N. 92 ORDINANZA (Atto di promovimento) 24 agosto 2004

Ordinanza  emessa  il  24  agosto  2004  dal  tribunale di Biella nel
procedimento  civile  vertente  tra  ditta  Ritorcitura Valsessera di
Gianfranco  Cortese  contro  ditta  Escavazioni  Effetre  di  R. e S.
Filisetti & C. S.n.c.

Procedimento civile - Pluralita' di procedimenti relativi alla stessa
  causa   -  Pendenza  davanti  al  medesimo  giudice  (o  davanti  a
  magistrati  diversi  dello  stesso  ufficio giudiziario) - Prevista
  riunione  dei  procedimenti  - Irragionevolezza - Possibile lesione
  del  diritto  di  difesa  della  parte  a cui favore siano maturate
  preclusioni  nel  procedimento  anteriore  -  Illogica  eccezione a
  principio   di  diritto  processuale  generale  -  Incidenza  sulla
  ragionevole durata del processo.
- Codice di procedura civile, art. 273.
- Costituzione, artt. 3 e 111, comma secondo.
Procedimento civile - Pluralita' di procedimenti relativi alla stessa
  causa  -  Definizione  del  procedimento  successivo  con  sentenza
  dichiarativa  della  litispendenza - Mancata previsione nel caso di
  procedimenti  pendenti  davanti  al  medesimo ufficio giudiziario -
  Irragionevolezza  -  Possibile  lesione del diritto di difesa della
  parte  a  cui  favore  siano  maturate preclusioni nel procedimento
  anteriore  -  Illogica eccezione a principio di diritto processuale
  generale - Incidenza sulla ragionevole durata del processo.
- Codice di procedura civile, art. 39, primo comma.
- Costituzione, artt. 3 e 111, comma secondo.
(GU n.10 del 9-3-2005 )
                            IL TRIBUNALE

    A scioglimento della riserva, ha emanato la seguente ordinanza.
    Rilevato  che  la  presente causa e' stata introdotta dalla ditta
Ritorcitura  Valsessera  di  Gianfranco  Cortese  nei confronti della
Escavazione  Effetre  di  R.  e  S. Filisetti & C. S.n.c. con atto di
citazione notificato in data 3 aprile 2003;
        che  in  tale atto l'attrice, premesso che la convenuta nella
primavera  del  2001  ha  effettuato su incarico della stessa attrice
lavori  di  sistemazione  del  terreno e di una scogliera situati nei
pressi  di  un capannone nella zona industriale di Pray Biellese, via
Noveis,  ma  che tali lavori sono stati mal eseguiti (in particolare,
il  piano di campagna avrebbe assunto una pendenza contraria a quanto
previsto,  ovvero  verso  lo  stabilimento  anziche'  verso il lato a
monte),  ha  chiesto  la  condanna della convenuta al pagamento della
somma  di  Euro 34.955,29,  oltre  accessori,  o di quella maggiore o
minore accertanda in corso di causa;
        che  con  comparsa  depositata  in  data 18 giugno 2003 si e'
costituita la convenuta chiedendo il rigetto della domanda attorea e,
in  via  preliminare,  la declaratoria della nullita' della citazione
per difetto dei requisiti di cui all'art. 163, terzo comma, nn. 3 e 4
c.p.c.;
        che con provvedimento del 25 giugno 2003 il g.i. ha rigettato
tale  eccezione  rilevando  la  completezza  della  domanda in quanto
comprensiva  di tutti gli elementi essenziali fra cui la richiesta di
risarcimento dei danni consequenziali ai vizi lamentati;
        che  con  memoria del 14 aprile 2004 la convenuta, preso atto
che,  anche in base all'ordinanza di cui sopra, la domanda avversaria
deve  qualificarsi  quale  richiesta  di  risarcimento  dei danni, ha
rilevato  che  tale  domanda  era gia' stata precedentemente proposta
dall'attrice nella causa di opposizione a decreto ingiuntivo pendente
fra  le stesse parti avanti al Tribunale di Biella (R.G. n. 667/2002)
e ha formulato domanda di declaratoria di litispendenza;
        che   effettivamente,   come  emerge  dall'esame  degli  atti
introduttivi  di  tale  causa prodotti dalle parti (docc. 1 e 2 fasc.
conv.),   con   citazione  notificata  in  data  10  maggio  2002  la
Ritorcitura  Valsessera ha instaurato una causa di opposizione contro
il  decreto  ingiuntivo  emanato  dal  Tribunale  di Biella in data 5
aprile  2002  su  richiesta  della  Effetre  e  con lo stesso atto di
opposizione, inoltre, la Ritorcitura Valsessera ha svolto la seguente
domanda   riconvenzionale:   «Condannarsi   la   ditta   opposta   al
risarcimento  dei  danni  patiti  dalla  Ritorcitura  Valsessera  per
l'inconveniente denunciato, danni non quantificabili ma da accertarsi
in corso di causa» (cfr. doc. 1 fasc. conv.);
        che,  come  si  evince  facilmente  dal  tenore  dell'atto di
opposizione,  tale  riconvenzione  riguarda  gli  stessi  fatti della
presente  causa, atteso che concerne i lavori eseguiti da Effetre per
conto  della  Ritorcitura  Valsessera  presso  il  cantiere  di  Pray
Biellese nel corso del 2001 e che il vizio oggetto delle doglianze di
quest'ultima  (e posto a base della richiesta risarcitoria) e' ancora
una  volta l'asserito errore nel livellamento del «piano di campagna»
che  avrebbe assunto pendenza verso lo stabilimento anziche' verso il
lato a monte;
        che  da  quanto sopra esposto si ricava che entrambe le cause
hanno  ad  oggetto  la  domanda  svolta da Ritorcitura Valsessera nei
confronti  di  Effetre  avente  ad  oggetto il risarcimento dei danni
relativi  ai  vizi  (ed  in  particolare alla errata inclinazione del
piano di campagna) sussistenti nell'opera compiuta da quest'ultima;
        che  e'  a  tal proposito irrilevante la differente posizione
assunta  da  Ritorcitura  Valsessera  nei  due  processi in questione
(ovvero attrice sic et simpliciter nella presente causa e sostanziale
convenuta  nella  causa  di opposizione a decreto ingiuntivo), atteso
che  relativamente  ad  una  domanda riconvenzionale il convenuto (in
senso  sostanziale  e/o formale) deve essere considerato, a tutti gli
effetti, attore;
        che  anche  sotto  il profilo del quantum l'oggetto delle due
domande  formulate  da  Ritorcitura  Valsessera  nei  due  giudizi  -
contrariamente  a  quanto  sostenuto  dalla  stessa  parte  -  e'  il
medesimo,  atteso che nella causa di opposizione a decreto ingiuntivo
quest'ultima  ha  chiesto  la  condanna  di  Effetre al pagamento dei
«danni  non quantificabili ma da accertarsi in corso di causa» mentre
nella  presente causa ha chiesto la condanna al pagamento della somma
di Euro  34.955,29 «o di quell'altra maggiore o minore somma in causa
emergenda»;  da  cio'  si  evince,  quindi, che in entrambi i casi la
domanda riguarda il risarcimento dei danni nella misura da accertarsi
in  corso  di  causa  e che la quantificazione operata nella presente
causa  ha  mero  valore indicativo e non limitativo del quantum (come
comprovato dalla espressa richiesta anche della condanna al pagamento
della «somma maggiore»);
        che,  pertanto,  stante l'identita' di parti, petitum e causa
petendi le due domande considerate rientrano nella nozione di «stessa
causa» di cui agli artt. 39, primo comma, e 273 c.p.c.;
        che  in  base alla vigente normativa, atteso che le due cause
in questione pendono davanti a due magistrati dello stesso tribunale,
l'eccezione  di  litispendenza  sollevata da parte convenuta dovrebbe
essere  rigettata  dovendo  invece  farsi  luogo  alla  riunione  dei
procedimenti nelle forme di cui all'art. 273, secondo comma, c.p.c.;
    Tanto premesso in linea di fatto e con riferimento alla rilevanza
della  questione,  il  tribunale ritiene di sollevare la questione di
legittimita'   costituzionale  dell'art. 273  c.p.c.  e  dell'art. 39
c.p.c.  -  nella  parte in cui non prevede che la litispendenza debba
essere  pronunciata  anche quando i procedimenti relativi alla stessa
causa  pendono  avanti  allo  stesso  giudice  (inteso  quale ufficio
giudiziario) - per i seguenti

                             M o t i v i

    1) Sull'illegittimita' dell'art. 273 c.p.c.
    Il  vigente codice di rito impone farsi luogo alla riunione tra i
procedimenti  quando  essi  hanno ad oggetto identiche cause le quali
pendono  avanti  ad  uno  stesso  giudice  (sia  avanti  allo  stesso
magistrato  -  art. 273,  primo  comma,  c.p.c.  -  sia  avanti a due
magistrati  dello stesso ufficio - art. 273, secondo comma, c.p.c. -)
mentre  tutt'altra  soluzione  e'  prevista  quando,  nella  medesima
situazione,  le  cause  pendono  avanti  a due giudici appartenenti a
diversi uffici (art. 39, primo comma, c.p.c.). In tale caso, infatti,
il  giudice  successivamente adito definisce il giudizio pronunciando
sentenza  declaratoria  della  litispendenza,  con la conseguenza che
tale  causa si esaurisce e le parti (salva l'impugnazione mediante il
regolamento  di competenza ai sensi dell'art. 42 c.p.c.) potranno far
valere  i  propri  diritti  solo nel diverso ed autonomo procedimento
(cfr. Cass. 20 dicembre 1985, n. 6558). Nessun rilievo puo' essere in
tal  caso  attribuito  al  fatto  che  l'art. 39, primo comma, c.p.c.
prevede   che,   contestualmente  alla  sentenza  dichiarativa  della
litispendenza,  il  giudice  «dispone  con ordinanza la cancellazione
della  causa  dal ruolo»: tale ordinanza deve essere intesa come «una
(inutile  e  pleonastica) componente della sentenza» (cfr. ibidem) la
quale,  secondo  i  principi  generali,  definisce  il  giudizio  non
generando,  pertanto,  alcuna situazione di quiescenza (incompatibile
con  la  pronuncia  di  litispendenza;  cfr.  Cass. 30 novembre 1967,
n. 2853) e non consentendo la prosecuzione del processo attraverso la
riassunzione.
    Sotto  il profilo considerato, dunque, l'appartenenza del giudice
successivamente  adito allo stesso o ad un diverso tribunale rispetto
a  quello della prima causa determina effetti diametralmente opposti:
nel  primo caso il processo instaurato per ultimo (il quale, identico
al  primo,  deve  considerarsi un vero e proprio «duplicato» di esso)
prosegue previa riunione, nel secondo caso e' definito con sentenza e
si esaurisce.
    Tale  regime  appare  del  tutto  irragionevole  e  ad avviso del
tribunale  le  norme sopra menzionate devono considerarsi illegittime
per  contrasto  con  gli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost. poiche',
nel  caso  in  cui  due  cause  identiche  pendano avanti allo stesso
giudice,   determinano   la   prosecuzione   (previa   riunione)  del
procedimento   instaurato   successivamente   (e   cioe'   del   mero
«duplicato») anziche' prevederne la definizione.
    In merito a cio' si osserva che, reggendosi il processo civile su
un  sistema  rigido  di preclusioni processuali (le principali fra le
quali sono costituite dagli artt. 163 e 183, quinto comma, c.p.c. con
riferimento  alle  domande - e, per quanto riguarda la riconvenzione,
dall'art. 167,  secondo  comma,  c.p.c.  -  ;  dall'art. 180, secondo
comma,   c.p.c.   con   riferimento  alle  eccezioni  non  rilevabili
d'ufficio;  dall'art. 183  c.p.c.  con riferimento alle allegazioni e
dall'art. 184  c.p.c.  con  riferimento alla produzione documentale e
alle  istanze  istruttorie  relative alle prove costituende), la piu'
recente  di  due  cause  identiche costituisce in realta' una entita'
insuscettibile  di  svolgere  alcun  effetto,  posto  che  altrimenti
svuoterebbe di significato l'intera struttura processuale consentendo
un  banale  aggiramento  di  ogni  barriera  preclusiva eventualmente
verificatasi nel precedente giudizio e determinando una grave lesione
del  diritto  di  difesa  della  parte  a  favore della quale fossero
maturate  le  suddette  preclusioni  (per  inciso  si  sottolinea che
proprio  nella  fattispecie  in  questione  si  e'  verificato  il  -
dichiarato    -   tentativo   dell'attrice   di   aggirare,   tramite
l'introduzione  di una causa costituente un mero «duplicato» di altra
precedentemente  instaurata,  il  verificarsi  delle  preclusioni ivi
maturate,  atteso  che  tale  parte ha affermato che «Come ben potra'
vedere  l'Ill.mo  Giudicante  la  Ritorcitura  Valsessera  non ha poi
svolto  nella causa precedente, tuttora pendente (...), una specifica
istruttoria  volta  ad ottenere il risarcimento degli ipotetici danni
aggiungendo  poi  che  «La  presente causa deve intendersi in realta'
causa  autonoma  e  distinta  laddove sono stati indicati, e verranno
ulteriormente   indicati,   mezzi  di  prova  specifici,  situazioni,
testimonianze  e  fatti,  con documentazione (...)»; cfr. pagg. 1 e 2
della memoria 14 maggio 2004).
    In  altre  parole,  la  causa successivamente instaurata ad altra
identica  e'  in ogni caso del tutto inutile in quanto se nella prima
sono  gia'  maturate,  a  carico  di una parte, alcune preclusioni le
relative  facolta' processuali non sono «recuperabili» se non tramite
l'applicazione  degli  istituti  a  tale scopo previsti (art. 184-bis
c.p.c.)  all'interno  del processo anteriore (mentre naturalmente, se
non  si  fosse verificata alcuna preclusione nel processo primigenio,
la  situazione  non  presenterebbe  alcun  problema  poiche' la parte
interessata potrebbe - e dovrebbe, nel senso che avrebbe l'onere di -
esercitare le relative facolta' in seno al processo in questione).
    Tale   assunto   trova   una   puntuale   conferma   nell'attuale
formulazione  dell'art. 39,  primo  comma,  c.p.c.  con riferimento a
cause  pendenti  avanti  a  giudici diversi: il legislatore, infatti,
prendendo atto della totale assenza di effetti della causa instaurata
successivamente  ad  altra  identica,  ne  impedisce la prosecuzione,
imponendo   al   giudice   da  ultimo  adito,  una  volta  dimostrata
l'identita'  delle  cause,  di  pronunciare  sentenza definitoria del
giudizio.  E'  del  tutto  evidente, a tal proposito, che la radicale
«eliminazione» del «doppione» processuale sarebbe senza senso qualora
esso  fosse  idoneo  a  svolgere anche un minimo effetto di qualsiasi
tipo.
    Tutt'altre   considerazioni  devono,  invece,  farsi  per  quanto
riguarda la regola dettata dall'art. 273 c.p.c. con riferimento a due
cause  pendenti  davanti allo stesso giudice: in questo caso la causa
successiva,  ancorche' inutile (il rapporto tra i due procedimenti in
questione  e'  infatti  il  medesimo sopra descritto, posto che a tal
fine  l'appartenenza  del  giudice  ad un ufficio piuttosto che ad un
altro  e'  del  tutto  ininfluente), deve essere riunita alla prima e
quindi prosegue inevitabilmente sino alla conclusione di essa.
    In  tal  modo  l'impianto  del  codice  di  rito da' luogo ad una
disparita'  di  soluzioni  contrastante  con  l'art. 3 Cost., essendo
irragionevole che un processo privo di effetti (una sorta di «inutile
zavorra»)  sia  destinato ad una rapida e definitiva conclusione solo
nel  caso in cui i due giudici aditi appartengano a diversi uffici, e
debba invece inefficacemente protrarsi (e sino alla definizione delle
cause  riunite,  quindi  anche  per piu' gradi) qualora i due giudici
aditi appartengano allo stesso ufficio.
    Il  regime  attualmente vigente costituisce, quindi, una illogica
eccezione  al principio di diritto processuale generale (e codificato
nel  codice di procedura civile all'art. 187) secondo cui il giudice,
una  volta  constatata  la sussistenza di una questione pregiudiziale
che  rende  la  causa insuscettibile di giungere ad una decisione sul
merito,  puo'  e  deve  adottare  strumenti di rapida definizione del
giudizio emettendo una pronuncia sul rito.
    Per  lo  stesso  motivo  la  prosecuzione, previa riunione, della
causa   dettata   dall'art. 273   c.p.c.  viola  anche  il  principio
costituzionale   della   ragionevole   durata  dei  processi  di  cui
all'art. 111,  secondo  comma, Cost., in quanto la protrazione di una
causa insuscettibile di svolgere alcun effetto non e' giustificata da
alcun motivo.
    2) Sull'illegittimita' dell'art. 39 c.p.c.
    Si rende ora necessario individuare la disciplina applicabile ove
fosse dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 273 c.p.c.
di cui al par. precedente.
    In  base  a  quanto  sopra  esposto  appare  evidente che l'unica
soluzione   possibile   (poiche'   coerente   sia   con   i   dettami
costituzionali  sia  con  i principi generali del processo; cfr. par.
prec.)   deve   essere   quella   di   consentire  al  giudice  adito
successivamente  di  pronunciare  sentenza definitoria della causa. E
tale  pronuncia  sul  rito  non  puo'  essere  costituita  che  dalla
declaratoria  di  litispendenza,  istituto  previsto  dal legislatore
proprio per il caso di sussistenza di due cause identiche.
    Tuttavia,  come  sopra  gia' evidenziato, l'art. 39, primo comma,
c.p.c. limita espressamente l'applicabilita' di tale istituto al caso
in  cui  la  stessa  causa  sia  proposta avanti a «giudici diversi»,
espressione  che, come chiarito dalla costante giurisprudenza (sia di
merito  che  di  legittimita),  si riferisce a giudici appartenenti a
diversi   uffici   giudiziari   rendendo   cosi'   tale  disposizione
inapplicabile  quando i giudizi pendano avanti a giudici dello stesso
tribunale.
    Ne  consegue  che, una volta esclusa (per effetto della eventuale
dichiarazione  di  illegittimita' costituzionale dell'art. 273 c.p.c.
da  parte  della  Corte  adita)  la  via  della  prosecuzione, previa
riunione,    del    «duplicato»    processuale,   non   sussisterebbe
nell'ordinamento   altra   norma  utilizzabile  per  addivenire  alla
pronuncia sul rito in questione (ovvero la litispendenza), atteso che
la  regola di cui all'art. 39, primo comma, c.p.c., stante l'espressa
limitazione  ivi  enunciata,  non potrebbe estendersi oltre i casi in
essa considerati.
    Per  tale motivo, pertanto, si ritiene che anche l'art. 39, primo
comma,  c.p.c.  sia  costituzionalmente illegittimo per contrasto con
gli  artt. 3  e 111 Cost. (per le medesime ragioni enunciate nel par.
precedente)  ove non prevede che il giudice pronunci la litispendenza
anche  nel  caso  in  cui  le due cause identiche pendano avanti allo
stesso  giudice  (ovvero ove si tratti di due magistrati appartenenti
allo stesso ufficio).
    In  conclusione,  posto  le vigenti norme non consentono in alcun
modo  di  emettere  la  pronuncia di litispendenza richiesta da parte
convenuta,  mentre  impongono  (quale  unica  pronuncia possibile) di
disporre la riunione fra le cause, con l'effetto di far proseguire un
processo  inidoneo  a  svolgere  alcun  effetto,  si rende necessario
sollevare   la  questione  di  costituzionalita'  nei  termini  sopra
specificati.
                              P. Q. M.
    Ritenuta  rilevante  e non manifestamente infondata, in relazione
agli  artt. 3  e 111, secondo comma, della Costituzione, la questione
di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 273 c.p.c. e dell'art. 39
c.p.c.  nella  parte  in  cui  non prevede che la litispendenza debba
essere  pronunciata  anche quando i procedimenti relativi alla stessa
causa  pendono  avanti  allo  stesso  giudice  (inteso  quale ufficio
giudiziario) per le ragioni indicate in motivazione;
    Ordina  la  sospensione  del  presente  giudizio  e  la immediata
trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
    Dispone  che  la  presente ordinanza sia notificata al Presidente
del Consiglio dei ministri e sia comunicata alle parti, al Presidente
della   Camera   dei  deputati  e  al  Presidente  del  Senato  della
Repubblica.
        Cosi' deciso in Biella, il 23 agosto 2004.
                          Il giudice: Carli
05C0247