N. 130 ORDINANZA (Atto di promovimento) 4 ottobre 2004

Ordinanza  emessa  il  4  ottobre  2004  dal tribunale amministrativo
regionale  del  Lazio  sul  ricorso proposto da Moggi Giovanna contro
Ministero della giustizia

Ordinamento   giudiziario   -  Giudice  di  pace  -  Incompatibilita'
  all'esercizio  delle  funzioni  per  coloro  che svolgano attivita'
  professionali  per  imprese di assicurazioni o banche oppure aventi
  il  coniuge,  convivente,  parenti  fino  al secondo grado o affini
  entro  il  primo  grado  che svolgano abitualmente tali attivita' -
  Ingiustificato  deteriore  trattamento  rispetto ai giudici di pace
  esercenti attivita' forense o che abbiano il coniuge, convivente, o
  parenti  entro  il  secondo  grado,  o  affini entro il primo grado
  svolgenti  attivita'  forense,  nonche' rispetto agli altri giudici
  ordinari  -  Violazione del principio della distinzione dei giudici
  solo per funzioni.
- Legge  21 novembre  1991,  n. 374,  art. 8,  comma 1,  lett. c-bis)
  aggiunto dalla legge 24 novembre 1999, n. 468, art. 6.
- Costituzione, artt. 3, 102 e 107, commi primo e terzo.
(GU n.11 del 16-3-2005 )
                IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE

    Ha   pronunziato   la  seguente  ordinanza  sul  ricorso  n. reg.
gen. 2538/2002, proposto dalla dott.ssa Giovanna Moggi, rappresentata
e   difesa   dagli   avv.  Giuseppe  Alibrandi  e  Roberto  Righi,  e
selettivamente domiciliata presso lo studio del secondo, in Roma, via
Calducci n. 4;
    Contro  il  Ministero della giustizia in persona del Ministro pro
tempore  rappresentato  e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato
presso  la  cui  sede,  in Roma, via dei Portoghesi n. 12, e' ex lege
domiciliato; il Consiglio superiore della magistratura in persona del
legale rappresentante pro tempore, come sopra rappresentato, difeso e
domiciliato;  la Presidenza del Consiglio dei ministri in persona del
Presidente in carica, come sopra rappresentato, difeso e domiciliato,
per l'annullamento, previa sospensione:
        del  decreto  del 6 luglio 2001 del Ministro della giustizia,
con  il quale la ricorrente e' stata dichiarata decaduta per causa di
sopravvenuta  incompatibilita' - ai sensi dell'art. 8, comma 1, lett.
c-bis della legge n. 374/1991 come modificato dall'art. 6 della legge
n. 468/1999  -  dall'incarico di giudice di pace presso l'Ufficio del
giudice di pace di Pistoia;
        della conforme deliberazione del 14 giugno 2001 del Consiglio
superiore della magistratura;
        ove   occorra,  della  circolare  del  19  gennaio  2000  del
Consiglio superiore della magistratura relativa alle incompatibilita'
dei giudici di pace;
        dell'art. 17,  comma  9,  del  d.P.R.  10 giugno 2000 n. 198,
nella  parte  in  cui  non  prevede  che  il  termine per l'avvio del
procedimento  (volto  alla  pronunzia  della decadenza) decorra dalla
conoscenza,   da  parte  dell'amministrazione,  della  situazione  di
incompatibilita';  e  nella  parte  in  cui  non prevede che entro il
termine   annuale  ivi  stabilito  (a  pena  di  estinzione)  per  la
conclusione    del   procedimento,   debba   intervenire   anche   la
notificazione all'interessato del provvedimento.
    Visti gli atti depositati dalla ricorrente;
    Visti  gli  atti  di  costituzione in giudizio e la memoria delle
amministrazioni resistenti;
    Visti gli atti tutti della causa;
    Designato relatore il consigliere avv. Carlo Modica;
    Udito,  alla  pubblica udienza del 28 aprile 2004, F. Paoletti su
delega dell'avv. R. Righi;
    Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:

                              F a t t o

    Con  ricorso  notificato  il  19  febbraio 2002 e depositato il 6
marzo  2002,  la  dott.ssa  Giovanna  Moggi  impugna  i provvedimenti
indicati in epigrafe, esponendo quanto segue.
    Nel 1995 la ricorrente veniva nominata giudice di pace.
    Nel  1999  entrava  in  vigore  la  legge  n. 468/1999  che  (con
l'art. 6)   ha   modificato   l'art. 8   della   legge   n. 374/1991,
introducendo nuove cause di incompatibilita' pei i giudici di pace.
    In   particolare,   il  «nuovo»  art. 8  della  legge  n.374/1991
stabilisce  che non possono esercitare le funzioni di giudice di pace
«coloro   che   svolgono   attivita'  professionale  per  imprese  di
assicurazione  o  banche oppure hanno il coniuge, convivente, parenti
fino  al  secondo  grado  o  affini entro il primo grado che svolgono
abitualmente tale attivita».
    L'art. 24  della  legge  n. 468/1999  cit.,  ha  poi accordato ai
giudici  di  pace che alla data della sua entrata in vigore (avvenuta
il 21 dicembre 1999) fossero gia' in servizio, il termine di sessanta
giorni (decorrenti dalla predetta data) per rimuovere le sopravvenute
situazioni di incompatibilita'.
    Alla fine del primo quadriennio dalla nomina a giudice di pace ed
al  fine  di ottenerne la conferma (a seguito del prescritto giudizio
di   idoneita),   con   nota   del  10  gennaio  2000  la  ricorrente
rappresentava  al  competente  Consiglio  giudiziario  che i suoi due
figli   svolgevano   entrambi   attivita'  professionale  di  «agente
assicurativo»  per  conto  della  Compagnia  «RAS» e si impegnava «ad
astenersi da tutte le cause in cui sia parte la predetta compagnia».
    Successivamente, il 14 febbraio 2000 la ricorrente trasmetteva al
Consiglio  superiore della magistratura una nota nella quale chiedeva
di  essere confermata nell'incarico di giudice di pace ed assegnata -
proprio   al   fine   di   evitare   situazioni  di  incompatibilita'
eventualmente  scaturenti  dall'attivita'  professionale  svolta  dai
figli  -  alla  trattazione  delle  sole  cause  di  opposizione alle
ordinanze-ingiunzioni.
    In  data  15  marzo  2000 l'Assemblea plenaria del C.S.M., previa
acquisizione   del  giudizio  di  idoneita'  espresso  dal  Consiglio
giudiziario, la confermava nell'incarico.
    Senonche'  in  data 8 agosto 2000 la Commissione per i magistrati
onorari  presso  il C.S.M. comunicava alla ricorrente di aver avviato
il  procedimento  volto  alla  «eventuale  declaratoria  di decadenza
dall'ufficio  di  giudice di pace ai sensi dell'art. 9 della legge 21
novembre  1991  n. 374 e succ. mod. per motivi di incompatibilita' ex
art. 8,  comma  1,  lett.  c-bis, della stessa legge, a seguito della
dichiarazione da Lei resa in data 10 gennaio 2000, non risultando ...
l'avvenuta rimozione delle suddette cause di incompatibilita».
    A  seguito  di tale contestazione, con nota del 14 agosto 2000 la
ricorrente  trasmetteva  al  C.S.M. le proprie controdeduzioni, nelle
quali  faceva  rilevare - tra l'altro - che inspiegabilmente la causa
di  incompatibilita'  a  cagione  della  quale  rischiava  di  essere
dichiarata  decaduta  dalle  funzioni,  non  era prevista anche per i
magistrati ordinari.
    Lamentando, pertanto, che una interpretazione puramente letterale
dell'art. 8   cit.   ne   avrebbe   evidenziato   la   illegittimita'
costituzionale (risultando vietato ai giudici di pace cio' che invece
e'  consentito  ai  magistrati ordinari), la ricorrente proponeva una
interpretazione  piu'  flessibile,  e  sistematicamente  piu' logica,
della norma in questione.
    In particolare la ricorrente sosteneva (e sostiene):
        che   «l'agente  di  assicurazione  non  ha  alcun  interesse
economico  alla  gestione  della  societa'  assicuratrice  se non con
riguardo    esclusivo    alla   stipula   delle   polizze»   e   che,
conseguentemente,   in  caso  di  lite  fra  assicurato  e  compagnia
assicuratrice   l'agente   non   e'   direttamente   e  personalmente
interessato,  ragion  per  cui  e' statisticamente molto raro (se non
addirittura  impossibile)  che  un  giudice  di  pace  che  abbia  un
congiunto  agente  assicurativo si trovi effettivamente in situazione
di  incompatibilita'  (che  gli  impedisca  di giudicare serenamente)
nelle  cause  insorte  fra la compagnia assicuratrice (della quale il
detto congiunto sia agente) e l'assicurato;
        che l'unico caso in cui puo' sorgere conflitto fra l'agente e
l'assicurato e' quello della mancata riscossione del premio; e che in
tali  casi la garanzia dell'imparzialita' del giudizio (per l'ipotesi
in  cui il giudice di pace abbia «legami» con l'agente) e' assicurata
dall'istituto dell'«astensione» (e dalla normativa che lo regola);
        e che pertanto con l'art. 8 cit. il legislatore non ha inteso
riferirsi anche agli agenti di assicurazione.
    Il  29  marzo  2001  il  Consiglio  giudiziario  di Firenze udiva
personalmente  la ricorrente, la quale dichiarava di non aver rimosso
la   causa   di   incompatibilita';   e   insisteva  nella  sua  tesi
interpretativa   sostenendo   ancora  la  non  sussistenza  di  alcun
conflitto di interesse.
    Ma  l'interpretazione  proposta  non  ha  convinto  il  Consiglio
giudiziario   che   ha   proposto  l'adozione  del  provvedimento  di
decadenza;  ne' il C.S.M. che con la deliberazione del 14 giugno 2001
ha accolto la proposta.
    Infine   con  il  decreto  ministeriale  del  5  luglio  2001  la
ricorrente  e' stata definitivamente dichiarata decaduta dall'ufficio
e dalle funzioni di giudice di pace.
    Impugnato  il predetto provvedimento e gli atti ad esso connessi,
la ricorrente lamenta:
        1)  violazione  degli  artt. 2,  3  e  97 della Costituzione;
violazione dei principii desumibili dagli artt. 1, 2 e 29 della legge
7  agosto 1990 n. 241; degli artt. 8 e 9 della legge 21 novembre 1991
n. 374  (nel  testo  modificato  dagli  artt. 6  e  7  della legge 24
novembre 1999 n. 468) e degli artt. 17 e 19 del d.P.R. 10 giugno 2000
n. 198,   nonche'   eccesso  di  potere  per  violazione  del  giusto
procedimento;
        2)   ulteriore   violazione   degli   artt. 3   e   97  della
Costituzione;  violazione  degli  artt. 102,  106,  107  e  108 della
Costituzione;   ulteriore   violazione  dell'art. 8  della  legge  21
novembre  1991  n. 374  (nel testo modificato dagli artt. 6 e 7 della
legge  24  novembre 1999 n. 468) anche in relazione all'art. 1903 del
codice  civile;  nonche'  illegittimita'  derivata  del provvedimento
impugnato  dalla  illegittimita'  costituzionale dell'art. 8, comma 1
lett. c-bis della legge 21 novembre 1991 n. 374 (nel testo introdotto
con  l'art. 6 della legge 24 novembre 1999 n. 468), per contrasto con
gli artt. 3, 97, 102, 106, 107 e 108 della Costituzione.
    Ritualmente  costituitasi  con  fascicolo  depositato il 22 marzo
2002, l'amministrazione si e' opposta all'accoglimento del ricorso.
    Con  ordinanza  n. 1769  del  27  marzo  2002 di questo Tribunale
amministrativo   regionale,   l'istanza   cautelare   avanzata  dalla
ricorrente e' stata respinta.
    All'udienza  del 28 aprile 2004, uditi i difensori delle parti, i
quali  hanno  insistito  nelle  rispettive  richieste,  deduzioni  ed
eccezioni, la causa e' stata posta in decisione.

                            D i r i t t o

    1.  - La questione di legittimita' costituzionale sollevata dalla
difesa  della  ricorrente  appare rilevante ai fini della decisione e
non manifestamente infondata per le ragioni che si passa ad esporre.
    1.1. - Con il primo profilo di doglianza di cui al secondo motivo
di  gravame  del  ricorso  in  epigrafe - motivo che va esaminato con
precedenza,  atteso il suo carattere pregiudiziale ed assorbente - la
ricorrente   lamenta,  innanzitutto,  la  violazione  -  per  erronea
applicazione  -  dell'art. 8,  comma  1  lett.  c-bis, della legge 21
novembre  1991  n. 374 (nel testo introdotto con l'art. 6 della legge
24 novembre 1999 n. 468), deducendo:
        che  di  regola  gli  agenti  di  assicurazione non vengono a
trovarsi  in situazione di conflitto con terzi a causa dell'attivita'
svolta;  e cio' in quanto non hanno alcun diretto interesse economico
nella  gestione  dei sinistri, e non hanno comunque la rappresentanza
legale della Compagnia nel caso di contenzioso cagionato da sinistri;
        che,  dunque,  nel  precludere l'assunzione delle funzioni di
giudice  di  pace  a «coloro che svolgono attivita' professionale per
imprese  di  assicurazione»  o  che  abbiano  congiunti  che svolgano
abitualmente  tale  attivita',  l'art. 8,  comma 1, lett. c-bis della
legge  n. 374/1991  non  ha  certamente  inteso  riferirsi anche agli
«agenti di assicurazione»;
        e  che  pertanto l'amministrazione ha errato nel ritenere che
essa  (ricorrente)  fosse  in situazione di assoluta incompatibilita'
all'esercizio   della   funzione   di   giudice   di   pace  a  causa
dell'attivita' di agenti di assicurazione svolta dai figli.
    La doglianza non merita accoglimento.
    Essa si fonda sul presupposto errato che nell'esercizio delle sue
funzioni  e  della sua attivita', l'agente di assicurazione non entri
in  conflitto  con  terzi;  e  che  non  abbia un interesse economico
congiunto  o  comunque  convergente con quello della compagnia da cui
riceve  il mandato (e nel cui nome agisce). Vero e', invece, l'esatto
contrario; e cioe' che nell'esercizio della sua attivita' e nella sua
qualita' di mandatario, l'agente puo' entrare in conflitto e trovarsi
in  lite  giudiziaria  con  gli  assicurati  (proprio  in ragione del
rapporto  contrattuale  che con essi si instaura); e che, quand'anche
non sia parte formale in giudizio, egli ha tutto l'interesse a che il
contenzioso instaurato dagli assicurati si risolva favorevolmente per
la compagnia assicurativa.
    1.2.  -  Con  il  secondo  profilo di doglianza di cui al secondo
motivo  di  gravame  la ricorrente lamenta la illegittimita' derivata
del  provvedimento impugnato (decreto ministeriale di pronunzia della
decadenza,  per  incompatibilita',  dall'ufficio  e dalle funzioni di
giudice  di  pace)  dalla  illegittimita' costituzionale dell'art. 8,
comma  1, lett. c-bis, della legge 21 novembre 1991 n. 374 (nel testo
introdotto  con  l'art. 6  della  legge 24 novembre 1999 n. 468), per
contrasto   con   gli   artt. 3,  97,  102,  106,  107  e  108  della
Costituzione, deducendo:
        che  mentre  per  gli avvocati che svolgano anche funzioni di
giudice  di pace (d'ora innanzi, per comodita' espositiva, denominati
«giudici  di  pace  -  avvocati»  la  contestata norma ha previsto la
possibilita'  di  richiedere il trasferimento ad altra sede (evitando
cosi' la pronunzia di decadenza dall'ufficio), la stessa facolta' non
e' stata accordata ai giudici di pace che non svolgono la professione
forense (d'ora innanzi, per comodita' espositiva, denominati «giudici
di  pace "semplici"») ma che vengano parimenti a trovarsi - a cagione
del  concomitante  svolgimento  di  un'altra  attivita'  a  carattere
professionale - in posizione di sopravvenuta incompatibilita';
        che  mentre  per  i  giudici di pace «semplici» che vengano a
trovarsi   in   situazione   di   incompatibilita'  a  cagione  della
circostanza  che  coniuge,  convivente,  parenti  entro  il secondo o
affini  entro il primo grado (d'ora in poi, per comodita' espositiva,
denominati  semplicemente  «congiunti») esercitano nel circondario la
professione  forense,  la contestata norma ha previsto la facolta' di
astenersi  dal  giudizio  (facolta'  che  li  pone  «al riparo» dalla
pronunzia  di decadenza); identica facolta' non e' stata accordata ai
colleghi  -  anch'essi giudici di pace «semplici» - che si trovino in
posizione  di incompatibilita' a cagione della circostanza che i loro
«congiunti»  esercitano  una  professione  diversa  da  quella legale
(nella specie: agente assicurativo);
        e che tali differenze di trattamento, non giustificandosi sul
piano  della  ragionevolezza,  violano  l'art. 3 della Costituzione e
contrastano con il principio di eguaglianza ivi predicato.
    1.2.1. - La «rilevanza» della sollevata questione di legittimita'
costituzionale  ai  fini  della  decisione della causa introdotta dal
ricorso in esame, appare - per il profilo in esame - evidente.
    Se,   infatti,   l'art. 8   fosse  dichiarato  costituzionalmente
illegittimo,  ne  conseguirebbe  «automaticamente» la «illegittimita'
derivata»  del  provvedimento impugnato che e' stato adottato proprio
in applicazione della suddetta norma.
    1.2.2.  -  La  questione  appare,  inoltre,  «non  manifestamente
infondata» per le seguenti ragioni.
    L'art. 8  in esame ha previsto che i «giudici di pace - avvocati»
che  (per  effetto  delle  innovazioni  previste  dalla stessa norma)
vengano  a  trovarsi in posizione di sopravvenuta incompatibilita' in
ragione del potenziale conflitto d'interesse scaturente proprio dalla
contestuale  posizione  di giudice e di avvocato, possano chiedere il
trasferimento presso altro ufficio per continuare a svolgere entrambe
le funzioni. In tal caso, l'esercizio della predetta facolta' (id est
la  pura  e  semplice  proposizione  della  istanza di trasferimento)
costituisce  «rimozione  della  causa  di incompatibilita» e preclude
l'avvio del procedimento volto alla pronuncia della «decadenza».
    Analoga  facolta' non e' stata accordata, pero', anche ai giudici
di  pace  «semplici»  che per il medesimo titolo (l'entrata in vigore
della  nuova  legge)  vengano  a  trovarsi  in  analoga  posizione di
incompatibilita' (per conflitto di interesse), a causa dell'esercizio
da  parte  loro,  o  di «congiunti», di professioni diverse da quella
forense.
    E'  questa,  dunque,  la  prima  disparita'  di  trattamento, fra
«giudici  di  pace  -  avvocati»  e «Giudici di pace "semplici"», che
viene in evidenza.
    V'e'  inoltre  un'altra disparita' da mettere in luce; forse meno
evidente  ma che introduce una discriminazione ulteriore, addirittura
in seno alla categoria dei «giudici di pace "semplici"».
    Il  «sistema»  delineato  dal  combinato  disposto  dell'art. 8 e
dell'art. 10  della  legge  n. 374/1991  (cosi'  come novellato dalla
legge  n. 468/1999) prevede per i giudici di pace «semplici» (id est:
«i  giudici  non  avvocati»)  che vengano a trovarsi in situazione di
incompatibilita'  a  cagione  della  circostanza  che  loro  coniuge,
convivente,  parenti  entro  il secondo grado o affini entro il primo
grado   (d'ora   innanzi   denominati   «congiunti»)  esercitano  nel
circondario la professione forense, la facolta' di astenersi di volta
in volta dallo specifico giudizio che li vede coinvolti; facolta' che
li pone al riparo dalla pronunzia di decadenza.
    Ancora  una volta, pero', analoga facolta' non e' stata accordata
ai  colleghi  - anch'essi giudici di pace «semplici» - che si trovino
in  posizione  di  incompatibilita' a cagione della circostanza che i
loro  «congiunti»  esercitano nel circondario una professione diversa
da  quella legale (ad esempio, come nel caso specie, quella di agente
assicurativo).
    Il che significa:
        che  il  «giudice  di  pace - avvocato» o il «giudice di pace
"semplice"» che abbiano un «congiunto» avvocato, hanno la facolta' di
astenersi  allorquando  si  trovino  in  situazione  di  conflitto di
interesse;
        ma che la stessa facolta' non e' stata riconosciuta a chi pur
essendo  parimenti  giudice  di pace non abbia la ventura di svolgere
contestualmente la professione forense, o di essere «congiunto» di un
soggetto che la svolga; e che pertanto il predetto - meno impegnato -
giudice  di pace deve dimettersi dalla carica giurisdizionale, ovvero
rimuovere    «in   radice»   la   situazione   di   incompatibilita',
evidentemente   «convincendo»   il  proprio  «congiunto»  a  cambiare
professione  (non  essendo  previsto  il trasferimento del giudice di
pace ad altro ufficio giudiziario; ne' essendo sufficiente che il suo
«congiunto» cambi sede); e cio' a pena di essere dichiarato decaduto.
    In conclusione, non appare revocabile in dubbio:
        che   il  sistema  normativo  descritto  abbia  accordato  un
trattamento  di miglior favore agli avvocati e comunque ai giudici di
pace   -   avvocati,   rispetto   a   quello   riservato  agli  altri
professionisti,  o  ai  giudici  di pace «semplici» o «congiunti» con
professionisti  non  esercenti  la  professione  forense  (o,  il che
esprime il medesimo concetto, non congiunti con avvocati);
        che  tale  trattamento  non  trova alcuna giustificazione sul
piano  della ragionevolezza, non essendo comprensibile la ragione per
la  quale  situazioni sostanzialmente eguali (di incompatibilita' per
conflitto  d'interesse, talvolta potenziale talaltra effettivo) siano
state   trattate   in  maniera  cosi'  diversa;  e  si'  penalizzante
esclusivamente per alcuni fra piu' soggetti appartenenti ad una unica
categoria (trattasi - infatti - sempre e comunque di giudici di pace,
nell'un caso svolgenti anche la professione di avvocato o «congiunti»
di  soggetti  che  la  svolgono; e nell'altro caso non svolgenti tale
professione o non congiunti di soggetti che la svolgano).
    Ma v'e' di piu'.
    Il  riconoscimento  del  predetto  trattamento  di  favore appare
intrinsecamente  contraddittorio  con la ratio della stessa norma che
lo ha introdotto, oltrecche' - come gia' visto - ingiustificabile sul
piano della ragionevolezza.
    La  ratio  della introduzione delle nuove (e piu' rigide) ipotesi
di  incompatibilita' all'esercizio di funzioni giurisdizionali (nella
specie:  all'esercizio  delle  funzioni  di  giudice di pace) riposa,
infatti,  nella  esigenza  di garantire (agli utenti dell'ordinamento
giustiziale)   che   i  giudicanti  mantengano  -  e  siano  comunque
obbligatoriamente  e  manifestamente  posti  nelle  piu'  obiettive e
migliori  condizioni  per  farlo  -  il  massimo del distacco e della
serenita'  d'animo nell'espletamento dei loro compiti; e cio' in modo
da  assicurare la necessaria e prescritta equidistanza dalle parti e,
in  ultima  analisi,  la  imparzialita'  di  giudizio alla quale ogni
Ordinamento aspira.
    Se  cosi'  e',  come  indubitabilmente  appare,  e'  evidente che
nell'ambito  del «corpo» dei giudici di pace, i soggetti maggiormente
«esposti»  -  anche  dal  punto  di vista statistico - alla obiettiva
possibilita'  di  trovarsi  ad  esercitare  le funzioni giudicanti in
condizioni di conflitto d'interesse con una delle parti, sono proprio
gli avvocati.
    E   cio',   beninteso,  non  gia'  (o  non  tanto)  per  tendenza
psicologica,  ma  per  fisiologiche  ragioni intrinsecamente connesse
alle  funzioni  ed  all'attivita'  ordinariamente svolte, consistenti
nella  quotidiana  e  diffusa  assunzione  a  titolo  di  prestazione
professionale  -  e  dunque  in  forza  di mandato o procura, e verso
corrispettivo  di  onorario - della difesa e della tutela in giudizio
degli interessi patrocinati; interessi che possono spaziare in ambiti
settoriali  molto  estesi,  e  che  possono venire a contrastare, o a
coincidere,  con quelli di parti processuali coinvolte nelle cause in
cui essi stessi - i predetti «giudici-avvocati» - devono giudicare.
    Sicche' la salvaguardia loro accordata anche e proprio in sede di
svolgimento   di   funzioni   giudicanti   non   appare   agevolmente
giustificabile,   se   non   in   un  quadro  ordinamentale  ispirato
all'esigenza  del  minimo sacrificio delle opportunita' professionali
dei congiunti dei giudici di pace e di questi stessi.
    Ora,  in tale contesto, del tutto irragionevole ed ingiustificata
risulta  la  maggior  rigidita'  riservata  -  invece  - agli «altri»
giudici di pace (i cc.dd. giudici di pace «semplici»), i quali:
        non svolgono contestualmente funzioni ed attivita' di giudice
e di avvocato;
        non  hanno accesso ad aule giudiziarie se non per l'esercizio
di funzioni giudicanti;
        hanno  meno probabilita' statistica di trovarsi in situazione
di conflitto d'interesse con una parte processuale, rispetto a quanto
puo'  accadere ai colleghi coinvolti nell'esercizio della professione
forense o i cui congiunti esercitino tale professione;
        sono,  in  definitiva,  meno «esposti», a pressioni esterne o
interne (id est: psicologiche) percepibili o inconsce;
        e  dunque  appaiono  tendenzialmente  in grado di assicurare,
quantomeno   a   livello   di   probabilita',  maggiori  garanzie  di
indipendenza  e  di  serenita'  di  giudizio  -  anche  laddove siano
«congiunti» (come nel caso dedotto in giudizio) di soggetti esercenti
professioni  diverse  (nella  specie:  agente assicurativo) da quella
forense - rispetto ai colleghi avvocati.
    1.3. - Con il terzo profilo di doglianza di cui al secondo motivo
di  gravame,  la ricorrente deduce che in forza del sistema normativo
vigente  (scaturente  dall'art. 8,  comma  1,  lett.  c-bis  legge 21
novembre  1991  n. 374  come  novellata dall'art. 6 legge 24 novembre
1999  n. 468,  applicabile  ai giudici di pace, e dagli artt. 16 e 17
del r.d. 30 gennaio 1941 n. 12, applicabili ai magistrati ordinari):
        una   identica   situazione   viene   considerata   causa  di
incompatibilita'  per  i  giudici  di  pace,  e  non - invece - per i
magistrati ordinari;
        che  tale  disparita'  di trattamento, a fronte di situazioni
eguali, non si giustifica sul piano della ragionevolezza;
        e   che  pertanto  la  norma  in  esame  (l'art. 8  cit.)  e'
costituzionalmente illegittima anche per questo aspetto.
    1.3.1. - La «rilevanza» della sollevata questione di legittimita'
costituzionale  ai  fini  della  decisione della causa introdotta dal
ricorso  in  esame,  e'  -  ancora una volta, ed anche per il profilo
adesso  in  esame - evidente; e si basa sulla medesima considerazione
gia' svolta nel capo 1.1.1.
    Infatti,   se   l'art. 8   fosse   dichiarato  costituzionalmente
illegittimo anche solamente per questo secondo profilo di censura, ne
conseguirebbe  «automaticamente»  la  «illegittimita'  derivata»  del
provvedimento  impugnato,  il  quale  -  come  si e' detto - e' stato
adottato proprio in applicazione della suddetta norma.
    1.3.2.  -  La  questione  appare,  altresi',  «non manifestamente
infondata».
    Ed invero:
        mentre  ai  sensi dell'art. 8, comma 1, lett. c-bis, legge 21
novembre  1991  n. 374  come  novelleto dall'art. 6 legge 24 novembre
1999  n. 468,  i  giudici  di  parte che abbiano coniuge, convivente,
parenti  fino  al  secondo grado o affini entro il primo grado (d'ora
innanzi  denominati,  tout court, «congiunti») che svolgono attivita'
professionale per imprese di assicurazione o banche, sono considerati
«incompatibili» con l'esercizio delle funzioni giurisdizionali;
        identica  soluzione,  a fronte della medesima situazione, non
e'  prevista  per  i magistrati ordinari dalle norme dell'ordinamento
giudiziario.
    Ne  consegue  che  se  la  ricorrente  fosse  stata un magistrato
ordinario,  la  circostanza  che due suoi figli svolgono attivita' di
agenti   di   assicurazione   (ed  uno  nella  stessa  circoscrizione
dell'ufficio  giudiziario presso cui lei e' applicata), sarebbe stata
considerata  irrilevante  e non avrebbe determinato alcuna situazione
di incompatibilita'.
    Il che e' ingiustificato e irrazionale.
    Non appare dunque revocabile in dubbio:
        che   il  sistema  normativo  descritto  abbia  accordato  un
trattamento  deteriore  ai  giudici  di  pace  rispetto ai magistrati
ordinari;
        e  che  tale trattamento non trova alcuna giustificazione sul
piano  della ragionevolezza, non essendo comprensibile la ragione per
la  quale  situazioni sostanzialmente eguali (di incompatibilita' per
potenziale  conflitto  d'interesse)  siano  state trattate in maniera
cosi'  diversa; e si' penalizzante esclusivamente per alcuni soltanto
fra  piu'  soggetti  appartenenti  ad una unica categoria (trattasi -
infatti  -  sempre  e  comunque  di  giudici,  svolgenti  la funzione
giurisdizionale e sottoposti ai medesimi doveri fondamentali).
    Il  riconoscimento  del  predetto  trattamento  di favore appare,
inoltre,  intrinsecamente  contraddittorio  con la ratio della stessa
norma  che  lo  ha  introdotto;  e cio' per ragioni analoghe a quelle
esposte nel capo 1.1.2.
    Se,  infatti,  la  ratio  delle  norme introduttive di ipotesi di
incompatibilita' all'esercizio di funzioni giudicanti riposa - com'e'
indubitabile    -   nella   esigenza   di   garantire   agli   utenti
dell'ordinamento  giustiziale  che  i giudicanti mantengano - e siano
comunque   obbligatoriamente   e   manifestamente  posti  nelle  piu'
obiettive e migliori condizioni per farlo - il massimo del distacco e
della  serenita'  d'animo nell'espletamento dei loro compiti (in modo
da  assicurare la necessaria e prescritta equidistanza dalle parti e,
in  ultima analisi, la imparzialita' di giudizio), non appare agevole
comprendere  la  ragione  per  cui  tale  esigenza sia stata ritenuta
sussistente  solamente  nella  cause  soggette alla giurisdizione dei
giudici di pace.
    A meno che la norma in esame non abbia dato per presupposto che i
giudici di pace:
        siano  «per naturale tendenza» inclini a subire influenze (si
noti:  con  la  sola  eccezione  proprio  di  quelli  che svolgono la
professione  forense;  il  che  e'  ulteriormente  contraddittorio  e
certamente improbabile per quanto precedentemente osservato);
        ovvero,  abbiano  un  tasso  di  resistenza alle influenze (e
dunque  una  soglia  di  indipendenza e/o di imparzialita) nettamente
inferiore rispetto ai giudici ordinari;
        o,  quantomeno,  siano obiettivamente piu' «esposti» rispetto
agli  altri  giudici  -  per  la  natura  o per il numero delle cause
trattate   -  a  trovarsi  in  situazioni  conflittuali,  per  motivi
d'interesse, con una delle parti del giudizio.
    Ma,   fermo  restando  che  una  presupposizione  di  tal  genere
evidenzierebbe una situazione che giammai potrebbe essere considerata
fisiologica  (anziche'  patologica) e costituzionalmente accettabile,
l'interpretazione  della  norma  volta  a  valorizzare  la tesi della
«differenza  ontologica» fra i due ordini (rectius sed non recte: fra
le   due   «categorie»)   di  giudici  non  sembra  obiettivamente  e
ragionevolmente   sostenibile,  non  ravvisandosi  alcuna  logica  ed
obiettiva  ragione per ritenere che il sistema concorsuale di accesso
alla   magistratura  ordinaria,  cosi'  come  del  resto  quello  per
l'accesso   alle   altre   magistrature  (amministrativa,  contabile,
militare,  tributaria  etc.),  offra maggiori garanzie di selezionare
soggetti  non  solo forniti di piu' vagliata preparazione ma altresi'
muniti di maggiori doti di indipendenza rispetto ai giudici di pace.
    La disparita' a danno di questi ultimi appare pertanto lesiva del
principio  di  eguaglianza fissato dall'art. 3 della Costituzione, in
quanto per i giudici pace e' stato previsto un corpus di «prerogative
di status» differente rispetto a quella accordato - anche di fronte a
situazioni   sostanzialmente   eguali  -  agli  altri  giudici  della
Repubblica.
    E cio' nonostante abbiano tutti il medesimo status magistratuale.
    1.3.3. - Non manifestamente infondata appare altresi' la denuncia
di  contrasto  con  il  disposto degli artt. 102, primo comma, e 107,
primo  e  terzo  comma,  della  Costituzione,  in  quanto  tali norme
disegnano  un  sistema nel quale i giudici si differenziano solamente
per le funzioni e non anche per la dignita' della carica e dunque per
le prerogative di status accordabili.
    E  poiche' il sistema introdotto dal legislatore per i giudici di
pace  -  quanto a prerogative di astensione ed a cause di decadenza -
e'  differente  e notevolmente deteriore rispetto a quello che regola
lo   status   degli  altri  giudici,  ancora  una  volta  il  dettato
costituzionale non sembra sia stato rispettato.
    2.  - In conclusione, non appare dunque giustificabile - sotto il
profilo  della ragionevolezza - il trattamento di disfavore riservato
ai  giudici  di  pace che non siano anche avvocati (o che non abbiano
«congiunti»  avvocati); ed allo stesso modo non appare giustificabile
il  trattamento  deteriore  riservato  ai giudici di pace rispetto ai
magistrati di carriera.
    Tali  disparita'  contrastano  con  il  disposto e con i principi
posti   dagli   artt. 3,   102,  107  (primo  e  terzo  comma)  della
Costituzione.
    2  Per  tali  ragioni  va  sollevata la questione di legittimita'
costituzionale  dell'art. 8,  comma  1,  lett.  c-bis  della legge 21
novembre  1991, n. 374 nel testo novellato dall'art. 6 della legge 24
novembre  1999, n. 468 per contrasto con gli artt. 3, 102, 107 (primo
e  terzo  comma)  della  Costituzione (o comunque per contrasto della
predetta  norma  di  legge  anche  con  una  sola  delle citate norme
costituzionali).
    Va  disposta,  pertanto,  la  trasmissione  degli atti alla Corte
costituzionale,  con  conseguente  sospensione  del giudizio ai sensi
dell'art. 21  della  legge  11  marzo  1953  n. 87,  per  la relativa
pronuncia sulla legittimita' costituzionale della indicata norma.
                              P. Q. M.
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 8, comma 1, lett. c-bis della
legge  21 novembre 1991, n. 374 nel testo novellato dall'art. 6 della
legge  24  novembre  1999, n. 468 per contrasto con gli artt. 3, 102,
107, comma I e III, della Costituzione.
    Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla  Corte
costituzionale e la sospensione del presente giudizio.
    Ordina  che,  a  cura della segreteria, la presente ordinanza sia
notificata  alle  parti  in  causa  e al Presidente del Consiglio dei
ministri e sia comunicata ai Presidenti della Camera e del Senato.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella Camera di consiglio del 28 aprile
2004.
                       Il Presidente: Calabro'
Il consigliere estensore: Modica  05C0309