N. 335 SENTENZA 28 ottobre - 10 novembre 2004

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Rilevanza  della  questione  - Eccezione di inammissibilita' proposta
  dall'Avvocatura  dello  Stato  -  Problema  interpretativo  (titolo
  esecutivo  in  relazione a decreto ingiuntivo e sentenza di rigetto
  dell'opposizione)   -   Adesione   del   rimettente   alla  unanime
  interpretazione  della  dottrina e della giurisprudenza - Reiezione
  dell'eccezione.
Procedimento  civile  - Errori materiali - Procedimento di correzione
  della  sentenza  davanti allo stesso giudice che l'ha pronunciata -
  Applicabilita'  alle  sole  sentenze  contro le quali non sia stato
  proposto   appello   e   non   anche   alle  sentenze  appellate  -
  Irragionevolezza,  ingiustificata compressione del diritto di agire
  esecutivamente  della  parte vittoriosa, lesione della effettivita'
  della   tutela   giurisdizionale  -  Illegittimita'  costituzionale
  (limitatamente alle parole specificate nel dispositivo).
- Cod. proc. civ., art. 287.
- Costituzione, artt. 3, 24 e 111.
(GU n.45 del 17-11-2004 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
  Presidente: Carlo MEZZANOTTE;
  Giudici: Fernanda CONTRI, Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI,
Franco BILE, Giovanni Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO,
Romano   VACCARELLA,  Paolo  MADDALENA,  Alfio  FINOCCHIARO,  Alfonso
QUARANTA, Franco GALLO;
ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 287 del codice
di  procedura  civile  promosso con ordinanza del 20 gennaio 2004 dal
Tribunale  di L'Aquila nel procedimento civile vertente tra Di Simone
Carlo  e  De Nuntiis Andrea ed altro, iscritta al n. 159 del registro
ordinanze 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 12, 1ª serie speciale, dell'anno 2004.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella camera di consiglio del 29 settembre 2004 il giudice
relatore Romano Vaccarella.

                          Ritenuto in fatto

    1.  -  Nel  corso  di  un  procedimento  di  correzione di errore
materiale   il  Tribunale  di  L'Aquila  ha  sollevato  questione  di
legittimita'  costituzionale,  in  riferimento agli artt. 3, 24 e 111
della  Costituzione,  dell'art. 287  del  codice di procedura civile,
nella  parte  in cui prevede che «le sentenze contro le quali non sia
stato  proposto  appello» possono essere corrette con il procedimento
di  cui  al  successivo  art. 288  «dallo  stesso  giudice  che le ha
pronunciate»,  qualora  questi  sia  incorso  in  errori materiali, e
quindi  nella parte in cui limita alle sole «sentenze contro le quali
non sia stato proposto appello», la facolta' della parte di avvalersi
del  procedimento di correzione degli errori materiali ed esclude che
quelle appellate possano essere corrette «dallo stesso giudice che le
ha  pronunciate»  indipendentemente  dalla  decisione  del  mezzo  di
gravame.
    1.1.  -  Riferisce  il  rimettente  che  in data 3 luglio 2002 il
Tribunale  aveva emesso, in favore di Carlo Di Simone e nei confronti
di  Andrea  e Daniele De Nuntiis, decreto ingiuntivo avverso il quale
gli  intimati  avevano  proposto opposizione; che con sentenza n. 835
del  1° ottobre 2003 questa era stata rigettata e gli opponenti erano
stati  condannati  al  pagamento  delle  spese  processuali;  che  il
5 dicembre  successivo  l'opposto vittorioso aveva depositato ricorso
con  cui,  dedotto che il decidente era incorso in errore materiale -
avendolo   appellato   nell'intestazione,  nel  dispositivo  e  nella
motivazione  della sentenza Carlo De Simone, anziche' Carlo Di Simone
-  aveva  chiesto  che  si  procedesse  alla  correzione  dell'errore
materiale;  che,  fissata  con  decreto  la comparizione delle parti,
Andrea  e  Daniele  De  Nuntiis  si  erano costituiti, rilevando che,
avverso  la  sentenza  oggetto del ricorso - e anteriormente alla sua
proposizione   -  era  stato  proposto  appello,  e  conseguentemente
chiedendo   la   declaratoria  di  inammissibilita'  dell'istanza  di
correzione,  con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del
procedimento;   che   a   tanto   la   controparte   aveva  replicato
rappresentando che, stante la provvisoria esecutivita' delle sentenze
di  primo grado, stabilita dalla riforma del codice di rito del 1990,
o  si  riconosceva  al  giudice  di  prime  cure  la  possibilita' di
procedere   alla  correzione  dell'errore  materiale  anche  laddove,
avverso  la  decisione  che  ne  era  affetta, fosse stato interposto
appello,  oppure  doveva  ritenersi  l'art. 287  cod.  proc.  civ. in
contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost.
    1.2.  - Precisa il giudice a quo che nella fattispecie sottoposta
al  suo  esame  si  verte  in  un'ipotesi tipica di errore materiale,
emendabile  con  la  procedura di cui agli artt. 287 e 288 cod. proc.
civ., posto che l'inesatta indicazione del cognome di una delle parti
integra  uno sbaglio che investe non gia' il giudizio racchiuso nella
sentenza, ma piuttosto la sua espressione grafica.
    1.3.  -  Evidenzia  quindi che, ai sensi dell'art. 287 cod. proc.
civ.,  il  provvedimento  di correzione deve essere pronunciato dallo
stesso  giudice  - inteso come ufficio giudiziario - che ha emesso la
sentenza,  eccezion  fatta  per  l'ipotesi  di  avvenuta proposizione
dell'appello,  ritenendosi,  per  consolidato diritto vivente, che in
tal  caso  la  correzione,  non  piu'  deducibile  come oggetto di un
apposito procedimento, competa al giudice dell'impugnazione, al quale
potrebbe   essere   chiesta  anche  implicitamente,  senza  cioe'  la
formulazione   di   un   autonomo   motivo   di   gravame:   da  cio'
l'inammissibilita',   ovvero   l'improcedibilita'   per   difetto  di
interesse,  del  procedimento  in  parola,  una volta che la sentenza
oggetto  dell'istanza  di  correzione  sia stata gravata da appello o
quanto  meno  tutte  le  volte  in  cui  il  relativo ricorso risulti
depositato a giudizio di gravame pendente.
    Ricorda  il  rimettente  che,  in dottrina, e' stata sostenuta la
possibilita'  di  intendere  l'inciso  «contro le quali non sia stato
proposto  appello»,  come  volto  a limitare a questa sola ipotesi la
competenza  a  provvedere  dello stesso giudice che ha pronunciato la
sentenza  della  cui  correzione  si  tratta,  da cio' deducendosi, a
contrario,  che,  nel  caso di proposizione dell'appello, il relativo
potere  spetterebbe,  con  analogo  procedimento  e provvedimento, al
giudice di secondo grado; ma osserva che tale opzione interpretativa,
pur  apprezzabile,  non  e'  condivisibile,  perche'  palesemente  in
contrasto  con  lettera  della  disciplina  vigente  e con il diritto
vivente.
    Ritiene  infatti  il  giudice  a  quo  che  l'attuale  codice  di
procedura  civile, a differenza di quello del 1865 (che nell'art. 473
aderi'  in  effetti  a  un  diverso  punto  di  vista), ha sancito la
competenza  funzionale del giudice che ha adottato un provvedimento a
procedere  alla  correzione  dello stesso, salva l'ipotesi in cui sia
stato  proposto  appello, perche' in tal caso il giudice dell'appello
puo'  disporre  la  correzione  «in  considerazione del piu' generale
potere  devolutivo  conseguente alla proposizione dell'impugnazione»:
di  qui  l'opinione  dominante,  in  dottrina  ed  in giurisprudenza,
secondo  la  quale l'appello «assorbe» il procedimento di correzione.
Del  resto, rileva il giudice a quo, proprio «nella mancanza di detto
potere devolutivo» si rinviene la ragione della indiscussa esclusione
del  potere  di correzione, da parte della Corte di cassazione, degli
errori  materiali  da  cui fosse affetta una sentenza davanti ad essa
impugnata.
    La  circostanza  che  l'appello  sfocia  per  sua  natura  in una
sentenza  che  -  rescissa  in ogni caso, la confermi o la modifichi,
quella  di  primo  grado - si sostituisce a quella impugnata comporta
che il giudice d'appello puo' esercitare il potere di correzione solo
con  la  pronuncia  della  sentenza  conclusiva  e  non  gia'  con un
procedimento  ad  hoc;  e  proprio  in  questa  prospettiva  (portata
sostitutiva del riesame) la Corte costituzionale ritenne - osserva il
giudice  a  quo  -  non  rilevante la questione di legittimita' della
esclusione,  dal  novero  dei  provvedimenti correggibili ex art. 287
cod.  proc. civ., del decreto ingiuntivo opposto (sentenza n. 393 del
1994).
    D'altra  parte,  la previsione (ultimo comma dell'art. 288) della
possibilita'  di  impugnare  le  parti  corrette  esclude  che  possa
configurarsi  un  procedimento di correzione nell'ambito del giudizio
di  appello, perche' dovrebbe ammettersi l'impugnabilita' delle parti
corrette   innanzi   allo  stesso  giudice  che  tale  correzione  ha
effettuato,   in   contrasto   con   il   generale   principio  della
sovraordinazione dell'organo competente per l'impugnazione.
    Ancora:  il  secondo  comma dell'art. 288 cod. proc. civ. prevede
l'annotazione   della  correzione  sull'originale  del  provvedimento
corretto,  e  tale  formalita'  ha un senso solo in quanto riferita a
un'ordinanza  (o  a  un decreto) adottata dallo stesso ufficio che ha
emesso  il  provvedimento annotando, laddove la decisione del giudice
d'appello, quand'anche si limiti a disporre la correzione dell'errore
materiale  in  cui sia incorso il primo giudice, non va mai annotata,
ma  sostituisce semplicemente quella impugnata. Non a caso si ritiene
pacificamente  che  il  potere  di correzione debba essere esercitato
anche   in   caso  di  rigetto  dell'appello  o  di  declaratoria  di
inammissibilita'   o   di   improcedibilita'  dello  stesso,  mentre,
nell'ipotesi  di  cancellazione  della  causa  dal ruolo, il processo
andra'  riassunto ai fini della pronuncia (con sentenza) sull'istanza
di   correzione:   diritto   vivente   che  renderebbe  assolutamente
inimmaginabile,  in via di interpretazione analogica, un procedimento
incidentale  disciplinato  dagli  artt. 287  e  288  cod.  proc. civ.
innanzi al giudice d'appello.
    1.4. - Cosi' ricostruita la disciplina di riferimento, il giudice
a  quo osserva che essa, coerente ad un sistema in cui la sentenza di
primo  grado  non  era,  in  via  di principio - e salvo le eccezioni
previste  dalla  legge - provvisoriamente esecutiva, e' incompatibile
con  un  sistema nel quale la provvisoria esecutivita' della sentenza
di  primo  grado  costituisce  la  regola:  l'art. 287  si  porrebbe,
pertanto, in contrasto con l'art. 3 Cost., sia sotto il profilo della
disparita'  di  trattamento  di situazioni giuridiche sostanzialmente
uguali,  che  sotto quello della ragionevolezza. E invero, precludere
l'esecuzione  per la sola ragione che avverso la decisione affetta da
errore  materiale  sia  stato  proposto  appello, e' scelta normativa
irragionevole  e  lesiva  del principio di uguaglianza per il diverso
trattamento  riservato alle sentenze, a seconda che esse siano o meno
affette  da  errore  materiale,  e cioe' da un errore che incide solo
sull'espressione  grafica  del  dictum del giudice, e cio' tanto piu'
che dottrina e giurisprudenza ritengono esperibile il procedimento di
correzione  anche  avverso  decisioni  per  le  quali  i  termini  di
impugnazione non siano ancora scaduti e che non siano pertanto ancora
passate in giudicato.
    Ad  avviso  del  rimettente  inoltre  l'art. 287 cod. proc. civ.,
laddove  inibisce  al cittadino di iniziare l'esecuzione solo perche'
il provvedimento decisorio e' affetto da errore materiale, lede anche
l'art. 24,  primo  comma, Cost., considerato il carattere sicuramente
giurisdizionale  del  processo  esecutivo  e  la  sua  inerenza  alla
realizzazione del diritto costituzionale di agire in giudizio.
    Infine,  se  l'effettiva soddisfazione di una pretesa si consegue
solo  con  la  sua  esecuzione  (spontanea o forzata), deve ritenersi
altresi'  fondato  il  dubbio di compatibilita' della norma censurata
con il precetto sancito dall'art. 111 Cost., perche' l'impossibilita'
di  conseguire  la  correzione,  in pendenza del giudizio di appello,
impedisce  la realizzazione del diritto entro un termine ragionevole,
e  cio'  tanto  piu'  che, in tale contesto normativo, l'impugnazione
potrebbe   essere   proposta   al   fine   puramente  strumentale  di
paralizzare,    insieme   all'esperibilita'   del   procedimento   di
correzione,  la  possibilita'  per  la  parte  vittoriosa di agire in
executivis.
    Del resto, considerato che la sentenza di primo grado di condanna
al  pagamento  di  una  somma  di  denaro  o all'adempimento di altro
obbligo  o  al  risarcimento dei danni, da liquidarsi successivamente
era,  gia' nel vecchio sistema, e a prescindere dalla sua provvisoria
esecutivita',  titolo  per  l'iscrizione  dell'ipoteca giudiziale, il
sospetto  di  contrarieta'  dell'art. 287  cod.  proc.  civ.  con  il
precetto   dell'art. 3,  secondo  comma,  Cost.,  non  sarebbe  stato
manifestamente  infondato  neppure  nella  vigenza  del vecchio testo
dell'art. 282 cod. proc. civ.
    1.5.  -  In  punto  di  ammissibilita' della sollevata questione,
rileva   il   rimettente  che  alla  proposizione  dell'incidente  di
costituzionalita'  non  osta  la  pretesa  natura  amministrativa del
procedimento di correzione, in quanto con tale espressione si mira in
realta'  solo  a porre in evidenza il suo carattere ordinatorio e non
decisorio:  senza  dire  che  tale  profilo  e'  gia' stato vagliato,
seppure  implicitamente,  dalla Corte costituzionale nella menzionata
sentenza n. 393 del 1994.
    1.6.  -  Quanto  alla  rilevanza  della  questione,  premette  il
rimettente  che,  ove  non  venisse  dichiarata l'incostituzionalita'
della   norma   censurata,   esso   decidente   dovrebbe   dichiarare
l'inammissibilita',  ovvero  l'improcedibilita'  del  procedimento di
correzione  davanti  a  lui pendente, con conseguente compressione di
rilevanti interessi delle parti.
    Il  giudice  a  quo  osserva  che  la  rilevanza  della questione
sussiste  anche  se  si  segue l'opinione - fortemente contrastata in
dottrina,  ma  prevalente in giurisprudenza e comunque avvalorata dal
dettato  del primo comma dell'art. 653 cod. proc. civ. - secondo cui,
a  seguito  del  rigetto  dell'opposizione, quella che viene posta in
esecuzione  e'  l'ingiunzione  portata dal decreto: e cio' perche' la
sentenza  di  rigetto dell'opposizione ben puo' contenere statuizioni
di condanna diverse e ulteriori rispetto a quelle portate dal decreto
ingiuntivo, tra le quali segnatamente, come nella fattispecie dedotta
in  giudizio,  proprio  la  condanna  al  pagamento  delle  spese del
processo di opposizione.
    La  tesi  della  non  esecutivita' di questo capo della pronuncia
(affermata   nella   giurisprudenza  di  legittimita'  in  forza  del
carattere  puramente  accessorio  di  tale  capo rispetto a quello di
rigetto,    ontologicamente   insuscettibile   di   esecuzione)   non
meriterebbe di essere seguita, in quanto essa comporta che il capo di
condanna  al  pagamento  delle  spese  diventi  esecutivo solo con il
passaggio   in   giudicato   della  sentenza,  con  un'insopportabile
disparita' di trattamento tra attore e convenuto, ed un irragionevole
pregiudizio  per  il  difensore  antistatario,  divenuto  titolare, a
seguito  della  pronuncia  in  suo  favore, di un rapporto autonomo e
diretto con la parte soccombente.
    In  definitiva, conclude il rimettente, solo l'accoglimento della
proposta  questione  di  costituzionalita'  consentirebbe  a Carlo Di
Simone,   ottenuta   la   correzione   della   sentenza   di  rigetto
dell'opposizione,  di  utilizzare  la  stessa  come titolo esecutivo,
senza  attendere  l'esito  del  giudizio  di  appello  proposto dalle
controparti.
    2.  -  Il  Presidente  del Consiglio dei ministri, intervenuto in
giudizio  con la rappresentanza dell'Avvocatura generale dello Stato,
ha   chiesto   dichiararsi  inammissibile  o  comunque  infondata  la
questione proposta.
    Osserva  l'interveniente  che la questione - in ipotesi rilevante
solo  per cio' che riguarda la liquidazione delle spese operata dalla
sentenza  di  rigetto  dell'opposizione  a decreto ingiuntivo, titolo
esecutivo  essendo,  quanto al resto, il provvedimento monitorio - e'
comunque   mal  posta,  perche'  il  relativo  capo della  pronuncia,
accedendo a decisione di rigetto, e non gia' di condanna, non sarebbe
comunque  esecutivo  per  legge.  Ne'  sarebbe  possibile una lettura
dell'art. 653 cod. proc. civ. che, dalla riformulazione dell'art. 282
cod. proc. civ., operata con la riforma del 1990, deduca il carattere
di   «inutile   pleonasmo»   del   richiamo,  cola'  contenuto,  alla
provvisoria esecutivita', posto che ora la sentenza di primo grado e'
sempre  esecutiva:  e invero, per consolidato diritto vivente, mentre
l'esecutorieta'  della  sentenza, nella parte relativa alle spese, e'
inscindibilmente  connessa  a  quella  del  capo principale, non sono
provvisoriamente  esecutive  ne'  le  pronunce di rigetto, ne' quelle
costitutive, ne' quelle di accertamento.
    Tale  assetto  normativo, conclude l'Avvocatura, e' assolutamente
coerente  con  i  precetti costituzionali, perche' il principio della
ragionevole  durata  del  processo, di cui all'art. 111 Cost., non ha
nulla  a  che vedere ne' con l'esecutivita' della sentenza, ne' con i
mezzi  di  impugnazione  avverso  la  stessa, ma piuttosto attiene al
lasso   di   tempo   impiegato   dagli   organi  giurisdizionali  per
pronunciarla;  il  principio  di  eguaglianza, di cui all'art. 3, non
puo'  essere  invocato  quando  siano  diverse  le situazioni messe a
raffronto;  l'art. 24  infine non e' incompatibile con il sistema dei
gravami,  perche'  la statuizione racchiusa nel giudicato costituisce
l'unica verita' processuale, sulla quale vanno parametrate le nozioni
di «ragione» e di «torto».

                       Considerato in diritto

    1.   -   Il  Tribunale  di  L'Aquila  dubita  della  legittimita'
costituzionale,   in   riferimento  agli  artt. 3,  24  e  111  della
Costituzione,  dell'art. 287  del  codice  di procedura civile, nella
parte  in  cui prevede che «le sentenze contro le quali non sia stato
proposto  appello» possono essere corrette con il procedimento di cui
al  successivo art. 288 «dallo stesso giudice che le ha pronunciate»,
qualora  questi sia incorso in errori materiali, e quindi nella parte
in  cui  limita la facolta' della parte di avvalersi del procedimento
di  correzione  degli  errori materiali alle sole «sentenze contro le
quali  non  sia  stato proposto appello», conseguentemente escludendo
che  quelle  appellate  possano essere corrette «dallo stesso giudice
che le ha pronunciate» indipendentemente dalla decisione del mezzo di
gravame.
    2.   -  L'eccezione  di  inammissibilita'  della  questione,  per
irrilevanza,  sollevata  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  e'
infondata.
    Il problema dell'interpretazione dell'art. 653, primo comma, cod.
proc.  civ.  -  e  cioe'  se, in caso di rigetto dell'opposizione, il
titolo   esecutivo   sia  costituito  dal  decreto  ingiuntivo  (come
sostiene,  sulla  base  della  lettera della norma, la giurisprudenza
prevalente)   ovvero   dalla   sentenza  (come  ritiene  la  dottrina
maggioritaria)  -  non riveste rilievo di sorta nel presente giudizio
una  volta  che si convenga, con l'unanime dottrina e giurisprudenza,
che  e'  la  sentenza di rigetto dell'opposizione - senza necessita',
dopo  la  riforma  dell'art. 282  cod. proc. civ., che sia dichiarata
provvisoriamente  esecutiva  -  a  consentire al creditore opposto di
procedere  esecutivamente  (si  utilizzi  come  titolo  esecutivo  il
decreto ovvero la sentenza stessa) nei confronti dell'ingiunto; cosi'
come  non  riveste rilievo alcuno la qualificazione che voglia darsi,
in   relazione   al   capo sulle  spese,  alla  sentenza  di  rigetto
dell'opposizione,  chiaro  essendo  (come rende manifesto l'art. 653,
comma  secondo, cod. proc. civ.) che sotto nessun profilo la sentenza
di  rigetto  dell'opposizione  (che segue, cioe', un provvedimento di
condanna, e ne conferma il contenuto) e' equiparabile ad una sentenza
di rigetto della domanda.
    Se   quest'ultimo   rilievo   chiarisce  l'estraneita',  rispetto
all'attuale  questione,  di  quanto  questa  Corte  ha  avuto modo di
statuire  con  la  sentenza  n. 232  del  2004, il primo rilievo - la
constatazione,  cioe',  che  la  sentenza di rigetto dell'opposizione
riveste  un  ruolo  costitutivo  per l'azione esecutiva del creditore
(vanamente)  opposto  -  vale  a  rendere  palese  la rilevanza della
questione  anche  se si ritiene che il titolo esecutivo e' costituito
dal  decreto ingiuntivo: posto che «contemporaneamente (alla notifica
della   citazione   in   opposizione)  l'ufficiale  giudiziario  deve
notificare avviso dell'opposizione al cancelliere affinche' ne prenda
nota  sull'originale  del  decreto»  (art. 645,  primo comma, seconda
parte, cod. proc. civ.), e' del tutto ovvio che il decreto ingiuntivo
acquista  esecutorieta' (cfr. art. 654, primo comma, cod. proc. civ.)
solo  ove  la sentenza di rigetto dell'opposizione risulti «coerente»
con  il  decreto  ingiuntivo  opposto;  cosi'  come  e'  ovvio che la
pendenza    di   un   procedimento   di   correzione   per   inesatta
identificazione   del   creditore   opposto   vale   ad  impedire  il
conferimento dell'efficacia esecutiva al decreto stesso.
    Nulla  quaestio,  e'  appena il caso di rilevare, ove si aderisse
alla  tesi - preferita dal giudice a quo - secondo la quale il titolo
esecutivo    sarebbe    costituito    dalla   sentenza   di   rigetto
dell'opposizione.
    3. - La questione e' fondata.
    3.1.  -  E'  noto che la disciplina della correzione degli errori
materiali  (o  di calcolo e delle omissioni) e' frutto di un processo
volto,   in   primo  luogo,  a  distinguere  tali  errori  da  quelli
rimediabili  esclusivamente attraverso i mezzi di impugnazione; cosi'
come  e'  noto  che  tale  distinzione  e'  ben presto sfociata in un
problema  di  rapporti  tra  procedimenti  in  quanto essa - dapprima
operata  attraverso  la  «non  necessita» di percorrere «la via della
rivocazione»   (art. 580   cod.   proc.   civ.   sardo  del  1859)  -
successivamente  lo  fu  sancendo  la  «non necessita» di «alcuno dei
mezzi   indicati   nell'art. 465  per  far  emendare  nelle  sentenze
omissioni,  o  errori,  che  non  ne  producano la nullita' a termini
dell'art. 361» (art. 473 cod. proc. civ. 1865).
    Tale   «non   necessita»,   intesa   originariamente   come  mera
possibilita'  di non utilizzare uno strumento sproporzionato rispetto
alla  bisogna,  pose  come  centrale  il  problema - quando il citato
art. 473  disciplino'  un procedimento ad hoc per la correzione - del
rapporto di tale procedimento speciale con quello d'impugnazione: se,
cioe',  la correzione potesse chiedersi esclusivamente utilizzando il
procedimento  speciale  (ovvero anche con l'«eccessivo», ma anch'esso
idoneo  mezzo  d'impugnazione) e, in caso di risposta affermativa, se
il  procedimento  speciale  dovesse  o potesse essere utilizzato pure
nell'ipotesi di proposizione di un mezzo di impugnazione.
    E'   noto   che   prevalse   nettamente,   in   dottrina   ed  in
giurisprudenza,   la  tesi  della  obbligatorieta'  del  procedimento
speciale e, nel contempo, quella della sua inutilizzabilita' nel caso
di proposizione, purche' anteriore al provvedimento di correzione, di
un   mezzo   di   impugnazione  ordinario  (all'epoca,  l'opposizione
contumaciale  e  l'appellazione:  art. 465, secondo comma, cod. proc.
civ. 1865), in quanto la decisione finale si sostituiva integralmente
a quella (impugnata) da correggere.
    3.2.  -  Il  codice vigente - separati nettamente nel libro II il
procedimento di correzione (titolo I) dalle impugnazioni (titolo III)
ed  il  loro  oggetto  (descritto, rispettivamente, negli artt. 287 e
161,  primo  comma,  cod.  proc. civ.) - ha statuito che «le sentenze
contro  le  quali  non  sia stato proposto appello ... possono essere
corrette,  sul  ricorso  di  parte,  dallo  stesso  giudice che le ha
pronunciate  ...».  La  circostanza  che  tale  locuzione fosse stata
preceduta  dall'ampio  dibattito,  sopra  sommariamente ricordato, ha
fatto  si'  che  essa  sia stata subito, e quasi unanimemente, intesa
come  confermativa  dell'orientamento  dominante  nella  vigenza  del
codice  del 1865: nel senso, cioe', che il procedimento di correzione
e'  «assorbito»  in  quello  di  appello che lo renderebbe inutile (e
inammissibile),   essendo   l'appello   un  rimedio  con  devoluzione
illimitata,  destinato a concludersi con una pronuncia sostitutiva di
quella bisognosa di correzione.
    Le  medesime  norme  sono state ritenute idonee a disciplinare la
correzione sia delle sentenze d'appello sia (anteriormente alla legge
26 novembre  1990,  n. 353,  art. 67) quelle di cassazione: nel primo
caso  perche'  la proposizione di un mezzo d'impugnazione limitato, e
per  cio'  stesso inidoneo come il ricorso per cassazione - cfr., per
l'analoga  situazione  della  «sentenza  arbitrale»,  l'art. 826 cod.
proc.  civ.  nel  testo  ante  legge  5 gennaio  1994,  n. 25  (Nuove
disposizioni  in  materia  di  arbitrato  e disciplina dell'arbitrato
internazionale)  -,  non impediva al giudice d'appello di emendare la
propria  sentenza;  nel  secondo  caso perche' la correzione da parte
della  Corte di cassazione dell'errore inficiante la propria sentenza
non   vulnerava,  attesa  l'ontologica  diversita'  della  correzione
dall'impugnazione, il principio della inimpugnabilita' delle sentenze
della Suprema Corte. Diversita', e' il caso di ricordare, ribadita da
questa  Corte quando - avendo il legislatore equiparato (art. 391-bis
cod. proc. civ., introdotto dall'art. 67 della legge n. 353 del 1990)
l'errore   materiale   a   quello   revocatorio   sotto   il  profilo
procedimentale  - ha censurato l'irragionevolezza, risolventesi anche
in  violazione  dell'art. 24  Cost., della pretesa di uniformare «due
istituti  (correzione  e  revocazione) che sono eterogenei» (sentenza
n. 119 del 1996).
    Le medesime norme, ancora, sostanzialmente disciplinano - dopo la
profonda  riforma dell'arbitrato operata dalla legge n. 25 del 1994 -
anche  la  correzione  del lodo arbitrale; procedimento di correzione
insensibile  alla  proposizione dell'impugnazione per nullita' (e per
revocazione e opposizione di terzo: art. 831 cod. proc. civ.), la cui
competenza  e'  distribuita  tra arbitri e (dopo il deposito) giudice
dell'exequatur.
    3.3.  -  Dal  quadro  normativo  appena  delineato emerge come la
regola  per  cui  il  procedimento  di correzione e' insensibile alla
proposizione dell'impugnazione ed e' di competenza del giudice che ha
emesso  il  provvedimento  affetto  da  errore  (lato sensu) ostativo
subisce   l'unica  eccezione  della  sentenza  di  primo  grado  gia'
investita  dall'appello  (sentenza  di  primo  grado  alla  quale e',
ovviamente,  equiparabile il decreto ingiuntivo: cfr. sentenza n. 393
del 1994).
    Come   si  e'  ricordato,  tale  eccezione  e'  stata  da  sempre
giustificata  con  la  particolare  natura - di mezzo di impugnazione
illimitato  e  con  effetto  sostitutivo  -  dell'appello,  la  quale
consente  di  «assorbire»  in  tale  procedimento  quello speciale di
correzione  e  di  trasferire  al  giudice  dell'appello  il relativo
potere:  donde  la  conclusione  che,  «rientrando  la correzione nei
compiti  di  revisione conferiti al giudice del gravame», questi puo'
disporla  solo  con  la  sentenza  che,  decidendo  sull'appello,  si
sostituisce a quella gravata.
    Il  rimettente  espone  puntualmente  gli  inconvenienti che tale
soluzione  produceva  anche  anteriormente  alla  Novella del 1990, e
ricorda  come  non  abbia  riscosso apprezzabile seguito il tentativo
dottrinale  di limitarli attraverso una interpretazione dell'art. 287
cod.  proc.  civ.  che vi leggeva esclusivamente una disciplina della
competenza  (del  giudice  a quo prima, e del giudice ad quem dopo la
proposizione   dell'appello)  a  gestire  il  procedimento  speciale:
inconvenienti  che,  come questa Corte ha ripetutamente statuito (tra
le  tante,  sentenze  n. 204  e  n. 32  del  2001), non consentono di
sindacare  la  discrezionalita'  del  legislatore nel disciplinare il
processo  se  non  quando  essi denotano una manifesta irrazionalita'
della   disciplina   ovvero   l'assenza   di   una   valida   ragione
giustificativa delle scelte legislative.
    3.4. - Osserva la Corte che le esigenze di economia processuale -
la superfluita', cioe', dell'esperimento del procedimento speciale in
pendenza  di  un  giudizio (d'appello) idoneo ad emendare la sentenza
dall'errore  che  la  inficiava, trattandosi, come e' stato detto, di
«una  correzione  in  pura  perdita, quasi un ornamento apposto a una
casa  destinata  a  crollare»  -  potevano costituire una sufficiente
giustificazione  della  scelta legislativa, e degli inconvenienti che
essa  comportava,  quando  la  sentenza  di primo grado, sia pure con
eccezioni  sempre  piu'  frequenti,  era  ancora normalmente priva di
efficacia  esecutiva  in  ragione della sua appellabilita' (art. 337,
primo comma, cod. proc. civ., ante legge n. 353 del 1990, art. 49).
    La  sostituzione  della norma da ultimo citata con quella secondo
cui   «l'esecuzione   della  sentenza  non  e'  sospesa  per  effetto
dell'impugnazione»,  unita  all'espressa  previsione  della immediata
esecutivita' della sentenza di primo grado (art. 282 cod. proc. civ.,
come  sostituito  dall'art. 33  della  legge  n. 353  del  1990),  ha
modificato  profondamente  il  quadro  normativo nel quale continua a
collocarsi  l'art. 287  e  la scelta legislativa con esso operata: la
sentenza  appellata,  affetta  da errore correggibile, era sottoposta
olim  al  regime ordinario della sentenza di primo grado (quello c.d.
della sentenza soggetta a gravame), laddove, dopo la legge n. 353 del
1990,  ad  essa  continua ad essere riservato il medesimo trattamento
che,  pero', e' divenuto eccezionale e deteriore rispetto a quello di
cui gode, oggi, la sentenza di primo grado.
    3.5.  - Non soltanto, dunque, le ragioni di economia processuale,
sulle quali si fondava la scelta legislativa di cui all'art. 287 cod.
proc.  civ.,  risultano  profondamente «indebolite» da cio', che esse
diventano  causa  di assoggettamento della sentenza di primo grado ad
un  regime  eccezionale  (laddove,  in  precedenza,  esse provocavano
l'assoggettamento  al  regime  ordinario  anche  delle  sentenze che,
eccezionalmente,   erano   munite   di   efficacia   esecutiva),   ma
l'intrinseca «debolezza» di quelle ragioni e' testimoniata dalla loro
non  costante  applicazione: il sopravvenire dell'appello in pendenza
del  procedimento  di  correzione non determina l'improcedibilita' di
quest'ultimo,  cosi'  come  qualsiasi  altro  mezzo di impugnazione -
anche  se  non  limitato  -  non  comporta ne' l'inammissibilita' ne'
l'improcedibilita' del procedimento di correzione.
    Le  esigenze di economia processuale recepite dal legislatore con
l'art. 287  cod.  proc.  civ.,  in sintesi, sono tali da tollerare la
pendenza   contestuale   del   procedimento   di   correzione  e  dei
procedimenti  di  impugnazione, e perfino del procedimento di appello
quando  questo sia posteriore a quello di correzione; in conclusione,
esse  sono  poste  a  fondamento  di  un'eccezionale  disciplina  dei
rapporti   tra   procedimento   di   correzione   e  procedimenti  di
impugnazione.
    3.6.  -  L'eccezionalita'  della  disciplina  del procedimento di
correzione  nei suoi rapporti con la previa pendenza del procedimento
d'appello,  e  l'eccezionale  regime della sentenza di primo grado al
quale esso da' luogo, determinano, con il loro sommarsi e combinarsi,
una manifesta irragionevolezza della disciplina dettata dall'art. 287
cod.  proc.  civ.  allorche'  sottrae  al procedimento di correzione,
davanti al giudice che le ha pronunciate, le sentenze contro le quali
sia stato proposto appello.
    Tale irragionevolezza si risolve altresi' in una ingiustificabile
compressione   del   diritto  di  agire  esecutivamente  della  parte
vittoriosa,  e  pertanto  -  costituendo l'azione esecutiva strumento
essenziale  dell'effettivita'  della  tutela giurisdizionale - in una
violazione  dell'art. 24  Cost. (sentenze n. 321 del 1998; n. 333 del
2001; n. 336, n. 444 e n. 522 del 2002; n. 155 del 2004).
                          Per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
    Dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 287 del codice
di  procedura  civile  limitatamente alle parole «contro le quali non
sia stato proposto appello».
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 28 ottobre 2004.
                      Il Presidente: Mezzanotte
                      Il redattore: Vaccarella
                       Il cancelliere:Di Paola
    Depositata in cancelleria il 10 novembre 2004.
              Il direttore della cancelleria: Di Paola
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