutela giudiziaria dei diritti, la legge impone che la compensazione possa esser disposta, ai danni della parte vittoriosa (e, quindi, del diritto riconosciutole), solo se ricorrono «giusti motivi»; 6°) trattandosi di «motivi» che vengono ad incidere sulla tutela reale ed effettiva dei diritti riconosciuti, il giudice deve necessariamente esporre, in modo esplicito e coerente, quali siano i motivi che giustifichino, nel caso di specie, il sacrificio, parziale o totale, del diritto azionato: in caso contrario, infatti, la scelta giurisdizionale del giudice si risolverebbe in un mero arbitrio, in flagrante violazione dell'art. 111 della Costituzione che, imponendo ai giudici l'obbligo di motivare tutti i provvedimenti giurisdizionali, mira a prevenire qualsiasi abuso del potere giudiziario, altresi' realizzando - a favore delle parti processuali - il diritto alla trasparenza e alla controllabilita' delle decisioni che, in modo diretto o in modo indiretto, vengono comunque ad incidere sui diritti di cui si e' chiesta, in via necessariamente giudiziaria, la tutela. E la riprova degli arbitri che vengono soventemente perpetrati la si puo' acquisire attraverso la disamina dei relativi provvedimenti, che spaziano dalle compensazioni routinariamente disposte nei giudizi in cui e' coinvolta una «certa» parte (per lo piu' enti pubblici), sino a giungere ai giudizi in cui, pur ricorrendo motivi che impongono, obbligatoriamente, la compensazione delle spese processuali, la parte perdente viene tuttavia gravata dalla condanna: tale si rivela il caso, a dir poco grottesco, della parte che si e' vista respingere il ricorso - e percio' stesso condannata alle spese - perche' la controparte - cioe' lo Stato - aveva fornito, nel corso di giudizio, un «interpretazione autentica» diametralmente opposta alle decisioni gia' prese dai giudici in casi identici, cosi' di fatto imponendo al giudice di «decidere la controversia in suo favore». D'altra parte, non e' fuor di luogo rimarcare che l'art. 323 del codice penale sanziona come reato di abuso d'ufficio il comportamento del pubblico ufficiale che, nello svolgimento delle sue funzioni, intenzionalmente procura ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto: se si ammette che la «discrezionalita» della decisione in merito alla soccombenza processuale possa spingersi sino al puro arbitrio, cioe' sino alla decisione immotivata e insindacabile, di cui il giudice non e' chiamato a risponderne in alcuna sede, questo autorizzerebbe i giudici a procurare vantaggi economici o ad arrecare pregiudizi economici alle parti del processo impunemente senza che ricorra alcun «giusto motivo» o, magari, per soddisfare personali rancori o antipatie. Il che appare francamente non giustificabile. Da quanto esposto consegue che la deroga al principio legale della soccombenza processuale deve essere necessariamente motivata, come imposto dall'art. 111 della Costituzione, e che essa, poi, deve rispondere a motivi realmente giusti, tali, cioe', da giustificare che una parte, seppur vittoriosa, debba sopportare, in tutto o in parte, le spese affrontate per la sua difesa. La rilevanza La questione che si solleva appare rilevante ai fini della decisione definitiva in ordine alla soccombenza processuale, essendo ben chiaro che, ove si ritenga che la compensazione arbitraria delle spese processuali, attuata con provvedimenti giurisdizionali immotivati e, quindi, insuscettibili di controllo e di rimedi impugnatori da parte degli interessati, sia conforme agli artt. 24 e 1111 della Costituzione, questo giudice remittente si pronuncera' in questo processo (come in tutti i processi a venire) senza esporre alcuna motivazione in merito alla scelta di compensare, parzialmente o totalmente, le spese processuali a discapito della parte vittoriosa, cosi' derogando, per motivazioni che resteranno occulte e insuscettibili di sindacato, al principio legale della soccombenza processuale.
P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 92, secondo comma, del codice di procedura civile, per violazione degli artt. 24 e 111 della Costituzione, nella parte in cui consente al giudice la facolta' di compensare, in tutto o in parte e ai danni della parte rimasta vittoriosa, le spese processuali, senza esporre espressa e giustificata motivazione dei «giusti motivi» di tale decisione. Conseguentemente: ordina l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; sospende il presente giudizio; dispone che, a cura della cancelleria, copia della presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento nonche' alle parti in causa. Camerino, addi' 7 luglio 2003 Il giudice monocratico: Tosti 04C0505