N. 34 SENTENZA 12 - 26 gennaio 2005

Giudizio di legittimita' costituzionale in via principale.

Istruzione   pubblica   -  Norme  della  Regione  Emilia-Romagna  sul
  rafforzamento  dell'istruzione  e  della formazione professionale -
  Prevista  concessione  di  assegni di studio ai docenti e dirigenti
  scolastici   che  si  avvalgano  del  periodo  di  aspettativa  non
  retribuita - Asserita violazione di un principio fondamentale della
  legislazione  statale in materia di istruzione; discriminazione fra
  situazioni  identiche  dei  dipendenti scolastici; contrasto con il
  principio  di  buon  andamento della pubblica amministrazione - Non
  incidenza  della  norma  censurata sul principio fondamentale della
  legge  statale  in quanto finalizzata alla elevazione professionale
  del personale scolastico - Non fondatezza della questione.
- Legge  della  Regione Emilia-Romagna 30 giugno 2003, n. 12, art. 7,
  comma 5.
- Costituzione, artt. 117, terzo comma, 3 e 97, primo comma.
Istruzione   pubblica   -  Norme  della  Regione  Emilia-Romagna  sul
  rafforzamento  dell'istruzione  e  della formazione professionale -
  Definizione     e    disciplina    dell'istituto    dell'alternanza
  scuola-lavoro   -   Asserita  invasione  della  competenza  statale
  esclusiva  a  dettare norme generali sull'istruzione - Esclusione -
  Denuncia   di   norma   che   ripete  sinteticamente  il  contenuto
  definitorio della legge statale - Non fondatezza della questione.
- Legge  della  Regione Emilia-Romagna 30 giugno 2003, n. 12, art. 9,
  comma 3.
- Costituzione, art. 117, secondo comma, lettera n).
Istruzione   pubblica   -  Norme  della  Regione  Emilia-Romagna  sul
  rafforzamento  dell'istruzione  e  della formazione professionale -
  Definizione  delle  finalita' della scuola dell'infanzia - Asserita
  invasione  della  competenza  statale  esclusiva  a  dettare  norme
  generali   sull'istruzione   -   Esclusione  -  Predisposizione  di
  interventi  rientranti  nelle  competenze  regionali  in materia di
  istruzione - Non fondatezza della questione.
- Legge della Regione Emilia-Romagna 30 giugno 2003, n. 12, art. 17.
- Costituzione, art. 117, secondo comma, lettera n).
Istruzione   pubblica   -  Norme  della  Regione  Emilia-Romagna  sul
  rafforzamento  dell'istruzione  e  della formazione professionale -
  Definizione dell'educazione degli adulti e delle relative attivita'
  -  Asserita  invasione della competenza statale esclusiva a dettare
  norme  generali  sull'istruzione  -  Esclusione  - Riconducibilita'
  della  norma  denunciata  alla  competenza  regionale in materia di
  istruzione  e  formazione  professionale  -  Non  fondatezza  della
  questione.
- Legge della Regione Emilia-Romagna 30 giugno 2003, n. 12, art. 41.
- Costituzione, art. 117, secondo comma, lettera n).
Istruzione   pubblica   -  Norme  della  Regione  Emilia-Romagna  sul
  rafforzamento  dell'istruzione  e  della formazione professionale -
  Previsioni in materia di integrazione tra i sistemi dell'istruzione
  e  della formazione professionale - Asserita violazione dei diritti
  degli studenti che provengono da percorsi non integrati nonche' dei
  principi   di  uguaglianza  e  di  buon  andamento  della  pubblica
  amministrazione - Esclusione - Non fondatezza della questione.
- Legge  della Regione Emilia-Romagna 30 giugno 2003, n. 12, art. 26,
  comma 2.
- Costituzione, artt. 3 e 97.
Istruzione   pubblica   -  Norme  della  Regione  Emilia-Romagna  sul
  rafforzamento  dell'istruzione  e  della formazione professionale -
  Prevista approvazione da parte del Consiglio regionale, su proposta
  della  Giunta,  dei  criteri per la definizione dell'organizzazione
  scolastica, ivi compresi i parametri dimensionali delle istituzioni
  scolastiche - Denunciata incidenza sui livelli unitari di fruizione
  del  diritto  allo  studio  ed  asserita invasione della competenza
  statale  esclusiva  a  dettare  norme  generali  sull'istruzione  -
  Esclusione  -  Riconducibilita'  della  disposizione censurata alla
  competenza  legislativa  concorrente  della  Regione  in materia di
  istruzione,   riguardando   in   particolare   il   settore   della
  programmazione scolastica - Non fondatezza della questione.
- Legge  della Regione Emilia-Romagna 30 giugno 2003, n. 12, art. 44,
  comma 1, lettera c).
- Costituzione, art. 117, secondo comma, lettera n).
(GU n.5 del 2-2-2005 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
  Presidente: Carlo MEZZANOTTE;
  Giudici:   Fernanda  CONTRI,  Guido  NEPPI  MODONA,  Piero  Alberto
CAPOTOSTI,  Annibale  MARINI,  Franco  BILE,  Giovanni  Maria  FLICK,
Francesco   AMIRANTE,   Ugo   DE  SIERVO,  Romano  VACCARELLA,  Paolo
MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA;
ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel  giudizio  di legittimita' costituzionale degli artt. 7, comma 5;
9, comma 3; 17; 26, comma 2; 41; 44, comma 1, lettera c), della legge
della   Regione   Emilia-Romagna  30 giugno 2003,  n. 12  (Norme  per
l'uguaglianza  delle  opportunita' di accesso al sapere, per ognuno e
per   tutto   l'arco   della   vita,   attraverso   il  rafforzamento
dell'istruzione   e   della   formazione   professionale,   anche  in
integrazione  tra  loro),  promosso  con  ricorso  del Presidente del
Consiglio  dei  ministri, notificato il 19 agosto 2003, depositato in
cancelleria  il  25  successivo  ed  iscritto  al  n. 64 del registro
ricorsi 2003.
    Visto l'atto di costituzione della Regione Emilia-Romagna;
    Udito  nell'udienza  pubblica  del  22  giugno 2004 il Presidente
relatore Carlo Mezzanotte;
    Uditi  l'avvocato dello Stato Oscar Fiumara per il Presidente del
Consiglio  dei  ministri  e  l'avvocato  Giandomenico  Falcon  per la
Regione Emilia-Romagna.

                          Ritenuto in fatto

    1.  -  Con  ricorso  notificato il 19 agosto 2003 e depositato il
successivo  25  agosto,  il  Presidente del Consiglio dei ministri ha
proposto  questione  di  legittimita'  costituzionale  degli artt. 7,
comma 5;  9,  comma 3;  17; 26, comma 2; 41; 44, comma 1, lettera c),
della legge della Regione Emilia-Romagna 30 giugno 2003, n. 12 (Norme
per l'uguaglianza delle opportunita' di accesso al sapere, per ognuno
e   per   tutto   l'arco  della  vita,  attraverso  il  rafforzamento
dell'istruzione   e   della   formazione   professionale,   anche  in
integrazione tra loro).
    Il  ricorrente  premette  che  la  legge  denunciata - che abroga
l'intero  Capo III  (recte:  Parte  III,  Titolo VII, Capo III) della
precedente legge regionale n. 3 del 1999, con cui era disciplinato il
sistema  educativo  regionale  - si propone di valorizzare la persona
umana    attraverso    l'innalzamento   dei   livelli   culturali   e
professionali. A tal fine, la medesima legge interviene sui «processi
dell'istruzione  non  formale», dando rilievo all'integrazione fra le
politiche  scolastiche  autonome  e le politiche sociali e sanitarie,
tramite  la  creazione  di  centri di servizio e di consulenza per le
istituzioni  scolastiche  autonome, favorendo altresi' interventi per
la continuita' didattica.
    Ad  avviso  della  difesa  erariale,  la  Regione  avrebbe  pero'
travalicato  le  sue  competenze, violando, con la normativa appresso
specificata, gli artt. 3, 97, 117, secondo comma, lettera n), e terzo
comma,  Cost.,  in  relazione  ai principi fondamentali dettati dallo
Stato nella materia dell'istruzione.
    Piu' in particolare, il ricorrente denuncia le disposizioni della
legge regionale n. 12 del 2003 che seguono.
    1.1.  -  L'art. 7,  comma 5,  prevede  che, per il raggiungimento
delle  finalita'  della  qualificazione  delle  risorse  umane, «sono
concessi assegni di studio da destinare al personale della formazione
professionale,  nonche'  al personale della scuola che si avvalga del
periodo  di  aspettativa  di  cui  all'art. 26, comma 14, della legge
23 dicembre 1998, n. 448 [...]».
    La  richiamata  norma  statale  a  sua  volta  stabilisce, in via
generale,  che «i docenti e i dirigenti scolastici che hanno superato
il  periodo  di  prova possono usufruire di un periodo di aspettativa
non  retribuita della durata massima di un anno scolastico ogni dieci
anni [....]».
    Secondo il ricorrente «l'incentivo previsto dalla legge regionale
altera  la  regola  generale fissata dalla legge statale, violando un
principio  fondamentale  da  essa  posto,  creando disuguaglianza fra
situazioni  identiche  dei  dipendenti  scolastici, disarticolando il
buon andamento della pubblica amministrazione».
    Di  qui la violazione degli artt. 117, terzo comma, 3 e 97, primo
comma, Cost.
    1.2.  -  L'art. 9,  comma 3,  testualmente  recita  «l'alternanza
scuola-lavoro e' una modalita' didattica, non costituente rapporto di
lavoro,  realizzata  nell'ambito  dei  percorsi  di  istruzione  o di
formazione  professionale,  anche integrati, quale efficace strumento
di  orientamento,  preparazione professionale e inserimento nel mondo
del  lavoro.  Essa  si  realizza  attraverso  esperienze  in contesti
lavorativi   che  devono  essere  adeguati  all'accoglienza  ed  alla
formazione».
    L'Avvocatura osserva che l'istituto «alternanza scuola-lavoro» ha
una  valenza generale e rientra nelle norme generali sull'istruzione,
tant'e'  che  e'  proprio  l'art. 4  della legge 28 marzo 2003, n. 53
(Delega   al   Governo   per  la  definizione  delle  norme  generali
sull'istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia
di  istruzione e formazione professionale) ad indicare i principi e i
criteri direttivi che il legislatore statale delegato deve rispettare
in tema di «alternanza scuola-lavoro».
    La   censurata   disposizione   di  legge  regionale  violerebbe,
pertanto, l'art. 117, secondo comma, lettera n), Cost.
    1.3.  -  L'art. 17  della  legge regionale definisce le finalita'
della scuola dell'infanzia e, proprio per questo, viene censurata dal
ricorrente   in   quanto   la  finalita'  dei  percorsi  del  sistema
dell'istruzione   rientra   fra  le  norme  generali  sull'istruzione
riservate   alla  competenza  esclusiva  dello  Stato.  E'  l'art. 2,
comma 1,   lettera e),  della  legge  n. 53  del  2003  ad  occuparsi
specificamente della scuola dell'infanzia, sicche' la norma regionale
si  porrebbe  in contrasto con l'art. 117, secondo comma, lettera n),
Cost.
    1.4.  - L'art. 26, comma 2, introduce nel sistema formativo norme
in  materia  di  integrazione  tra  i sistemi dell'istruzione e della
formazione   professionale   e,  quindi,  lederebbe  il  «diritto  al
riconoscimento  dei  crediti  ed al passaggio tra i sistemi per tutti
gli  studenti  che  provengono  da percorsi non integrati», ponendosi
cosi'  in  contrasto  con  gli  artt. 3 e 97 Cost. per violazione dei
principi   di   eguaglianza  e  del  buon  andamento  della  pubblica
amministrazione.
    1.5.  -  L'art. 41 fornisce la definizione «dell'educazione degli
adulti» e delle relative attivita'. Una definizione che pero' sarebbe
«inficiata   da  illegittimita'  costituzionale»  per  il  fatto  che
l'educazione  degli  adulti,  finalizzata  al  rilascio  di titoli di
studio,   rientra   pur   essa   nell'ambito   delle  norme  generali
dell'istruzione.   La   disposizione  violerebbe  quindi  l'art. 117,
secondo comma, lettera n), Cost.
    1.6.   -   L'art. 44,  comma 1,  lettera c),  stabilisce  che  il
Consiglio regionale, su proposta della Giunta regionale, approva, tra
l'altro, i «criteri per la definizione dell'organizzazione della rete
scolastica,  ivi  compresi i parametri dimensionali delle istituzioni
scolastiche».
    Secondo il ricorrente, la disciplina, concernente criteri, metodi
e   presupposti   per   riconoscere   ed  attuare  l'autonomia  delle
istituzioni  scolastiche,  «non  potendo  disgiungersi  dal  fine  di
assicurare  comunque  livelli  unitari  di fruizione del diritto allo
studio   ed   individuare   elementi  comuni  al  sistema  scolastico
nazionale»,  e' riconducibile alle norme generali sull'istruzione, di
competenza   esclusiva  statale  ai  sensi  del  piu'  volte  evocato
art. 117, secondo comma, lettera n), Cost.
    2.  -  Si e' costituita in giudizio la Regione Emilia-Romagna, la
quale  ha  concluso  per  l'inammissibilita'  o  l'infondatezza della
questione.
    3.  -  In prossimita' dell'udienza la sola Regione Emilia-Romagna
ha  depositato  memoria  con  la  quale  chiede  che  il  ricorso sia
respinto.
    La  Regione  premette  che  la  legge impugnata e' stata adottata
nell'esercizio   delle  sue  competenze  legislative  in  materia  di
istruzione   (art. 117,   terzo  comma,  Cost.)  e  di  istruzione  e
formazione  professionale  (art. 117,  quarto  comma, Cost.), essendo
volta,  come  si  desume  dall'art. 1,  comma 1, alla «valorizzazione
della   persona   e   all'innalzamento   dei   livelli   culturali  e
professionali»,  tramite  «qualificate azioni di sostegno ai percorsi
dell'istruzione   e   della   formazione   professionale,   anche  in
integrazione tra loro». Un disegno normativo che si collocherebbe, ad
avviso  della  resistente,  nella  cornice  delle  competenze statali
stabilite  dalla  Costituzione. Cio', del resto, non sarebbe messo in
dubbio  neppure  dallo  Stato  ricorrente,  il  quale  appunta le sue
censure soltanto su specifiche disposizioni.
    Quanto   alle   singole   censure,   la   difesa   della  Regione
Emilia-Romagna  ne contesta la fondatezza in base alle argomentazioni
che seguono.
    3.1.   -   L'art. 7,  comma 5,  non  riguarderebbe  l'ordinamento
dell'istruzione  in  senso  proprio,  ma,  proponendosi  di  favorire
l'utilizzo  a  fini  di studio delle aspettative che la legge statale
(art. 26,  comma 14,  della  legge n. 448 del 1998) prevede in favore
del  personale  docente, sarebbe esplicazione di potesta' legislativa
regionale  residuale  in  materia  di  formazione-qualificazione  del
personale  ovvero  di  sostegno  all'innovazione  non  concernente  i
«settori produttivi».
    Peraltro,  si sostiene nella memoria, anche volendo ricondurre la
materia  nell'alveo  dell'art. 117,  terzo  comma,  Cost.  e  volendo
individuare  un  principio  fondamentale  della  materia «istruzione»
nella   norma   che  stabilisce  l'assenza  di  retribuzione  durante
l'aspettativa,   non   vi   sarebbe   alcun  vulnus  da  parte  della
disposizione  regionale  denunciata,  giacche'  la  retribuzione alla
quale   si   riferisce   la  norma  statale  e'  «lo  stipendio»,  il
corrispettivo  della  prestazione  resa dal dipendente, esonerato nel
periodo  di  aspettativa  dal  prestare  la propria attivita', mentre
l'art. 7,   comma 5,   della  legge  regionale  prevede  soltanto  la
corresponsione  di  un  assegno  a  fini  di studio che non ha natura
retributiva,  ne'  richiede o presuppone alcuna prestazione in favore
della  Regione,  trovando giustificazione «nell'interesse pubblico ad
incentivare cosi' la qualificazione del personale».
    Del  resto,  osserva  ancora  la  Regione,  i  docenti potrebbero
fruire,  durante  l'aspettativa,  di  borse di studio universitarie o
corrisposte  da  altri  enti  e  sarebbe paradossale che cio' «non lo
potrebbe  fare  proprio  l'ente  che  e' maggiormente responsabile di
fronte  alla  propria comunita' della qualita' del servizio». Invero,
se  fosse interpretata la norma statale come un divieto per i docenti
di giovarsi di una borsa di studio durante il periodo di aspettativa,
consentendo, pertanto, la fruizione di quest'ultima solo a coloro che
possano  «vivere  di  rendita  per un anno», sarebbe proprio la norma
statale a violare gli artt. 3 e 97 Cost.
    Tuttavia,  si argomenta nella memoria, l'art. 26, comma 14, della
legge n. 448 del 1998 non preclude ai docenti di giovarsi di borse di
studio  per  migliorare  la  propria  preparazione, ne' preclude alla
Regione  di  prevedere  un «sostegno a tale scopo». In definitiva, la
disposizione  dell'art. 7,  comma 5, «integra» la legge statale, «nel
senso   che,   prevedendo   gli   assegni   di   studio,   evita  che
dell'aspettativa  per  motivi  di studio possa giovarsi solo chi puo'
permetterselo e incentiva la qualificazione del personale».
    3.2.  -  La difesa regionale, nel rammentare che la censura dello
Stato sull'art. 9, comma 3, concernente «l'alternanza scuola-lavoro»,
evoca  il  parametro  di cui all'art. 117, secondo comma, lettera n),
Cost.,  e  cioe'  la  materia di competenza esclusiva «norme generali
sull'istruzione»,  postulando  altresi'  che  il predetto istituto e'
disciplinato  dall'art. 4  della  legge  n. 53 del 2003, premette, in
linea piu' generale, che detta competenza statale, in presenza di una
potesta'  legislativa  concorrente in materia di istruzione, non puo'
considerarsi   come  «ambito  particolare  e  specifico,  distinto  e
contrapposto  a quello dell'istruzione, nel quale qualunque normativa
regionale  sia esclusa [...] ma piuttosto come specifica attribuzione
allo  Stato del compito di dettare non solo i «principi fondamentali»
della   materia   [...]   ma  anche  direttamente  ed  operativamente
l'ossatura di base del sistema dell'istruzione», e cioe' le norme che
disciplinano  i  cicli, le finalita', gli esami finali, la durata, la
liberta'  di  insegnamento  «e altri istituti di pari importanza». In
tale   quadro,  dunque,  la  legislazione  regionale  in  materia  di
istruzione  dovrebbe  non  solo  presupporre  le  norme  statali  che
conformano   direttamente   il  sistema,  ma  anche  «riprenderle  ed
attuarle»,  conseguendone  che  la  lesione  della competenza statale
«puo'  predicarsi esclusivamente come contrasto con le norme generali
statali,  e  non  come  incompetenza  per materia». In definitiva, ad
avviso  della  Regione, le norme generali sull'istruzione limitano la
competenza  regionale  «in  quanto  vi  siano  e in relazione al loro
contenuto»,  come  gia' poteva ritenersi per il limite dell'interesse
nazionale  nel  precedente assetto costituzionale, sicche' la censura
sarebbe  infondata  in  quanto  non  prospetta alcun contrasto con le
norme generali stesse.
    In  ogni  caso,  argomenta  ancora la resistente, la disposizione
dell'art. 9,  comma 3,  non  concreterebbe affatto una norma generale
sull'istruzione,   limitandosi   a   prevedere,   nell'ambito   delle
competenze   regionali,  «uno  strumento  di  raccordo»  tra  sistema
dell'istruzione - che in nessun caso viene disciplinato - ed il mondo
del lavoro, riprendendo in termini sintetici, senza discostarsene, il
contenuto dell'art. 4 della legge delega n. 53 del 2003.
    3.3.  -  L'art. 17  non  riguarderebbe  le finalita' della scuola
dell'infanzia - che, nella prospettazione del ricorrente, queste sono
ricondotte  alla  competenza  statale  in  materia  di norme generali
sull'istruzione  e  alla  disciplina  dettata  dall'art. 2,  comma 1,
lettera e),  della  legge  n. 53  del  2003  - ma «le finalita' della
Regione  e  degli  enti locali nell'intervenire a favore della scuola
dell'infanzia»  e cioe' finalita' di intervento che si ricollegano ai
principi  costituzionali  di  cui  agli  artt. 2, 3, 29 e 30 Cost. In
sostanza  l'art. 17,  oltre ad essere comunque coerente con l'evocato
art. 2  della  legge  delega  del  2003,  non  esprimerebbe una norma
generale  volta  a  definire  il  sistema dell'istruzione, bensi' una
modalita' organizzativa in attuazione dei predetti principi di ordine
costituzionale concernenti la persona e la famiglia.
    La resistente rileva altresi' che, successivamente al ricorso, e'
intervenuto  a  disciplinare  la  materia  il decreto legislativo del
19 febbraio  2004,  n. 59,  il  cui  art. 1,  comma 1,  nel  definire
contenuti  e  finalita'  della scuola dell'infanzia, risulta coerente
con  la  disposizione  denunciata, cosi' da non potersi ritenere che,
nel  caso  di  specie,  la  nuova disposizione statale abbia abrogato
quella  regionale. Peraltro, se si ravvisasse un contrasto tra le due
fonti,   si   dovrebbe   effettivamente   reputare   venuta  meno  la
disposizione regionale, con conseguente difetto di interesse alla sua
impugnazione.
    3.4.  -  La  difesa  regionale  sostiene  che  la censura avverso
l'art. 26,  comma 2,  sinteticamente  argomentata,  si  fondi  su  un
fraintendimento  della disposizione, il cui significato non e' quello
di  «escludere  o  restringere  il  passaggio  tra  i sistemi per gli
studenti  che  provengono da percorsi non integrati, ma semplicemente
quello  di affermare che la migliore base per il riconoscimento e per
reali  (e  non solo teoriche) possibilita' di passaggio e' costituita
dall'integrazione dei sistemi».
    3.5. - Ad avviso della Regione, l'educazione degli adulti, di cui
all'art. 41 denunciato, non ha quale obiettivo il rilascio diretto di
titoli  di  studio,  ma  riguarda  varie iniziative, talune fini a se
stesse  (l'aumento delle conoscenze, lo sviluppo della personalita) e
senza   collegamento   al   sistema   dell'istruzione;  altre  aventi
l'obiettivo  del «rientro nel sistema formale dell'istruzione e della
formazione professionale», ma senza incidere sui predetti sistemi. Ne
consegue  che l'educazione degli adulti, lungi dall'essere un diverso
percorso   di   «istruzione»,  rappresenta  piuttosto  una  attivita'
specificamente  culturale  e  formativa, configurandosi come servizio
sociale,  materia,  questa, ascrivibile alla potesta' residuale delle
Regioni.
    Peraltro,   si  osserva  nella  memoria,  l'art. 41  riprende  un
istituto   previsto  dalla  legislazione  statale  (art. 1,  comma 3,
lettera  1), della legge n. 53 del 2003) e il ricorso dello Stato non
lamenta alcun contrasto tra essa e le norme impugnate.
    Infine,  ad  avviso  della difesa regionale, la questione sarebbe
formulata  in  modo  generico e perplesso, non comprendendosi se cio'
che  e'  contestato sia soltanto la «definizione» di cui al comma 1 o
anche i disposti dei commi 2 e 3, rispetto ai quali non vengono pero'
prospettati motivi di censura.
    3.6.   -   La   Regione,   rammentando  che  l'art. 44,  comma 1,
lettera c),     riguarda    «i    criteri    per    la    definizione
dell'organizzazione  della  rete scolastica, ivi compresi i parametri
dimensionali  delle istituzioni scolastiche», contesta che essa possa
concernere  la  materia  delle  norme generali sull'istruzione. A tal
fine,  si  osserva  nella  memoria,  la  normativa  statale (art. 21,
commi 3  e  4,  della  legge  15 marzo  1997,  n. 59  e  il  relativo
regolamento  attuativo  di cui al d.P.R. 18 giugno 1998, n. 233) pone
la disciplina sulle dimensioni delle scuole ai fini dell'attribuzione
ad  esse della personalita' giuridica, mentre la norma regionale «non
collega  specificamente  la definizione dei parametri dimensionali al
riconoscimento  delle scuole». In ogni caso si tratterebbe di aspetti
organizzativi  e  dunque  rientranti  all'ambito dell'art. 117, terzo
comma,  Cost.,  sicche'  sarebbe  legittima  la  legge  regionale che
«prevede e disciplina una funzione amministrativa».
    Secondo   la   resistente,  sarebbe  inoltre  non  pertinente  il
riferimento  ai  «livelli  unitari  di  fruizione  del  diritto  allo
studio»,  che  sembrerebbe  evocare  la  competenza  statale  di  cui
all'art. 117,  comma 2,  lettera m),  Cost.,  giacche',  come risulta
dallo  stesso  art. 1  del  d.P.R.  n. 233 del 1998, le finalita' del
«dimensionamento  ottimale»  delle  scuole  non  riguardano i livelli
essenziali  del diritto allo studio, che potrebbero rilevare soltanto
rispetto  all'unico  fine  «di  offrire  alle  comunita'  locali  una
pluralita'  di  scelte,  articolate  sul  territorio,  che  agevolino
l'esercizio  del  diritto  all'istruzione»,  nel  senso  di non porre
limiti  minimi  rigidi  che  potrebbero lasciare sprovviste di scuole
vaste  aree,  scarsamente  abitate,  con  conseguente difficolta' per
l'esercizio  del  diritto.  Ma  questa  stessa esigenza, soggiunge la
Regione,  «concorre a fondare la competenza amministrativa regionale,
nel  senso  che  la definizione dei parametri dimensionali deve tener
conto  delle  particolarita'  regionali,  in  relazione alla densita'
abitativa,  all'eta'  degli  abitanti, alle condizioni di viabilita',
ecc.»  (art. 21,  comma 3,  della  n. 59  del  1997); competenza, del
resto,  gia'  prevista  dall'art. 3,  comma 1,  del d.P.R. n. 233 del
1998.
    In  definitiva,  ad  avviso  della  difesa  regionale,  la stessa
normativa   statale   gia'   tiene  conto  dell'opportunita'  che  le
dimensioni  delle  scuole  siano  definite a livello locale e sarebbe
«paradossale  che,  dopo  la  riforma  del  Titolo V e l'attribuzione
costituzionale  alle  Regioni di competenza in materia di istruzione,
venga  contestata  una  norma  che  ribadisce il sistema vigente»; in
termini  analoghi,  peraltro,  si sarebbe anche espressa questa Corte
con la recente sentenza n. 13 del 2004.

                       Considerato in diritto

    1.  -  Il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  ha proposto
questione di legittimita' costituzionale di talune disposizioni della
legge  della  Regione Emilia-Romagna 30 giugno 2003, n. 12 (Norme per
l'uguaglianza  delle  opportunita' di accesso al sapere, per ognuno e
per   tutto   l'arco   della   vita,   attraverso   il  rafforzamento
dell'istruzione   e   della   formazione   professionale,   anche  in
integrazione tra loro).
    E'  denunciato,  anzitutto,  l'art. 7,  comma 5, il quale prevede
che, ai fini della qualificazione delle risorse umane, «sono concessi
assegni   di  studio  da  destinare  al  personale  della  formazione
professionale,  nonche'  al personale della scuola che si avvalga del
periodo   di   aspettativa   di   cui  all'art. 26,  comma 14,  legge
23 dicembre 1998 n. 448». Secondo il ricorrente sarebbero violati gli
artt. 117,   terzo  comma,  3  e  97,  primo  comma,  Cost.,  perche'
l'incentivo  previsto  dalla legge regionale altererebbe il principio
fondamentale  enunciato  dalla  legge  statale,  secondo  il quale e'
consentito  «un  periodo  di  aspettativa non retribuita della durata
massima  di un anno scolastico ogni dieci anni». Verrebbe in tal modo
a  determinarsi  una  irragionevole  disparita'  di trattamento tra i
dipendenti  scolastici e sarebbe pregiudicato il buon andamento della
pubblica amministrazione.
    Un'altra  censura  investe l'art. 9, comma 3, il quale disciplina
l'istituto  dell'«alternanza  scuola-lavoro», che avrebbe una valenza
generale  e  che  rientrerebbe  nella  competenza in materia di norme
generali sull'istruzione, riservata allo Stato dall'art. 117, secondo
comma,  lettera n),  ed  esercitata, nella specie, con l'art. 4 della
legge  28 marzo  2003,  n. 53  (Delega  al Governo per la definizione
delle  norme  generali sull'istruzione e dei livelli essenziali delle
prestazioni  in materia di istruzione e formazione professionale), il
quale  indica  i  principi  e  i criteri direttivi che il legislatore
statale   delegato   deve   rispettare   in   tema   di   «alternanza
scuola-lavoro».
    Analogamente   si   argomenta   in  relazione  alle  censure  che
riguardano   l'art. 17,  che  definisce  le  finalita'  della  scuola
dell'infanzia,    e    l'art. 41,   che   fornisce   la   definizione
«dell'educazione  degli  adulti» e delle relative attivita'. Anche in
questi  casi  sarebbe  violato l'art. 117, secondo comma, lettera n),
Cost.,  giacche',  da  un lato, la finalita' dei percorsi del sistema
dell'istruzione sarebbe oggetto delle norme generali sull'istruzione,
la'  dove  e' l'art. 2, comma 1, lettera e), della citata legge n. 53
del  2003  ad  occuparsi  specificamente  della scuola dell'infanzia;
dall'altro,  l'educazione  degli  adulti,  finalizzata al rilascio di
titoli di studio, atterrebbe all'ambito dell'istruzione e la relativa
definizione   rientrerebbe   anch'essa   nell'ambito  riservato  alla
legislazione statale.
    E'  poi  denunciato,  in  riferimento  agli  artt. 3  e 97 Cost.,
l'art. 26,  comma 2,  che  introduce  nel  sistema formativo norme in
materia  di  integrazione  tra  i  sistemi  dell'istruzione  e  della
formazione   professionale,  ledendo  -  secondo  l'Avvocatura  -  il
«diritto  al riconoscimento dei crediti ed al passaggio tra i sistemi
per tutti gli studenti che provengono da percorsi non integrati».
    Viene  infine  censurato l'art. 44, comma 1, lettera c), il quale
stabilisce  che  il  Consiglio  regionale,  su  proposta della Giunta
regionale,  approvi,  tra  l'altro,  i  «criteri  per  la definizione
dell'organizzazione  della  rete scolastica, ivi compresi i parametri
dimensionali  delle  istituzioni scolastiche». Secondo il ricorrente,
anche  nel  caso  di specie vi sarebbe la violazione della competenza
esclusiva statale a dettare le norme generali sull'istruzione.
    2. - Nessuna delle questioni sollevate con il ricorso e' fondata.
    3.  - La prima denuncia investe l'art. 7, comma 5, nella parte in
cui  prevede  in  favore del personale scolastico, che si avvalga del
periodo  di  aspettativa  di  cui  all'art. 26, comma 14, della legge
n. 448  del  1998,  la possibilita' di usufruire di assegni di studio
alle condizioni e secondo le modalita' definite con atto della Giunta
regionale,   nell'ambito  degli  indirizzi  approvati  dal  Consiglio
regionale.  Ad  avviso del ricorrente, la disposizione contrasterebbe
con  gli artt. 117, terzo comma, 3 e 97, primo comma, Cost., giacche'
l'incentivo  ivi  previsto  contravverrebbe al principio fondamentale
posto  dal  citato  art. 26,  comma 14,  secondo  cui  «i docenti e i
dirigenti  scolastici  che hanno superato il periodo di prova possono
usufruire  di  un  periodo di aspettativa non retribuita della durata
massima  di  un  anno scolastico ogni dieci anni»; per di piu', nella
prospettazione  del  ricorrente,  si verrebbe a determinare anche una
disuguaglianza  «fra  situazioni identiche dei dipendenti scolastici,
disarticolando il buon andamento della pubblica amministrazione».
    La  menzionata  disposizione  di  legge  statale,  invocata  come
principio   fondamentale  della  materia  dell'istruzione,  introduce
un'ulteriore   ipotesi   di   aspettativa  in  favore  del  personale
scolastico  che  si  aggiunge a quelle gia' previste dall'art. 24 del
contratto  collettivo  nazionale  di lavoro (CCNL) del 4 agosto 1995,
ora  riprodotto  dall'art. 18 del CCNL del 24 luglio 2003. Il comma 1
del  citato  art. 18  regola  l'aspettativa  per  motivi di famiglia,
rinviando  a  quanto  gia'  stabilito  dagli artt. 69 e 70 del d.P.R.
10 gennaio   1957,   n. 3.   Il   successivo   comma 2   prevede  che
l'aspettativa  possa  essere  concessa  anche  per  motivi di studio,
ricerca  o  dottorato,  nonche'  per incarichi e per borse di studio,
richiamando  l'art. 453 del d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297. Il comma 3
del  medesimo art. 18 del CCNL 2003 si occupa infine dell'aspettativa
per  un  anno  scolastico,  a  domanda e senza assegni, per motivi di
lavoro  e  cioe'  «per  realizzare,  nell'ambito di un altro comparto
della pubblica amministrazione, l'esperienza di una diversa attivita'
lavorativa  o  per superare un periodo di prova». E' in questo quadro
normativo  che  si  colloca  appunto l'art. 26, comma 14, della legge
n. 448  del  1998,  il  quale  facoltizza  i  docenti  ed i dirigenti
scolastici  ad  usufruire di un periodo di aspettativa non retribuita
della   durata  massima  di  un  anno  scolastico  ogni  dieci  anni,
stabilendo  che  «per i detti periodi i docenti e i dirigenti possono
provvedere a loro spese alla copertura degli oneri previdenziali».
    L'aspettativa  in  esame,  diversamente  dagli altri casi, non e'
dunque vincolata ad una specifica finalita' (esigenze di famiglia, di
studio  o  di lavoro) e il personale scolastico (docente e dirigente)
in  ruolo  (e  cioe'  che  abbia  superato  il periodo di prova) puo'
usufruirne  senza allegare motivazione alcuna. Inoltre, rispetto alle
ipotesi  di  aspettativa per motivi di studio, in quella regolata dal
comma 14   dell'art. 26   e'  escluso  che  nell'anno  di  astensione
lavorativa  possa  godersi  della  retribuzione,  sicche'  il periodo
trascorso  in  aspettativa non puo' ascriversi a servizio d'istituto.
Del  resto,  la  norma  e' chiara nello stabilire che sono gli stessi
beneficiari  a  provvedere,  ove  lo  ritengano, alla copertura degli
oneri previdenziali.
    Il  principio  fondamentale  che  pone  la  disposizione di legge
statale  e'  quindi  quello  della  facolta',  concessa  al personale
scolastico  ogni  dieci  anni  di  servizio,  di fruire di un periodo
annuale  di  aspettativa  non  retribuita, senza dover allegare alcun
particolare motivo.
    Il  censurato comma 5 dell'art. 7 della legge regionale n. 12 del
2003  non  introduce  una  ulteriore  fattispecie  di aspettativa, ma
prevede  il  beneficio di assegni di studio, alle condizioni e con le
modalita' definite con atto della Giunta regionale, nell'ambito degli
indirizzi  approvati  dal  Consiglio regionale, per il solo personale
che,  in  conformita'  della  normativa  statale,  si sia avvalso del
periodo  di  aspettativa  di  cui  all'art. 26, comma 14, della legge
n. 448   del  1998.  Gli  assegni  non  costituiscono  in  ogni  caso
retribuzione, ne' il periodo di aspettativa puo' essere computato nel
servizio  di istituto. Il fine della disposizione, come si desume dai
commi che la precedono (commi 1 e 2), e' soltanto quello di sostenere
le  «attivita'  di  qualificazione»,  «nel  rispetto delle competenze
generali  dello  Stato  in materia di formazione iniziale dei docenti
del sistema nazionale di istruzione e dei relativi titoli abilitanti,
nonche' delle materie riservate alla contrattazione».
    In  definitiva,  la  finalita'  di  elevazione  professionale del
personale  scolastico  viene  perseguita  dalla norma censurata senza
scalfire  il  principio  fondamentale  invocato dallo Stato. Inoltre,
poiche'  la disciplina dell'aspettativa posta dall'art. 26, comma 14,
della  legge  n. 448  del  1998,  continua a trovare applicazione nei
confronti  di tutto il personale docente e dirigente della scuola, e'
da  escludere che la disposizione denunciata contrasti con i principi
di eguaglianza e di buon andamento della pubblica amministrazione.
    4.  - E' poi censurato l'art. 9, comma 3, che riguarda l'istituto
dell'«alternanza  scuola-lavoro», definito come «modalita' didattica,
non  costituente  rapporto  di  lavoro,  realizzata  nell'ambito  dei
percorsi   di   istruzione   o  di  formazione  professionale,  anche
integrati,  quale  efficace  strumento  di orientamento, preparazione
professionale e inserimento nel mondo del lavoro.».
    Secondo  l'Avvocatura,  la  disposizione  violerebbe  l'art. 117,
secondo     comma,    lettera n),    Cost.,    giacche'    l'istituto
dell'«alternanza  scuola-lavoro»  avrebbe portata generale e dovrebbe
formare  oggetto delle norme generali sull'istruzione, conformandosi,
in particolare, all'art. 4 della legge 28 marzo 2003, n. 53.
    In  effetti, e' proprio con l'articolo teste' citato che e' stata
dettata   la   disciplina   generale  dell'istituto  dell'«alternanza
scuola-lavoro»,   rivolto   agli   studenti  che  hanno  compiuto  il
quindicesimo  anno  di  eta'  e  dunque ancora in obbligo scolastico,
giacche'  rimane  fermo quanto gia' previsto dall'art. 18 della legge
24    giugno 1997,   n. 196   (Norme   in   materia   di   promozione
dell'occupazione)   e  cioe'  l'«alternanza  tra  studio  e  lavoro»,
attraverso  iniziative  di  tirocini  pratici  e  stages, a favore di
soggetti che hanno gia' assolto l'obbligo scolastico.
    L'«alternanza  scuola-lavoro»  e', come si afferma nel menzionato
art. 4,   «modalita'   di   realizzazione   del   percorso  formativo
progettata,   attuata   e   valutata  dall'istituzione  scolastica  e
formativa  in  collaborazione  con  le  imprese,  con  le  rispettive
associazioni   di  rappresentanza  e  con  le  camere  di  commercio,
industria,  artigianato e agricoltura, che assicuri ai giovani, oltre
alla  conoscenza di base, l'acquisizione di competenze spendibili nel
mercato  del  lavoro». Per la sua realizzazione e' prevista, appunto,
l'alternanza   di   periodi   di   studio   e  di  lavoro,  sotto  la
responsabilita'  dell'istituzione  scolastica o formativa, attraverso
convenzioni  da  stipularsi  con  soggetti  appartenenti  al  settore
produttivo  o  con  enti  pubblici  e privati, ivi inclusi quelli del
terzo settore, «disponibili ad accogliere gli studenti per periodi di
tirocinio  che  non costituiscono rapporto individuale di lavoro». Si
stabilisce,  inoltre,  che  «le  istituzioni scolastiche, nell'ambito
dell'alternanza  scuola-lavoro,  possono  collegarsi  con  il sistema
dell'istruzione  e  della  formazione  professionale ed assicurare, a
domanda  degli  interessati  e  d'intesa con le Regioni, la frequenza
negli  istituti  d'istruzione  e  formazione  professionale  di corsi
integrati che prevedano piani di studio progettati d'intesa fra i due
sistemi,  coerenti con il corso di studi e realizzati con il concorso
degli operatori di ambedue i sistemi».
    Dalle  disposizioni  sommariamente passate in rassegna emerge con
chiarezza  come  l'«alternanza  scuola-lavoro», secondo l'ispirazione
della  legge  di delegazione n. 53 del 2003, che peraltro riprende in
parte principi gia' presenti nella precedente legislazione (la citata
legge  n. 196  del  1997,  l'art. 68  della legge del 17 maggio 1999,
n. 144  e  la  legge  del 10 febbraio 2000, n. 30, poi abrogata dalla
stessa legge di delegazione), costituisca uno degli elementi centrali
del sistema integrato istruzione/formazione professionale, in armonia
con  orientamenti  invalsi  in  ambito  comunitario,  nel quale si e'
andata   rafforzando   sempre  piu'  una  politica  indirizzata  alla
riqualificazione  dell'istruzione  e  della  formazione professionale
quale  fattore  di  sviluppo  e  di coesione sociale ed economica (da
ultimo   si   veda   la  risoluzione  del  Parlamento  europeo  sulla
comunicazione  della  Commissione sul progetto di programma di lavoro
dettagliato  per  il  seguito  alla  relazione  circa  gli  obiettivi
concreti  dei  sistemi  di istruzione e formazione, 6 febbraio 2002).
Non  e' un puro accidente se fra i tre obiettivi prioritari dei fondi
strutturali  europei vi sia proprio quello di «favorire l'adeguamento
e  l'ammodernamento  delle  politiche  e  dei  sistemi di istruzione,
formazione e occupazione» (art. 1 del regolamento CE 1260 del 1999).
    In  questo  quadro  piu'  generale la norma denunciata, lungi dal
contrastare  con  quanto  stabilito  dalla legge statale, si limita a
ripeterne   sinteticamente  il  contenuto  definitorio,  senza  porre
principi o regole ulteriori. L'art. 9, comma 3, della legge regionale
n. 12  del  2003  non  intende,  dunque,  mettere  in  discussione la
competenza  statale nel definire gli istituti generali e fondamentali
dell'istruzione,  i  quali  vengono  soltanto  assunti  a  base della
legislazione   regionale,   come,   del   resto,  e'  reso  esplicito
dall'art. 1,  comma 2,  della  medesima  legge  regionale, secondo il
quale  la  Regione  assume «l'ordinamento nazionale dell'istruzione a
fondamento  della  presente  legge e indirizza le proprie azioni alla
qualificazione  nel  territorio  regionale  del  sistema nazionale di
istruzione,  ed  in  particolare della scuola pubblica, come definito
dalla legislazione nazionale».
    5.   -   Sono   denunciati   gli   artt. 17  e  41,  concernenti,
rispettivamente,  le  «finalita'  della  scuola  dell'infanzia»  e la
definizione  «dell'educazione  degli  adulti».  Anche  nei  casi  ora
all'esame, come in quello appena scrutinato, e' dedotta la violazione
dell'art. 117,  secondo  comma, lettera n), Cost., sebbene le censure
non  prospettino un contrasto diretto tra le disposizioni impugnate e
quelle dettate dallo Stato quali norme generali sull'istruzione.
    Le censure sono pero' infondate in base a considerazioni analoghe
a quelle svolte al punto 4.
    5.1.  -  Quanto  alla  denuncia  dell'art. 17,  la  norma statale
evocata  nel  ricorso  e'  l'art. 2, comma 1, lettera e), della legge
delega n. 53 del 2003, con cui si delinea il percorso formativo della
scuola dell'infanzia, di durata triennale, come volto «all'educazione
e allo sviluppo affettivo, psicomotorio, cognitivo, morale, religioso
e  sociale delle bambine e dei bambini promuovendone le potenzialita'
di  relazione, autonomia, creativita', apprendimento, e ad assicurare
un'effettiva  eguaglianza  delle opportunita' educative». La medesima
disposizione   precisa,   altresi',   che   la  scuola  dell'infanzia
contribuisce,  nel  rispetto della primaria responsabilita' educativa
dei  genitori, «alla formazione integrale delle bambine e dei bambini
e, nella sua autonomia e unitarieta' didattica e pedagogica, realizza
la  continuita' educativa con il complesso dei servizi all'infanzia e
con  la  scuola  primaria».  Definizioni  e finalita', queste, che si
ritrovano,   del  resto,  anche  nell'art. 1  del  successivo  d.lgs.
19 febbraio  2004,  n. 59,  recante «Definizione delle norme generali
relative  alla scuola dell'infanzia e al primo ciclo dell'istruzione,
a  norma  dell'art. 1 della legge 28 marzo 2003, n. 53». Ne' e' senza
rilievo,  d'altronde, che la stessa legge n. 53 del 2003, all'art. 2,
lettera d), richiami anche per la scuola dell'infanzia il concetto di
sistema educativo composto dall'istruzione e dalla formazione.
    Nel  contesto  descritto, la disposizione denunciata non fa altro
che  modularsi su quanto gia' disciplinato dalla legge statale, senza
porre  in  discussione  la  competenza  dello  Stato nel definire gli
istituti  generali  e  fondamentali  sull'istruzione, che, come tali,
sono  assunti a base della legislazione regionale, volta a perseguire
la  generalizzazione  della scuola dell'infanzia «anche tramite mezzi
propri,   aggiuntivi  a  quelli  statali,  destinati  in  particolare
all'estensione dell'offerta scolastica e alla sua qualificazione, per
promuovere  le potenzialita' di autonomia, creativita', apprendimento
dei   bambini   e   per  assicurare  un'effettiva  uguaglianza  delle
opportunita'  educative».  Ove, poi, nel comma 2 dello stesso art. 17
vengono  specificamente  rammentate  le  finalita'  di  tale percorso
formativo,  nessun contrasto e' dato ravvisare rispetto alla legge di
delega  n. 53 - e del resto esso neanche viene dedotto dal ricorrente
-  giacche'  la  norma  sottoposta  a scrutinio ne assume i contenuti
stabilendo  che  la  scuola  dell'infanzia «concorre all'educazione e
allo  sviluppo  del bambino nel rispetto delle identita' individuali,
culturali e religiose».
    In  definitiva,  l'art. 17  si  propone  non  gia'  di fornire la
definizione  del  percorso  della  scuola  dell'infanzia,  bensi'  di
predisporre, nell'ambito di quanto stabilito dalla legge statale e in
forza delle competenze regionali in materia di istruzione, interventi
a  supporto  di  un'offerta  formativa in un settore, quale e' quello
dell'istruzione   per   l'infanzia,  nel  quale  sono  piu'  che  mai
direttamente  coinvolti  i  principi  costituzionali  che  riguardano
l'educazione e la formazione del minore (artt. 2, 29, 30 e 31 Cost.).
    5.2.   -   Quanto   alla  censura  che  investe  l'art. 41  sulla
«educazione  degli adulti», va osservato che la legge delega del 2003
prevede  genericamente,  all'art. 2,  comma 1,  lettera a),  che  «e'
promosso l'apprendimento in tutto l'arco della vita e sono assicurate
a  tutti pari opportunita' di raggiungere elevati livelli culturali e
di  sviluppare  le capacita' e le competenze, attraverso conoscenze e
abilita',  generali  e  specifiche,  coerenti  con le attitudini e le
scelte  personali,  adeguate all'inserimento nella vita sociale e nel
mondo   del  lavoro,  anche  con  riguardo  alle  dimensioni  locali,
nazionale ed europea».
    In  tale  ambito si innesta la legge regionale impugnata che, con
l'art. 40,  rende  palese  la finalita' del suo intervento, rivolto a
promuovere  «l'apprendimento  delle  persone per tutta la vita, quale
strumento    fondamentale    per   favorirne   l'adattabilita'   alle
trasformazioni  dei  saperi  nella societa' della conoscenza, nonche'
per   evitare   l'obsolescenza   delle  competenze  ed  i  rischi  di
emarginazione  sociale»  (comma  1);  stabilendo a questo fine che un
tale apprendimento si viene a realizzare «nei sistemi dell'istruzione
e  della  formazione  professionale, nel lavoro e nell'educazione non
formale  attraverso  offerte  flessibili  e  diffuse  sul territorio,
nonche'  con il ricorso alla formazione a distanza ed alle tecnologie
innovative».  E'  poi il denunciato art. 41, nel solco di quanto gia'
genericamente  previsto  dalla  disciplina  statale,  a specificare i
contenuti   dell'«educazione   degli   adulti»,  che  ricomprende  le
«opportunita' formative, formali e non formali, rivolte alle persone,
aventi  per  obiettivo l'acquisizione di competenze personali di base
in  diversi  ambiti,  di  norma  certificabili, e l'arricchimento del
patrimonio  culturale».  E  tramite  siffatto  percorso  formativo si
intende  favorire: «a) il rientro nel sistema formale dell'istruzione
e  della  formazione  professionale;  b) la diffusione e l'estensione
delle conoscenze; c) l'acquisizione di specifiche competenze connesse
al   lavoro   o  alla  vita  sociale;  d)  il  pieno  sviluppo  della
personalita' dei cittadini». A cio' si aggiunge, inoltre, il sostegno
alle   «iniziative  di  recupero  e  di  reinserimento  nel  percorso
scolastico  e  formativo  di tutti coloro che non hanno conseguito la
licenza media» (comma 3).
    La  normativa  teste' richiamata si pone in linea, dunque, con le
finalita'  individuate  dalla  legge  delega del 2003 ed altresi' con
quelle  prefigurate  in  ambito  comunitario dal Consiglio europeo di
Lisbona  del marzo 2000 e, successivamente, precisate dalla relazione
del  Consiglio  (Istruzione)  sugli  obiettivi  futuri e concreti dei
sistemi  di  istruzione  e di formazione, del 14 febbraio 2001, nella
quale  si  evidenzia, tra l'altro, la necessita' di un «apprendimento
lungo  tutto  l'arco della vita attraverso i tradizionali percorsi di
istruzione  e  formazione  o nel quadro dell'apprendimento basato sul
lavoro».  Ed  e'  in  tale contesto che viene appunto a collocarsi il
denunciato  art. 41,  la cui disciplina, senza contrastare con quanto
stabilito  dalla  legge  statale,  si muove sul versante del sostegno
all'acquisizione  o  al recupero di conoscenze necessarie o utili per
il  reinserimento  sociale  e  lavorativo  e,  dunque,  in  un ambito
riconducibile  a quello affidato alla competenza regionale in materia
di istruzione e formazione professionale.
    6.  -  Con  la  denuncia  dell'art. 26,  comma 2, si prospetta la
violazione  dei  principi  di  eguaglianza  e di buon andamento della
pubblica   amministrazione   (artt. 3   e   97  Cost.),  giacche'  la
disposizione,  nell'introdurre nel sistema formativo norme in materia
di   integrazione   tra   i   sistemi  dell'istruzione  e  formazione
professionale,  recherebbe  la lesione «del diritto al riconoscimento
dei  crediti ed al passaggio tra i sistemi per tutti gli studenti che
provengono da percorsi non integrati».
    Per  meglio  comprendere  il  senso  della  censura  e' opportuno
rammentare  che  l'art. 26  della  legge  regionale  n. 12  del 2003,
inserito  nella  sez. III, rubricata «Integrazione fra l'istruzione e
la  formazione  professionale»,  stabilisce,  al  comma 1,  che: «Nel
quadro  del  sistema  formativo,  al  fine  di realizzare un positivo
intreccio  tra  apprendimento  teorico  e  applicazione concreta, tra
sapere,  saper fare, saper essere e sapersi relazionare, di sostenere
lo  sviluppo  della  cultura  tecnica,  scientifica  e professionale,
nonche'  di  consentire  l'assolvimento dell'obbligo formativo di cui
all'art. 68  della  legge  17 maggio 1999, n. 144 [...], la Regione e
gli  enti  locali  promuovono  l'integrazione  tra  l'istruzione e la
formazione professionale attraverso interventi che ne valorizzano gli
specifici  apporti».  A  questo  fine  il denunciato comma 2 dispone:
«Tale   integrazione   rappresenta   la   base   per   il   reciproco
riconoscimento  dei  crediti e per reali possibilita' di passaggio da
un   sistema  all'altro  al  fine  di  favorire  il  completamento  e
l'arricchimento dei percorsi formativi per tutti».
    L'integrazione tra istruzione e formazione professionale e' pero'
oggetto,  a  sua volta, della disciplina recata dalla legge n. 53 del
2003, all'art. 2, lettere c), g), h) ed i).
    Cio'  posto,  va  osservato  che  la censura dello Stato, pur non
evocando   una   lesione  del  riparto  delle  attribuzioni  ed  anzi
presupponendo   che   in  materia  sussista  comunque  la  competenza
legislativa   regionale,   tuttavia   muove,  implicitamente  ma  con
evidenza, dall'asserito contrasto della norma regionale impugnata con
quanto  previsto in materia dalla legge delega del 2003. E difatti la
norma   generale   sull'istruzione   dettata   dallo  Stato  (art. 2,
lettera i)  e'  che,  essendo  assicurata la possibilita' di cambiare
indirizzo  all'interno  del sistema dei licei, nonche' di passare dal
sistema  dei  licei  al  sistema  dell'istruzione  e della formazione
professionale,  e  viceversa,  «la  frequenza  positiva  di qualsiasi
segmento   del  secondo  ciclo  comporta  l'acquisizione  di  crediti
certificati  che  possono  essere  fatti  valere, anche ai fini della
ripresa  degli  studi  eventualmente  interrotti,  nei passaggi tra i
diversi  percorsi  di  cui  alle  lettere g)  e  h)». Ed e' sempre la
normativa  statale,  di rango regolamentare, sebbene da adottarsi con
l'intesa  delle  Regioni,  a  definire gli standard minimi formativi,
richiesti  per  la  spendibilita'  nazionale dei titoli professionali
conseguiti  all'esito  dei percorsi formativi, nonche' per i passaggi
dai  percorsi  formativi  ai  percorsi  scolastici (si veda l'art. 7,
comma 1, lettera c, della legge n. 53 del 2003).
    Proprio  alla  luce di quanto evidenziato e' da escludersi che il
significato  della  disposizione  regionale  denunciata sia quello di
inibire  o  rendere  piu'  difficile  il  passaggio  tra i sistemi di
istruzione e formazione professionale agli studenti che provengono da
percorsi non integrati. L'art. 26, comma 2, inserendosi coerentemente
nel  corpo  della  legge  regionale  n. 12  del 2003, non postula che
soltanto all'interno del sistema integrato sussista il riconoscimento
di  crediti,  ne' preclude l'adesione al sistema integrato a chiunque
sia  in possesso dei requisiti necessari. Il senso da ascriversi alla
norma e' soltanto quello di individuare, come base preferibile per il
riconoscimento  e  per  reali,  e  non solo teoriche, possibilita' di
passaggio,  proprio  l'istituto  dell'integrazione dei sistemi, senza
percio'   eliminare   altre   forme   legali   di  riconoscimento  e,
specialmente, di crediti.
    La disposizione denunciata si sottrae, dunque, alla censura mossa
con il ricorso.
    7.  -  Infondata  e'  anche  l'ultima censura, quella che investe
l'art. 44,  comma 1,  lettera c),  il  quale,  nello stabilire che il
Consiglio regionale, su proposta della Giunta regionale, approvi, tra
l'altro, i «criteri per la definizione dell'organizzazione della rete
scolastica,  ivi  compresi i parametri dimensionali delle istituzioni
scolastiche», si porrebbe in contrasto con l'art. 117, secondo comma,
lettera n),  Cost.  Infatti,  ad  avviso  del  ricorrente,  anche  la
disciplina concernente criteri, metodi e presupposti, per riconoscere
ed  attuare  l'autonomia  delle istituzioni scolastiche, «non potendo
disgiungersi  dal  fine  di  assicurare  comunque  livelli unitari di
fruizione  del  diritto allo studio ed individuare elementi comuni al
sistema  scolastico  nazionale»,  rientrerebbe  tra le norme generali
sull'istruzione.
    Come  gia'  affermato  da  questa Corte con la sentenza n. 13 del
2004,  l'ampio  decentramento delle funzioni amministrative delineato
dalla  legge  del  15 marzo  1997,  n. 59  ed  attuato con il decreto
legislativo del 31 marzo 1998, n. 112, ha visto delegare importanti e
nuove   funzioni   alle   Regioni,   fra   cui  anzitutto  quelle  di
programmazione  dell'offerta  formativa  integrata  tra  istruzione e
formazione   professionale   (art. 138,  comma 1,  lettera a),  e  di
programmazione  della rete scolastica (art. 138, comma 1, lettera b).
Ed  e'  in  tale  quadro  che il d.P.R. del 18 giugno 1998, n. 233 ha
disposto, all'art. 3, comma 1, che: «I piani di dimensionamento delle
istituzioni  scolastiche  previsti dall'art. 21, comma 4, della legge
15 marzo  1997,  n. 59,  al  fine  dell'attribuzione dell'autonomia e
personalita'  giuridica,  sono  definiti in conferenze provinciali di
organizzazione della rete scolastica, nel rispetto degli indirizzi di
programmazione  e  dei  criteri  generali, riferiti anche agli ambiti
territoriali, preventivamente adottati dalle regioni».
    Sicche',  proprio  alla  luce  del  fatto  che  gia' la normativa
antecedente  alla  riforma  del  Titolo  V  prevedeva  la  competenza
regionale   in   materia   di   dimensionamento   delle   istituzioni
scolastiche,  e  quindi  postulava la competenza sulla programmazione
scolastica  di  cui  all'art. 138  del  d.lgs. n. 112 del 1998, e' da
escludersi  che  il legislatore costituzionale del 2001 «abbia voluto
spogliare  le Regioni di una funzione che era gia' ad esse conferita»
(cosi' ancora la sentenza n. 13 del 2004).
    Contrariamente  quindi  a  quanto  dedotto  con  la  censura,  la
disposizione   denunciata   e'   da  ascriversi  all'esercizio  della
competenza  legislativa  concorrente  della  Regione  in  materia  di
istruzione,    riguardando    in   particolare   il   settore   della
programmazione scolastica.
                          Per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
    Dichiara  non fondate le questioni di legittimita' costituzionale
degli  artt. 7,  comma 5;  9,  comma 3;  17;  26,  comma 2;  41 e 44,
comma 1,  lettera c),  della  legge  della  Regione Emilia-Romagna 30
giugno 2003,  n. 12  (Norme  per  l'uguaglianza delle opportunita' di
accesso  al  sapere,  per  ognuno  e  per  tutto  l'arco  della vita,
attraverso   il  rafforzamento  dell'istruzione  e  della  formazione
professionale,   anche  in  integrazione  tra  loro),  sollevate  dal
Presidente  del  Consiglio dei ministri, in riferimento agli artt. 3,
97,  117,  secondo  comma,  lettera n),  e  terzo  comma,  Cost. e in
relazione  ai principi fondamentali dettati dallo Stato nella materia
dell'istruzione, con il ricorso indicato in epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 12 gennaio 2005.
                      Il Presidente: Mezzanotte
                       Il redattore: Di Paola
                       Il cancelliere:Di Paola
    Depositata in cancelleria il 26 gennaio 2005.
              Il direttore della cancelleria: Di Paola
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