N. 16 RICORSO PER CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE 31 marzo 2005
Ricorso per conflitto di attribuzione depositato in cancelleria il 31 marzo 2005 (del Consiglio superiore della magistratura) Magistratura - Pubblici dipendenti (nella specie magistrati) sospesi dal servizio o collocati, a domanda, anticipatamente in quiescenza a seguito di procedimento penale - Successiva assoluzione con formula piena ovvero con formula assolutoria diversa - Diritto o facolta', rispettivamente, del ripristino o prolungamento del rapporto di impiego, anche oltre i limiti di eta' previsti dalla legge, per un periodo pari alla durata complessiva della sospensione ingiustamente subita e del periodo di servizio non espletato per l'anticipato collocamento in quiescenza, cumulati tra di loro - Ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dal Consiglio superiore della magistratura (C.S.M.) contro la Camera dei deputati, il Senato della Repubblica e, ove occorra, il Governo - Denunciata violazione della sfera di competenza del C.S.M. in ordine allo status giuridico dei magistrati, in conseguenza della prevista automaticita' del ripristino del rapporto d'impiego, senza alcun margine di valutazione discrezionale circa l'eventuale rilevanza disciplinare dei fatti che hanno formato oggetto di procedimento penale e sull'idoneita' specifica, in concreto, del magistrato a rivestire le funzioni relative al posto richiesto - Assenza dei presupposti di necessita' ed urgenza - Violazione del principio di leale collaborazione per la conversione in legge del d.l. n. 66/2004, in assenza del prescritto parere del C.S.M. in materia di ordinamento giudiziario - Incidenza sul principio di buon andamento della pubblica amministrazione. - Legge 24 dicembre 2003, n. 350, art. 3, comma 57; decreto-legge 16 marzo 2004, n. 66, art. 2, comma 3, convertito in legge 11 maggio 2004, n. 126. - Costituzione, artt. 77, 97 e 105.(GU n.16 del 20-4-2005 )
Ricorso del Consiglio superiore della magistratura, giusta deliberazione del 3 novembre 2004, in persona del suo vice presidente pro tempore, prof. avv. Virginio Rognoni, rappresentato e difeso, giusta procura a margine del presente atto, dal prof. avv. Federico Sorrentino e presso il suo studio in Roma, Lungotevere delle Navi, 30, elettivamente domiciliato, ricorrente; Contro la Camera dei deputati in persona del suo Presidente in carica; il Senato della Repubblica in persona del suo Presidente in carica; ove occora il Governo, in persona del Presidente del Consiglio dei ministri in carica per la risoluzione del conflitto insorto in seguito alle disposizioni di cui all'art. 3, comma 57 (Disposizioni in materia di oneri sociali e di personale e per il funzionamento di amministrazioni ed enti pubblici), della legge 24 dicembre 2003, n. 350, recante: «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2004», e art. 2, comma 3, decreto-legge n. 66 del 2004, convertito con legge n. 126 del 2004, recante: «Interventi urgenti per i pubblici dipendenti sospesi o dimessi dall'impiego a causa di procedimento penale, successivamente conclusosi con proscioglimento». F a t t o 1. - Premessa. L'art. 3, comma 57, legge n. 350/2003 (legge finanziaria per il 2004), successivamente modificato dal d.l. n. 66/2004 convertito in legge n. 126/2004, ha introdotto nel nostro ordinamento una peculiare tutela risarcitoria in forma specifica (consistente nel ripristino o nel prolungamento del rapporto di impiego) per quei pubblici dipendenti che abbiano subito un'ingiusta sospensione o che siano stati indotti ad abbandonare il pubblico impiego in ragione di un procedimento penale conclusosi con la loro assoluzione. Con specifico riferimento ai magistrati la legge prevede inoltre particolari modalita' del ripristino, con riguardo alla assegnazione delle funzioni al magistrato riammesso. Si tratta quindi di norme che incidono sia sul rapporto di servizio del pubblico dipendente, - prevedendo nell'ipotesi piu' favorevole il diritto soggettivo alla riammissione -, sia sul rapporto funzionale, cioe' sul conferimento delle funzioni che il dipendente riammesso in servizio sarebbe chiamato di nuovo a espletare, - configurando addirittura casi di promozione automatica. Evidente risulta quindi, con riferimento ai magistrati ordinari, l'incidenza di tale disciplina sulle attribuzioni costituzionalmente garantite dall'art. 105 Cost. del Consiglio superiore della magistratura, che risultano essere state lese sotto molteplici profili. Di qui il presente conflitto di attribuzione, con il quale il C.S.M. intende tutelare le proprie attribuzioni a fronte dell'invasione effettuata dal potere legislativo nell'ambito della propria sfera di competenza. 2. - L'evoluzione normativa. Con il d.l. 16 marzo 2004, n. 66, recante «Interventi urgenti per i pubblici dipendenti sospesi o dimessi dall'impiego a causa di procedimento penale, successivamente conclusosi con proscioglimento», convertito con modifiche dalla legge 11 maggio 2004, n. 126, il Govemo e' intervenuto in via d'urgenza sulla disciplina introdotta dall'art. 3, comma 57, legge n. 350 del 2003. Il citato art. 3 della legge finanziaria 2004 prevedeva che il pubblico dipendente sospeso dal servizio o che abbia chiesto il collocamento in quiescenza a seguito di un procedimento penale poi conclusosi con sentenza definitiva di proscioglimento, «ha il diritto di ottenere, su propria richiesta, dall'amministrazione di appartenenza il prolungamento o il ripristino del rapporto di impiego, oltre i limiti di eta' previsti dalla legge, per un periodo pari a quello della durata complessiva della sospensione ingiustamente subita». L'indicata disposizione demandava la sua attuazione ad un regolamento, che avrebbe dovuto essere emanato entro sessanta giorni. La delega normativa e' stata pero' abolita dal nuovo d.l., avendo il Governo preferito provvedere attraverso una fonte pnimaria. Nella relazione al disegno di legge di conversione, il ricorso alla decretazione d'urgenza viene motivato dal Governo con la necessita' di apportare interventi modificativi alla disciplina originaria, attesa «l'estrema vastita' dell'ambito di intervento e la potenziale indeterminatezza dei soggetti che avrebbero potuto beneficiare del trattamento previsto dalla norma» con il rischio che «l'applicazione della citata disposizione avrebbe determinato il travisamento dello scopo per il quale e' stata redatta», che, si tiene a ribadire, «consiste nell'apprestare una tutela risarcitoria in forma specifica a soggetti che abbiano effettivamente subito una ingiusta sospensione o che siano stati indotti ad abbandonare il pubblico impiego». In sede di conversione del d.l. sono state poi apportate ulteriori modifiche all'art. 3, comma 57, legge n. 350 del 2003, finalizzate a precisare e a circoscrivere meglio le condizioni e i presupposti dell'affermata tutela, anche con disposizioni specifiche in ragione delle particoiarita' del singoli ordinamenti di settore del pubblico impiego. 3. - La disciplina. A seguito dei suddetti interventi la disciplina normativa puo' essere cosi' succintamente descritta. Quanto ai beneficiari il riconoscimento del diritto alla riassunzione o prolungamento spetta al pubblico dipendente che «sia stato sospeso dal servizio o dalla funzione e, comunque, dall'impiego o abbia chiesto di essere collocato anticipatamente in quiescenza a seguito di un procedimento penale» e che sia stato successivamente prosciolto. Tale diritto viene condizionato a precisi limiti temporali che vengono fatti decorrere dal momento della emissione del provvedimento di proscioglimento, rafforzandosi cosi' l'idea che questo costituisca il titolo giuridico proprio della relativa pretesa. Si precisa al riguardo che tale diritto spetta soltanto nel caso in cui il corrispondente provvedimento giudiziario favorevole sia stato pronunciato nei cinque anni antecedenti alla data di entrata in vigore della legge (cioe' della legge finanziaria, entrata in vigore il 10 gennaio 2004). Viceversa, se il proscioglimento risale ad un'epoca piu' remota, l'interessato puo' chiedere la ricostruzione della carriera al solo fine del «riconoscimento del miglior trattamento pensionistico». Inoltre la legge prescrive che le istanze degli interessati al ripristino o prolungamento del rapporto, debbano essere presentate, a pena di decadenza, entro novanta giorni dalla entrata in vigore della legge di conversione e che l'amministrazione competente provveda entro sessanta giorni dalla domanda. 3.1. - L'elemento realmente innovativo introdotto dal decreto legge, e ancor meglio specificato nella legge di conversione, consiste nella netta diversificazione della posizione giuridica dell'interessato a seconda che il provvedimento di proscioglimento sia stato adottato con formula assolutoria piena («perche' il fatto non sussiste, o l'imputato non lo ha commesso o se il fatto non costituisce reato o non e' previsto dalla legge come reato ovvero con decreto di archiviazione per infondatezza della notizia di reato»; a tali ipotesi sono poi equiparati «i provvedimenti che dichiarano non doversi procedere per una causa estintiva del reato pronunciati dopo una sentenza di assoluzione del dipendente imputato perche' il fatto non sussiste o perche' non lo ha commesso o se il fatto non costituisce reato» o non e' previsto dalla legge come reato art. 3, comma 57, legge n. 350/2003) ovvero con formule assolutorie diverse (art. 3, comma 57-bis, legge n. 350/2003). Nel primo caso, infatti, il dipendente ha un vero e proprio diritto soggettivo perfetto al ripristino o prolungamento del rapporto di impiego a fronte del quale l'Amministrazione non ha alcun potere discrezionale «dirtto di ottenere, su propria richiesta, dall'amministrazione di appartenenza il prolungamento o il ripristino del rapporto di impiego anche oltre i limiti di eta' previsti dalla legge, comprese eventuali proroghe, per un periodo pari a quello della durata complessiva della sospensione ingiustamente subita e del periodo di servizio non espletato per l'anticipato collocamento in quiescenza, cumulativa fra loro» - art. 3 comma 57, legge n. 350/2003). Nel secondo caso, invece, sulla domanda dell'interessato, l'amministrazione ha la semplice «facolta» di disporre il reintegro che viene subordinato ad un accertamento negativo dei profili di responsabilita' disciplinare («l'amministrazione di appartenenza ha facolta', a domanda dell'interessato, di prolungare e ripristinare il rapporto di impiego per un periodo di durata pari a quella sospensione e del servizio non prestato (...), purche' non risultino elementi di responsabilita' disciplinare o contabile all'esito di specifica valutazione che le amministrazioni competenti compiono entro dodici mesi dalla presentazione dell'istanza di riammissione in servizio» - art. 3 comma 57-bis legge n. 350/2003, introdotto dall'art. 1, comma 2, d.l. n. 66/2004 convertito con legge n. 126/2004). 3.1.1. - Incontestabile risulta l'applicabilita' della disciplina in questione anche ai magistrati ordinari. Tuttavia, la specificita' del loro rapporto di impiego, piu' volte ribadita dalla stessa Corte costituzionale (cfr. sentt. nn. 100/1981, 18/1989, 468/1990), ed espressamente affermata in via generale dall'art. 276, comma terzo ord. giud. (che ritiene applicabili ai magistrati le disposizioni generali sul pubblico impiego, «solo in quanto non contrarie al presente ordinamento»), impone di verificare la compatibilita' della tutela risarcitoria apprestata, con la necessita' del bilanciamento tra le situazioni giuridiche soggettive del magistrato e le garanzie costituzionali che attengono all'esercizio della funzione (imparzialita', indipendenza, credibilita). A tal proposito, essenziale al fine di assicurare tali garanzie e' il ruolo del C.S.M., che risulta esautorato delle sue funzioni piu' tipiche nel momento in cui viene congegnato un automatico meccanismo di reintegrazione o di prolungamento del rapporto di lavoro dei magistrati, come si verifica nell'ipotesi di istanza presentata a seguito di proscioglimento con formula piena. 3.2. - Quanto poi alle modalita' del ripristino del rapporto di impiego (rapporto funzionale), l'art. 2, comma 3, del d.l. n. 66 del 2004, convertito sul punto senza modifiche con legge n. 126/2004, disciplina tale ipotesi con riguardo ai magistrati ordinari, attribuendo la relativa funzione al Consiglio superiore della magistratura. La disposizione distingue l'assegnazione delle funzioni al magistrato riammesso a seconda che il ripristino consegua o meno da un proscioglimento pieno, secondo le formule sopra indicate. Nel caso di proscioglimento con una formula diversa (art. 3, comma 57-bis), «al magistrato riammesso in servizio e' conferita, se possibile e comunque nell'ambito dei posti disponibili, una funzione dello stesso livello di quella da ultimo esercitata». Viceversa, nel caso di proscioglimento pieno (art. 3, comma 57), si distingue ulteriormente a seconda che il magistrato, al momento dell'anticipato collocamento in quiescenza, abbia o non abbia maturato nell'ultima funzione esercitata un'anzianita' non infeniore a dodici anni. In caso affermativo, egli e' destinato, «anche in soprannumero, ad una funzione di livello immediatamente superiore a tale ultima funzione, previa valutazione, da parte dello stesso Consiglio, dell'anzianita' di ruolo al momento della cessazione dal servizio e delle attitudini desunte dalle funzioni da ultimo esercitate», con il limite che «non possono, tuttavia essere attribuite funzioni di livello superiore a presidente aggiunto o procuratore generale aggiunto della Corte di cassazione, nonche' funzioni apicali di uffici giudiziari di qualsiasi livello». Unici elementi che stemperano il meccanismo di promozione automatica ora descritta, sono la previa valutazione da parte del C.S.M. dell'«anzianita' in ruolo al momento della cessazione del servizio» e «delle attitudini desunte dalle funzioni da ultimo esercitate». Nell'ipotesi invece di anzianita' nell'ultima funzione di durata inferiore a dodici anni, al magistrato «e' conferita, anche in soprannumero, una funzione dello stesso livello di tale ultima funzione». Si precisa peraltro che il C.S.M. dispone altresi' «la continuazione del servizio per il periodo corrispondente alla sospensione ingiustamente subita e per il periodo di attivita' non prestata in dipendenza della cessazione anticipata del rapporto di impiego» e che in ogni caso di riammissione o di ripresa del servizio, al magistrato e' attribuita la posizione in ruolo che avrebbe avuto in mancanza della interruzione, nel rispetto della normativa relativa alla progressione in carriera. 3.2.1. - Anche con riferimento alle modalita' di ripristino, appare allora evidente la lesione delle attribuzioni costituzionali del C.S.M., dal momento che viene ad esso sottratto il proprium della valutazione discrezionale cioe' la considerazione della idoneita' specifica in concreto del magistrato a rivestire quelle determinate funzioni. L'incidenza delle norme in questione sul rapporto funzionale dei magistrati sembra in sostanza prescindere sia da una corretta valutazione delle peculiarita' che contraddistinguono tale rapporto sia dalla necessita' di bilanciare le esigenze di tutela individuale del magistrato con il rispetto delle garanzie di indipendenza e autonomia predisposte dalla Costituzione per l'esercizio delle sue funzioni. 4. - Ai sensi della predetta disciplina normativa hanno presentato rituale istanza al C.S.M., per essere riammessi nell'ordine giudiziario, i seguenti magistrati, tutti collocatisi anticipatamente in quiescenza a seguito di procedimenti penali dai quali sono stati successivamente assolti con formula piena: 1) Antonio Albano, gia' consigliere presso la Corte di appello di Bologna, che ha chiesto di essere ricollocato in ruolo con attribuzione delle funzioni di consigliere della Corte di appello di Roma. 2) Corrado Carnevale, gia' Presidente di sezione della Corte suprema di cassazione, che ha chiesto l'attribuzione, eventualmente in soprannumero, della funzione di Presidente aggiunto della Corte di cassazione o di altra equivalente. 3) Mario Costantini, gia' magistrato di Cassazione, che ha chiesto di essere ricollocato in ruolo con attribuzione delle funzioni di Consigliere della Corte di cassazione 4) Romano Dolce, gia' magistrato con funzioni di sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Como, che ha chiesto di essere assegnato al tribunale di Como - sezione penale - dibattimento. 5) Pietro Fornace, gia' presidente del Tribunale di sorveglianza di Torino, che ha chiesto di essere ricollocato in ruolo con attribuzione delle funzioni di presidente della II sezione della Corte d'appello di Torino. 6) Giuseppe Stasi, gia' magistrato di Cassazione, che ha chiesto di essere riammesso in servizio con attribuzione delle funzioni dello stesso livello di quelle gia' svolte o di livello superiore, qualora ne ricorrano i presupposti. Nella seduta del 3 novembre 2004, a fronte delle predette istanze, l'assemblea plenaria del C.S.M., ritenendo che la disciplina della quale si chiede l'applicazione sia di per se' lesiva della propria sfera di attribuzioni garantita dall'art. 105 della Costituzione e non potendo procedere ad un'inammissibile disapplicazione della contestata normativa, ha deliberato di sollevare conflitto di attribuzioni per le ragioni che saranno di seguito sviluppate. In particolare, il Consiglio ravvisa fondati motivi per dubitare in relazione alle proprie attribuzioni costituzionali, della compatibilita' con esse dell'art. 3, comma 57, legge n. 350/2003 e dell'art. 2, comma 3, del decreto legge n. 66 del 2004, nella parte in cui prevedono che il C.S.M. debba, senza procedere ad alcuna valutazione, riammettere in servizio il magistrato prosciolto in sede penale con una formula piena dopo che questi sia volontariamente cessato, a causa di tale pendenza, dall'ordine giudiziario, e laddove stabiliscono che a questi venga conferita, in caso di anzianita' non inferiore a dodici anni nell'ultima funzione esercitata, una funzione di livello immediatamente superiore, previa valutazione della sola anzianita' di ruolo e delle attitudini desunte dalle ultime funzioni esercitate, e, nel caso di anzianita' inferiore, una funzione, anche in soprannumero, dello stesso livello. D i r i t t o 1. - Sull'ammissibilita' del conflitto di attribuzione determinato da atti legislativi. Va innanzitutto affrontata la questione relativa all'ammissibilita' di un conflitto, come quello qui sollevato, che sorge a seguito di atti legislativi. 1.1. Alla luce della giurisprudenza costituzionale avviata con la sentenza n. 457/1999, e' ormai indubitabile che la natura legislativa dell'atto con cui si ritiene sia stata consumata la violazione delle attribuzioni costituzionali di un potere dello Stato non e' di ostacolo alla proposizione del conflitto. La Corte infatti, evidenziando la strutturale e funzionale diversita' tra il giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato e giudizio di legittimita' costituzionale delle leggi, ha gia' avuto modo di precisare che «il conflitto costituzionale e' preordinato alla garanzia della integrita' "della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionalil"» (art. 37, comma 1, cit.), senza che, ne' dalla disciplina costituzionale ne' da guella legislativa, si dia alcun rilievo alla natura degli atti da cui possa derivare la lesione all'anzidetta «sfera di attribuzioni». A differenza della giurisdizione costituzionale sulla legittimita' delle leggi, il cui ambito e' determinato in relazione ai tipi di atti assoggettabili al giudizio, la giurisdizione costituzionale sui conflitti e' determinata in relazione alla natura dei soggetti che confliggono e delle loro competenze la cui integrita' essi difendono. E in effetti il giudizio per conflitto di attribuzioni non e' giudizio sulla legittimita' di atti (anche se, a seconda dell'esito del giudizio stesso, puo' conseguire l'annullamento dell'atto lesivo) ma e' garanzia dell'ordine costituzionale delle competenze (art. 38, legge n. 87/1953), quale che possa essere la natura dell'atto cui, in ipotesi, sia ascrivibile la lesione delle competenze medesime.» (sentenza n. 457/1999, punto 2 in diritto). Cio' non toglie peraltro che, sempre alla stregua dell'interpretazione seguita dalla sopra ricordata sentenza, la Corte abbia in un certo senso stemperato sul piano pratico il significato piu' rilevante di questa svolta sulla base della considerazione - retaggio del precedente indirizzo giurisprudenziale inaugurato con la sentenza n. 406/1989 -, che il nostro sistema di giustizia costituzionale e' incentrato sul giudizio di legittimita' costituzionale delle leggi e che quindi «deve escludersi, nella normalita' dei casi, l'esperibilita' del conflitto tutte le volte che la legge, dalla quale, in ipotesi, deriva la lesione delle competenze, sia denunciabile dal soggetto interessato nel giudizio incidentale». La precisazione sta a significare che, quando l'atto lesivo delle attribuzioni costituzionali sia un atto legislativo, pur essendo ammissibibe in linea teorica lo strumento del conflitto, e' necessario valutare se sia in via prioritaria possibile portare all'attenzione della Corte in via incidentale la questione di legittimita' costituzionale, «come accade di norma quando l'usurpazione o la menomazione del potere costituzionale riguardi l'autorita' giudiziaria, nell'esercizio delle sue funzioni». Di qui la considerazione, enfatizzata da larga parte della dottrina, che nelle ipotesi di atti legislativi invasivi delle attribuzioni costituzionali di altri poteri dello Stato sia possibile utilizzare il conflitto di attribuzione solo «in via residuale». 1.2. - Se questa e' l'interpretazione sinora seguita dalla Corte, non sembra allora dubitabile l'ammissibilita' del presente conflitto, dato che, a fronte di una legge lesiva dell'ordine costituzionale delle competenze, la quale imponga la sua applicazione proprio all'organo le cui attribuzioni sono state rese, non e' dato altro rimedio che l'elevazione del conflitto tra poteri per tutelare quelle attribuzioni. Cio' e' appunto quello che avviene nel caso di specie, in cui vengono in considerazione le funzioni amministrative del C.S.M., chiamato a dare applicazione, sulle istanze degli interessati, ad una legge che lede le proprie attribuzioni. In quanto amministrazione, il C.S.M. non solo e' soggetto alla legge, ma soprattutto e' obbligato a dare applicazione, ne' potrebbe, come adombrato nella sent. 457/1999, sollevare esso stesso l'incidente di costituzionalita'. A fronte di una legge che conferisce ai magistrati interessati il diritto soggettivo perfetto alla riassunzione in servizio e al conferimento di determinate funzioni, altro non puo' fare il C.S.M. al fine di evitare l'applicazione di una legge lesiva delle proprie prerogative, che sollevare il conflitto di fronte a codesta ecc.ma Corte. La sussistenza del requisito della residualita' e' inoltre confermata dalla considerazione che il C.S.M. non potrebbe dare attuazione parziale al dispositivo normativo, provvedendo, ad esempio, sulla domanda di riammissione ai fini della ricostruzione del solo rapporto di servizio, senza procedere anche all'assegnazione delle funzioni giudiziarie. E' facile rilevare, infatti, che non appare giuridicamente possibile una riammissione in servizio senza la contestuale attribuzione del posto e della funzione assegnata, attesa l'inscindibilita' del rapporto funzionale dal rapporto di servizio. In questo senso depone la considerazione che la riammissione in servizio ha come effetto tipico il ripristino del rapporto di lavoro, che non puo' svolgersi senza l'individuazione delle effettive prestazioni del dipendente. Ne da' conferma la legislazione in materia di pubblico impiego, che chiaramente lega l'esito del provvedimento di riammissione all'assegnazione del posto in organico (art. 132, d.p.r. n. 3 del 1957; art. 10 legge n. 19 del 1990; art. 211 ordinamento giudiziario). L'unica alternativa alla difesa immediata delle attribuzioni del Consiglio, dovrebbe allora essere la violazione da parte di questo della legge invasiva delle sue attribuzioni, con il diniego ai magistrati istanti del diritto che la legge ha voluto loro assicurarne, attendendo il probabile, ma non certo, ricorso di questi al giudice amministrativo, allo scopo di sollevare, in via di eccezione, la relativa questione di costituzionalita'. Ma una soluzione del genere andrebbe incontro a molteplici obiezioni. La prima e' che, nel nostro ordinamento, in base all'art. 1 della legge cost. n. 1/1948 e dell'art. 136 della Costituzione, non e' consentito all'amministrazione di disapplicare leggi di dubbia costituzionalita' (Esposito). La seconda e' che la tutela delle attribuzioni costituzionali del C.S.M. dovrebbe essere legata all'eventualita' della rituale impugnativa del suoi provvedimenti contra legem da parte degli interessati (con il rischio d'impugnazioni tardive o per altre ragioni inammissibili). La terza e' che il giudice amministrativo potrebbe ritenere l'eccezione irrilevante (accogliendo magari un motivo del ricorso di carattere formale e dichiarando assorbita la censura di viobazione della legge de qua) o manifestamente infondata, precludendo cosi' al C.S.M. l'accesso alla Corte. Infine non va trascurata l'eventualita', non inverosimile, che a fronte del diniego del C.S.M., il giudice amministrativo in via cautelare ordini la riammissione in servizio del ricorrente, al quale il Consiglio, giusta anche la giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte (sent. 435/1995) non potrebbe evidentemente sottrarsi. In conclusione la possibilita' di sollevare un conflitto di attribuzione, prima ancora che sia data applicazione alla norma lesiva delle competenze costituzionali, deriva dalla considerazione che questo e' l'unico modo di tutelare quelle attribuzioni senza violare la legge, come risulta peraltro dalla stessa sentenza n. 406/1989, espressione del precedente orientamento contrario all'ammissibilita' di un conflitto tra poteri dello Stato su di una legge od atto equiparato. In quel contesto argomentativo si affermava che l'inammissibilita' del conflitto seguiva, tra l'altro, alla considerazione secondo cui in un sistema giuridico ispirato all'idea portante della preminenza della legge e degli atti equiparati, riferibili «al piu' alto livello di rappresentativita' politica generale ... ed al piu' alto livello di autonomia ...», fosse coerente sottrarli in linea generale «ad iniziative volte ad ostacolarne, in via preventiva, l'efficacia». In forza di un semplice ragionamento a contrariis, il conflitto tra poteri su una legge od atto equiparato, giova proprio ad evitare che, allo scopo di provocare l'incidente di costituzionalita', alla legge asseritamene lesiva del riparto di competenze sia negata applicazione. Alla luce delle considerazioni sopra svolte risulta quindi evidente l'impossibilita' da parte del C.S.M. sia di disapplicare la normativa contestata, sia di darvi applicazione parziale (poiche' non e' possibile ricostruire il rapporto di servizio senza contestualmente attribuire le funzioni), sia infine di prospettare in via incidentale la suddetta lesione di competenza: di qui l'ammissibilita' del presente conflitto. 1.3. - Sembra peraltro opportuno evidenziare che, nella denegata ipotesi in cui le considerazioni sopra svolte in ordine alla residualita' non dovessero trovare accoglimento, non di meno il presente conflitto di attribuzione risulterebbe ammissibile mediante un'auspicabile revisione dell'indirizzo giurisprudenziale sopra richiamato. Infatti, se anche dovesse ravvisarsi nel caso di specie la possibilita' di configurare in astratto un giudizio in via incidentale, resta comunque fermo che lo strumento del conflitto di attribuzione e' utilizzabile tutte le volte in cui venga in questione la garanzia dell'ordine costituzionale delle competenze (art. 38, n. 87/1953), sicche' negare tale possibilita' solo perche' la Corte puo' essere investita della vicenda attraverso l'ordinario meccanismo del giudizio di legittimita' costituzionale, significa a ben vedere disconoscere le peculiarita' del giudizio sul conflitto e la migliore rispondenza dello stesso alle finalita' cui e' specificamente preposto. Non sembra infatti dubitabile che un controllo di tipo astratto - quale quello che si ha nel giudizio sul conflitto -, incentrato su un puro confronto di discipline e del tutto scollegato dal riferimento ad un caso concreto, sia meglio confacente ad un giudizio «preordinato alla garanzia della integrita' "della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali"» (sent. n. 457/1999) rispetto un controllo concreto come quello che si svolge nel giudizio di legittiniita' costituzionale, in cui il sindacato sulla legge si realizza, non gia' per come essa e' formulata, bensi' per come essa viene ad applicarsi in una fattispecie determinata, con la conseguenza che non potranno essere affrontati tutti quei profili della lesione delle competenze, pur astrattamente configurabili, che non risultino rilevanti nel giudizio a quo. In sostanza, quando viene in considerazione, piu' che l'illegittimita' costituzionale di un atto con forza di legge, la sua invasivita' di attribuzioni costituzionali di altri poteri dello Stato, il giudizio sul conflitto risulta essere, non solo quello appositamente previsto nel nostro sistema di giustizia costituzionale, ma anche e soprattutto il piu' idoneo, poiche' consente di affrontare la questione nei termini generali di un confronto tra attribuzioni costituzionali senza l'ultroneo «filtro» del caso concreto. Va inoltre considerato che, nella criticata ipotesi in cui si dovesse continuare a ritenere ammissibile solo in via residuale un conflitto tra poteri avente ad oggetto un atto legislativo, si finirebbe inevitabilmente per subordinare la possibilita' di tutela delle attribuzioni costituzionali al fatto che venga instaurato un giudizio e che la questione sia dichiarata in quel giudizio rilevante e non manifestamente infondata. Nel caso di specie, ad esempio, il diritto del C.S.M. di difendere le proprie prerogative sarebbe subordinato all'eventuale azione dei magistrati beneficiari della legge e alla valutazione di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione nel giudizio cosi' instaurato: il che e' palesemente inaccettabile, sia perche' non puo' essere disconosciuto al C.S.M. il diritto di chiedere tutela in via diretta alla Corte costituzionale mediante lo strumento appositamente previsto per questo fine, e sia perche' non e' detto che venga riconosciuta la rilevanza della questione nel giudizio incidentale e che quindi la questione giunga comunque all'attenzione della Corte, potendo il diniego opposto dal C.S.M. essere annullato per motivi diversi dalla violazione della legge invasiva delle sue attribuzioni ovvero il ricorso essere dichiarato inammissibile per tardivita'. 2. - Presupposti soggettivi. Con riferimento al profilo soggettivo, indiscutibile e' l'ammissibilita' di un conflitto di attribuzione sollevato dal C.S.M., in quanto organo abilitato ad esercitare attribuzioni proprie conferite dalla Costituzione, ed in particolare dall'art. 105, come questa, ecc.ma Corte ha piu' volte affermato (cfr. nn. 184/1992, 379/1992, 214-419/1995), da ultimo con l'ordinanza n. 112 del 12 marzo/2 aprile 2003. Parimenti indiscutibile e' la legittimazione passiva delle Camere quali titolari del potere legislativo e, ove occorra, del Governo in quanto autore di uno degli atti qui in considerazione. Il conflitto viene sollevato nei confronti del Parlamento in considerazione del fatto che la lesione qui lamentata discende dall'esercizio del potere legislativo di cui effettivo titolare e' il Parlamento, non rilevando, in questo caso, la presenza del d.l. n. 66/2004, che deve ritenersi integralmente e retroattivamente sostituito dalla legge di conversione (legge n. 126/2004). Spettera' naturalmente alla Corte, all'esito della preliminare delibazione sull'ammissibilita', individuare gli «organi interessati» ai quali dovra' essere notificato il ricorso e quindi eventualmente estendendo al Governo il contraddittorio. 3. - Presupposti oggettivi e di merito. 3.1. La circostanza che il Govemno sia intervenuto con d.l., modificando la precedente normativa, che prevedeva per il caso qui in considerazione un semplice regolamento, senza che ricorressero i presupposti di necessita' e d'urgenza, ha in concreto impedito che su norme incidenti sull'ordinamento giudizianio venisse chiesto (e fornito) il parere del C.S.M. (cfr. art. 10, legge n. 195/1958). Parere che esprime il principio di leale collaborazione tra i poteri, piu' volte richiamato dalla Corte nella sua giurisprudenza, per il quale nell'esercizio delle proprie attribuzioni ciascun potere deve tenere conto delle attribuzioni e degli interessi di cui gli altri poteri sono portatori. Non e' dubbio, dunque, che ferma restando la titolarita' in capo alle Camere del potere di dettare norme legislative in materia (quali l'ordinamento giudiziario) che toccano le attribuzioni del C.S.M., nell'esercizio di quel potere le Camere stesse (e il Governo in sede d'iniziativa) dovranno «sentire» il C.S.M. Nella specie cio' non e' avvenuto, verosimilmente a causa della ristrettezza dei termini per l'emanazione e la conversione del d.l.; in altre parole perche', senza che sussistessero i presupposti di necessita' e d'urgenza delineati dall'art. 77, il Governo ha scelto una procedura abbreviata scavalcando le Camere e rendendo inapplicabile l'art. 10 della legge n. 195 (che attua, appunto, il principio costituzionale di leale collaborazione nelle materie). Donde la conclusione della lesione delle prerogative del C.S.M. (art. 105) per avere il Governo emanato (in violazione dell'art. 77) un d.l. invece di promuovere una normale iniziativa legislativa nel corso della quale sarebbe stato richiesto il parere del C.S.M., senza richiedere, nemmeno in sede di conversione, il parere del Consiglio, violandosi cosi' da parte del Govemo e del Parlamento, insieme con l'art. 77, il principio di leale collaborazione. Tali censure, seguendo i principi di cui alla sent. 39/1995, dovranno essere ricondotte alla legge di conversione, avendo il Parlamento convalidato un atto ad origine illegittimo. Si denuncia pertanto: violazione dell'art. 105 della Costituzione e del principio di leale collaborazione, anche in riferimento all'art. 10 della legge n. 195/1958. Violazione dell'art. 77 della Costituzione. 3.2. - Vanno ora analizzate le singole disposizioni, contenute nell'art. 3, comma 57, legge n. 350 del 2003 e nell'art. 2, comma 3, d.l. n. 66 del 2004, come integrato dalla legge di conversione n. 126/2004, per evidenziare i singoli profili di lesione delle attribuzioni del C.S.M. dalla Costituzione. Nell'illustrare tale posizione, il necessario punto di partenza deve trarsi dalla considerazione delle particolari funzioni che la Costituzione attribuisce al C.S.M. e della ratio che sottende a tali attribuzioni. L'art. 105 della Costituzione stabilisce che «Spettano al Consiglio superiore della magistratura secondo le norme sull'ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati». La ratio di tali attribuzioni va ricercata nell'esigenza di garantire l'autonomia e l'indipendenza dell'ordine giudiziario. Il complesso delle indicate competenze da' quindi vita ad una funzione che, nella sua tipicita' e generalita', e' tesa a garantire e a realizzare nel concreto le condizioni per un corretto esercizio della giurisdizione. Cio' posto, la dottrina ha da tempo sottolineato che gli atti che intervengono sullo status giuridico dei magistrati, sia dal punto di vista dell'organo chiamato ad adottarli, che con riferimento al loro contenuto, rimangono condizionati dalla caratterizzazione di tale status in rapporto alla garanzia dell'autonomia e dell'indipendenza dell'ordine. Il necessario corollario di tale impostazione consiste nel carattere di esclusivita' delle attribuzioni del Consiglio superiore, essendo questa la condizione necessaria ed ineliminabile per salvaguardare appieno i valori dell'autonomia e dell'indipendenza dell'ordine giudiziario da ogni altro potere dello Stato. L'attuazione di tale esigenza si presenta, infatti, incompatibile con la previsione di interventi ad opera di altri poteri ed in cio' sta la ragione del conferimento in esclusiva delle indicate competenze al Consiglio superiore. Rilevanti in proposito risultano i chiarimenti forniti dalla Corte, che e' intervenuta in un primo momento per cancellare la norma che subordinava all'iniziativa del Ministro della giustizia le deliberazioni del C.S.M. relative allo status dei magistrati (cfr. sent. 168/1963), in un secondo momento per chiarire la portata dell'atto di concerto del Ministro previsto per la nomina agli uffici direttivi (art. 11, legge n. 195 del 1958), giustificato ex art. 110 della Costituzione, ma solo in un'ottica di «leale collaborazione» tra poteri dello Stato, tale per cui non e' comunque possibile intaccare il potere di nomina del Consiglio superiore (sentenze n. 379/1992 e 380/2003). Alla luce di queste preliminari considerazioni bisogna valutare il problematico rapporto tra attribuzioni del Consiglio e quelle del legislatore. Anche sotto questo diverso angolo visuale il richiamo necessario e' ancora all'art. 105 della Costituzione, laddove precisa che le attribuzioni ivi indicate spettano al Consiglio «secondo le norme sull'ordinamento giudizianlo». La norma sta chiaramente a rappresentare la necessita' che il potere del Consiglio superiore sia definito attraverso precise indicazioni legislative ed attuato, quindi, nella loro osservanza. In tal modo si e' voluto sottolineare che le funzioni attribuite al Consiglio non sono libere, ma hanno natura discrezionale, al pari di ogni altro potere conferito in vista della realizzazione di un particolare interesse pubblico. La spettanza delle attribuzioni, in uno con il carattere di autonomia dell'organo, segnalano anche che la legge deve lasciare al Consiglio il necessario margine di discrezionalita' nell'assunzione dei provvedimenti che incidono sul corretto ed efficace esercizio della giurisdizione, senza poter imporre atti o comportamenti dovuti in relazione a situazioni specifiche e concrete. L'eliminazione di ogni discrezionalita' si traduce infatti nell'esclusione del potere, in capo al soggetto che agisce, di valutare la corrispondenza del singolo atto all'interesse pubblico specifico che esso deve rispettare e soddisfare. Sotto il profilo sostanziale l'atto non potrebbe allora che essere riferito al soggetto che lo impone, vale a dire, nella specie, al potere legislativo, cioe' ad un soggetto diverso da quello previsto dalla Costituzione. In conclusione, e' sicuramente lesivo delle attribuzioni costituzionalmente garantite al C.S.M. ogni intervento del legislatore in materia di status giuridico dei magistrati, qualora esso configuri fattispecie composte unicamente da elementi di fatto passibili in concreto soltanto di essere verificati nella loro esistenza storica e privi conseguentemente l'intervento consiliare di oni spazio di discrezionalita' valutativa. 3.3. - Le ragioni sopra indicate inducono a dubitare seriamente della legittimita' costituzionale delle disposizioni di legge che il Consiglio superiore e' chiamato ad applicare, nella parte in cui esse prevedono che il Consigilo superiore della magistratura debba, senza alcun margine di discrezionalita', riammettere in servizio il magistrato richiedente e conferirgli le funzioni giudiziarie richieste. L'atto che si chiede di emanare, sia dal punto di vista soggettivo che oggettivo, rientra, infatti, tra quelli specificatamente riservati dall'art. 105 alla competenza esclusiva del Consiglio, a cui verrebbe sottratto qualsiasi potere di valutazione in ordine all'attuale idoneita' del richiedente a svolgere nuovamente le funzioni giudiziarie ed in ordine alla sua idoneita' specifica a ricoprire il posto richiesto. Si consideri, al riguardo, che negli altri casi in cui la legge consente la riammissione in servizio dei magistrati (art. 211 ordinamento giudiziario), al pari di tutti gli altri casi in cui al magistrato vengono riassegnate le funzioni (in caso di revoca della sospensione disciplinare e nelle ipotesi di rientro in ruolo organico), le norme regolano il relativo potere di provvedere sempre in forma discrezionale, sia in ordine all'an, nell'ipotesi di riammissione, che, in ogni caso, in ordine alle funzioni ed al posto da assegnare. Nel caso concreto, invece, tale valutazione non e' ammessa dalla legge. Risulta in tal modo pregiudicata la funzione discrezionale del Consiglio volta a realizzare il corretto ed efficace esercizio della giurisdizione, che trova proprio nella valutazione della idoneita' dei soggetti chiamati ad esercitarla la sua espressione fondamentale e piu' importante. 3.4. - In particolare, risulta lesiva delle attribuzioni costituzionali del C.S.M. la disposizione di cui all'art. 3, comma 57, legge n. 350 del 2003, che prevede che la riammissione in servizio, in caso di proscioglimento pieno, debba totalmente prescindere dalla valutazione circa la rilevanza disciplinare dei fatti che hanno formato oggetto di procedimento penale, ai fini dell'accertamento, in termini di attualita', della idoneita' e delle attitudini del richiedente ad esercitare nuovamente le funzioni. A tal proposito va infatti evidenziato che si possono verificare ipotesi in cui al di la' del giudizio di responsabilita' penale, l'accertamento giudiziale consegni all'area della certezza storica la sussistenza di condotte che siano passibili di valutazione in termini di rilevanza disciplinare. In sostanza pur con una sentenza definitiva che escluda la sussistenza del fatto storico dedotto in imputazione, non puo' escludersi che in sede penale siano stati accertati alcuni profili, meglio alcune modalita' della condotta umana di cui si compone l'accusa, che, immutata la ricostruzione storica, non si sottraggono ad un giudizio di rilevanza disciplinare, sicche' l'automatico meccanismo di riassunzione in servizio priva il Consiglio del dovere di tener conto di tali profili. Proprio per le ragioni appena riassunte il sistema di ordinamento giudiziario regola gli effetti dell'accertamento penale sul giudizio disciplinare in modo da non escludere che ad una pronuncia definitiva in sede penale, anche determinata dall'insussistenza del fatto di imputazione o dall'accertamento dell'estraneita' del fatto all'imputato, possa seguire, per gli stessi fatti che hanno formato il tema di prova in sede penale, un giudizio disciplinare. Tanto si ricava dall'art. 29, r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 511, ove si prevede che il magistrato prosciolto in sede penale con qualsiasi formula diversa da quella dell'insufficienza probatoria, ora non piu' prevista, o da quelle determinate dall'affermazione di una causa estintiva del reato o dell'impromovibilita' o improseguibilita' dell'azione penale, puo' essere sottoposto a procedimento disciplinare, sol che i titolari dell'azione disciplinare decidano in tal senso, promovendo appunto l'azione. Lo stesso articolo contiene poi la previsione, secondo cui nel procedimento disciplinare fa sempre stato l'accertamento dei fatti che formano oggetto del giudizio penale, risultanti dalla sentenza passata in giudicato. Il riferimento e ovviamente ai fatti che costituiscono la descrizione storica dell'imputazione ed ai fatti che con l'imputazione siano in relazione probatoria, ai fatti cioe' che vengono assunti come premessa di inferenze probatorie direttamente collegate alla fattispecie di imputazione e che, per tale funzione, sono a loro volta oggetto di prova. Gli orientamenti della giurisprudenza della sezione disciplinare del C.S.M. e delle sezioni unite della Corte di cassazione, peraltro, sono conformi alle affermazioni fatte in linea generale circa i rapporti tra processo disciplinare e processo penale. La sezione disciplinare del C.S.M. ha piu' volte affermato che il giudicato penale di assoluzione con la formula piu' ampia, per insussistenza del fatto, non inibisce al giudice disciplinare la valutazione autonoma degli accadimenti si' come accertati in sede penale nella loro storicita' secondo un criterio, quello disciplinare appunto, strutturalmente piu' rigoroso. Ha quindi chiarito che il giudice disciplinare «ben puo' valutare la rilevanza di circostanze di fatto, oggetto di contestazione disciplinare, che risultino accertate all'esito del giudizio penale, anche se tali circostanze siano state giudicate non influenti per l'affermazione della responsabilita' penale dell'imputato, assolto per insussistenza del fatto» (sentenza n. 132/1999 reg. dep. del 17 dicembre 1999). Sul valore del giudicato penale nel giudizio disciplinare si e' pronunciata anche la Corte di cassazione, nella composizione delle sezioni unite, affermando che il significato della disposizione dell'art. 2 r.l.d.lgs. n. 511 del 1946 consiste nella prescrizione di effetti vincolanti dell'accertamento dei fatti ricostruiti dal giudice penale «in diretta connessione ideologica con la sua pronuncia e quale indispensabile premessa del decisum sull'intera contestazione rendendo cosi' obbligatoria l'utilizzazione in sede disciplinare del materiale probatorio anteriormente acquisito dal giudice penale (sentenza n. 3304/1998 del 22 gennaio 1998). Con successiva pronuncia la Corte di cassazione a sezioni unite, ha ribadito che l'unico limite derivante dal giudicato penale per il giudice disciplinare e' quello di non poter ricostruire l'episodio posto a fondamento dell'incolpazione in modo diverso, ferma restando la piena liberta' di valutare i medesimi accadimenti nell'ottica, indubbiamente piu' rigorosa, dell'illecito disciplinare (sentenza n. 1120/2000 del 15 giugno 2000). Il fondamento giustificativo di siffatta liberta' di valutazione del giudice disciplinare, da rispettarsi anche in casi di esito pienamente favorevole all'incolpato del giudizio penale, si rinviene in alcune considerazioni di una recente pronuncia della Corte di cassazione, a sezioni unite. La Corte di cassazione muove dalla considerazione della natura di norme c.d. elastiche o atipiche delle previsioni dell'illecito disciplinare dei magistrati per concludere che l'accertamento del comportamento disciplinarmente rilevante e' il frutto del ricorso a concetti di valore, desumibili da modelli e clausole generali delle norme di legge, con l'ulteriore osservazione che il potere di adattare la previsione astratta al caso concreto e' affidato dall'ordinamento solamente ed esclusivamente al giudice disciplinare del merito, quindi al C.S.M. (sentenza n. 15399/2003 del 10 luglio 2003). L'incongruenza della disciplina in oggetto appare ancor piu' evidente ed irragionevole se confrontata con la disposizione della stessa legge che, nel caso di proscioglimento con formule meno favorevoli, condiziona la riammissione in servizio all'accertamento negativo in ordine alla ricorrenza di «elementi di responsabilita' disciplinare o contabile» se, infatti, la valutazione di insussistenza di elementi di responsabilita' disciplinare da parte del Consiglio e' presupposto indispensabile per la riammissione in servizio in taluni casi, l'omessa previsione di un analogo intervento consiliare in altri si sostanza non solo in una scelta legislativa priva, come si e' visto, di basi sostanziali idonee a giustificarla, ma rappresenta l'ulteriore riprova che tale valutazione e' «fornita per legge», ovvero sottratta all'organo di autogoverno della magistratura. In conclusione si ritiene che la preclusione normativa, nei confronti del Consiglio superiore, ad un'indagine diretta a verificare se l'accertamento penale, pur favorevole all'interessato, abbia fatto residuare aspetti rilevanti al fine di stabilire l'idoneita' attuale ad esercitare le funzioni giurisdizionali, si risolva in una compressione delle attribuzioni costituzionali del medesimo Consiglio superiore. sottraendogli quel potere discrezionale che la Costituzione gli ha specificatamente attribuito in funzione di autogoverno dell'ordine giudiziario. 3.5. - Un'ulteriore compromissione delle attribuzioni costituzionali del Consiglio superiore della magistratura si riscontra a proposito della disposizione di cui all'art. 2, comma 3, del decreto legge n. 66 del 2004, convertito con legge n. 126/2004 laddove stabilisce che al magistrato riammesso in servizio venga confenita, in caso di anzianita' non inferiore a dodici anni nell'ultima funzione esercitata, anche in soprannumero una funzione di livello immediatamente superiore, previa valutazione della sola anzianita' di ruolo e delle attitudini desunte dalle ultime funzioni esercitate, e, nel caso di anzianita' superiore, una funzione, anche in soprannumero, dello stesso livello. Nel caso di domanda dell'interessato di conferimento di funzioni di livello superiore, il Consiglio, in presenza delle condizioni previste dalla norma, e' chiamato ad assumere in provvedimento di promozione potendo unicamente valutare l'anzianita' di ruolo del magistrato al momento della cessazione dal servizio e le sue attitudini «desunte dalle ultime funzioni esercitate». Per contro rimane ad esso sottratto cio' che e' invece il proprium della valutazione discrezionale in questa fattispecie, vale a dire l'idoneita' specifica, in concreto, del magistrato a rivestire quelle determinate funzioni in relazione al posto richiesto. Una tale valutazione non appare infatti recuperabile alla luce dei parametri valutativi indicati dalla norma, che interessano la sola anzianita' di ruolo e le attitudini dimostrate nelle ultime funzioni esercitate, posto che comunque questa valutazione del Consiglio, di per se' gia' monca, non puo' non apparire condizionata dal diritto alla promozione conferito al magistrato dalla legge. Il vulnus al potere del Consiglio superiore di assegnazione delle fuuzioni ai magistrati, riconosciuto dall'art. 105 con l'ampia formula di assegnazioni, trasferimenti e promozioni, si colora ulteriormente per la obliterazione degli ordinari parametri valutabili, fondati sulle attitudini, il merito e l'anzianita', e del criterio comparativo (art. 192 ordinamento giudiziario), nonche' del vaglio, in caso di mutamento di funzioni da giudicanti a requirenti e viceversa, in ordine alla specifica idoneita' all'esercizio di funzioni diverse (art. 190, ordinamento giudiziario); profili che rappresentano tutti il risultato di una implementazione nel tessuto normativo dei principi che govemano il corretto esercizio della funzione giurisdizionale. La previsione normativa, in entrambe le ipotesi di maggiore o minore anzianita' di servizio nelle ultime funzioni esercitate, di conferimento di una funzione «anche in soprannumero» appare inoltre implicare il riconoscimento al magistrato riammesso di un vero e proprio diritto alla scelta del posto. Anche in questo caso, pertanto, si riscontra una sottrazione delle attribuzioni del Consiglio superiore, rientrando nel potere di assegnazione dei magistrati, quale antecedente logico necessario, anche il potere di scelta dei posti da assegnare. La previsione, quindi, ha l'effetto di sottrarre al Consiglio superiore anche quella discrezionalita' che gli e' propria nella organizzazione giudiziaria, ispirata all'attuazione del principio del «buon andamento» di cui all'art. 97 della Costituzione. L'attribuzione in soprannumero ad uffici che in pianta organica hanno un solo posto a poche unita' o in cui comunque non vi sarebbe ne' necessita' ne' urgenza di copertura rappresenta una evidente deroga ai principi di efficienza della organizzazione degli uffici, che finisce per comprimere quella funzione di buon governo della giurisdizione cui pure sono finalizzate le attribuzioni costituzionali del Consiglio superiore della magistratura. Si denuncia pertanto: violazione dell'art. 105 della Costituzione anche in riferimento all'art. 97 della Costituzione.
P. Q. M. Si chiede che codesta ecc.ma Corte costituzionale, in risoluzione del presente conflitto: I) dichiari: a) che non spetta al Parlamento, in violazione dell'art. 105 della Costituzione e del principio di leale collaborazione, convertire il d.l. n. 66/2004, violativo a sua volta dell'art. 77 della Costituzione, senza aver previamente assunto il parere del C.S.M., ai sensi dell'art. 10, legge n. 195/2004; b) che non spetta al Parlamento (ne' al Governo in sede di emissione del d.l. 66/2004) stabilire, in violazione dell'art. 105 della Costituzione, che la riammissione in servizio dei magistrati ordinari prosciolti avvenga senza che il C.S.M. possa valutare la rilevanza disciplinare dei fatti che hanno formato oggetto di procedimento penale e che l'attribuzione ad essi delle funzioni avvenga senza che il C.S.M. possa valutare l'idoneita' specifica, in concreto, del magistrato a rivestirle in relazione al posto richiesto. c) che spetta invece al C.S.M., in base all'art. 105 della Costituzione e al principio costituzionale di leale collaborazione, fornire al Governo e al Parlamento il proprio parere in ordine ai progetti di legge in materia di ordinamento giudiziario; d) che spetta al C.S.M., ai sensi dell'art. 105 della Costituzione, quando disponga la riammissione in servizio dei magistrati ordinari prosciolti, valutare la rilevanza disciplinare dei fatti che hanno formato oggetto di procedimento penale e l'idoneita' specifica, in concreto, del magistrato a rivestire quelle determinate funzioni in relazione al posto richiesto. II) Annulli in conseguenza l'art. 3, comma 57, legge n. 350/2003, nella parte in cui non prevede che il C.S.M abbia il potere di valutare la rilevanza disciplinare dei fatti che hanno formato oggetto di procedimento penale e dell'art. 2, comma 3, d.l. 66/2004, convertito con legge 126/2004, nella parte in cui non prevede che il C.S.M. abbia il potere di valutare l'idoneita' specfica in concreto, del magistrato a rivestire quelle determinate funzioni in relazione al posto richiesto. Roma, addi' 13 dicembre 2004 Prof. Avv. Federico Sorrentino Avvertenza: L'ammissibilita' del presente conflitto e' stata decisa con ordinanza n. 116/2005 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 1ª s.s., n. 12 del 23 marzo 2005. 05C0445