N. 886 ORDINANZA (Atto di promovimento) 14 luglio 2004

Ordinanza  emessa  il  14  luglio  2004  dal tribunale amministrativo
regionale  del  Lazio  sul  ricorso  proposto da Severini Giuseppe ed
altri contro Presidenza del Consiglio dei ministri

Consiglio  di Stato - Consiglieri vincitori di concorso - Trattamento
  economico  -  Benefici  attribuiti dal nono comma dell'art. 4 della
  legge   n. 425/1984   -   Previsione  con  norma  d'interpretazione
  autentica  dell'abrogazione  di  detta  disposizione  dalla data di
  entrata  in  vigore  del  d.l.  n. 333/1992,  convertito  in  legge
  n. 350/1992   -   Previsione   della   perdita   di  efficacia  dei
  provvedimenti   e  delle  decisioni  di  autorita'  giurisdizionali
  adottati in difformita' dalla predetta interpretazione - Violazione
  del  diritto  di difesa e del principio di tutela giurisdizionale -
  Incidenza  sulla  funzione  del Consiglio di Stato di assicurare la
  tutela   della   giustizia  nell'amministrazione  -  Incidenza  sul
  giudicato formatosi sui ricorsi straordinari.
- Legge  23 dicembre  2000,  n. 388,  art. 50,  comma 4, penultimo ed
  ultimo periodo.
- Costituzione, artt. 3, 24, 100, 103 e 113.
(GU n.45 del 17-11-2004 )
    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza sul ricorso n. 3625/2003
Reg.  Gen.,  proposto  da  Severini  Giuseppe,  Maruotti Luigi, Volpe
Carmine,  Cirillo  Giampiero  Paolo,  Carbone Luigi, Barra Caracciolo
Luciano,  Botto Alessandro, De Nictolis Rosanna e Lipari Marco, tutti
rappresentati   e  difesi  dall'avv.  Celestino  Biagini,  contro  la
Presidenza  del Consiglio dei ministri, in persona del Presidente pro
tempore,  rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato
per l'annullamento:
        della  nota della Presidenza del Consiglio dei ministri del 3
febbraio  2003  che  ha  respinto,  previo  riesame,  le  istanze  di
esecuzione   presentate   dagli   interessati  con  riferimento  alle
decisioni  del Presidente della Repubblica del 27 settembre 1999 loro
relative;
        ove  occorra,  di ogni altro atto di mancata esecuzione delle
suddette  decisioni, e per la condanna della Presidenza del Consiglio
dei  ministri  a  corrispondere ai ricorrenti le somme indicate negli
schemi  trasmessi dalla segreteria generale del Consiglio di Stato in
allegato  alla nota n. 2383 del 26 agosto 2002, o, in alternativa, al
risarcimento  dei  danni  loro  cagionati  rendendosi inadempiente al
dovere di dare tempestiva esecuzione alle medesime decisioni del Capo
dello  Stato  o,  in  estremo  subordine,  perche'  sia  sollevato un
conflitto   di   attribuzione  nei  confronti  della  Presidenza  del
Consiglio dei ministri (art. 100, comma 3, Cost.).
    Visto il ricorso ed i relativi allegati;
    Visti  gli  atti di costituzione in giudizio dell'Amministrazione
intimata;
    Viste  le  memorie  presentate  dalle parti a sostegno delle loro
rispettive ragioni;
    Visti gli atti tutti di causa;
    Uditi  alla  pubblica  udienza  del  31 marzo 2004 il relatore ed
altresi' gli avvocati Biagini e Bacosi;
    Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

                              F a t t o

    Con  il  ricorso  in  esame,  notificato  in data 2 aprile 2003 e
depositato il successivo giorno 9, i nominati in epigrafe esponevano:
        di  essere vincitori dei rispettivi concorsi a consigliere di
Stato;
        di   avere  a  suo  tempo  richiesto  all'Amministrazione  di
appartenenza   di   effettuare  il  ricalcolo  dei  loro  trattamenti
economici  in  applicazione della disciplina di cui all'art. 4, comma
9,  della  legge  n. 425 del 1984 (norma che sarebbe stata in seguito
abrogata dall'art. 50 della legge n. 388 del 2000);
        di  avere  in  un secondo tempo proposto ricorsi straordinari
avverso gli atti con i quali la Presidenza del Consiglio dei ministri
aveva respinto le loro istanze;
        che i loro ricorsi erano stati accolti su conforme parere del
Consiglio  di Stato del 12 febbraio 1998 con decisioni del Presidente
della  Repubblica  in  data  27  settembre  1999,  le  quali  avevano
dichiarato    l'obbligo   dell'Amministrazione   di   determinare   i
trattamenti economici dei ricorrenti in applicazione della norma gia'
detta,  tenendo conto del superiore trattamento spettante ai colleghi
che  li  seguivano nel ruolo dei consiglieri di Stato (con decorrenza
dalle  date  in  cui  si erano verificati i relativi presupposti), ed
altresi'  l'obbligo di pagare le differenze retributive arretrate con
la rivalutazione monetaria e gli interessi legali;
        che  la  Presidenza  del Consiglio aveva, tuttavia, omesso di
dare  seguito  a  tali  decisioni, limitandosi ad emanare, in data 13
luglio  2000,  degli atti che davano una «parzialissima» esecuzione a
quattro soltanto di esse;
        che  gli interessati avevano proposto, allora, un ricorso per
l'esecuzione del giudicato, il quale, pur avendo trovato accoglimento
da  parte  del Consiglio di Stato, era pero' conclusivamente sfociato
in una sentenza di annullamento della decisione da questo adottata da
parte della suprema Corte di cassazione per difetto di giurisdizione;
        che,   infine,   dietro   impulso  di  ulteriori  istanze  di
esecuzione  avanzate  da parte degli stessi interessati la Presidenza
del  Consiglio  aveva  emesso la nota del 3 febbraio 2003 in epigrafe
(dopo  che  la  segreteria  generale  del Consiglio di Stato le aveva
trasmesso,  con  la  nota  n. 2383/2002,  gli  schemi  aggiornati dei
rispettivi decreti individuali), con la quale aveva respinto le nuove
richieste  degli  istanti  opponendo  loro  il disposto dell'art. 50,
comma 4, della legge 388 del 2000.
    Tanto  premesso, i ricorrenti con il presente gravame impugnavano
tale  nota  della  Presidenza  del  Consiglio  del  3  febbraio  2003
domandando  la  condanna dell'Amministrazione a corrispondere loro le
somme  indicate  negli schemi trasmessi dagli uffici del Consiglio di
Stato  con  la  nota n. 2383/2002, o, in alternativa, al risarcimento
dei  danni loro cagionati mediante l'inadempimento del dovere di dare
tempestiva  esecuzione  alle  suddette decisioni del Presidente della
Repubblica;   in   estremo  subordine,  veniva  richiesto  che  fosse
sollevato un conflitto di attribuzione nei confronti della Presidenza
del  Consiglio  dei ministri ai sensi dell'alt. 100, comma 3, Cost. A
fondamento del ricorso venivano articolati motivi cosi' rubricati:
        1)  violazione  dell'art. 50, comma 4, della legge n. 388 del
2000,  degli  artt. 15  e  8  del  d.lgs.  n. 1199  del 1971, nonche'
dell'alt.  2909  cod.  civ.,  dell'art. 395,  n. 5  cod. proc. civ. e
dell'art. 13 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo;
        2)  violazione  dell'alt. 50, ultima parte del comma 4, legge
cit.;
        3) questioni di costituzionalita';
        4)  difetto  di  motivazione  in  relazione  alla  domanda di
risarcimento  dei danni; violazione dell'art. 1218 cod. civ.; domanda
di liquidazione;
        5) istanza di proposizione di conflitto di attribuzione.
    L'Amministrazione  intimata  si  costituiva  in  giudizio  per il
tramite    dell'Avvocatura    generale    dello    Stato    eccependo
l'inammissibilita'  del ricorso sia a causa della sua proposizione in
forma  collettiva,  sia  per  l'inoppugnabilita' dei dd.p.c.m. del 13
luglio  2000;  del  ricorso  veniva  altresi'  dedotta, in ogni casa,
l'infondatezza nel merito.
    Gli  interessati  controdeducevano  alle  obiezioni avversarie ed
approfondivano   le   proprie  tesi  con  due  successive  memorie  e
conclusive nate, insistendo per l'accoglimento del ricorso.
    Alla  pubblica  udienza  del  31  marzo  2004  la  causa e' stata
trattenuta in decisione.

                            D i r i t t o

    1.  L'oggetto  sostanziale della controversia si identifica nella
pretesa  degli interessati di ottenere, da parte della Presidenza del
Consiglio   dei   ministri,  la  piena  esecuzione  dei  decreti  del
Presidente   della   Repubblica   del   27 settembre   1999  che,  in
accoglimento   dei   loro   pregressi   ricorsi  straordinari,  hanno
dichiarato    l'obbligo   dell'Amministrazione   di   determinare   i
trattamenti  economici  di  loro pertinenza alla stregua dell'art. 4,
comma  9,  della  legge  n. 425 del 1984, tenendo conto del superiore
trattamento  spettante  ai  colleghi  che  li seguivano nel ruolo dei
consiglieri  di Stato, ed accertato l'ulteriore suo obbligo di pagare
loro le differenze retributive arretrate con gli accessori di legge.
    Allo   stesso   fine  dell'esecuzione  delle  predette  decisioni
giustiziali  gli  interessati  hanno  in  precedenza gia' esperito un
ricorso  per l'esecuzione del giudicato. Questo, peraltro, pur avendo
trovato accoglimento da parte del Consiglio di Stato (IV, n. 6695 del
15  dicembre 2000), ha poi dato adito ad una sentenza di annullamento
della  relativa  pronuncia ad opera della suprema Corte di cassazione
per difetto di giurisdizione (SS.UU. civili, n. 15978 del 18 dicembre
2001).
    2.   Il   tribunale   deve  preliminarmente  intrattenersi  sulle
eccezioni in rito opposte dall'Avvocatura generale dello Stato.
    2.a.  Questa  ha  eccepito  in primo luogo l'inammissibilita' del
ricorso  in  ragione del suo esperimento in forma collettiva, traendo
spunto  dalla diversita' ed autonomia delle posizioni individuali dei
singoli ricorrenti.
    E'  pero'  agevole replicare che l'atto introduttivo del presente
giudizio  non  solo mira ad ottenere l'esecuzione di un provvedimento
unitario,  la  nota della Presidenza del Consiglio dei ministri del 3
febbraio  2003  che ha respinto, e proprio cumulativamente, le ultime
istanze di esecuzione presentate dagli interessati.
    Non soltanto, quindi, non e' ravvisabile tra questi ultimi alcuna
possibilita'  di  conflitto  di  interessi,  ma le rispettive domande
giudiziali,  che  importano la soluzione di identiche questioni, sono
avvinte  da  una  piena  comunanza  sostanziale  di  petitum  e causa
petendi. Il che e' quanto basta, per pacifica giurisprudenza (cfr. ad
es.   C.d.S.,  IV,  n. 146,  dell'11  febbraio  1999),  per  ritenere
ammissibile,  pur  in  presenza  di  posizioni individuali autonome e
scindibili, la proposizione di un ricorso in forma collettiva.
    2.b.  La  difesa  erariale  fa  derivare  l'inammissibilita'  del
ricorso,  inoltre,  dall'assunto  dell'intervenuta consolidazione dei
decreti  del  13  luglio 2000 con i quali la Presidenza del Consiglio
aveva  inteso  conformarsi alle decisioni di accoglimento - secondo i
ricorrenti  cosi'  attuate,  peraltro,  solo  in  minima  parte - dei
ricorsi straordinari in questione.
    Ad  avviso  dell'Avvocatura  i  detti  decreti  avrebbero  dovuto
formare   materia  di  un  immediato  ricorso  impugnatorio  in  sede
ordinaria  o  straordinaria, in mancanza del quale - gli interessati,
come  si  e' detto in narrativa, hanno proposto all'epoca un semplice
ricorso  per  l'ottemperanza  al  giudicato  -  le  loro  statuizioni
sarebbero diventate definitive ed incontestabili.
    Neppure questa eccezione puo' essere condivisa.
    Tanto  i precedenti ricorsi straordinari, con le decisioni che li
hanno  accolti,  quanto questo gravame giurisdizionale, riguardano la
materia    del    trattamento    retributivo,    ambito   nel   quale
l'Amministrazione  non  dispone,  secondo  la disciplina positiva, di
poteri  autoritativi  di  sorta  (ma  esistono  soltanto  - e quando,
naturalmente,  ne  sussistano  i  presupposti - diritti e correlativi
obblighi, e comunque atti amministrativi di natura solo paritetica).
    Cio'  posto,  appare  evidente  come gli interessati, mediante le
decisioni  del Capo dello Stato del 27 settembre 1999, si siano visti
riconoscere   nella   detta   materia   delle  posizioni  di  diritto
soggettivo,  che  la  Presidenza del Consiglio con i suoi atti del 13
luglio  2000  non  aveva  il potere di ridefinire autoritativamente e
quindi,  in  tesi,  di degradare.  Di  qui  la  conclusione obbligata
dell'insussistenza     dell'onere,     ipotizzato     dalla    difesa
dell'Amministrazione, di un'immediata impugnazione dei decreti del 13
luglio 2000, trattandosi di atti sprovvisti di indole imperativa.
    Non  senza dire, infine, che comunque la nota del 3 febbraio 2003
in  epigrafe  ha  operato  un riesame dell'oggetto di tali precedenti
determinazioni,  come  risulta,  oltre  che  dal suo testo letterale,
dall'analisi  da  essa  recata  della  nuova normativa intervenuta in
materia,  ed  infine  dalla  circostanza  dell'essere  stata esperita
un'apposita  nuova  istruttoria  sulla  spesa.  Sicche' i termini per
ricorrere sarebbero stati, in ogni caso, riaperti.
    Anche  questa  seconda  eccezione,  pertanto,  si rivela per ogni
verso priva di consistenza.
    2.c.   La   difesa   dell'Amministrazione   assume  poi  che  non
esisterebbe  un  effettivo  interesse  dei sunnominati al ricorso, in
quanto, anche in ipotesi di annullamento dei decreti della Presidenza
del  Consiglio  del  3  febbraio  2003  e  del  13  luglio  2000, per
determinare  il  trattamento  economico  di pertinenza dei ricorrenti
sarebbe  inevitabile  fare  i conti con il comma 4 dell'art. 50 della
legge  n. 388  del  2000, che da parte sua vanificherebbe anche i pur
limitati  vantaggi  fin  qui  ricavati da taluni degli interessati in
sede  di  esecuzione  delle  precedenti decisioni giustiziali. Appare
pero'  evidente come l'eccezione non tenga in alcun conto il dato per
cui  gli  autori del presente ricorso mirano proprio a sottrarsi alla
sfera   di   operativita'  di  quest'ultima  norma,  vuoi  a  livello
interpretativo,  vuoi  attraverso  l'auspicato intervento della Corte
costituzionale.  Onde  anche  questa  eccezione si manifesta priva di
pregio.
    2.d.  Deve  essere  fatto  infine notare, per completezza, che la
circostanza  che  gli interessati abbiano scelto, in origine, di fare
valere le proprie ragioni attraverso la via del ricorso straordinario
non  inibiva  loro  la  possibilita'  di  adire  in seguito un organo
giurisdizionale,  quale il tribunale, al fine di ottenere la compiuta
esecuzione delle favorevoli decisioni ottenute in quella prima sede.
    La  giurisprudenza  non  mostra  incertezze  sulla  cogenza della
decisione  emessa sul ricorso straordinario per la p.a., ravvisando a
carico  di questa l'obbligo di darvi esecuzione (v. ad es. c.d.s., V,
n. 577  del 5 ottobre 1987; IV, n. 1302 del 16 ottobre 1998 e n. 5393
del  22  settembre  2003):  e  da  questo  presupposto fa derivare il
corollario  che  l'amministrato,  allo scopo di far valere la pretesa
alla  puntuale esecuzione della pronuncia giustiziale, puo' avvalersi
-   in   particolare   -   dello   strumento   dell'impugnativa   del
silenzio-rifiuto  formatosi  sulla diffida a provvedere, ovvero della
diretta  impugnazione  dell'atto  emesso  dall'Amministrazione che si
presenti   elusivo  o  palesemente  in  contrasto  con  la  decisione
presidenziale  (Tribunale  amministrativo regionale Lazio, II, n. 215
del 14 gennaio 2004; Tribunale amministrativo regionale Puglia, Bari,
II,  n. 217  del 28 febbraio 1997; Tribunale amministrativo regionale
Sicilia,  Catania,  II,  n. 1606  del  16  ottobre 2003). Con il che,
dunque,  la giurisprudenza esclude che a chi persegua l'esecuzione di
una  decisione giustiziale l'accesso alla tutela giurisdizionale vera
e  propria possa essere negato opponendogli il canone dell'electa una
via  non  datur  recursus  ad  alteram,  indirizzo  in armonia con la
tradizionale  acquisizione per cui il principio di alternativita' fra
ricorso   giurisdizionale   e  ricorso  straordinario,  dato  il  suo
carattere  limitativo  dell'esercizio  del  diritto di azione, non e'
suscettibile  di  applicazione  analogica,  ma  opera  nel solo caso,
contemplato  dagli  artt. 8,  comma 2, del d.P.R. n. 1199 del 1971, e
20,  comma  3,  della  legge  n. 1034/1971,  di impugnative aventi ad
oggetto il medesimo atto (cfr. ad es. c.d.s., A.P., n. 5 del 15 marzo
1989).
    3.  Rispetto  al  merito  della  causa riveste valore centrale la
previsione  dell'art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 23 dicembre
2000 (la legge finanziaria per l'anno 2001).
    La   norma,   il   cui   disposto  e'  stato  richiamato  a  base
dell'impugnata  nota  reiettiva  delle  istanze dei ricorrenti, nella
parte  di  interesse recita: «Il nono comma dell'art. 4 della legge 6
agosto  1984,  n. 425,  si  intende abrogato dalla data di entrata in
vigore  del  citato  decreto-legge  n. 333  del 1992, convertito, con
modificazioni,  dalla legge n. 359 del 1992, e perdono ogni efficacia
i  provvedimenti e le decisioni di autorita' giurisdizionali comunque
adottati  difformemente  dalla  predetta interpretazione dopo la data
suindicata.  In  ogni  caso  non  sono  dovuti  e  non possono essere
eseguiti    pagamenti   sulla   base   dei   predetti   decisioni   o
provvedimenti».
    Ora,  ad  avviso  del  tribunale  correttamente la Presidenza del
Consiglio  dei  ministri  ha  ritenuto  che questa norma si opponesse
all'accoglimento   delle   richieste   di   parte  («Considerato  che
l'art. 50,   comma  4,  della  legge  23 dicembre  2000,  n. 388,  ha
interpretato  retroattivamente  l'art. 4,  nono  comma,  della  legge
n. 425  del  1984,  nel  senso  che  esso  va  considerato abrogato a
decorrere  dalla  data  di entrata in vigore del decreto-legge n. 333
del 1992; Considerato che il medesimo art. 50, ultima parte del comma
4,  ha  disposto  che sono venuti meno gli effetti degli atti e delle
decisioni  giurisdizionali  rese  in  applicazione  dell'art. 4, nono
comma, della legge n. 425 del 1984, senza eccettuare le decisioni del
Presidente  della  Repubblica di accoglimento di ricorsi straordinari
...»).
    3.a.  Con  il  ricorso  in esame e' stato sostenuto il contrario,
prospettando  la  tesi  che la nuova norma riguarderebbe i ricorrenti
soltanto  de  futuro  ed  entro ben ristretti limiti: vale a dire che
essa  sarebbe  applicabile  loro  solo nel senso che, qualora dopo la
data  del  1° gennaio 2001 si verificasse la nomina di un Consigliere
di  Stato  avente uno stipendio maggiore, il trattamento economico di
essi ricorrenti non potrebbe comunque piu' giovarsene.
    A   sostegno  della  loro  tesi  gli  interessati  hanno  addotto
l'avvenuta  formazione,  sulle decisioni del Capo dello Stato da loro
ottenute,    di   una   situazione   di   «giudicato   amministrativo
sostanziale»,  e si sono richiamati ai principi generali sui rapporti
tra   cosa   giudicata  e  leggi  successive  retroattive  (svolgendo
argomenti  che  troveranno  specifica  considerazione infra, al n. 4,
dove  si  dira'  della dubbia compatibilita' della norma sopravvenuta
con  i  principi  costituzionali)  e  al  canone dell'interpretazione
secundum constitutionem.
    A  loro  avviso l'amministrazione avrebbe dato un'interpretazione
errata  allo jus superveniens. Cio' in quanto una misura eccezionale,
quale  la cancellazione ope legis degli effetti prodotti da decisioni
del   Capo  dello  Stato  ormai  immutabili,  avrebbe  dovuto  essere
necessariamente  prevista  in maniera chiara ed espressa, non potendo
in  mancanza  di  tanto essere ascritto al legislatore un intento che
verrebbe a trovarsi in conflitto con la Carta.
    In  ricorso  sono  stati  inoltre richiamati i lavori preparatori
della  Camera  dei deputati e del Senato. Nel corso della discussione
del  disegno  di  legge,  si  e'  detto,  era  stata  prospettata  la
possibilita'  che la nuova norma venisse intesa nel senso di incidere
su  posizioni  individuali  come  quelle  degli attuali ricorrenti: e
proprio in senso contrario ad una simile eventualita' si era espresso
al  Senato  il  Ministro  della  funzione  pubblica  (annunciando una
modifica  del testo, che peraltro non consta essere stata apportata),
e la Camera aveva approvato l'ordine del giorno n. 38 del 22 dicembre
2000  impegnando  il Governo a dare applicazione alla norma nel senso
di fare salve le decisioni irrevocabili gia' formatesi.
    3.b.  Come  si  e' premesso, tuttavia, l'interpretazione proposta
dalla parte ricorrente non puo' essere accolta.
    La  norma  del  cui  significato si tratta, infatti, non solo non
enuncia  la  salvezza  che  nel  ricorso viene rivendicata, ma lascia
chiaramente intendere di non volerla riconoscere ne' osservare.
    Come  viene  ricordato  anche  nell'atto  introduttivo, il canone
dell'interpretazione    conforme    a   Costituzione   puo'   trovare
applicazione  soltanto  ove  il  testo letterale di un precetto renda
praticabile  una  pluralita'  di  percorsi ermeneutici. Ma e' proprio
questo presupposto a fare difetto nel caso concreto, poiche' la norma
in  discussione  mostra  un testo che e' incompatibile con la lettura
che   ne   viene   proposta   dai   ricorrenti,   e  con  ogni  altra
interpretazione  che  si  differenzi  da  quella da loro avversata. E
questa  circostanza  esclude  altresi'  che possa attribuirsi rilievo
alle  suesposte  indicazioni  dei  lavori  preparatori,  le quali non
possono che risultare recessive al cospetto di un testo letterale che
da loro diverga, come e' il caso di quello in esame (cfr. Cass. civ.,
I,  n. 2230  del  27  febbraio 1995; III, n. 3550 del 21 maggio 1988;
Sez. lavoro, n. 3276 dell'8 giugno 1979).
    A  conforto,  invero,  dell'interpretazione data dalla Presidenza
del  Consiglio  con  la  sua  ultima  nota,  stanno  in particolare i
seguenti  elementi:  il  binomio «i provvedimenti e le decisioni», il
quale  compare nel penultimo periodo del citato nono comma e si trova
anche  ribadito  nell'ultimo;  la precisazione legislativa per cui la
prevista perdita di efficacia vale per gli uni e per le altre, per il
solo  fatto  di  essere  stati «comunque adottati difformemente dalla
predetta   interpretazione   dopo  la  data  suindicata»;  infine,  e
soprattutto,  la  prescrizione  conclusiva per cui «in ogni caso» dai
titoli  indicati  non  potranno  sortire  pagamenti. E cio' e' quanto
basta    per    convincersi   dell'impraticabilita'   dell'itinerario
ermeneutico patrocinato dai ricorrenti.
    3.c.  La  norma  indicata,  pertanto,  vanificando  le  decisioni
giustiziali che sono state rese a suo tempo in favore dei ricorrenti,
con  la  propria portata interdittiva impedisce alle pretese di parte
di  avere  un  qualsiasi  corso.  E con cio' preclude al Tribunale di
accedere  al problema di merito che gli stessi interessati vorrebbero
vedere in questa sede risolto, il quale richiederebbe di accertare la
correttezza e completezza dell'esecuzione fin qui data alle decisioni
del Capo dello Stato del 27 settembre 1999.
    4.   Questa   norma   presta   pero'   il   fianco  ai  dubbi  di
costituzionalita'  avanzati  con  il  terzo  motivo  del  ricorso con
riferimento  agli  artt. 3,  24,  100,  103 e 113 della Carta, con la
conseguenza  che  le relative questioni dovranno essere sottoposte al
vaglio della Corte costituzionale.
    Da  parte dei ricorrenti si assume che il legislatore, incorrendo
in   un  eccesso  di  potere,  avrebbe  inammissibilmente  inciso  su
decisioni  ormai  immutabili  ed  irrevocabili  emesse dal Capo dello
Stato    in    regime   di   alternativita'   rispetto   al   ricorso
giurisdizionale,  le  quali  avevano  accertato l'avvenuta lesione di
diritti  soggettivi.  Premesso,  infatti,  che  non  e' consentito al
legislatore  travolgere  dei  giudicati,  viene  dedotto  che sarebbe
propria  delle  predette decisioni una forza e funzione equivalente a
quella  delle  vere  e  proprie  sentenze,  e  che  comunque  sarebbe
irragionevole  un  trattamento differenziato, sul punto, dei due tipi
di titoli, come pure dei soggetti che li abbiano ottenuti.
    4.a.  La  base  di partenza del ragionamento che occorre svolgere
consiste,  quindi,  in  cio', che la giurisprudenza costituzionale e'
attestata  nel  senso  che  la  portata  retroattiva  delle  norme di
interpretazione  autentica  incontra,  tra  i diversi limiti, «quello
della  tutela  dell'affidamento  legittimamente  posto sulla certezza
dell'ordinamento  giuridico,  e  quello  del  rispetto delle funzioni
costituzionalmente riservate al potere giudiziario (cio' che vieta di
intervenire  per  annullare  gli  effetti del giudicato o di incidere
intenzionalmente  su  concrete  fattispecie  sub  judice)»  C. cost.,
n. 525 del 22 novembre 2000.
    La  Corte  ha  invero  censurato  anche di recente gli interventi
legislativi con i quali, oltre a crearsi una regola astratta operando
sul  piano  delle  fonti, vengono investite anche delle sentenze gia'
passate  in  giudicato,  con  il  risultato  di  precludere  la  loro
esecuzione,  ed  ha  ravvisato  nell'incidenza  della  nuova norma su
situazioni   coperte  da  giudicato  una  lesione  dei  principi  che
governano i rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale,
oltre che delle disposizioni relative alla tutela giurisdizionale dei
diritti  e  degli  interessi legittimi (n. 374 del 27 settembre 2000;
cfr. anche, ad es., la n. 15 del 19 gennaio 1995).
    Alla  stregua della giurisprudenza costituzionale sembra, dunque,
corretto  dire  che  lo  jus  superveniens non possa travolgere delle
situazioni regolate da giudicato.
    Anche  l'Adunanza  plenaria del Consiglio di Stato, del resto, ha
avuto  modo  di  osservare  che il contenuto precettivo del giudicato
amministrativo,  come di quello civile, costituisce un modo di essere
necessario  e  non  piu'  mutabile  della  realta'  giuridica,  ormai
definitivamente cristallizzato nella pronunzia giurisdizionale (anche
se  questa  avesse  per  avventura travisato le norme da applicare al
caso    concreto).    La   garanzia   costituzionale   della   tutela
giurisdizionale  dei  diritti e degli interessi legittimi di cui agli
artt. 24  e 113 della Carta non riguarda, infatti, il solo diritto di
adire  il  giudice,  ma  comprende  anche e soprattutto il diritto di
ottenere  da questi una statuizione definitiva ed immutabile (l'unica
realmente  satisfattiva della pretesa azionata in giudizio). E' stato
pertanto  concluso che «l'immutabilita' del giudicato non puo' cedere
di   fronte  a  norme  sopravvenute  aventi  efficacia  retroattiva»,
giacche'  diversamente  «sarebbe consentito al legislatore vanificare
in ogni momento la funzione propria della Magistratura (...) rendendo
aleatoria  ...  quella  tutela  giurisdizionale  che  costituisce  un
fondamentale diritto assicurato al singolo dalla Costituzione, tutela
che  non  puo' dirsi tale se non e' completa (artt. 24 e 113 Cost.) e
indipendente  dalla  ingerenza  di ogni altro potere (artt. 101 e 104
Cost.)» (c.d.s., A.P., n. 4 del 21 febbraio 1994).
    4.b.  Ebbene, la condizione giuridica del provvedimento decisorio
di  un ricorso straordinario, pur non presentandosi identica a quella
propria  della  sentenza,  e' comunque ampiamente suscettibile, per i
significativi  tratti  di  affinita'  esistenti  tra loro, di esserle
raffrontata.
    Esistono, infatti, molteplici elementi deponenti nel senso che il
Capo  dello  Stato,  allorche'  con  la  decisione  di sua competenza
aderisca  al  parere  reso  nel  procedimento dal Consiglio di Stato,
cooperi    all'esplicazione    di    una    funzione   essenzialmente
giurisdizionale,  limitandosi ad un ruolo formale di esternazione del
relativo decisum tecnico.
    E'  pur vero, poi, che l'autorita' di vertice non e' vincolata in
modo  assoluto  ad  uniformarsi  al parere rimessole dal Consiglio di
Stato,  e potrebbe quindi, in teoria, risolvere la controversia anche
secondo  criteri  diversi da quelli consistenti nella pura e semplice
applicazione  delle norme di diritto (come ha ricordato anche la S.C.
con  la  sentenza n. 15978/2001 cit.). Cio', tuttavia, altro non pare
significare  se non che, negli eccezionali casi in cui questo avvenga
(tra  i  quali  non  rientra  quello  corrente),  la  soluzione della
controversia    troverebbe    allora   definizione,   attraverso   la
sottoposizione  della fattispecie al Consiglio dei ministri, mediante
l'esplicazione  della funzione di alta amministrazione, la quale puo'
innestarsi   nel   procedimento   in  discorso  -  ed  e'  questa  la
peculiarita'  che  la materia possiede - facendo deviare il suo corso
dagli ordinari binari pienamente giuridici e para-giurisdizionali sui
quali  esso  e'  comunque per regola strutturalmente e funzionalmente
impiantato,  sottraendogli  cosi',  in tali soli casi, la sua normale
natura.
    Non  e'  casuale  che la decisione giustiziale conforme al parere
non  sia  mai  stata ritenuta impugnabile con un ulteriore ricorso al
Capo  dello  Stato  o con un normale gravame giurisdizionale (potendo
esserne  denunziati,  come e' noto, solo gli eventuali vizi formali o
procedurali),  ne'  mai  ne  sia stata ammessa la revoca (c.d.s., IV,
n. 6695 del 15 dicembre 2000).
    Vanno considerati, in particolare, gli artt. 8, 10 e specialmente
15  del  d.lgs. n. 1199 del 1971, l'ultimo dei quali stabilisce che i
decreti  del  Presidente  della  Repubblica  di decisione dei ricorsi
straordinari  possono  essere  impugnati  per  revocazione  nei  casi
previsti  dall'art. 395  cod.  proc.  civ.: articoli che, assimilando
sotto  molteplici  e  qualificanti  aspetti la funzione giustiziale a
quella  giurisdizionale,  hanno  fatto  dire  ai ricorrenti non senza
elementi  di  ragione  che gli effetti sostanziali delle decisioni in
discorso sono equivalenti a quelli del giudicato amministrativo.
    Viene  comunemente  ricordato (cfr. c.d.s., I, par. n. 3319 del 6
dicembre  1995),  infatti,  che  il  ricorso  straordinario,  rimedio
alternativo  e  parallelo  a  quello  giurisdizionale, e' soggetto ad
identiche  condizioni  di  proponibilita' (salva la diversa lunghezza
del  termine  per  ricorrere  e la differente posizione rispetto alla
regola  del previo esaurimento dei ricorsi amministrativi interni), e
somministra una tutela del tutto analoga per petitum e causa petendi;
la  relativa  decisione  e' inoltre pronunziata in termini di stretto
diritto,   esclusa   ogni  valutazione  discrezionale  dell'interesse
pubblico;  la  decisione  finale,  formalmente emessa con decreto del
Presidente  della  Repubblica su proposta del Ministro competente per
materia,  si  basa  sul  parere  del Consiglio di Stato, dal quale e'
possibile discostarsi solo sottoponendo la questione al Consiglio dei
ministri;  il  Consiglio di Stato, infine, e' un organo imparziale, e
la sua indipendenza e' garantita dalla Costituzione (anche perche' lo
stesso e' titolare, contemporaneamente, di funzioni anche formalmente
giurisdizionali).
    Con  questi  dati  strutturali  concorre  poi  quello, che appare
fondamentale,    inerente   al   profilo   funzionale   dell'istituto
giustiziale.
    Il   ricorso   straordinario,  pur  perseguendo  anche  lo  scopo
tradizionale  di permettere un controllo finale sulla legittimita' di
un  atto  in  un  contesto  ancora  in  un  certo  qual senso interno
all'Amministrazione,   sembra   senz'altro  trovare  la  sua  ragione
d'essere   e  finalita'  preminente,  oggi,  nella  protezione  degli
interessi   degli  amministrati,  come  si  e'  reso  particolarmente
evidente  a seguito dell'intervento dell'art. 3, comma 4, della legge
n. 205  del  2000,  sulla  tutela cautelare («Nell'ambito del ricorso
straordinario  al Presidente della Repubblica puo' essere concessa, a
richiesta   del   ricorrente,   ove  siano  allegati  danni  gravi  e
irreparabili  derivanti  dall'esecuzione  dell'atto,  la  sospensione
dell'atto medesimo»).
    La  funzione che l'ordinamento affida al ricorso straordinario e'
quindi  essenzialmente  la medesima, votata alla tutela dei diritti e
degli  interessi legittimi individuali, cui assolve, alternativamente
e  fungibilmente,  il ricorso giurisdizionale amministrativo. Come e'
stato   recentemente  detto,  «...essendo  il  rimedio  in  questione
preordinato  al  valore  della  tutela  delle  situazioni  soggettive
contemplate dall'art. 24 Cost., il principio di non piena aderenza al
risultato  (peraltro imposto da quel precetto fondamentale) finirebbe
per  tradursi  in una sostanziale negazione della premessa, relegando
l'ambito  di  applicazione del ricorso straordinario in una specie di
zona grigia, nella quale, in definitiva, non sarebbe sempre garantita
la piena tutela di situazioni soggettive» (c.d.s., II, n. 2759/02 del
12 marzo 2003).
    Il  ricorso  straordinario, dunque, ai fini di causa sembra poter
essere  reputato  un  rimedio  anche funzionalmente simile al ricorso
giurisdizionale.
    Cio'   posto,   il   tribunale   non   puo'  che  prendere  atto,
naturalmente,  della  statuizione  della  Corte  regolatrice  che  ha
escluso,  proprio  in  uno  stadio  precedente  della  stessa vicenda
oggetto di controversia, l'esperibilita' del giudizio di ottemperanza
(ss.uu.  civili,  n. 15978 del 18 dicembre 2001). Questa conclusione,
se  nega  che l'esecuzione delle decisioni del Capo dello Stato possa
giovarsi  di un simile mezzo (di cui la giurisprudenza amministrativa
ammette  peraltro  l'utilizzabilita' anche per i lodi arbitrali), non
pare  pero'  suscettibile  di  incidere  sugli  effetti  che la legge
riconnette  alle  stesse decisioni, la cui efficacia sostanziale e la
cui    funzione    istituzionale   sopravvivono   impregiudicate   al
disconoscimento   della   praticabilita'   della   procedura  di  cui
all'art. 27 n. 4 T.U. n. 1054 del 26 giugno 1924.
    E  se  le  sezioni unite, nell'occasione, agli specifici fini del
giudizio  di loro competenza hanno escluso la rilevanza della divisio
tra le decisioni rese - praeter legem - su controversie devolute alla
giurisdizione  ordinaria (decisioni che sono reputate disapplicabili)
e  quelle,  invece,  emesse in regime di alternativita' rispetto alla
giurisdizione  amministrativa,  il  Tribunale non puo' fare a meno di
notare  che  la  caratteristica  che  il  legislatore  ha impresso al
ricorso  straordinario, conformemente connotandolo, e' proprio quella
dell'alternativita'  alla  via  giudiziaria  amministrativa. Ed e' la
vigenza  del  regime  di  alternativita' che comporta che le relative
decisioni  giustiziali  non  siano  sindacabili  ne' modificabili dal
giudice  amministrativo (ne' da qualsiasi altro giudice od autorita):
non  e' difatti consentito riaprire una controversia gia' chiusa, nel
senso  che,  una  volta  che  il  ricorso straordinario, sul conforme
parere  del  Consiglio di Stato, sia stato definito, e' precluso ogni
riesame  in  sede  giurisdizionale della questione cosi' decisa (cfr.
c.d.s.,  IV,  nn. 6502  del 7 dicembre 2000 e 800 del 20 giugno 1996;
VI, nn. 601 del 17 aprile 1997, 437 del 14 dicembre 1976 e 883 del 27
ottobre  1952; nel senso della definitivita' ed irrevocabilita' delle
decisioni   dei   ricorsi   straordinari,  nonche'  del  parallelismo
esistente con i ricorsi giurisdizionali, v. anche c.d.s., A.P., n. 26
del  30 dicembre 1954). «La decisione puo' essere modificata solo per
correzione di errore materiale o nei casi eccezionali di revocazione,
secondo   le  stesse  regole  dettate  per  le  sentenze  civili  non
suscettibili di impugnazione; salvi questi casi eccezionali, non puo'
essere  modificata o revocata dalla stessa autorita' che l'ha emessa,
ne'  ad  istanza delle parti ne' d'ufficio» (c.d.s., I, n. 3319 del 6
dicembre   1995).   Ed   il  principio  dell'irretrattabilita'  della
decisione   e'   stato  gia'  affermato  anche  dinanzi  a  norme  di
interpretazione autentica (c.d.s., III, n. 221 del 25 ottobre 1994).
    La decisione del ricorso straordinario ha, dunque, la funzione di
definire  immutabilmente  la  lite  in  regime  di alternativita' nel
segno,  come  si  e'  detto,  della difesa delle posizioni soggettive
individuali meritevoli di tutela ex artt. 24 e 113 Cost.
    Ne'  sembra  poter  essere  trascurato il fatto che nel corso del
procedimento  promosso  dal  ricorso  straordinario puo' essere anche
sollevata  una  pregiudiziale  comunitaria ai sensi dell'art. 177 del
Trattato  (Corte di Giustizia C.E., 16 ottobre 1997, cause da C-69/96
a  C-79/96),  avendo  la  Corte  del  Lussemburgo riconosciuto che il
Consiglio  di  Stato, quando emette il parere di sua competenza nelle
fattispecie in discorso, costituisce una giurisdizione ai sensi della
norma  appena  citata, per ragioni che discendono dalla sua posizione
di   indipendenza,   dall'obbligatorieta'   della   sua  pronuncia  e
dall'esistenza  di  un  contraddittorio  all'interno  della  relativa
procedura.
    Almeno  secondo  la  prassi  giustiziale, inoltre, si ritiene che
nella  medesima  sede  possa  essere  sollevato anche un incidente di
costituzionalita'   (c.d.s.,  I,  n. 650/96  del  19  maggio  1999  e
n. 4210/02  del  4  novembre  2003; II, n. 534/01 del 27 marzo 2002 e
n. 2898/02 del 26 marzo 2003; C.G.A., n. 448/2001 del 2003).
    La  Corte  di cassazione, infine, occupandosi della materia delle
cause  di  ineleggibilita',  ha  avuto  modo  di chiarire che il dato
preclusivo  della  pendenza della lite ricorre non soltanto quando la
lite  stessa  si  sia formalizzata in una controversia giudiziaria in
senso  stretto  (dinanzi  ad  un giudice civile o amministrativo), ma
anche  ove  sia  pendente  un  procedimento  in  sede  amministrativa
contenziosa quale un ricorso straordinario, poiche' anche in tal caso
sussiste  una  contrapposizione  tra parti nell'ambito di un apposito
procedimento  instaurato  al  fine  di risolvere una controversia tra
p.a.  e privato ricorrente, tenuto conto in particolare del principio
di alternativita' che connota i rapporti tra il ricorso straordinario
ed   il  ricorso  giurisdizionale  amministrativo  (Cass.  civile, I,
n. 2262  del  15  aprile  1982).  Sicche' anche da questa particolare
angolazione le due sedi sono state assimilate.
    In   conclusione,   pur   in   presenza   di  una  doppia  veste,
giurisdizionale  ed  amministrativa,  della  procedura  in  esame, da
quanto  esposto si desume che la natura giurisdizionale immanente nei
profili   contenutistici,  funzionali  e  relazionali  dell'istituto,
nonche'  nei  suoi  effetti  determinanti,  al  pari  di quelli delle
sentenze,  per  l'assetto di interessi che ne forma oggetto, dovrebbe
prevalere sulla sua forma amministrativa.
    Pertanto, la incisione retroattiva di una nuova norma di legge su
una  decisione  definitiva  si  puo' presentare lesiva delle garanzie
costituzionali.  E  questo  non solo in via diretta, e cioe' in forza
della  plausibile  assimilabilita'  del ricorso straordinario e della
decisione giustiziale al ricorso e alla decisione giurisdizionale, ma
anche  per  l'incompatibilita'  di un intervento legislativo siffatto
con  la  funzione del ricorso straordinario, che dopo l'avvento della
legge   n. 205/2000  sulla  materia  cautelare  sembra  dover  essere
identificata  senza  meno,  alla stessa stregua della finalita' della
giurisdizione,  nella tutela dei diritti e degli interessi legittimi.
La  tutela delle posizioni degli amministrati, infatti, e' perseguita
nel  diritto  vivente,  ed assegnata dall'ordinamento positivo, oltre
che  al  ricorso  giurisdizionale  amministrativo,  anche  al ricorso
straordinario: sicche' le limitazioni che pregiudicano l'effettivita'
di  quest'ultimo  sembrano tradursi nello stesso tempo in lesioni del
valore  costituzionale  di  cui  agli  artt.  24 e 113 Cost. (oltre a
presentarsi prive di giustificazione razionale anche sotto il profilo
della parita' di trattamento).
    Del  resto,  in un'altra fattispecie in cui pure assumeva rilievo
una  norma  legislativa (allora, regionale) che veniva ad incidere su
una  decisione  di  accoglimento  di un ricorso straordinario al Capo
dello   Stato,  caducandone  sostanzialmente  gli  effetti,  e'  gia'
accaduto  che  sia  stata  sollevata  in  proposito  una questione di
legittimita'   costituzionale   (Tribunale  amministrativo  regionale
Umbria,  ordinanza  del  13 aprile 1994), sulla notazione che «... la
singolare  natura del detto rimedio giustiziale, l'alternativita' con
l'impugnativa giurisdizionale, l'inserimento del ricorso medesimo nel
quadro  degli  strumenti  di  tutela  dei  diritti soggettivi e degli
interessi  legittimi  nei  confronti  della  P.A.  e  dei  suoi  atti
orientano  a  ritenere sussistente, nella specie, la violazione delle
norme  costituzionali  poste  a  tutela  dell'esercizio  del  diritto
inviolabile  alla  difesa  che,  seppure riferibili direttamente alla
sede  giurisdizionale,  appaiono parimenti applicabili alle correlate
sedi  giustiziali.  E  tutela  non  vi  e'  se  il rapporto giuridico
affermato  nella  naturale  sede  contenziosa  non  perviene poi, per
intervento  normativo  retroattivo,  a  svolgere il proprio contenuto
satisfattorio  dell'interesse  sostanziale azionato». E la Corte, nel
pronunziarsi  al  riguardo,  senza dire alcunche' che potesse suonare
come  una  smentita  di  una  simile  impostazione,  ha  respinto  la
questione  allora  postale  motivando  sulla base di elementi ad essa
estrinseci  (la  circostanza  che  la legge interpretativa oggetto di
scrutinio  fosse  anteriore,  e  non successiva, all'accoglimento del
ricorso  straordinario  de quo, e quella che la decisione giustiziale
era   stata   determinata   da   ragioni  estranee  alla  controversa
interpretazione  della norma di base) (C. cost., n. 376 del 25 luglio
1995).
    Ne'  puo'  tacersi,  infine,  che,  anche a volere ipoteticamente
prescindere  da  ogni parallelismo tra ricorsi straordinari e ricorsi
giurisdizionali,  l'incisione retroattiva di una nuova norma di legge
su  una  decisione  giustiziale  definitiva presenta comunque, per le
ragioni  esposte,  profili  di  incompatibilita'  anche rispetto alla
funzione costituzionale del Consiglio di Stato (art. 100, comma 1) di
assicurare «la tutela della giustizia nell'amministrazione».
    4.c.   Per   quanto  precede,  si  profilano  non  manifestamente
infondate  le  questioni  sollevate  dai  ricorrenti  in  ordine alla
legittimita'  costituzionale  dell'art. 50,  comma  4,  penultimo  ed
ultimo  periodo, della legge n. 388 del 23 dicembre 2000, nella parte
in    cui   tale   norma,   esplicitando   la   portata   retroattiva
dell'abrogazione  da  essa  contemplata,  prevede  che  questa  possa
travolgere  anche  posizioni  individuali  gia' riconosciute mediante
sentenze o decisioni di ricorsi straordinari che erano ormai divenute
definitive,  per  conflitto con gli artt. 3, 24, 100, 103 e 113 della
Carta.
    Quanto  alla  rilevanza di tali questioni rispetto al giudizio in
corso, la stessa emerge da quanto illustrato in precedenza, allorche'
e'  stato  evidenziato  che  la  norma della cui costituzionalita' si
dubita  imporrebbe  senz'altro  la  reiezione  del  presente ricorso,
laddove  una  sua  caducazione  -  limitata,  si  intende, al profilo
sollevato    -    potrebbe    condurre    il    giudizio,   all'esito
dell'accertamento   sostanziale  non  piu'  precluso,  anche  ad  una
conclusione opposta.
    Le  questioni  delineate  nel paragrafo precedente vanno pertanto
sottoposte  al  vaglio  della  Corte  costituzionale,  ed il presente
giudizio conseguentemente sospeso in attesa della loro decisione.
                              P. Q. M.
    Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, Sezione I, visti
gli   artt. 134   della   Costituzione,   1   e   segg.  della  legge
costituzionale  9 febbraio 1948, n. 1, nonche' 23 e segg. della legge
11  marzo  1953,  n. 87;  ritenute le questioni, come sopra indicate,
rilevanti   ai   fini   della  decisione  della  controversia  e  non
manifestamente infondate, cosi' dispone:
        Sospende il giudizio sul ricorso in epigrafe;
        Ordina  la  immediata  trasmissione alla Corte costituzionale
del  fascicolo  relativo  al  ricorso medesimo per la soluzione delle
questioni  di legittimita' costituzionale relative all'art. 50, comma
4,  penultimo  ed  ultimo periodo, della legge n. 388 del 23 dicembre
2000,  nei  termini  di  cui  in  motivazione,  con  riferimento agli
artt. 3, 24, 100, 103 e 113 della Costituzione;
        Ordina   alla   segreteria  della  sezione  che  la  presente
ordinanza  sia  notificata  alle  parti  in causa e al Presidente del
Consiglio dei ministri, nonche' comunicata al Presidente della Camera
dei deputati e al Presidente del Senato della Repubblica.
    Cosi' deciso in Roma, Camera di consiglio del 31 marzo 2004.
                     Il Presidente: Savo Amodio
L'estensore: Gaviano  04C1189