N. 752 ORDINANZA (Atto di promovimento) 17 luglio 2004

Ordinanza  emessa  il  17  luglio  2004 dalla Corte di cassazione sul
ricorso proposto da C. A. ed altro contro Procuratore generale presso
la Corte d'appello di Milano

Stato  civile - Cognome dei figli legittimi - Acquisto automatico del
  cognome  del  padre pur in presenza di diversa volonta' dei coniugi
  legittimamente  manifestata  -  Conseguente  impossibilita'  che  i
  coniugi  attribuiscano concordemente al figlio il cognome materno -
  Lesione  dei  diritti  inviolabili  dell'uomo  (in  particolare del
  diritto  all'identita'  personale,  di  cui  il  nome  e'  elemento
  essenziale)  -  Violazione  del  principio di eguaglianza e di pari
  dignita'   -   Discriminazione   in   base   al   sesso  -  Lesione
  dell'uguaglianza  giuridica  e morale dei coniugi - Discriminazione
  nei rapporti con i figli.
- Codice  civile,  artt. 143-bis, 236, 237, comma secondo, 262 e 299,
  comma terzo; d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, artt. 33 e 34.
- Costituzione,   artt. 2,   3   e  29,  comma  secondo;  Convenzione
  sull'eliminazione   di   tutte  le  forme  di  discriminazione  nei
  confronti  della  donna,  adottata a New York il 18 dicembre 1979 e
  ratificata    con    legge    14 marzo   1985,   n. 132,   art. 16;
  raccomandazioni  del  Consiglio d'Europa n. 1271 del 1995 e n. 1362
  del 1998.
(GU n.40 del 13-10-2004 )
                       LA CORTE DI CASSAZIONE

    Ha  pronunciato  la seguente ordinanza interlocutoria sul ricorso
proposto  da:  C.  A.  e F. L. elettivamente domiciliati in Roma, via
Panama,  74, presso l'avvocato Gianni Emilio Iacobelli, rappresentati
e  difesi  dagli avvocati Luigi Palmieri e Luigi Fazzo, giusta delega
in calce al ricorso, ricorrenti;
    Contro  procuratore generale presso la Corte d'appello di Milano,
intimato;  avverso  la  sentenza  n. 1464/02 della Corte d'appello di
Milano, depositata il 4 giugno 2002;
    Udita  la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
26 febbraio 2004 dal consigliere dott.ssa Maria Gabriella Luccioli;
    Udito per il ricorrente l'avvocato Corrado De Simone, con delega,
che ha chiesto l'accoglimento del ricorso;
    Udito  il  p.m.  in  persona  del  sostituto procuratore generale
dott.ssa  Antonietta  Carestia  che  ha  concluso  per il rigetto del
ricorso.

                           Rileva in fatto

    Con sentenza del 24 maggio - 4 giugno 2002 la Corte di appello di
Milano  ha  confermato  la  sentenza  in  data  6 - 8 giugno 2001 del
Tribunale  di Milano che aveva rigettato la domanda dei coniugi L. F.
ed  A. C., diretta ad ottenere la rettificazione dell'atto di nascita
della  propria  figlia minore M. F. nel senso che le fosse imposto il
cognome  materno  in luogo  di quello del padre, risultante dall'atto
formato dal competente ufficiale dello stato civile, in contrasto con
la  volonta'  espressa  dal  padre  al momento della dichiarazione di
nascita.
    La   Corte   territoriale   ha  osservato  che  il  silenzio  del
legislatore  della  riforma  del  diritto  di  famiglia  in ordine al
cognome  dei  figli  legittimi,  pur  a  fronte  della modifica dell'
art. 144  c.c.  relativo  al  cognome  della  moglie,  consentiva  di
desumere  la  persistente  validita'  di  una  norma  consuetudinaria
saldamente   radicata   nella  coscienza  e  nella  percezione  della
collettivita';  che neppure in sede di riforma dell'ordinamento dello
stato  civile  il  legislatore aveva ritenuto necessario inserire una
previsione  esplicita  sul  punto, nonostante avesse fatto oggetto di
innovativa   regolamentazione   talune   problematiche  afferenti  il
cognome;  che  anche  la Corte costituzionale aveva in piu' occasioni
affermato  che  la  mancata previsione della facolta' per la madre di
trasmettere  il  proprio  cognome  ai  figli legittimi non si pone in
contrasto  ne' con l'art. 3 ne' con l'art. 29 Cost. ed aveva al tempo
stesso  rilevato  che l'opportunita' di introdurre un diverso sistema
di  determinazione  del cognome, ugualmente idoneo a salvaguardare il
principio    dell'unita'    familiare    senza    comprimere   quello
dell'uguaglianza dei coniugi, va ricondotta alla competenza esclusiva
del  legislatore;  che  in  adesione  a tale orientamento erano stati
presentati in Parlamento numerosi progetti di legge, alcuni dei quali
tuttora  all'esame del Senato o della Camera; che infine nell'attuale
assetto  normativo  il  consentire,  a  mera  richiesta  dei  coniugi
genitori,  la disapplicazione della norma consuetudinaria in discorso
comporterebbe  riflessi negativi in ordine all' interesse della prole
minorenne,  potendo  questa  essere  individuata,  proprio  in  forza
dell'attribuzione  del  solo  cognome materno, come prole naturale, e
non legittima.
    Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione A. C.
e  L.  F. formulando articolate censure. Essi in particolare deducono
che la Corte di appello, nel ritenere l'esistenza di una consuetudine
circa  l'attribuzione al figlio del cognome paterno, non ha esaminato
la ricorrenza delle condizioni perche' un uso siffatto possa assumere
quel  valore  normativo,  come  fonte del diritto, che ne giustifichi
l'applicazione  con  forza  di  legge.  Osservano  che  il  principio
fondamentale  di parita' dettato dall'art. 3 Cost., l'altro principio
fondamentale  di  eguaglianza  morale  e giuridica dei coniugi, con i
limiti  stabiliti  dalla  legge  a  garanzia  dell' unita' familiare,
sancito  dall'art. 29 Cost., il disposto dell' art. 143, comma primo,
c.c.,  secondo  il  quale  con  il  matrimonio  il marito e la moglie
acquistano  gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri, nonche',
sul piano delle norme sopranazionali, le chiare indicazioni contenute
nel preambolo e negli artt. 2 e 16 della Dichiarazione universale dei
diritti  dell'uomo  del  10  dicembre  1948,  nonche' l'art. 14 della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta'  fondamentali, l'art. 3, n. 2, del Trattato istitutivo della
Comunita' europea, ed ancora la Convenzione sull'eliminazione di ogni
forma   di   discriminazione   nei  confronti  della  donna  adottata
dall'Assemblea  Generale  delle  Nazioni  Unite  il 18 dicembre 1979,
ratificata   in  Italia  con  legge  14  marzo  1985  n. 132,  ed  in
particolare il suo art. 16 lettera g), che impone agli Stati parte di
assicurare  gli  stessi  diritti  personali  al marito e alla moglie,
compresa  la  scelta  del  cognome, non consentono di attribuire alla
prassi  in  discorso  carattere  normativo.  Rilevano  ancora  che la
sentenza impugnata, nel disattendere la tesi degli appellanti secondo
la  quale  la  disparita'  di trattamento dei coniugi in relazione al
cognome   del   figlio  incorre  nel  divieto  di  discriminazione  e
costituisce una deroga al principio di parita' non giustificata nelle
leggi,  ha errato nel ritenere operante nella fattispecie in esame la
riserva  di  deroga  al  principio di parita' contenuta nel capoverso
dell'art. 29  Cost.,  non  configurandosi  alcun attentato all'unita'
familiare per effetto dell'attribuzione del cognome materno, anziche'
di quello paterno, sulla base di una concorde volonta' dei coniugi.

                        Considera in diritto

    Come  ha  posto in evidenza la sentenza impugnata, non esiste nel
nostro  ordinamento  una specifica disposizione diretta ad attribuire
ai  figli  legittimi  il cognome paterno. La norma di cui all' art. 6
c.c.,  che sancisce il diritto di ognuno ad un nome sin dalla nascita
ed  anche  oltre la morte, esprime un preciso favore alla certezza ed
alla  stabilita' del nome, nel binomio comprensivo del cognome (comma
2),  anche  in  relazione  al  concorrente  interesse  pubblico  alla
certezza  degli status ed alla corretta individuazione delle persone,
ma non detta alcuna regola in ordine alla sua acquisizione.
        Che  il  diritto  al  nome, indicato anche nell'art. 22 Cost.
come  bene  oggetto  di  autonomo diritto, si qualifichi come diritto
insopprimibile  della  persona,  nella  sua  specifica  attitudine  a
delinearne  l'identita',  sia  nella  sua  dimensione individuale che
nella  sua proiezione esterna, costituisce un dato da tempo acquisito
nella  giurisprudenza e nella dottrina civilistica: tale impostazione
e'  chiaramente  espressa  nelle  sentenze della Corte costituzionale
n. 13  del  1994,  n. 297  del  1996  e  n. 120  del  2001, che hanno
affermato  il diritto di ogni persona a conservare il cognome che sia
divenuto   autonomo  segno  distintivo  della  sua  identita',  cosi'
mantenendo   attraverso   il   cognome  l'identita'  fino  ad  allora
posseduta,  anche quando siano sopravvenuti eventi tali da comportare
il cambiamento di quel cognome.
    La  normativa codicistica vigente prima della riforma del diritto
di  famiglia,  nel  regolare  soltanto,  nell'ambito  della  famiglia
legittima,  il  cognome della moglie, disponeva all'art. 144 c.c., in
piena  coerenza  con il riconoscimento al marito - nella stessa norma
sancito  -  della  qualita'  di capo della famiglia, che la moglie ne
assumesse  il cognome, cosi' chiaramente ponendo il cognome dell'uomo
quale elemento identificativo del nucleo familiare.
    La   legge   di  riforma  n. 151  del  1975  ha  sostituito  tale
disposizione  con  l'art. 143-bis  c.c., ai sensi del quale la moglie
aggiunge al proprio cognome quello del marito. Nonostante l'apparente
incisivita'  della  nuova  formulazione,  essa  deve  considerarsi di
modesto spessore, e comunque non decisiva ai fini del problema qui in
esame,  tenuto conto da un lato che anche nel vigore della precedente
normativa  la  giurisprudenza di questa suprema Corte aveva ravvisato
il  diritto della moglie a conservare il proprio cognome, aggiungendo
ad  esso  quello  del  marito  (v.  Cass.  1961 n. 1692), considerato
d'altro  lato che anche la disposizione novellata evidenzia, sia pure
in  termini  attenuati rispetto al passato, l'opzione del legislatore
verso  il cognome del marito come identificativo della nuova famiglia
costituita,  in  quanto  unico  cognome  comune, cosi' rimarcando una
posizione di evidente disparita' tra i coniugi.
    Del  tutto coerente con tale disciplina e' l'art. 5 comma 2 della
legge  sul  divorzio, nel testo riformato dalla legge n. 74 del 1987,
il  quale dispone che con lo scioglimento del vincolo la moglie perde
il  cognome  che  aveva aggiunto al proprio a seguito del matrimonio,
salva  la  facolta',  prevista dal comma successivo, di conservare il
cognome  del  marito,  quando  sussista  un interesse suo o dei figli
meritevole di tutela.
    Quanto  al cognome dei figli legittimi, se l'assunzione di quello
paterno  si configurava nella vigenza delle disposizioni codicistiche
tanto   aderente  al  modello  tradizionale  di  famiglia  incentrato
sull'autorita'  del  marito/padre,  da  far  apparire  superflua  una
specifica  previsione normativa, nel sistema delineato dalla legge di
riforma del 1975, ampiamente ispirata a principi di parita' e di pari
dignita'  tra  i  coniugi,  la  mancanza di una norma espressa appare
assai  meno giustificata, e puo' trovare ragione soltanto nella forza
di  radicati  condizionamenti  culturali in ordine alla differenza di
ruoli  e  di  poteri  all'interno  del  nucleo  familiare,  che hanno
consentito  di  privilegiare  da  tempo  immemorabile  anche  in sede
ereditaria  la  linea  maschile attraverso il perpetuarsi del cognome
paterno.
    Ed  anche il recente d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, che detta il
regolamento  per  la  revisione e la semplificazione dell'ordinamento
dello  stato civile, non contiene alcuna specifica disposizione circa
l'assunzione  del  cognome  da parte del figlio legittimo, prevedendo
all'art. 29, n. 2, in relazione alla formazione dell'atto di nascita,
che  l'ufficiale  dello  stato  civile  indichi nell'atto stesso (tra
l'altro) le generalita' del padre e della madre.
    E  tuttavia  ritiene il Collegio che una norma nel senso indicato
sia  chiaramente desumibile dal sistema, in quanto presupposta da una
serie di disposizioni regolatrici di fattispecie diverse.
    Ed  invero  l'art. 237 c.c. pone tra gli elementi costitutivi del
possesso  di  stato  il  fatto che la persona abbia sempre portato il
cognome del padre che pretende di avere.
    L'art. 262   c.c.,   in  materia  di  riconoscimento  del  figlio
naturale, dispone al primo comma che il riconoscimento contestuale da
parte di entrambi i genitori comporta che il figlio assuma il cognome
del  padre,  in  ragione  di  una  evidente equiparazione della prole
naturale riconosciuta alla prole legittima. Ed anche il secondo comma
dell'art. 262  c.  c.,  ai  sensi  del  quale  in  caso di successivo
riconoscimento  del  padre o successivo accertamento della paternita'
il  figlio  puo'  assumere  il  cognome  del  padre,  aggiungendolo o
sostituendolo  a  quello  materno,  sottende  chiaramente,  pur  dopo
l'intervento  additivo  della  Corte  costituzionale  con la sentenza
n. 297 del 1996, una piu' forte rilevanza del cognome paterno.
    Inoltre  l'art.  299  c.c.  in  tema  di  adozione di maggiorenni
prevede  al  terzo  comma  che  se  l'adozione e' compiuta da coniugi
l'adottato  assume  il  cognome  del  marito,  ancora una volta nello
spirito della piena equiparazione della posizione del figlio adottivo
a quella del figlio legittimo.
    Analogamente,  una  norma  attributiva  al  figlio  legittimo del
cognome  paterno  appariva presupposta dalla disposizione di cui all'
art. 72  comma  1  del  r.d.  9  luglio  1939 n. 1238, che vietava di
imporre al bambino lo stesso prenome del padre vivente, all' evidente
scopo  di  evitare  omonimie per avere essi gia' il medesimo cognome,
cosi'  come  e'  chiaramente  sottintesa  dal corrispondente art. 34,
n. 1,  del  d.P.R.  n. 396  del 2000, nonche' dall'art. 33, n. 1, del
citato d.P.R., che attribuisce al figlio legittimato (salva l'opzione
esercitabile dal soggetto maggiorenne) il cognome del padre.
    Da  tali  pur  eterogenee previsioni si desume l'immanenza di una
norma  che  non ha trovato corpo in una disposizione espressa, ma che
e'  pur presente nel sistema e lo completa, della cui vigenza e forza
imperativa  non  vi e' ragione di dubitare. Sulla base di tale norma,
che  certamente si configura come traduzione in regola dello Stato di
un'usanza  consolidata nel tempo, il cognome del figlio legittimo non
si trasmette dal padre al figlio, ma si estende ipso iure da quello a
questo.
    L'individuazione   di   una   norma  siffatta,  nella  necessaria
correlazione  con il disposto dell'art. 6 c.c., il quale riconosce il
diritto  di  ogni  persona  al  nome  che le e' per legge attribuito,
induce  a dissentire dall'opinione espressa nella sentenza impugnata,
sostenuta  anche  da  parte della dottrina, che ravvisa il fondamento
della  attribuzione  al  figlio  legittimo del cognome paterno in una
consuetudine.  E'  peraltro  appena  il  caso  di  ricordare  che  la
consuetudine,  quale  strumento  di formazione spontanea del diritto,
postula  una  reiterazione e continuita' di comportamenti conformi ad
una  medesima  regola da parte della generalita' dei consociati nella
convinzione della loro doverosita': tali elementi non sono certamente
riscontrabili  nella  vicenda  dell'attribuzione del cognome paterno,
segnata  da un'attivita' vincolata dell'ufficiale dello stato civile,
a  fronte  della  quale  la  volonta' ed il convincimento dei singoli
dichiaranti non trovano alcuno spazio.
    Va altresi' rilevato che una consuetudine nel senso indicato, ove
ravvisabile,  dovrebbe considerarsi contra legem, per il suo evidente
contrasto con le norme del 1975 che delineano su basi paritarie nuovo
modello di famiglia e con i principi costituzionali di riferimento, e
sarebbe  quindi  suscettibile di disapplicazione diretta da parte del
giudice,  atteso  che, come e' noto, l'indagine sulla legittimita' di
norme consuetudinarie, alla stregua dei precetti costituzionali e dei
principi generali dell'ordinamento, spetta all' autorita' giudiziaria
che sia chiamata a farne applicazione, non rientrando dette norme tra
le  leggi o gli atti aventi forza di legge per i quali e' devoluto il
giudizio di legittimita' alla Corte costituzionale.
    Tanto ritenuto in diritto, ritiene il Collegio di dover sollevare
di  ufficio  la  questione di legittimita' costituzionale della norma
cosi'  individuata,  in  quanto  non  consente  che i coniugi possano
scegliere  concordemente  il  cognome  da  attribuire  ai  figli, per
contrasto con gli artt. 2, 3 e 29, comma 2, Cost.
    La  questione  e'  certamente  rilevante  nel  presente giudizio,
atteso   che  l'applicazione  della  norma  di  cui  si  sospetta  la
incostituzionalita'  comporterebbe inevitabilmente la negazione della
pretesa   fatta   valere   dagli   attori,  diretta  ad  ottenere  il
riconoscimento  del  proprio  diritto  ad attribuire alla figlia, per
loro  concorde  volonta', il cognome materno. Non ignora questa Corte
che  il giudice della legittimita' delle leggi si e' gia' espresso al
riguardo, dichiarando in due occasioni, con le ordinanze n. 176 e 586
del  1988,  manifestamente inammissibile la questione di legittimita'
costituzionale  (nella  prima  pronuncia) degli artt. 71, 72 e 73 del
r.d.  n. 1238 del 1939, nonche' (nella seconda pronuncia) degli artt.
73  del  r.d. n. 1238 del 1939, 6, 143-bis, 236, 237, comma 2, e 262,
comma  2,  c.c.,  nella  parte  in  cui non prevedono la facolta' dei
genitori  di  determinare  il  cognome  del  proprio figlio legittimo
mediante  l'imposizione di entrambi i loro cognomi, ne' il diritto di
quest'ultimo  di  assumere anche il cognome materno: in tali pronunce
la   Corte   costituzionale   ha   rilevato   che   l'interesse  alla
conservazione  dell'unita'  familiare tutelato dall'art. 29, comma 2,
Cost.  sarebbe  gravemente  pregiudicato se il cognome dei figli nati
dal  matrimonio  non  fosse  prestabilito  fin  dal momento dell'atto
costitutivo  della  famiglia,  cosi'  da  essere non gia' imposto dai
genitori  ai  figli,  ma  esteso  ope  legis,  ed  al tempo stesso ha
riconosciuto come del tutto compatibile con il quadro costituzionale,
ed anzi maggiormente aderente all'evoluzione della coscienza sociale,
una  sostituzione  della regola vigente con un criterio diverso, piu'
rispettoso  dell'autonomia  dei  coniugi ed idoneo a conciliare i due
principi  sanciti  dall'art.  29  Cost.,  ma  ha  ritenuto  che  tale
innovazione  normativa,  anche  per  la  pluralita'  delle  soluzioni
adottabili, appartenga alla esclusiva competenza del conditor iuris.
    E'  altresi'  noto  alla  Corte che varie iniziative parlamentari
dirette   a   modificare   il   sistema  attuale  cosi'  da  renderlo
corrispondente   al  canone  fondamentale  di  uguaglianza  morale  e
giuridica  dei  coniugi  e  da  rafforzare  il  principio di liberta'
all'interno del nucleo familiare sono state in passato e sono tuttora
all'esame del Parlamento.
    E  tuttavia  ritiene  il  Collegio che il lungo periodo trascorso
dalle richiamate pronunce della Corte costituzionale, il maturarsi di
una  diversa  sensibilita' nella collettivita' e di diversi valori di
riferimento,  connessi alle profonde trasformazioni sociali frattanto
intervenute,    nonche'    gli   impegni   imposti   da   convenzioni
internazionali  e  le  sollecitazioni  provenienti  dalle istituzioni
comunitarie  richiedano  una  rinnovata valutazione della conformita'
della norma denunciata agli artt. 2, 3 e 29, comma 2. Cost.
    Piu'  specificamente  va  ricordato,  in  relazione ai profili da
ultimo  richiamati,  che la Convenzione sull'eliminazione di tutte le
forme  di  discriminazione  nei  confronti della donna adottata a New
York  il  18  dicembre  1979, ratificata in Italia con legge 14 marzo
1985  n. 132,  all'art. 16 ha impegnato gli Stati aderenti a prendere
tutte  le  misure  adeguate  per  eliminare  la  discriminazione  nei
confronti  della donna in tutte le questioni derivanti dal matrimonio
e  nei  rapporti  familiari,  ed  in  particolare  ad  assicurare, in
condizioni  di parita' con gli uomini, (lettera g) gli stessi diritti
personali  al marito e alla moglie, compresa la scelta del cognome, e
che  con  le  raccomandazioni  n. 1271  del 1995 e a 1362 del 1998 il
Consiglio  d'Europa,  affermato  che  il  mantenimento  di previsioni
discriminatorie  tra  donne e uomini riguardo alla scelta del nome da
famiglia non e' compatibile con il principio di eguaglianza sostenuto
dal  Consiglio  stesso,  ha  raccomandato  agli Stati inadempienti di
realizzare  la  piena eguaglianza tra madre e padre nell'attribuzione
del  cognome  dei  loro  figli, di assicurare la piena eguaglianza in
occasione  del matrimonio in relazione alla scelta del cognome comune
ai due partners, di eliminare ogni discriminazione nel sistema legale
per  il  conferimento  del  cognome  tra  figli  nati nel e fuori del
matrimonio
    Non    manifestamente    infondata   appare   la   questione   di
illegittimita' della norma in esame per contrasto con l'art. 2 Cost.,
ai  sensi  del  quale  la Repubblica riconosce e garantisce i diritti
inviolabili  dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali
ove  si svolge la sua personalita'. Si tratta, come e' noto, di norma
immediatamente  precettiva,  che  non  costituisce  mera  sintesi dei
diritti  espressamente  tutelati  dalla  Carta costituzionale e dalle
disposizioni  del  codice  civile, ma si pone come clausola aperta ad
altre  liberta'  e  ad altri valori emergenti nel tessuto sociale. La
sua  configurazione  come  norma  a  fattispecie  aperta,  diretta  a
recepire  e  garantire le nuove esigenze di tutela della persona ed a
conferire  agli  interessi  sottesi  la  dignita'  di  nuovi  diritti
costituzionali,  e'  chiaramente enunciata nella giurisprudenza della
Corte costituzionale (v. Corte cost. 1987 n. 215 e 561).
    Come  si  e'  innanzi  osservato,  tra  i  diritti che formano il
patrimonio  irretrattabile  della  persona, riconducibili al catalogo
cui  l'art. 2  Cost.  offre  tutela  costituzionale,  va  inserito il
diritto  all'identita'  personale,  del quale il nome - indicato come
bene  oggetto  di  autonomo  diritto  dal  successivo art. 22 Cost. -
costituisce  il  primo  e piu' immediato elemento caratterizzante, in
quanto  espressione  emblematica  della identita' della persona e suo
segno  distintivo  nella  vita  di  relazione  (v.  Corte  cost. 2001
n. 120).
    In  particolare,  nella  richiamata  sentenza  n. 13  del 1994 il
giudice  della  legittimita'  delle  leggi ha rilevato che il cognome
gode  di  una  distinta  tutela anche nella sua funzione di strumento
identificativo  della  persona,  e  che,  in quanto tale, costituisce
parte  essenziale  ed  irrinunciabile  della  personalita',  e  nella
successiva  decisione  n. 297  del  1996  ha affermato che il diritto
all'identita'  personale  costituisce  tipico  diritto  fondamentale,
rientrando   esso   tra   «i   diritti   che  formano  il  patrimonio
irretrattabile  della  persona umana», sicche' la sua lesione integra
violazione dell'art. 2.
    La  tutela  costituzionale  offerta  dall'art. 2 Cost. ai diritti
inviolabili dell' uomo «nelle formazioni sociali ove si svolge la sua
personalita»,  nella loro funzione essenziale di luoghi di promozione
della  personalita'  dei  singoli componenti, esige che il diritto in
discorso  sia  garantito,  nell'ambito  di  quella formazione sociale
primaria  che  e'  la  famiglia  (cosi' Corte cost. 2002 n. 484; 1988
n. 183),   nella   duplice  direzione  del  diritto  della  madre  di
trasmettere  il  proprio  cognome al figlio e di quello del figlio di
acquisire  segni di identificazione rispetto ad entrambi i genitori e
di  testimoniare  la continuita' della sua storia familiare anche con
riferimento alla linea materna.
    Il dubbio di contrasto della norma in esame con l'art. 3 Cost. si
fonda   sull'evidente   rilievo  che  l'attribuzione,  automatica  ed
indefettibile  ai  figli  del  cognome  del  marito si risolve in una
discriminazione  ed  in  una violazione del principio fondamentale di
eguaglianza  e  di  pari  dignita',  che  nella  legge di riforma del
diritto  di famiglia trova espressione e sostanza sia con riferimento
ai  rapporti  tra  i  coniugi,  che  ai  sensi  dell'  art. 143  c.c.
acquistano  gli  stessi diritti e assumono i medesimi doveri, sia con
riguardo  alla  relazione  con  i  figli,  nei  confronti  dei  quali
l'art. 147 c.c. impone ai coniugi obblighi di identico contenuto.
    E'  d'altro canto evidente che un sistema normativo nel quale sia
consentita  l'attribuzione  al figlio (anche) del cognome della madre
vale  a  realizzare  il principio di eguaglianza non solo dei coniugi
tra  loro,  ma anche rispetto alla prole, esprimendosi l'unita' della
famiglia,  quale  comunita'  di eguali, non solo nella sua dimensione
orizzontale, ma anche nel rapporto che lega genitori e figli.
    Altrettanto  forte  e'  il  sospetto  di contrasto con 1'art. 29,
comma  2,  Cost., atteso che il principio di eguaglianza sul quale il
matrimonio   e'   ordinato  costituisce  esplicazione  del  principio
fondamentale   posto  dall'art. 3  della  Costituzione.  Peraltro  il
necessario  bilanciamento  tra  l'esigenza  di  tutela  dell'  unita'
familiare,  cui  e' riconosciuta copertura costituzionale, e la piena
realizzazione  del  principio di eguaglianza non appare correttamente
perseguibile   attraverso   una   disposizione   cosi'   marcatamente
discriminatoria,   tenuto   anche   conto   che   -   come  la  Corte
costituzionale  ha  avuto  occasione  di  affermare gia' nella remota
sentenza  n. 133  del  1970, con riferimento ai rapporti patrimoniali
tra  i  coniugi  - e' proprio la diseguaglianza a mettere in pericolo
l'unita'  familiare, che al contrario si rafforza nella misura in cui
i  rapporti  tra i coniugi siano governati dalla solidarieta' e dalla
parita'.
    Appare  pertanto da rifiutare una lettura dell' art. 29, comma 2,
Cost.  tesa a contrapporre l'esigenza di tutela dell'unita' familiare
alla  piena espansione del principio di eguaglianza tra i coniugi: in
quanto funzionale alla realizzazione dell'unita' della famiglia, tale
principio non puo' connotarsi esclusivamente in chiave negativa, come
divieto  di  ogni discriminazione fondata sul sesso, ma implica anche
il  riconoscimento  di  un'eguale  responsabilita'  dei coniugi nello
svolgimento  in  concreto  dei  rapporti familiari, nel quadro di una
reciproca solidarieta'.
    Sembra  al  Collegio  che il limite all'eguaglianza dei coniugi a
tutela  dell'unita'  della  famiglia  possa  trovare  giustificazione
costituzionale solo in presenza di particolari situazioni che rendano
indispensabile  una specifica previsione normativa, e che comunque in
ipotesi  siffatte  la  soluzione  legislativa  che  privilegi uno dei
coniugi  rispetto all'altro non possa essere mai ancorata al criterio
del  sesso  di  appartenenza del coniuge designato, non tollerando il
principio  di  cui  all'  art. 3  Cost.,  ne'  le  varie  convenzioni
internazionali   sui   diritti   umani   cui   l'Italia  ha  aderito,
discriminazioni basate sul genere.
    E'  peraltro  da  dubitare  che  la soluzione adottata nel nostro
ordinamento  sia  effettivamente indispensabile al fine di assicurare
l'unita'   familiare,   non  intendendosi  come  le  altre  soluzioni
praticabili, ispirate al criterio della scelta preventiva dei coniugi
-  invocato  nella  fattispecie in esame - ovvero a quello del doppio
cognome  possano  costituire  attentato all'unita' ed alla stabilita'
della famiglia, ed inducendo anzi a ritenere il contrario le numerose
esperienze  di  altri  Paesi  che  gia'  vantano una regolamentazione
rispettosa  del  principio  di  eguaglianza,  a fronte delle quali la
posizione  dell'Italia  e' ormai decisamente minoritaria, quanto meno
in ambito europeo.
    Ne'  puo'  valere a giustificare il mancato rispetto dei principi
costituzionali  innanzi  richiamati  il  rilievo  che l'abbandono del
principio  di  immediata  ed  automatica  attribuzione  di un unico e
predeterminato  cognome  determinerebbe  problemi  ed  incertezze nel
sistema,  sembrando  che  l'esplicazione  del  fondamentale principio
costituzionale  di  eguaglianza  non  possa arrestarsi in presenza di
inconvenienti  pur  seri, peraltro suscettibili di essere agevolmente
risolti  in via legislativa (v. sul punto Corte cost. 1983 n. 30, che
ha  dichiarato  l'illegittimita', per contrasto con gli artt. 3 e 29,
secondo  comma  Cost.,  dell'art. 1  n. 1  della legge 13 giugno 1912
n. 555,  nella  parte  in  cui  non prevedeva che fosse cittadino per
nascita anche il figlio di madre cittadina).
    Deve  pertanto  procedersi  alla sospensione del giudizio ed alla
rimessione degli atti alla Corte costituzionale.
                              P. Q. M.
    Visti gli artt. 134, Cost. e 23 e ss. legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita'  costituzionale  degli artt. 143-bis, 236, 237, comma 2,
262,  299, comma 3 c. c., 33 e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396,
nella  parte  in  cui  prevedono  che  il  figlio  legittimo acquisti
automaticamente il cognome del padre anche quando vi sia in proposito
una  diversa  volonta'  dei  coniugi, legittimamente manifestata, per
contrasto con gli artt. 2, 3 e 29, secondo comma, della Costituzione.
    Sospende  il  giudizio  e  dispone l'immediata trasmissione degli
atti alla Corte costituzionale.
    Ordina  che  la  presente  ordinanza  sia notificata a cura della
cancelleria  alle  parti,  al pubblico ministero ed al Presidente del
Consiglio  dei  ministri  e  sia  comunicata  ai Presidenti delle due
Camere del Parlamento.
    Cosi'  deciso  in Roma nella camera del consiglio della I sezione
civile il 26 febbraio 2004.
                    Il Presidente: Delli Priscoli
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