N. 16 RICORSO PER CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE 31 marzo 2005

Ricorso per conflitto di attribuzione depositato in cancelleria il 31
marzo 2005 (del Consiglio superiore della magistratura)

Magistratura  - Pubblici dipendenti (nella specie magistrati) sospesi
  dal  servizio o collocati, a domanda, anticipatamente in quiescenza
  a  seguito  di  procedimento  penale  -  Successiva assoluzione con
  formula  piena  ovvero  con formula assolutoria diversa - Diritto o
  facolta',  rispettivamente,  del  ripristino  o  prolungamento  del
  rapporto  di  impiego,  anche oltre i limiti di eta' previsti dalla
  legge,   per   un   periodo  pari  alla  durata  complessiva  della
  sospensione  ingiustamente  subita  e  del  periodo di servizio non
  espletato per l'anticipato collocamento in quiescenza, cumulati tra
  di  loro  -  Ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello
  Stato sollevato dal Consiglio superiore della magistratura (C.S.M.)
  contro  la  Camera  dei deputati, il Senato della Repubblica e, ove
  occorra,   il  Governo  -  Denunciata  violazione  della  sfera  di
  competenza   del   C.S.M.  in  ordine  allo  status  giuridico  dei
  magistrati,   in   conseguenza  della  prevista  automaticita'  del
  ripristino   del   rapporto   d'impiego,  senza  alcun  margine  di
  valutazione  discrezionale circa l'eventuale rilevanza disciplinare
  dei  fatti  che  hanno  formato  oggetto  di  procedimento penale e
  sull'idoneita'  specifica,  in concreto, del magistrato a rivestire
  le  funzioni  relative al posto richiesto - Assenza dei presupposti
  di  necessita'  ed  urgenza  -  Violazione  del  principio di leale
  collaborazione  per la conversione in legge del d.l. n. 66/2004, in
  assenza  del prescritto parere del C.S.M. in materia di ordinamento
  giudiziario  -  Incidenza  sul  principio  di  buon andamento della
  pubblica amministrazione.
- Legge  24 dicembre  2003,  n. 350,  art. 3, comma 57; decreto-legge
  16 marzo   2004,   n. 66,  art. 2,  comma 3,  convertito  in  legge
  11 maggio 2004, n. 126.
- Costituzione, artt. 77, 97 e 105.
(GU n.16 del 20-4-2005 )
    Ricorso   del  Consiglio  superiore  della  magistratura,  giusta
deliberazione del 3 novembre 2004, in persona del suo vice presidente
pro  tempore,  prof.  avv.  Virginio Rognoni, rappresentato e difeso,
giusta  procura  a margine del presente atto, dal prof. avv. Federico
Sorrentino  e  presso  il suo studio in Roma, Lungotevere delle Navi,
30, elettivamente domiciliato, ricorrente;

    Contro  la  Camera  dei deputati in persona del suo Presidente in
carica;  il  Senato della Repubblica in persona del suo Presidente in
carica;  ove  occora  il  Governo,  in  persona  del  Presidente  del
Consiglio  dei  ministri  in  carica per la risoluzione del conflitto
insorto  in  seguito  alle  disposizioni  di cui all'art. 3, comma 57
(Disposizioni  in  materia  di  oneri sociali e di personale e per il
funzionamento  di  amministrazioni  ed  enti  pubblici),  della legge
24 dicembre  2003,  n. 350,  recante: «Disposizioni per la formazione
del  bilancio  annuale  e pluriennale dello Stato - legge finanziaria
2004»,  e  art.  2, comma 3, decreto-legge n. 66 del 2004, convertito
con  legge  n. 126  del  2004,  recante:  «Interventi  urgenti  per i
pubblici  dipendenti  sospesi  o  dimessi  dall'impiego  a  causa  di
procedimento penale, successivamente conclusosi con proscioglimento».

                              F a t t o

    1. - Premessa.
    L'art.  3,  comma 57, legge n. 350/2003 (legge finanziaria per il
2004),  successivamente  modificato dal d.l. n. 66/2004 convertito in
legge n. 126/2004, ha introdotto nel nostro ordinamento una peculiare
tutela  risarcitoria in forma specifica (consistente nel ripristino o
nel   prolungamento  del  rapporto  di  impiego)  per  quei  pubblici
dipendenti  che  abbiano  subito  un'ingiusta sospensione o che siano
stati  indotti  ad  abbandonare  il pubblico impiego in ragione di un
procedimento penale conclusosi con la loro assoluzione. Con specifico
riferimento  ai  magistrati  la  legge  prevede  inoltre  particolari
modalita'  del  ripristino,  con  riguardo  alla  assegnazione  delle
funzioni  al  magistrato  riammesso.  Si  tratta  quindi di norme che
incidono  sia  sul  rapporto  di  servizio del pubblico dipendente, -
prevedendo  nell'ipotesi  piu'  favorevole il diritto soggettivo alla
riammissione  -,  sia sul rapporto funzionale, cioe' sul conferimento
delle  funzioni  che  il  dipendente  riammesso  in  servizio sarebbe
chiamato  di  nuovo  a  espletare, - configurando addirittura casi di
promozione  automatica.  Evidente  risulta quindi, con riferimento ai
magistrati   ordinari,   l'incidenza   di   tale   disciplina   sulle
attribuzioni  costituzionalmente  garantite  dall'art. 105  Cost. del
Consiglio  superiore  della  magistratura, che risultano essere state
lese  sotto  molteplici  profili.  Di  qui  il  presente conflitto di
attribuzione,  con  il  quale  il  C.S.M. intende tutelare le proprie
attribuzioni   a   fronte   dell'invasione   effettuata   dal  potere
legislativo nell'ambito della propria sfera di competenza.
    2. - L'evoluzione normativa.
    Con il d.l. 16 marzo 2004, n. 66, recante «Interventi urgenti per
i  pubblici  dipendenti  sospesi  o  dimessi  dall'impiego a causa di
procedimento penale, successivamente conclusosi con proscioglimento»,
convertito  con  modifiche  dalla  legge  11  maggio 2004, n. 126, il
Govemo  e'  intervenuto  in via d'urgenza sulla disciplina introdotta
dall'art. 3, comma 57, legge n. 350 del 2003.
    Il  citato  art. 3  della legge finanziaria 2004 prevedeva che il
pubblico  dipendente  sospeso  dal  servizio  o  che abbia chiesto il
collocamento  in  quiescenza  a seguito di un procedimento penale poi
conclusosi con sentenza definitiva di proscioglimento, «ha il diritto
di   ottenere,   su   propria   richiesta,   dall'amministrazione  di
appartenenza  il  prolungamento  o  il  ripristino  del  rapporto  di
impiego,  oltre i limiti di eta' previsti dalla legge, per un periodo
pari   a   quello   della   durata   complessiva   della  sospensione
ingiustamente  subita».  L'indicata  disposizione  demandava  la  sua
attuazione ad un regolamento, che avrebbe dovuto essere emanato entro
sessanta giorni. La delega normativa e' stata pero' abolita dal nuovo
d.l.,  avendo  il  Governo  preferito provvedere attraverso una fonte
pnimaria.
    Nella  relazione  al  disegno di legge di conversione, il ricorso
alla  decretazione  d'urgenza  viene  motivato  dal  Governo  con  la
necessita'  di  apportare  interventi  modificativi  alla  disciplina
originaria, attesa «l'estrema vastita' dell'ambito di intervento e la
potenziale   indeterminatezza   dei  soggetti  che  avrebbero  potuto
beneficiare  del trattamento previsto dalla norma» con il rischio che
«l'applicazione  della  citata  disposizione  avrebbe  determinato il
travisamento  dello  scopo  per  il  quale e' stata redatta», che, si
tiene  a  ribadire, «consiste nell'apprestare una tutela risarcitoria
in  forma  specifica a soggetti che abbiano effettivamente subito una
ingiusta  sospensione  o  che  siano  stati indotti ad abbandonare il
pubblico impiego».
    In  sede  di  conversione  del  d.l.  sono  state  poi  apportate
ulteriori  modifiche  all'art. 3,  comma  57,  legge n. 350 del 2003,
finalizzate  a  precisare  e a circoscrivere meglio le condizioni e i
presupposti  dell'affermata tutela, anche con disposizioni specifiche
in  ragione  delle  particoiarita' del singoli ordinamenti di settore
del pubblico impiego.
    3. - La disciplina.
    A  seguito  dei  suddetti interventi la disciplina normativa puo'
essere cosi' succintamente descritta.
    Quanto   ai   beneficiari  il  riconoscimento  del  diritto  alla
riassunzione  o  prolungamento spetta al pubblico dipendente che «sia
stato sospeso dal servizio o dalla funzione e, comunque, dall'impiego
o  abbia  chiesto di essere collocato anticipatamente in quiescenza a
seguito  di  un  procedimento penale» e che sia stato successivamente
prosciolto.
    Tale  diritto  viene  condizionato a precisi limiti temporali che
vengono fatti decorrere dal momento della emissione del provvedimento
di proscioglimento, rafforzandosi cosi' l'idea che questo costituisca
il  titolo  giuridico  proprio  della relativa pretesa. Si precisa al
riguardo  che  tale  diritto  spetta  soltanto  nel  caso  in  cui il
corrispondente   provvedimento   giudiziario   favorevole  sia  stato
pronunciato  nei  cinque  anni  antecedenti  alla  data di entrata in
vigore  della legge (cioe' della legge finanziaria, entrata in vigore
il  10  gennaio  2004).  Viceversa,  se  il proscioglimento risale ad
un'epoca  piu'  remota,  l'interessato puo' chiedere la ricostruzione
della   carriera   al  solo  fine  del  «riconoscimento  del  miglior
trattamento pensionistico».
    Inoltre  la  legge  prescrive che le istanze degli interessati al
ripristino o prolungamento del rapporto, debbano essere presentate, a
pena di decadenza, entro novanta giorni dalla entrata in vigore della
legge  di  conversione  e  che  l'amministrazione competente provveda
entro sessanta giorni dalla domanda.
    3.1.  -  L'elemento  realmente  innovativo introdotto dal decreto
legge,  e  ancor  meglio  specificato  nella  legge  di  conversione,
consiste  nella  netta  diversificazione  della  posizione  giuridica
dell'interessato  a  seconda  che il provvedimento di proscioglimento
sia  stato  adottato con formula assolutoria piena («perche' il fatto
non  sussiste,  o  l'imputato  non  lo  ha commesso o se il fatto non
costituisce reato o non e' previsto dalla legge come reato ovvero con
decreto  di archiviazione per infondatezza della notizia di reato»; a
tali  ipotesi sono poi equiparati «i provvedimenti che dichiarano non
doversi  procedere per una causa estintiva del reato pronunciati dopo
una  sentenza di assoluzione del dipendente imputato perche' il fatto
non  sussiste  o  perche'  non  lo  ha  commesso  o  se  il fatto non
costituisce  reato»  o non e' previsto dalla legge come reato art. 3,
comma  57,  legge n. 350/2003) ovvero con formule assolutorie diverse
(art. 3, comma 57-bis, legge n. 350/2003).
    Nel  primo  caso,  infatti,  il  dipendente  ha un vero e proprio
diritto   soggettivo  perfetto  al  ripristino  o  prolungamento  del
rapporto di impiego a fronte del quale l'Amministrazione non ha alcun
potere  discrezionale  «dirtto  di  ottenere,  su  propria richiesta,
dall'amministrazione di appartenenza il prolungamento o il ripristino
del  rapporto  di impiego anche oltre i limiti di eta' previsti dalla
legge,  comprese  eventuali  proroghe,  per  un periodo pari a quello
della durata complessiva della sospensione ingiustamente subita e del
periodo  di  servizio  non espletato per l'anticipato collocamento in
quiescenza,   cumulativa   fra   loro»   -  art. 3  comma  57,  legge
n. 350/2003).
    Nel   secondo   caso,  invece,  sulla  domanda  dell'interessato,
l'amministrazione  ha  la semplice «facolta» di disporre il reintegro
che  viene  subordinato  ad  un  accertamento negativo dei profili di
responsabilita'  disciplinare  («l'amministrazione di appartenenza ha
facolta', a domanda dell'interessato, di prolungare e ripristinare il
rapporto   di  impiego  per  un  periodo  di  durata  pari  a  quella
sospensione  e del servizio non prestato (...), purche' non risultino
elementi  di  responsabilita'  disciplinare  o contabile all'esito di
specifica  valutazione  che  le  amministrazioni  competenti compiono
entro dodici mesi dalla presentazione dell'istanza di riammissione in
servizio»  -  art.  3  comma  57-bis  legge  n. 350/2003,  introdotto
dall'art.   1,   comma   2,  d.l.  n. 66/2004  convertito  con  legge
n. 126/2004).
    3.1.1. - Incontestabile risulta l'applicabilita' della disciplina
in  questione anche ai magistrati ordinari. Tuttavia, la specificita'
del  loro rapporto di impiego, piu' volte ribadita dalla stessa Corte
costituzionale  (cfr.  sentt.  nn. 100/1981,  18/1989,  468/1990), ed
espressamente  affermata  in  via generale dall'art. 276, comma terzo
ord.  giud.  (che  ritiene  applicabili ai magistrati le disposizioni
generali  sul  pubblico  impiego,  «solo  in  quanto non contrarie al
presente  ordinamento»), impone di verificare la compatibilita' della
tutela  risarcitoria  apprestata, con la necessita' del bilanciamento
tra  le situazioni giuridiche soggettive del magistrato e le garanzie
costituzionali    che    attengono   all'esercizio   della   funzione
(imparzialita',   indipendenza,   credibilita).   A   tal  proposito,
essenziale  al  fine  di  assicurare  tali  garanzie  e' il ruolo del
C.S.M.,  che  risulta  esautorato delle sue funzioni piu' tipiche nel
momento   in   cui  viene  congegnato  un  automatico  meccanismo  di
reintegrazione   o  di  prolungamento  del  rapporto  di  lavoro  dei
magistrati,  come  si  verifica  nell'ipotesi di istanza presentata a
seguito di proscioglimento con formula piena.
    3.2.  -  Quanto poi alle modalita' del ripristino del rapporto di
impiego  (rapporto funzionale), l'art. 2, comma 3, del d.l. n. 66 del
2004,  convertito  sul  punto  senza modifiche con legge n. 126/2004,
disciplina   tale   ipotesi  con  riguardo  ai  magistrati  ordinari,
attribuendo   la  relativa  funzione  al  Consiglio  superiore  della
magistratura.
    La   disposizione  distingue  l'assegnazione  delle  funzioni  al
magistrato  riammesso  a seconda che il ripristino consegua o meno da
un proscioglimento pieno, secondo le formule sopra indicate.
    Nel  caso  di  proscioglimento  con  una formula diversa (art. 3,
comma  57-bis), «al magistrato riammesso in servizio e' conferita, se
possibile  e comunque nell'ambito dei posti disponibili, una funzione
dello stesso livello di quella da ultimo esercitata».
    Viceversa,  nel caso di proscioglimento pieno (art. 3, comma 57),
si  distingue  ulteriormente  a seconda che il magistrato, al momento
dell'anticipato   collocamento  in  quiescenza,  abbia  o  non  abbia
maturato  nell'ultima funzione esercitata un'anzianita' non infeniore
a dodici anni.
    In  caso  affermativo, egli e' destinato, «anche in soprannumero,
ad  una  funzione  di  livello immediatamente superiore a tale ultima
funzione,  previa  valutazione,  da  parte  dello  stesso  Consiglio,
dell'anzianita'  di  ruolo al momento della cessazione dal servizio e
delle attitudini desunte dalle funzioni da ultimo esercitate», con il
limite  che  «non  possono,  tuttavia  essere  attribuite funzioni di
livello  superiore  a  presidente  aggiunto  o  procuratore  generale
aggiunto  della  Corte  di  cassazione,  nonche'  funzioni apicali di
uffici   giudiziari   di   qualsiasi  livello».  Unici  elementi  che
stemperano il meccanismo di promozione automatica ora descritta, sono
la  previa  valutazione da parte del C.S.M. dell'«anzianita' in ruolo
al momento della cessazione del servizio» e «delle attitudini desunte
dalle funzioni da ultimo esercitate».
    Nell'ipotesi  invece di anzianita' nell'ultima funzione di durata
inferiore  a  dodici  anni,  al  magistrato  «e'  conferita, anche in
soprannumero,  una  funzione  dello  stesso  livello  di  tale ultima
funzione».  Si  precisa  peraltro  che il C.S.M. dispone altresi' «la
continuazione   del  servizio  per  il  periodo  corrispondente  alla
sospensione  ingiustamente  subita  e per il periodo di attivita' non
prestata  in  dipendenza  della cessazione anticipata del rapporto di
impiego»  e  che  in  ogni  caso  di  riammissione  o  di ripresa del
servizio,  al  magistrato  e'  attribuita  la  posizione in ruolo che
avrebbe  avuto  in  mancanza  della  interruzione, nel rispetto della
normativa relativa alla progressione in carriera.
    3.2.1.  -  Anche  con  riferimento  alle modalita' di ripristino,
appare  allora  evidente la lesione delle attribuzioni costituzionali
del C.S.M., dal momento che viene ad esso sottratto il proprium della
valutazione  discrezionale  cioe'  la  considerazione della idoneita'
specifica  in  concreto del magistrato a rivestire quelle determinate
funzioni.   L'incidenza   delle   norme  in  questione  sul  rapporto
funzionale  dei  magistrati sembra in sostanza prescindere sia da una
corretta  valutazione  delle peculiarita' che contraddistinguono tale
rapporto  sia  dalla  necessita'  di bilanciare le esigenze di tutela
individuale   del  magistrato  con  il  rispetto  delle  garanzie  di
indipendenza   e   autonomia   predisposte   dalla  Costituzione  per
l'esercizio delle sue funzioni.
    4.   -   Ai  sensi  della  predetta  disciplina  normativa  hanno
presentato   rituale   istanza   al   C.S.M.,  per  essere  riammessi
nell'ordine  giudiziario,  i  seguenti  magistrati, tutti collocatisi
anticipatamente  in  quiescenza  a seguito di procedimenti penali dai
quali sono stati successivamente assolti con formula piena:
        1)  Antonio  Albano,  gia'  consigliere  presso  la  Corte di
appello di Bologna, che ha chiesto di essere ricollocato in ruolo con
attribuzione  delle funzioni di consigliere della Corte di appello di
Roma.
        2)  Corrado Carnevale, gia' Presidente di sezione della Corte
suprema  di  cassazione, che ha chiesto l'attribuzione, eventualmente
in soprannumero, della funzione di Presidente aggiunto della Corte di
cassazione o di altra equivalente.
        3)  Mario  Costantini,  gia' magistrato di Cassazione, che ha
chiesto  di  essere  ricollocato  in  ruolo  con  attribuzione  delle
funzioni di Consigliere della Corte di cassazione
        4)  Romano  Dolce,  gia' magistrato con funzioni di sostituto
procuratore  della  Repubblica  presso  il  tribunale di Como, che ha
chiesto  di  essere assegnato al tribunale di Como - sezione penale -
dibattimento.
        5)   Pietro   Fornace,   gia'  presidente  del  Tribunale  di
sorveglianza di Torino, che ha chiesto di essere ricollocato in ruolo
con  attribuzione delle funzioni di presidente della II sezione della
Corte d'appello di Torino.
        6)  Giuseppe  Stasi,  gia'  magistrato  di Cassazione, che ha
chiesto  di  essere  riammesso  in  servizio  con  attribuzione delle
funzioni  dello  stesso  livello  di  quelle gia' svolte o di livello
superiore, qualora ne ricorrano i presupposti.
    Nella  seduta  del  3  novembre  2004,  a  fronte  delle predette
istanze, l'assemblea plenaria del C.S.M., ritenendo che la disciplina
della  quale  si  chiede  l'applicazione  sia di per se' lesiva della
propria   sfera   di   attribuzioni   garantita  dall'art. 105  della
Costituzione    e   non   potendo   procedere   ad   un'inammissibile
disapplicazione   della   contestata   normativa,  ha  deliberato  di
sollevare  conflitto  di  attribuzioni  per le ragioni che saranno di
seguito sviluppate.
    In  particolare, il Consiglio ravvisa fondati motivi per dubitare
in   relazione   alle   proprie  attribuzioni  costituzionali,  della
compatibilita'  con  esse  dell'art. 3, comma 57, legge n. 350/2003 e
dell'art. 2,  comma  3, del decreto legge n. 66 del 2004, nella parte
in  cui  prevedono  che  il  C.S.M.  debba, senza procedere ad alcuna
valutazione, riammettere in servizio il magistrato prosciolto in sede
penale  con  una  formula  piena  dopo che questi sia volontariamente
cessato, a causa di tale pendenza, dall'ordine giudiziario, e laddove
stabiliscono  che a questi venga conferita, in caso di anzianita' non
inferiore a dodici anni nell'ultima funzione esercitata, una funzione
di  livello  immediatamente  superiore, previa valutazione della sola
anzianita'  di ruolo e delle attitudini desunte dalle ultime funzioni
esercitate,  e, nel caso di anzianita' inferiore, una funzione, anche
in soprannumero, dello stesso livello.

                            D i r i t t o

    1.   -   Sull'ammissibilita'   del   conflitto   di  attribuzione
determinato da atti legislativi.
    Va     innanzitutto     affrontata    la    questione    relativa
all'ammissibilita'  di  un  conflitto, come quello qui sollevato, che
sorge a seguito di atti legislativi.
    1.1. Alla luce della giurisprudenza costituzionale avviata con la
sentenza n. 457/1999, e' ormai indubitabile che la natura legislativa
dell'atto  con cui si ritiene sia stata consumata la violazione delle
attribuzioni  costituzionali  di  un  potere  dello  Stato  non e' di
ostacolo   alla   proposizione   del  conflitto.  La  Corte  infatti,
evidenziando  la  strutturale e funzionale diversita' tra il giudizio
per  conflitto  di  attribuzione tra poteri dello Stato e giudizio di
legittimita'  costituzionale  delle  leggi,  ha  gia'  avuto  modo di
precisare  che  «il  conflitto  costituzionale  e'  preordinato  alla
garanzia  della  integrita'  "della sfera di attribuzioni determinata
per  i  vari  poteri  da  norme  costituzionalil"» (art. 37, comma 1,
cit.),  senza  che, ne' dalla disciplina costituzionale ne' da guella
legislativa, si dia alcun rilievo alla natura degli atti da cui possa
derivare la lesione all'anzidetta «sfera di attribuzioni».
    A    differenza    della   giurisdizione   costituzionale   sulla
legittimita'  delle  leggi, il cui ambito e' determinato in relazione
ai   tipi  di  atti  assoggettabili  al  giudizio,  la  giurisdizione
costituzionale  sui conflitti e' determinata in relazione alla natura
dei   soggetti  che  confliggono  e  delle  loro  competenze  la  cui
integrita'  essi difendono. E in effetti il giudizio per conflitto di
attribuzioni  non e' giudizio sulla legittimita' di atti (anche se, a
seconda    dell'esito    del   giudizio   stesso,   puo'   conseguire
l'annullamento   dell'atto   lesivo)   ma   e'  garanzia  dell'ordine
costituzionale  delle  competenze  (art. 38, legge n. 87/1953), quale
che possa essere la natura dell'atto cui, in ipotesi, sia ascrivibile
la lesione delle competenze medesime.» (sentenza n. 457/1999, punto 2
in diritto).
    Cio'    non    toglie   peraltro   che,   sempre   alla   stregua
dell'interpretazione seguita dalla sopra ricordata sentenza, la Corte
abbia  in  un certo senso stemperato sul piano pratico il significato
piu'  rilevante  di  questa  svolta sulla base della considerazione -
retaggio del precedente indirizzo giurisprudenziale inaugurato con la
sentenza   n. 406/1989   -,   che  il  nostro  sistema  di  giustizia
costituzionale   e'   incentrato   sul   giudizio   di   legittimita'
costituzionale  delle  leggi  e  che  quindi  «deve escludersi, nella
normalita' dei casi, l'esperibilita' del conflitto tutte le volte che
la   legge,   dalla  quale,  in  ipotesi,  deriva  la  lesione  delle
competenze,  sia  denunciabile  dal soggetto interessato nel giudizio
incidentale».  La  precisazione  sta a significare che, quando l'atto
lesivo delle attribuzioni costituzionali sia un atto legislativo, pur
essendo  ammissibibe  in linea teorica lo strumento del conflitto, e'
necessario  valutare  se  sia  in  via  prioritaria possibile portare
all'attenzione  della  Corte  in  via  incidentale  la  questione  di
legittimita'   costituzionale,   «come   accade   di   norma   quando
l'usurpazione  o  la  menomazione  del potere costituzionale riguardi
l'autorita'  giudiziaria,  nell'esercizio delle sue funzioni». Di qui
la  considerazione,  enfatizzata  da  larga parte della dottrina, che
nelle   ipotesi  di  atti  legislativi  invasivi  delle  attribuzioni
costituzionali  di  altri poteri dello Stato sia possibile utilizzare
il conflitto di attribuzione solo «in via residuale».
    1.2. - Se questa e' l'interpretazione sinora seguita dalla Corte,
non sembra allora dubitabile l'ammissibilita' del presente conflitto,
dato  che,  a  fronte  di una legge lesiva dell'ordine costituzionale
delle  competenze,  la  quale  imponga  la  sua  applicazione proprio
all'organo  le  cui  attribuzioni  sono state rese, non e' dato altro
rimedio che l'elevazione del conflitto tra poteri per tutelare quelle
attribuzioni.  Cio' e' appunto quello che avviene nel caso di specie,
in  cui  vengono  in  considerazione  le  funzioni amministrative del
C.S.M.,   chiamato   a   dare   applicazione,   sulle  istanze  degli
interessati, ad una legge che lede le proprie attribuzioni. In quanto
amministrazione,  il  C.S.M.  non  solo  e'  soggetto  alla legge, ma
soprattutto  e'  obbligato  a  dare  applicazione, ne' potrebbe, come
adombrato  nella sent. 457/1999, sollevare esso stesso l'incidente di
costituzionalita'.
    A fronte di una legge che conferisce ai magistrati interessati il
diritto  soggettivo  perfetto  alla  riassunzione  in  servizio  e al
conferimento  di  determinate funzioni, altro non puo' fare il C.S.M.
al  fine  di evitare l'applicazione di una legge lesiva delle proprie
prerogative,  che  sollevare  il conflitto di fronte a codesta ecc.ma
Corte.
    La  sussistenza  del  requisito  della  residualita'  e'  inoltre
confermata  dalla  considerazione  che  il  C.S.M.  non potrebbe dare
attuazione   parziale   al  dispositivo  normativo,  provvedendo,  ad
esempio,  sulla  domanda  di riammissione ai fini della ricostruzione
del solo rapporto di servizio, senza procedere anche all'assegnazione
delle funzioni giudiziarie.
    E'  facile  rilevare,  infatti,  che  non  appare  giuridicamente
possibile   una   riammissione   in  servizio  senza  la  contestuale
attribuzione   del   posto   e   della   funzione  assegnata,  attesa
l'inscindibilita'  del  rapporto funzionale dal rapporto di servizio.
In  questo  senso  depone  la  considerazione  che la riammissione in
servizio ha come effetto tipico il ripristino del rapporto di lavoro,
che   non  puo'  svolgersi  senza  l'individuazione  delle  effettive
prestazioni  del  dipendente.  Ne  da'  conferma  la  legislazione in
materia  di  pubblico  impiego,  che  chiaramente  lega  l'esito  del
provvedimento  di riammissione all'assegnazione del posto in organico
(art. 132,  d.p.r.  n. 3  del  1957;  art. 10  legge  n. 19 del 1990;
art. 211 ordinamento giudiziario).
    L'unica  alternativa alla difesa immediata delle attribuzioni del
Consiglio,  dovrebbe  allora  essere la violazione da parte di questo
della  legge  invasiva  delle  sue  attribuzioni,  con  il diniego ai
magistrati   istanti   del  diritto  che  la  legge  ha  voluto  loro
assicurarne, attendendo il probabile, ma non certo, ricorso di questi
al  giudice  amministrativo,  allo  scopo  di  sollevare,  in  via di
eccezione, la relativa questione di costituzionalita'.
    Ma  una  soluzione  del  genere  andrebbe  incontro  a molteplici
obiezioni.
    La prima e' che, nel nostro ordinamento, in base all'art. 1 della
legge  cost.  n. 1/1948  e  dell'art. 136  della Costituzione, non e'
consentito   all'amministrazione  di  disapplicare  leggi  di  dubbia
costituzionalita'  (Esposito).  La  seconda  e'  che  la tutela delle
attribuzioni   costituzionali   del  C.S.M.  dovrebbe  essere  legata
all'eventualita'  della  rituale  impugnativa  del suoi provvedimenti
contra   legem   da   parte   degli   interessati   (con  il  rischio
d'impugnazioni  tardive  o per altre ragioni inammissibili). La terza
e'  che  il  giudice  amministrativo  potrebbe  ritenere  l'eccezione
irrilevante  (accogliendo  magari  un motivo del ricorso di carattere
formale  e dichiarando assorbita la censura di viobazione della legge
de  qua)  o  manifestamente  infondata,  precludendo  cosi' al C.S.M.
l'accesso alla Corte.
    Infine  non va trascurata l'eventualita', non inverosimile, che a
fronte  del  diniego  del  C.S.M.,  il  giudice amministrativo in via
cautelare ordini la riammissione in servizio del ricorrente, al quale
il  Consiglio, giusta anche la giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte
(sent. 435/1995) non potrebbe evidentemente sottrarsi.
    In  conclusione  la  possibilita'  di  sollevare  un conflitto di
attribuzione,  prima  ancora  che  sia  data  applicazione alla norma
lesiva  delle  competenze costituzionali, deriva dalla considerazione
che  questo  e'  l'unico  modo  di tutelare quelle attribuzioni senza
violare  la  legge,  come  risulta  peraltro  dalla  stessa  sentenza
n. 406/1989,   espressione   del  precedente  orientamento  contrario
all'ammissibilita'  di  un conflitto tra poteri dello Stato su di una
legge od atto equiparato.
    In    quel    contesto    argomentativo    si    affermava    che
l'inammissibilita'   del   conflitto   seguiva,   tra  l'altro,  alla
considerazione  secondo cui in un sistema giuridico ispirato all'idea
portante  della  preminenza  della  legge  e  degli  atti equiparati,
riferibili  «al  piu'  alto  livello  di  rappresentativita' politica
generale  ...  ed  al  piu'  alto  livello  di  autonomia ...», fosse
coerente   sottrarli  in  linea  generale  «ad  iniziative  volte  ad
ostacolarne, in via preventiva, l'efficacia». In forza di un semplice
ragionamento  a  contrariis,  il conflitto tra poteri su una legge od
atto  equiparato,  giova  proprio  ad  evitare  che,  allo  scopo  di
provocare  l'incidente  di costituzionalita', alla legge asseritamene
lesiva del riparto di competenze sia negata applicazione.
    Alla  luce  delle  considerazioni  sopra  svolte  risulta  quindi
evidente  l'impossibilita' da parte del C.S.M. sia di disapplicare la
normativa contestata, sia di darvi applicazione parziale (poiche' non
e'    possibile   ricostruire   il   rapporto   di   servizio   senza
contestualmente attribuire le funzioni), sia infine di prospettare in
via   incidentale   la   suddetta   lesione  di  competenza:  di  qui
l'ammissibilita' del presente conflitto.
    1.3.  - Sembra peraltro opportuno evidenziare che, nella denegata
ipotesi  in  cui  le  considerazioni  sopra  svolte  in  ordine  alla
residualita'  non  dovessero  trovare  accoglimento,  non  di meno il
presente  conflitto di attribuzione risulterebbe ammissibile mediante
un'auspicabile   revisione   dell'indirizzo  giurisprudenziale  sopra
richiamato.
    Infatti,  se  anche  dovesse  ravvisarsi  nel  caso  di specie la
possibilita'   di   configurare   in  astratto  un  giudizio  in  via
incidentale,  resta  comunque fermo che lo strumento del conflitto di
attribuzione e' utilizzabile tutte le volte in cui venga in questione
la  garanzia  dell'ordine  costituzionale  delle competenze (art. 38,
n. 87/1953),  sicche'  negare tale possibilita' solo perche' la Corte
puo' essere investita della vicenda attraverso l'ordinario meccanismo
del  giudizio  di legittimita' costituzionale, significa a ben vedere
disconoscere le peculiarita' del giudizio sul conflitto e la migliore
rispondenza   dello  stesso  alle  finalita'  cui  e'  specificamente
preposto.  Non  sembra  infatti  dubitabile  che un controllo di tipo
astratto  -  quale  quello  che  si  ha nel giudizio sul conflitto -,
incentrato  su un puro confronto di discipline e del tutto scollegato
dal  riferimento  ad  un  caso  concreto, sia meglio confacente ad un
giudizio  «preordinato alla garanzia della integrita' "della sfera di
attribuzioni  determinata per i vari poteri da norme costituzionali"»
(sent. n. 457/1999) rispetto un controllo concreto come quello che si
svolge  nel  giudizio  di  legittiniita'  costituzionale,  in  cui il
sindacato  sulla  legge  si  realizza,  non  gia'  per  come  essa e'
formulata,   bensi'   per  come  essa  viene  ad  applicarsi  in  una
fattispecie  determinata,  con la conseguenza che non potranno essere
affrontati  tutti  quei  profili  della lesione delle competenze, pur
astrattamente configurabili, che non risultino rilevanti nel giudizio
a  quo.  In  sostanza,  quando  viene  in  considerazione,  piu'  che
l'illegittimita' costituzionale di un atto con forza di legge, la sua
invasivita'  di  attribuzioni  costituzionali  di  altri poteri dello
Stato,  il  giudizio  sul  conflitto  risulta essere, non solo quello
appositamente    previsto    nel    nostro   sistema   di   giustizia
costituzionale,  ma  anche  e  soprattutto  il  piu'  idoneo, poiche'
consente  di  affrontare  la  questione  nei  termini  generali di un
confronto  tra  attribuzioni costituzionali senza l'ultroneo «filtro»
del caso concreto.
    Va  inoltre  considerato  che,  nella criticata ipotesi in cui si
dovesse  continuare  a  ritenere ammissibile solo in via residuale un
conflitto  tra  poteri  avente  ad  oggetto  un  atto legislativo, si
finirebbe  inevitabilmente  per subordinare la possibilita' di tutela
delle  attribuzioni  costituzionali  al fatto che venga instaurato un
giudizio e che la questione sia dichiarata in quel giudizio rilevante
e  non  manifestamente  infondata. Nel caso di specie, ad esempio, il
diritto  del  C.S.M.  di  difendere  le  proprie  prerogative sarebbe
subordinato  all'eventuale  azione  dei  magistrati beneficiari della
legge  e  alla  valutazione di rilevanza e non manifesta infondatezza
della  questione nel giudizio cosi' instaurato: il che e' palesemente
inaccettabile, sia perche' non puo' essere disconosciuto al C.S.M. il
diritto  di  chiedere tutela in via diretta alla Corte costituzionale
mediante  lo  strumento appositamente previsto per questo fine, e sia
perche'  non  e'  detto  che  venga  riconosciuta  la rilevanza della
questione  nel  giudizio incidentale e che quindi la questione giunga
comunque  all'attenzione  della Corte, potendo il diniego opposto dal
C.S.M.  essere  annullato  per  motivi diversi dalla violazione della
legge  invasiva  delle  sue  attribuzioni  ovvero  il  ricorso essere
dichiarato inammissibile per tardivita'.
    2. - Presupposti soggettivi.
    Con   riferimento   al   profilo   soggettivo,  indiscutibile  e'
l'ammissibilita'  di  un  conflitto  di  attribuzione  sollevato  dal
C.S.M., in quanto organo abilitato ad esercitare attribuzioni proprie
conferite  dalla  Costituzione, ed in particolare dall'art. 105, come
questa,  ecc.ma  Corte  ha  piu' volte affermato (cfr. nn.  184/1992,
379/1992,  214-419/1995),  da  ultimo  con  l'ordinanza n. 112 del 12
marzo/2 aprile 2003.
    Parimenti indiscutibile e' la legittimazione passiva delle Camere
quali  titolari del potere legislativo e, ove occorra, del Governo in
quanto autore di uno degli atti qui in considerazione.
    Il  conflitto  viene  sollevato  nei  confronti del Parlamento in
considerazione  del  fatto  che  la  lesione  qui  lamentata discende
dall'esercizio del potere legislativo di cui effettivo titolare e' il
Parlamento,  non  rilevando,  in  questo  caso,  la presenza del d.l.
n. 66/2004,  che  deve  ritenersi  integralmente  e  retroattivamente
sostituito dalla legge di conversione (legge n. 126/2004).
    Spettera'  naturalmente  alla  Corte, all'esito della preliminare
delibazione sull'ammissibilita', individuare gli «organi interessati»
ai  quali  dovra' essere notificato il ricorso e quindi eventualmente
estendendo al Governo il contraddittorio.
    3. - Presupposti oggettivi e di merito.
    3.1.  La  circostanza  che  il  Govemno sia intervenuto con d.l.,
modificando la precedente normativa, che prevedeva per il caso qui in
considerazione  un  semplice  regolamento,  senza  che ricorressero i
presupposti di necessita' e d'urgenza, ha in concreto impedito che su
norme  incidenti  sull'ordinamento  giudizianio  venisse  chiesto  (e
fornito)  il  parere  del  C.S.M.  (cfr. art. 10, legge n. 195/1958).
Parere che esprime il principio di leale collaborazione tra i poteri,
piu'  volte  richiamato  dalla Corte nella sua giurisprudenza, per il
quale  nell'esercizio  delle proprie attribuzioni ciascun potere deve
tenere  conto  delle  attribuzioni e degli interessi di cui gli altri
poteri sono portatori.
    Non  e' dubbio, dunque, che ferma restando la titolarita' in capo
alle Camere del potere di dettare norme legislative in materia (quali
l'ordinamento  giudiziario)  che  toccano le attribuzioni del C.S.M.,
nell'esercizio  di quel potere le Camere stesse (e il Governo in sede
d'iniziativa) dovranno «sentire» il C.S.M.
    Nella  specie  cio' non e' avvenuto, verosimilmente a causa della
ristrettezza  dei termini per l'emanazione e la conversione del d.l.;
in  altre  parole  perche',  senza che sussistessero i presupposti di
necessita'  e  d'urgenza delineati dall'art. 77, il Governo ha scelto
una   procedura   abbreviata   scavalcando   le   Camere  e  rendendo
inapplicabile  l'art. 10  della  legge n. 195 (che attua, appunto, il
principio costituzionale di leale collaborazione nelle materie).
    Donde  la  conclusione della lesione delle prerogative del C.S.M.
(art. 105)  per avere il Governo emanato (in violazione dell'art. 77)
un  d.l.  invece di promuovere una normale iniziativa legislativa nel
corso della quale sarebbe stato richiesto il parere del C.S.M., senza
richiedere,  nemmeno in sede di conversione, il parere del Consiglio,
violandosi  cosi'  da  parte del Govemo e del Parlamento, insieme con
l'art. 77, il principio di leale collaborazione.
    Tali  censure,  seguendo  i  principi  di cui alla sent. 39/1995,
dovranno  essere  ricondotte  alla  legge  di  conversione, avendo il
Parlamento convalidato un atto ad origine illegittimo.
    Si denuncia pertanto: violazione dell'art. 105 della Costituzione
e  del  principio  di  leale  collaborazione,  anche  in  riferimento
all'art. 10  della  legge  n. 195/1958. Violazione dell'art. 77 della
Costituzione.
    3.2.  -  Vanno  ora analizzate le singole disposizioni, contenute
nell'art. 3,  comma 57, legge n. 350 del 2003 e nell'art. 2, comma 3,
d.l.  n. 66  del  2004,  come  integrato  dalla  legge di conversione
n. 126/2004,  per  evidenziare  i  singoli  profili  di lesione delle
attribuzioni del C.S.M. dalla Costituzione.
    Nell'illustrare  tale  posizione, il necessario punto di partenza
deve  trarsi  dalla  considerazione delle particolari funzioni che la
Costituzione  attribuisce al C.S.M. e della ratio che sottende a tali
attribuzioni.
    L'art. 105   della   Costituzione  stabilisce  che  «Spettano  al
Consiglio    superiore    della   magistratura   secondo   le   norme
sull'ordinamento  giudiziario,  le  assunzioni,  le assegnazioni ed i
trasferimenti,  le  promozioni  e  i  provvedimenti  disciplinari nei
riguardi dei magistrati».
    La  ratio  di  tali  attribuzioni  va  ricercata nell'esigenza di
garantire  l'autonomia  e  l'indipendenza dell'ordine giudiziario. Il
complesso  delle  indicate competenze da' quindi vita ad una funzione
che,  nella  sua  tipicita'  e  generalita',  e' tesa a garantire e a
realizzare nel concreto le condizioni per un corretto esercizio della
giurisdizione.
    Cio' posto, la dottrina ha da tempo sottolineato che gli atti che
intervengono  sullo status giuridico dei magistrati, sia dal punto di
vista  dell'organo chiamato ad adottarli, che con riferimento al loro
contenuto,  rimangono  condizionati  dalla  caratterizzazione di tale
status  in  rapporto alla garanzia dell'autonomia e dell'indipendenza
dell'ordine.
    Il  necessario  corollario  di  tale  impostazione  consiste  nel
carattere di esclusivita' delle attribuzioni del Consiglio superiore,
essendo   questa   la  condizione  necessaria  ed  ineliminabile  per
salvaguardare  appieno  i  valori  dell'autonomia e dell'indipendenza
dell'ordine   giudiziario   da   ogni   altro   potere  dello  Stato.
L'attuazione di tale esigenza si presenta, infatti, incompatibile con
la  previsione  di interventi ad opera di altri poteri ed in cio' sta
la ragione del conferimento in esclusiva delle indicate competenze al
Consiglio superiore.
    Rilevanti  in  proposito  risultano  i  chiarimenti forniti dalla
Corte, che e' intervenuta in un primo momento per cancellare la norma
che  subordinava  all'iniziativa  del  Ministro  della  giustizia  le
deliberazioni  del  C.S.M.  relative allo status dei magistrati (cfr.
sent.  168/1963),  in  un  secondo  momento  per  chiarire la portata
dell'atto di concerto del Ministro previsto per la nomina agli uffici
direttivi  (art. 11, legge n. 195 del 1958), giustificato ex art. 110
della  Costituzione,  ma  solo in un'ottica di «leale collaborazione»
tra  poteri  dello  Stato,  tale  per  cui  non e' comunque possibile
intaccare  il  potere  di  nomina  del  Consiglio superiore (sentenze
n. 379/1992 e 380/2003).
    Alla  luce  di queste preliminari considerazioni bisogna valutare
il  problematico rapporto tra attribuzioni del Consiglio e quelle del
legislatore.
    Anche  sotto questo diverso angolo visuale il richiamo necessario
e'  ancora  all'art. 105  della  Costituzione, laddove precisa che le
attribuzioni  ivi  indicate  spettano  al Consiglio «secondo le norme
sull'ordinamento   giudizianlo».   La   norma   sta   chiaramente   a
rappresentare la necessita' che il potere del Consiglio superiore sia
definito  attraverso  precise  indicazioni  legislative  ed  attuato,
quindi,  nella loro osservanza. In tal modo si e' voluto sottolineare
che  le  funzioni  attribuite  al Consiglio non sono libere, ma hanno
natura discrezionale, al pari di ogni altro potere conferito in vista
della   realizzazione   di  un  particolare  interesse  pubblico.  La
spettanza  delle  attribuzioni,  in uno con il carattere di autonomia
dell'organo,  segnalano anche che la legge deve lasciare al Consiglio
il   necessario   margine  di  discrezionalita'  nell'assunzione  dei
provvedimenti  che  incidono sul corretto ed efficace esercizio della
giurisdizione,  senza  poter  imporre  atti o comportamenti dovuti in
relazione  a situazioni specifiche e concrete. L'eliminazione di ogni
discrezionalita'  si  traduce  infatti nell'esclusione del potere, in
capo  al  soggetto  che  agisce,  di  valutare  la corrispondenza del
singolo   atto   all'interesse   pubblico  specifico  che  esso  deve
rispettare  e  soddisfare.  Sotto  il  profilo sostanziale l'atto non
potrebbe allora che essere riferito al soggetto che lo impone, vale a
dire,  nella  specie,  al  potere  legislativo,  cioe' ad un soggetto
diverso da quello previsto dalla Costituzione.
    In   conclusione,   e'   sicuramente  lesivo  delle  attribuzioni
costituzionalmente   garantite   al   C.S.M.   ogni   intervento  del
legislatore  in  materia  di status giuridico dei magistrati, qualora
esso  configuri  fattispecie composte unicamente da elementi di fatto
passibili  in  concreto  soltanto  di  essere  verificati  nella loro
esistenza storica e privi conseguentemente l'intervento consiliare di
oni spazio di discrezionalita' valutativa.
    3.3.  -  Le ragioni sopra indicate inducono a dubitare seriamente
della  legittimita' costituzionale delle disposizioni di legge che il
Consiglio superiore e' chiamato ad applicare, nella parte in cui esse
prevedono  che il Consigilo superiore della magistratura debba, senza
alcun   margine  di  discrezionalita',  riammettere  in  servizio  il
magistrato   richiedente   e   conferirgli  le  funzioni  giudiziarie
richieste.  L'atto  che  si chiede di emanare, sia dal punto di vista
soggettivo    che    oggettivo,    rientra,   infatti,   tra   quelli
specificatamente  riservati  dall'art.  105 alla competenza esclusiva
del   Consiglio,   a  cui  verrebbe  sottratto  qualsiasi  potere  di
valutazione   in  ordine  all'attuale  idoneita'  del  richiedente  a
svolgere  nuovamente  le  funzioni  giudiziarie ed in ordine alla sua
idoneita'  specifica a ricoprire il posto richiesto. Si consideri, al
riguardo,   che  negli  altri  casi  in  cui  la  legge  consente  la
riammissione   in   servizio  dei  magistrati  (art. 211  ordinamento
giudiziario),  al  pari  di tutti gli altri casi in cui al magistrato
vengono  riassegnate le funzioni (in caso di revoca della sospensione
disciplinare  e nelle ipotesi di rientro in ruolo organico), le norme
regolano   il   relativo   potere   di  provvedere  sempre  in  forma
discrezionale,  sia  in  ordine all'an, nell'ipotesi di riammissione,
che,  in ogni caso, in ordine alle funzioni ed al posto da assegnare.
Nel  caso  concreto,  invece,  tale  valutazione non e' ammessa dalla
legge. Risulta in tal modo pregiudicata la funzione discrezionale del
Consiglio  volta a realizzare il corretto ed efficace esercizio della
giurisdizione,  che  trova  proprio nella valutazione della idoneita'
dei  soggetti chiamati ad esercitarla la sua espressione fondamentale
e piu' importante.
    3.4.   -   In  particolare,  risulta  lesiva  delle  attribuzioni
costituzionali  del  C.S.M.  la disposizione di cui all'art. 3, comma
57,  legge  n. 350  del  2003,  che  prevede  che  la riammissione in
servizio,   in   caso  di  proscioglimento  pieno,  debba  totalmente
prescindere  dalla  valutazione  circa  la rilevanza disciplinare dei
fatti  che  hanno  formato  oggetto  di  procedimento penale, ai fini
dell'accertamento,  in termini di attualita', della idoneita' e delle
attitudini del richiedente ad esercitare nuovamente le funzioni.
    A  tal proposito va infatti evidenziato che si possono verificare
ipotesi  in  cui  al  di  la' del giudizio di responsabilita' penale,
l'accertamento giudiziale consegni all'area della certezza storica la
sussistenza di condotte che siano passibili di valutazione in termini
di   rilevanza   disciplinare.  In  sostanza  pur  con  una  sentenza
definitiva  che  escluda  la sussistenza del fatto storico dedotto in
imputazione,  non  puo'  escludersi  che  in  sede penale siano stati
accertati  alcuni  profili,  meglio  alcune  modalita' della condotta
umana  di  cui  si  compone  l'accusa, che, immutata la ricostruzione
storica, non si sottraggono ad un giudizio di rilevanza disciplinare,
sicche'  l'automatico meccanismo di riassunzione in servizio priva il
Consiglio del dovere di tener conto di tali profili.
    Proprio per le ragioni appena riassunte il sistema di ordinamento
giudiziario  regola gli effetti dell'accertamento penale sul giudizio
disciplinare in modo da non escludere che ad una pronuncia definitiva
in  sede  penale,  anche  determinata dall'insussistenza del fatto di
imputazione    o   dall'accertamento   dell'estraneita'   del   fatto
all'imputato,  possa  seguire, per gli stessi fatti che hanno formato
il tema di prova in sede penale, un giudizio disciplinare.
    Tanto  si  ricava  dall'art. 29, r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 511,
ove  si  prevede  che  il  magistrato  prosciolto  in sede penale con
qualsiasi  formula  diversa  da quella dell'insufficienza probatoria,
ora  non  piu' prevista, o da quelle determinate dall'affermazione di
una   causa   estintiva   del   reato   o   dell'impromovibilita'   o
improseguibilita'   dell'azione  penale,  puo'  essere  sottoposto  a
procedimento   disciplinare,   sol   che   i   titolari   dell'azione
disciplinare decidano in tal senso, promovendo appunto l'azione.
    Lo  stesso  articolo  contiene poi la previsione, secondo cui nel
procedimento  disciplinare  fa  sempre stato l'accertamento dei fatti
che  formano  oggetto  del giudizio penale, risultanti dalla sentenza
passata in giudicato.
    Il  riferimento  e  ovviamente  ai  fatti  che  costituiscono  la
descrizione   storica   dell'imputazione   ed   ai   fatti   che  con
l'imputazione  siano  in  relazione  probatoria,  ai  fatti cioe' che
vengono  assunti  come  premessa di inferenze probatorie direttamente
collegate  alla  fattispecie di imputazione e che, per tale funzione,
sono a loro volta oggetto di prova.
    Gli  orientamenti della giurisprudenza della sezione disciplinare
del C.S.M. e delle sezioni unite della Corte di cassazione, peraltro,
sono  conformi  alle  affermazioni  fatte  in  linea generale circa i
rapporti tra processo disciplinare e processo penale.
    La sezione disciplinare del C.S.M. ha piu' volte affermato che il
giudicato  penale  di  assoluzione  con  la  formula  piu' ampia, per
insussistenza  del  fatto,  non  inibisce  al giudice disciplinare la
valutazione  autonoma  degli  accadimenti  si' come accertati in sede
penale nella loro storicita' secondo un criterio, quello disciplinare
appunto,  strutturalmente  piu'  rigoroso.  Ha quindi chiarito che il
giudice  disciplinare  «ben puo' valutare la rilevanza di circostanze
di  fatto,  oggetto  di  contestazione  disciplinare,  che  risultino
accertate  all'esito  del  giudizio penale, anche se tali circostanze
siano   state   giudicate  non  influenti  per  l'affermazione  della
responsabilita'  penale  dell'imputato, assolto per insussistenza del
fatto» (sentenza n. 132/1999 reg. dep. del 17 dicembre 1999).
    Sul  valore  del giudicato penale nel giudizio disciplinare si e'
pronunciata  anche  la  Corte di cassazione, nella composizione delle
sezioni  unite,  affermando  che  il  significato  della disposizione
dell'art. 2 r.l.d.lgs. n. 511 del 1946 consiste nella prescrizione di
effetti   vincolanti  dell'accertamento  dei  fatti  ricostruiti  dal
giudice   penale  «in  diretta  connessione  ideologica  con  la  sua
pronuncia  e  quale  indispensabile  premessa del decisum sull'intera
contestazione  rendendo  cosi'  obbligatoria  l'utilizzazione in sede
disciplinare  del  materiale  probatorio  anteriormente acquisito dal
giudice penale (sentenza n. 3304/1998 del 22 gennaio 1998).
    Con  successiva pronuncia la Corte di cassazione a sezioni unite,
ha  ribadito che l'unico limite derivante dal giudicato penale per il
giudice  disciplinare  e'  quello di non poter ricostruire l'episodio
posto  a fondamento dell'incolpazione in modo diverso, ferma restando
la  piena  liberta'  di  valutare i medesimi accadimenti nell'ottica,
indubbiamente  piu'  rigorosa,  dell'illecito  disciplinare (sentenza
n. 1120/2000 del 15 giugno 2000).
    Il  fondamento giustificativo di siffatta liberta' di valutazione
del  giudice  disciplinare,  da  rispettarsi  anche  in casi di esito
pienamente  favorevole all'incolpato del giudizio penale, si rinviene
in  alcune  considerazioni  di  una  recente pronuncia della Corte di
cassazione,  a  sezioni  unite.  La  Corte  di cassazione muove dalla
considerazione  della natura di norme c.d. elastiche o atipiche delle
previsioni  dell'illecito  disciplinare dei magistrati per concludere
che l'accertamento del comportamento disciplinarmente rilevante e' il
frutto  del  ricorso  a  concetti  di valore, desumibili da modelli e
clausole  generali delle norme di legge, con l'ulteriore osservazione
che  il potere di adattare la previsione astratta al caso concreto e'
affidato  dall'ordinamento  solamente  ed  esclusivamente  al giudice
disciplinare del merito, quindi al C.S.M. (sentenza n. 15399/2003 del
10 luglio 2003).
    L'incongruenza  della  disciplina  in  oggetto  appare ancor piu'
evidente  ed  irragionevole  se confrontata con la disposizione della
stessa  legge  che,  nel  caso  di  proscioglimento  con formule meno
favorevoli,  condiziona  la riammissione in servizio all'accertamento
negativo  in  ordine  alla ricorrenza di «elementi di responsabilita'
disciplinare   o   contabile»   se,   infatti,   la   valutazione  di
insussistenza  di  elementi  di responsabilita' disciplinare da parte
del  Consiglio  e'  presupposto indispensabile per la riammissione in
servizio in taluni casi, l'omessa previsione di un analogo intervento
consiliare  in  altri  si sostanza non solo in una scelta legislativa
priva,  come si e' visto, di basi sostanziali idonee a giustificarla,
ma  rappresenta  l'ulteriore riprova che tale valutazione e' «fornita
per   legge»,   ovvero  sottratta  all'organo  di  autogoverno  della
magistratura. In conclusione si ritiene che la preclusione normativa,
nei  confronti  del  Consiglio  superiore,  ad  un'indagine diretta a
verificare  se l'accertamento penale, pur favorevole all'interessato,
abbia   fatto  residuare  aspetti  rilevanti  al  fine  di  stabilire
l'idoneita'  attuale  ad  esercitare  le funzioni giurisdizionali, si
risolva  in  una  compressione  delle attribuzioni costituzionali del
medesimo Consiglio superiore. sottraendogli quel potere discrezionale
che la Costituzione gli ha specificatamente attribuito in funzione di
autogoverno dell'ordine giudiziario.
    3.5.    -    Un'ulteriore   compromissione   delle   attribuzioni
costituzionali   del   Consiglio   superiore  della  magistratura  si
riscontra  a proposito della disposizione di cui all'art. 2, comma 3,
del  decreto  legge  n. 66 del 2004, convertito con legge n. 126/2004
laddove  stabilisce  che  al  magistrato  riammesso in servizio venga
confenita,  in  caso  di  anzianita'  non  inferiore  a  dodici  anni
nell'ultima  funzione  esercitata, anche in soprannumero una funzione
di  livello  immediatamente  superiore, previa valutazione della sola
anzianita'  di ruolo e delle attitudini desunte dalle ultime funzioni
esercitate,  e, nel caso di anzianita' superiore, una funzione, anche
in soprannumero, dello stesso livello.
    Nel  caso di domanda dell'interessato di conferimento di funzioni
di  livello  superiore,  il  Consiglio,  in presenza delle condizioni
previste  dalla  norma,  e'  chiamato ad assumere in provvedimento di
promozione  potendo  unicamente  valutare  l'anzianita'  di ruolo del
magistrato  al  momento  della  cessazione  dal  servizio  e  le  sue
attitudini  «desunte  dalle  ultime  funzioni esercitate». Per contro
rimane  ad  esso  sottratto  cio'  che  e'  invece  il proprium della
valutazione   discrezionale   in  questa  fattispecie,  vale  a  dire
l'idoneita' specifica, in concreto, del magistrato a rivestire quelle
determinate  funzioni  in  relazione  al  posto  richiesto.  Una tale
valutazione  non  appare infatti recuperabile alla luce dei parametri
valutativi  indicati  dalla norma, che interessano la sola anzianita'
di ruolo e le attitudini dimostrate nelle ultime funzioni esercitate,
posto  che comunque questa valutazione del Consiglio, di per se' gia'
monca, non puo' non apparire condizionata dal diritto alla promozione
conferito  al  magistrato  dalla  legge.  Il  vulnus  al  potere  del
Consiglio  superiore  di  assegnazione  delle fuuzioni ai magistrati,
riconosciuto  dall'art. 105  con  l'ampia  formula  di  assegnazioni,
trasferimenti   e   promozioni,   si   colora  ulteriormente  per  la
obliterazione  degli  ordinari  parametri  valutabili,  fondati sulle
attitudini,  il  merito  e  l'anzianita',  e del criterio comparativo
(art. 192  ordinamento  giudiziario),  nonche' del vaglio, in caso di
mutamento  di  funzioni  da  giudicanti  a requirenti e viceversa, in
ordine  alla  specifica  idoneita'  all'esercizio di funzioni diverse
(art. 190,  ordinamento giudiziario); profili che rappresentano tutti
il  risultato  di  una  implementazione  nel  tessuto  normativo  dei
principi   che   govemano   il   corretto  esercizio  della  funzione
giurisdizionale.
    La  previsione  normativa,  in  entrambe le ipotesi di maggiore o
minore  anzianita'  di  servizio nelle ultime funzioni esercitate, di
conferimento  di  una funzione «anche in soprannumero» appare inoltre
implicare  il  riconoscimento  al  magistrato  riammesso di un vero e
proprio  diritto  alla  scelta  del  posto.  Anche  in  questo  caso,
pertanto,   si  riscontra  una  sottrazione  delle  attribuzioni  del
Consiglio  superiore,  rientrando  nel  potere  di  assegnazione  dei
magistrati,  quale  antecedente logico necessario, anche il potere di
scelta dei posti da assegnare. La previsione, quindi, ha l'effetto di
sottrarre  al  Consiglio  superiore anche quella discrezionalita' che
gli   e'   propria   nella   organizzazione   giudiziaria,   ispirata
all'attuazione  del principio del «buon andamento» di cui all'art. 97
della  Costituzione.  L'attribuzione in soprannumero ad uffici che in
pianta  organica hanno un solo posto a poche unita' o in cui comunque
non  vi  sarebbe  ne' necessita' ne' urgenza di copertura rappresenta
una  evidente  deroga  ai principi di efficienza della organizzazione
degli  uffici,  che  finisce  per  comprimere quella funzione di buon
governo della giurisdizione cui pure sono finalizzate le attribuzioni
costituzionali del Consiglio superiore della magistratura.
    Si denuncia pertanto: violazione dell'art. 105 della Costituzione
anche in riferimento all'art. 97 della Costituzione.
                              P. Q. M.
    Si chiede che codesta ecc.ma Corte costituzionale, in risoluzione
del presente conflitto:
        I) dichiari:
          a)   che   non   spetta   al   Parlamento,   in  violazione
dell'art. 105   della   Costituzione   e   del   principio  di  leale
collaborazione,  convertire il d.l. n. 66/2004, violativo a sua volta
dell'art. 77  della  Costituzione,  senza aver previamente assunto il
parere del C.S.M., ai sensi dell'art. 10, legge n. 195/2004;
          b)  che non spetta al Parlamento (ne' al Governo in sede di
emissione  del  d.l.  66/2004) stabilire, in violazione dell'art. 105
della  Costituzione,  che  la riammissione in servizio dei magistrati
ordinari  prosciolti  avvenga  senza  che il C.S.M. possa valutare la
rilevanza  disciplinare  dei  fatti  che  hanno  formato  oggetto  di
procedimento  penale  e  che  l'attribuzione  ad  essi delle funzioni
avvenga  senza che il C.S.M. possa valutare l'idoneita' specifica, in
concreto,   del   magistrato  a  rivestirle  in  relazione  al  posto
richiesto.
          c)  che spetta invece al C.S.M., in base all'art. 105 della
Costituzione  e  al principio costituzionale di leale collaborazione,
fornire  al  Governo  e  al Parlamento il proprio parere in ordine ai
progetti di legge in materia di ordinamento giudiziario;
          d)  che  spetta  al  C.S.M.,  ai  sensi dell'art. 105 della
Costituzione,   quando  disponga  la  riammissione  in  servizio  dei
magistrati  ordinari  prosciolti,  valutare la rilevanza disciplinare
dei  fatti  che  hanno  formato  oggetto  di  procedimento  penale  e
l'idoneita' specifica, in concreto, del magistrato a rivestire quelle
determinate funzioni in relazione al posto richiesto.
        II)   Annulli   in  conseguenza  l'art. 3,  comma  57,  legge
n. 350/2003,  nella  parte  in  cui non prevede che il C.S.M abbia il
potere  di  valutare  la  rilevanza  disciplinare dei fatti che hanno
formato  oggetto  di procedimento penale e dell'art. 2, comma 3, d.l.
66/2004,  convertito  con  legge  126/2004,  nella  parte  in cui non
prevede  che  il  C.S.M.  abbia  il  potere  di  valutare l'idoneita'
specfica  in  concreto, del magistrato a rivestire quelle determinate
funzioni in relazione al posto richiesto.
        Roma, addi' 13 dicembre 2004
                   Prof. Avv. Federico Sorrentino
          Avvertenza:  L'ammissibilita'  del  presente  conflitto  e'
          stata  decisa  con ordinanza n. 116/2005 e pubblicata nella
          Gazzetta Ufficiale 1ª s.s., n. 12 del 23 marzo 2005.
05C0445