N. 248 ORDINANZA (Atto di promovimento) 14 marzo 2005

Ordinanza emessa il 14 marzo 2005 dal tribunale - sezione del riesame
- di Venezia sull'appello proposto da Procura della Repubblica

Ambiente  -  Regime  dei rottami ferrosi - Esclusione dalla normativa
  concernente  la  gestione dei rifiuti - Contrasto con la nozione di
  «rifiuto»  della  Corte  di  giustizia  europea  - Inosservanza dei
  vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario.
- Decreto-legge  8 luglio  2002,  n. 138,  art. 14,  convertito nella
  legge  8 agosto  2002,  n. 178;  Legge  15 dicembre  2004,  n. 308,
  art. 1, commi 25, 26, 27, 28 e 29.
- Costituzione, artt. 11 e 117, primo comma.
(GU n.19 del 11-5-2005 )
                            IL TRIBUNALE

    Pronunciando  sull'appello  proposto  ai  sensi dell'art. 322-bis
c.p.p.  dalla  Procura della Repubblica avverso l'ordinanza di data 8
febbraio  2005 resa dal giudice per le indagini preliminari presso il
Tribunale  di Venezia, che nega sussistere le condizioni legittimanti
la   convalida  del  sequestro  preventivo  di  un  carico  di  6.149
tonnellate  di  «rottami  ferrosi»,  operato  in  via d'urgenza il 25
gennaio u.s. in ambito portuale; e che, comunque, nega l'emissione di
autonomo decreto di sequestro preventivo (321, comma 3-bis, c.p.p.),

                        Osserva quanto segue

    Il  25 gennaio  u.s.  operatori della locale Capitaneria di Porto
hanno  proceduto  in  via  d'urgenza  al  sequestro preventivo di una
fornitura   di  6.149  tonnellate  di  rottami  ferrosi,  oggetto  di
spedizione  transfrontaliera (dalla Russia), destinata al trasporto e
a  alla  successiva  consegna  ad una acciaieria cremonese tramite la
mediazione  di  Giorgio  Lorenzato,  amministratore  di «Multiservice
S.r.l.».  Alla persona di Giorgio Lorenzato e' stato percio' riferito
di   avere  esercitato  senza  titolo  attivita'  di  «recupero»,  o,
comunque, di «gestione» di rifiuti non pericolosi, ai sensi dell'art.
51, comma primo, lettera A) del d.lgs. n. 22/1997.
    1.  -  Motivazione dell' ordinanza a tenore della quale il g.i.p.
di  Venezia  nega sussistere le condizioni legittimanti. La convalida
del  sequestro  preventivo,  e,  comunque,  l'emissione  di  autonomo
decreto di sequestro preventivo.
    Nel   ritenere   insussistenti   le  condizioni  legittimanti  la
convalida   dell'iniziativa  di  p.g.  e,  comunque,  nel  negare  il
sequestro  preventivo,  il  giudice  di  prime  cure chiarisce di non
ritenere  applicabili  nel  caso  di  specie le disposizioni di fonte
comunitaria  in materia di gestione di rifiuti, stando l'operativita'
di   una   disciplina   normativa   nazionale   di   segno   opposto,
specificamente  concernente  i  «rottami  ferrosi», derogatoria della
nozione  di  «rifiuto»  dettata  dallart.  1 della recepita Direttiva
91/156/CEE   [art.   14  del  decreto-legge  8 luglio  2002,  n. 138,
convertito con legge 8 agosto 2002, n. 178, norma di «interpretazione
autentica»  della  definizione  di  cui  all'art. 6,  lettera  a) del
decreto    legislativo    5 febbraio    1997,   n. 22;   disposizione
espressamente  richiamata,  da ultimo, dall'art. 1, comma 25, 26, 27,
28  e  29, legge 15 dicembre 2004, n. 308 che, in materia di rottami,
rende disposizioni immediatamente applicabili].
    Il  giudice di prime cure osserva che, pure dopo la pubblicazione
della  sentenza  C/457  di  data 11 novembre 2004 resa dalla Corte di
Giustizia  delle Comunita' europee (di cui si dira) e, comunque, dopo
la  pubblicazione della legge-delega per l'ambiente 15 dicembre 2004,
n. 308,  la  perdurante  contraddittorieta' del quadro di riferimento
normativo  concernente  la  circolazione di rottami ferrosi pone seri
problemi  di  intelligibilita'  della  norma agendi, con implicazioni
notevoli sul piano della ignoranza inevitabile della legge penale, e,
quindi,   sul   piano   della   stessa   configurabilita'  del  reato
contravvenzionale.
    Il   giudice  di  prime  cure  osserva  che  l'assunto  del  p.m.
riguardante  la  qualificazione dei materiali ferrosi come «rifiuti»,
risulta essere fondato sulla sentenza C/457 di data 11 novembre 2004,
resa  di  recente  dalla  Corte di Giustizia della Comunita' europea,
giacche'  solo  in  base ad essa si giunge a qualificare come rifiuto
anche  il  bene  suscettibile  di  valutazione  economica,  privo  di
potenzialita'  offensive  per  l'ambiente  e  destinato al riutilizzo
nell'ambito   di  un  procedimento  produttivo  altro  da  quello  di
provenienza.  E  pero' pure osserva che alla pronuncia della Corte di
Giustizia di data 11 novembre 2004, segue, a far data dall'11 gennaio
2005,  l'entrata in vigore della legge 15 dicembre 2004, n. 308, che,
nel  rendere  norme  immediatamente precettive [art. 1, comma 25, 26,
27,  28  e 29],  non  solo  attribuisce  a  detti  rottami ferrosi la
qualifica  di «materie prime secondarie» (cosi' da escludere che essi
possano essere ricondotti alla definizione comunitaria di «rifiuto»),
ma  mantiene  espressamente  «fermo»  il  disposto  dell'art. 14  del
convertito   decreto-legge   8 luglio  2002,  n. 138  [norma  recante
«interpretazione      autentica»     della     preesistente     norma
interna-recettiva  della definizione di fonte comunitaria, dichiarata
non  conforme al diritto comunitario da detta sentenza della Corte di
Giustizia].  Donde  l'ignoranza  inevitabile  -  dal  punto  di vista
esterno - della «norma agendi» e della legge penale (art. 5 c.p. come
modificato dalla sentenza n. 364/1988 della Corte costituzionale).
    Il   giudice   di   prime  cure  osserva  che  la  considerazione
dell'excursus   normativo  risulta  essere  utile  per  correttamente
inquadrare   la   questione  dell'  «immediata  applicabilita»  della
sentenza  Corte  di  Giustizia  comunitaria  al  caso di specie. Egli
sottolinea  che  e' la stessa parte motiva della sentenza 11 novembre
2004  (1/2.29)  a  significare  che  una  direttiva  non  puo'  avere
l'effetto,  di  per se' e indipendentemente da una norma giuridica di
uno  Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o di
aggravare  la  responsabilita'  penale  di  coloro  che  agiscono  in
violazione  delle  sue  disposizioni. Donde la necessita' di ritenere
che  eguale limite incontri la sentenza interpretativa della Corte di
Giustizia,  stante  la  natura  sua  di mero accertamento rispetto ai
contenuti  dell'atto  normativo  comunitario di riferimento. Sicche',
essendo  incontestabile  che  al  momento dell'avvio del procedimento
penale  che ne occupa [e, percio', il 25 gennaio 2005], la situazione
normativa aveva gia' subito radicale mutamento [per essere entrata in
vigore  la  disposizione di legge che espressamente esclude i rottami
ferrosi  dal  catalogo  dei  «rifiuti»],  cosi'  da  rendere priva di
rilevanza  penale  la condotta del Lorenzato, egli conclude nel senso
che,  qualora si ritenesse applicabile la sentenza interpretativa del
giudice   comunitario,   verrebbero   a   porsi   i  presupposti  per
l'affermazione  di responsabilita' penale con riferimento a fatti che
-  stando  al  nuovo  dato  normativo - in nessun modo possono essere
sussunti   a   fattispecie  penalmente  rilevante  per  l'ordinamento
interno,  neppure  in  virtu' della piu' ardita delle interpretazioni
estensive.
    Concludendo,  il  giudice  di  prime  cure  osserva che, solo per
effetto  del riconoscimento di efficacia immediata della disposizione
comunitaria,  si  verrebbe  a  considerare  reato una condotta cui il
diritto  interno  inequivocabilmente  nega  -  con  una  disposizione
sopravvenuta ad hoc - rilevanza penale.
    Donde  il  rigetto  delle  richieste  di convalida e di sequestro
preventivo in premessa indicare.
    2. - Motivi di appello proposti dal p.m. avverso tale diniego.
    Nel  proporre appello avverso tale diniego, ripercorso l'excursus
normativo  di cui si e' detto, il pubblico ministero evidenzia che la
sentenza C/457 di data 11 novembre 2004 resa dalla Corte di Giustizia
comunitaria   impone   la   «disapplicazione»   della  norma  interna
contrastante,  essendo evidente che la disposizione sopravvenuta alla
pubblicazione  della  pronuncia suddetta, ripropone la qualificazione
disdetta, tal quale.
    Quanto  all'antinomia tra il principio di diritto affermato dalla
sentenza   dalla  Corte  di  Giustizia  comunitaria  (che  rende  si'
autentica  interpretazione  della  direttiva  75/442/CEE) e l'art. 1,
commi  25,  26,  27,  28  e  29  della  successiva  legge  delega per
l'ambiente  15 dicembre  2004,  n. 308), il pubblico ministro osserva
che  mentre  detta  sentenza  afferma  che i rottami metallici devono
conservare  la  qualifica  di  «rifiuti» finche' non risultino essere
effettivamente riciclati in prodotti siderurgici [e, percio', finche'
non  costituiscano  i  prodotti finiti del processo di trasformazione
cui  sono  destinati], la legge/italiana di qualche giorno successiva
afferma  l'esatto  contrario,  [la'  dove  pone che tali rottami sono
sottoposti  al regime delle materie prime e non a quello dei rifiuti,
se   rispondenti   alla   definizione   introdotta   dalle   nominate
disposizioni  di  diritto  interno  contrastanti,  di  «materia prima
secondaria»  per  attivita'  siderurgiche  e  metallurgiche,  purche'
abbiano certe caratteristiche merceologiche e siano destinate in modo
oggettivo ed effettivo al reimpiego nei menzionati cicli produttivi].
    In  diritto  il  pubblico  ministero  evidenzia che, ancorche' la
Corte  di  Giustizia  comunitaria  abbia offerto al giudice nazionale
tutti  gli elementi interpretativi necessari per dirimere l'accertata
antinomia,  sussistendo nel caso di specie le condizioni legittimanti
la  «disapplicazione»  dell'  art. 14  del  convertito  decreto-legge
8 luglio  2002,  n. 138  e  dell'art.  1,  commi  25-29  della  legge
15 dicembre  2004, n. 308, del tutto erroneamente il giudice di prime
cure  non giunge a considerare - certo, incidentalmente - tamquam non
esset la norma di diritto interno contrastante.
    Inoltre il pubblico ministero puntualizza che il contrasto tra la
sentenza  della  Corte  di  Giustizia  comunitaria e la norme interne
(anteriori  e  successive  all'accertamento  della  stessa), potrebbe
dirsi  risolto,  in  quanto,  le disposizioni tutte che qualificano i
rottami   metallici   come   «materie  prime  secondarie»,  non  solo
contraddicono  l'interpretazione  di «rifiuto» dichiarata conforme al
diritto  comunitario  da detta Corte di Giustizia, ma anche urtano il
regolamento  CEE  n. 259/1993 relativo ai «trasporti transfrontalieri
di  rifiuti»  [la'  dove  nel  caso  concreto  si verte in materia di
trasporti  transfrontalieri], fonte normativa obbligatoria in tutti i
suoi  elementi  costitutivi  e immediatamente applicabile in ciascuno
degli  Stati  membri,  che,  espressamente richiama la definizione di
matrice  comunitaria  disattesa,  tanto  dall'art. 14  del convertito
decreto-legge  8 luglio  2002,  n. 138,  che  dalla legge 15 dicembre
2004, n. 308 [art. 1 commi 25, 26, 27, 28 e 29].
    Sicche',   ribadita  la  necessita'  di  applicazione  immediata,
diretta  e  prevalente, nell'ordinamento interno dei principi fissati
[meno   che   da   direttive   non   autoapplicative],  da  direttive
positivamente  recepite,  da regolamenti comunitari (Corte cost. ord.
n. 144/1990)  e  da  sentenza  della  Corte  di Giustizia comunitaria
(Corte  Cost.,  sentenza  n. 389/1989  e  n. 113/1985),  il  pubblico
ministero  insiste  nella  domanda  di  adozione della cautela reale,
previa  «disapplicazione»  delle  nominate  norme di diritto interno,
contrastanti.
    In  via  subordinata,  il  p.m. seguendo la traccia segnata dalla
parte  motiva  dell'ordinanza  a  tenore  della quale il Tribunale di
Terni  ha  ritenuto  non  manifestamente  infondata  la  questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 1  commi 25,  26, 27, 28 e 29
della legge 15 dicembre 2004, n. 308, per violazione degli artt. 11 e
117,  comma  primo,  Costituzione,  chiede  al tribunale di sollevare
analoga questione e di rimettere gli atti alla Corte costituzionale.
    Si  vedra'  di  seguito  perche',  pur ritenendo sussistere nella
specie  le  condizioni legittimanti la «non applicazione» delle norme
di  diritto  interno contrastanti, il tribunale ritenga di non potere
addivenire, per l'intanto, a tale soluzione. Si vedra' di seguito per
quali  motivi (dissimili, in parte, da quelli proposti dal giudice di
Terni)  il  Tribunale  ritenga  essere doveroso eleggere la via della
rimessione degli atti alla Corte costituzionale.
    A  margine  si  osserva  che  il  difensore  ha  chiesto  volersi
rigettare  l'appello  proposto  dal  p.m.  per i motivi enunciati dal
giudice di prime cure.
    3.  -  Rilevanza  e non manifesta infondatezza della questione di
costituzionalita'  dell'art.  14  del convertito decreto-legge dell'8
luglio  2002,  n. 138  e dell'art. 1, commi 25, 26, 27, 28 e 29 della
legge  15  dicembre 2004, n. 308, nella parte in cui prevedono che «I
rottami  ferrosi»  siano  esclusi  dal  catalogo dei «rifiuti e dalla
disciplina  normativa  concernente  la  loro gestione, per violazione
degli articoli 11 e 117, primo comma, della Costituzione.
    3.1. - Premesse note.
    La gestione dei rifiuti trova, nell'ordinamento interno italiano,
la  sua  prima fonte di disciplina nel decreto legislativo 5 febbraio
1997,  n. 22,  emanato  in  attuazione  della legge delega 6 febbraio
1996,  n. 52  [recante  «disposizioni  per  l'adempimento di obblighi
derivanti  dall'appartenenza  dell'Italia  alle  Comunita'  europee -
legge  comunitaria  1994,  Ecologia»], con il quale si da' attuazione
alle Direttive CEE 75/442, 91/156/CEE e 94/62/CE.
    L'art.6,  n. 1,  lettera  a)  del  decreto legislativo 5 febbraio
1997,  n. 22  definisce  il concetto di «rifiuto» alla stregua di due
criteri,  come  «qualsiasi  sostanza  o  oggetto  che  rientra  nelle
categorie  di  cui  all'allegato  A  e di cui il detentore si disfi o
abbia  deciso  o  abbia  l'obbligo  di  disfarsi».  Quanto  al  primo
criterio,  quello  dell'appartenenza  all'allegato A, vale richiamare
che  esso  riprende  l'elenco  dei  rifiuti contenuto nell'allegato 1
della  Direttiva  CEE  75/442, catalogo puramente indicativo, perche'
accanto  a voci nominate, esso ha riguardo a voci in bianco che fanno
riferimento  a «qualunque [altra] sostanza o prodotto che non rientri
nelle categorie sopra elencate» (punto Q 16 del predetto elenco).
    Quanto  al  secondo criterio, attinente alle condotte relative al
«disfarsi»   occorre   richiamare  che  l'art. 14  del  decreto-legge
8 luglio 2002, n. 138 convertito dalla legge 8 agosto 2002, n. 178 ha
reso   «interpretazione   autentica»  della  definizione  di  rifiuto
contenuta   nell'art.   6,   n. 1,  lettera a)  specificando  che  le
espressioni   «disfarsi»,   «abbia  deciso»  e  «abbia  l'obbligo  di
disfarsi», vanno lette nel senso che, a che' un residuo di produzione
o   di   consumo  sia  sottratto  alla  qualifica  di  «rifiuto»,  e'
sufficiente  che  esso  sia  o possa essere riutilizzato in qualunque
ciclo  di  produzione  o  di  consumo, vuoi in assenza di trattamento
preventivo e senza recare danni all'ambiente, vuoi previo trattamento
ma senza concorso di operazioni di recupero ai sensi dell'allegato II
B della Direttiva 75/442. Un tanto al fine di escludere dalla nozione
di  rifiuto,  (a  dette condizioni) i residui di produzione o consumo
idonei  ad essere riutilizzati, ossia i cc.dd sottoprodotti dei quali
un'impresa  non  ha intenzione di disfarsi ma che intende sfruttare o
commercializzare  a  condizioni  per  lei  favorevoli  in un processo
successivo, senza operare trasformazioni preliminari.
    Tale  «interpretazione autentica» e' stata giudicata non conforme
al  diritto  comunitario  dalla  Corte  di  Giustizia delle Comunita'
europee,  che,  pronunciando con sentenza C/457 dell'11 novembre 2004
sull'interpretazione  della  direttiva 75/442/CEE, ai sensi dell'art.
234  Trattato  CE (in un caso originato dal sequestro di un carico di
materiali   ferrosi),   ha   stabilito   un   principio   di  diritto
incompatibile con la possibilita' di applicazione del citato art. 14,
legge n. 178/2002.
    Secondo   la  Corte  di  Giustizia,  i  termini  delle  sollevate
questioni   pregiudiziali   devono  essere  interpretati  in  termini
coerenti  con  la  ratio  di tutela delle nominate direttive europee.
Puo'  anche  ammettersi  che  un  residuo  di produzione possa essere
considerato  sottoprodotto  di  cui  l'impresa  non  ha intenzione di
disfarsi,  spiega  la  Corte:  e  pero'  alla  condizione  che il suo
riutilizzo  sia non solo eventuale, ma certo; e che avvenga nel corso
del processo di produzione (punto 45).
    L'«interpretazione autentica» dettata dall'art. 14 del convertito
decreto-legge  8 luglio  2002,  n. 138, spiega la Corte, sottrae alla
qualifica  di  «rifiuto»  residui  di  produzione  o  di  consumo che
corrispondono alla definizione sancita dall'art. 1, lettera a), primo
comma, della direttiva 75/442.
    Osserva la Corte di Giustizia:
        [...]  [50].  Orbene, secondo l'interpretazione risultante da
una  disposizione  quale  l'art. 14  del  decreto-legge  n. 138/2002,
affinche'  un  residuo  di produzione o di consumo sia sottratto alla
qualifica  come  rifiuto  sarebbe  sufficiente  che  esso sia o possa
essere  riutilizzato  in  qualunque ciclo di produzione o di consumo,
vuoi  in  assenza  di  trattamento  preventivo e senza arrecare danni
all'ambiente,  vuoi  previo trattamento ma senza che occorra tuttavia
un'operazione di recupero ai sensi dell'allegato II B della direttiva
75/442.
        [51]  Un'interpretazione del genere si risolve manifestamente
nel  sottrarre alla qualifica come rifiuto residui di produzione o di
consumo   che   invece   corrispondono   alla   definizione   sancita
dall'art. 1, lettera a), primo comma, della direttiva 75/442.
        [52]   In   proposito,  materiali  come  quelli  oggetto  del
procedimento  principale  non  sono  riutilizzati  in maniera certa e
senza  previa  trasformazione  nel  corso  di un medesimo processo di
produzione  o di utilizzazione, ma sono sostanze o materiali di cui i
detentori si sono disfatti. Stando alle spiegazioni del sig. Niselli,
i  materiali  in  discussione sono stati successivamente sottoposti a
cernita  ed  eventualmente  a taluni trattamenti, e costituiscono una
materia  prima  secondaria  destinata  alla  siderurgia.  In  un tale
contesto  essi  devono  tuttavia  conservare  la qualifica di rifiuti
finche'  non  siano effettivamente riciclati in prodotti siderurgici,
finche'  cioe'  non  costituiscano  i prodotti finiti del processo di
trasformazione  cui  sono  destinati. Nelle fasi precedenti, essi non
possono  ancora,  infatti,  essere  considerati  riciclati poiche' il
detto  processo  di trasformazione non e' terminato. Viceversa, fatto
salvo  il  caso  in  cui  i  prodotti  ottenuti  siano  a  loro volta
abbandonati,  il  momento  in cui i materiali in questione perdono la
qualifica  di  rifiuto  non  puo'  che  essere  fissato ad uno stadio
industriale  o  commerciale  successivo  alla  loro trasformazione in
prodotti  siderurgici  poiche',  a  partire da tale momento, essi non
possono  piu' essere distinti da altri prodotti siderurgici scaturiti
da materie prime primarie (v., per il caso particolare dei rifiuti di
imballaggio  riciclati, sentenza 19 giugno 2003, causa C444/00, Mayer
Parry Recycling, Racc. pag. 16163, punti 6175).
        [53]  La  seconda  questione  deve  essere  pertanto  risolta
dichiarando  che  la nozione di rifiuto ai sensi dell'art. 1, lettera
a),  primo comma, della direttiva 75/442 non deve essere interpretata
nel senso che essa escluderebbe l'insieme dei residui di produzione o
di  consumo  che  possono  essere  o sono riutilizzati in un ciclo di
produzione  o di consumo, vuoi in assenza di trattamento preventivo e
senza  arrecare  danni all'ambiente, vuoi previo trattamento ma senza
che occorra tuttavia un'operazione di recupero ai sensi dell'allegato
II B di tale direttiva.». [...].
    Conclude la Corte di Giustizia nel senso che:
    «1)  La definizione di rifiuto contenuta nell'art. 1, lettera a),
primo   comma,   della   direttiva   del  Consiglio  15 luglio  1975,
75/442/CEE,  relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del
Consiglio   18 marzo   1991,   91/156/CEE  e  dalla  decisione  della
Commissione 24 maggio  1996,  96/350/CE, non puo' essere interpretata
nel  senso  che  essa ricomprenderebbe tassativamente le sostanze o i
materiali  destinati  o  soggetti alle operazioni di smaltimento o di
recupero menzionati negli allegati II A e II B della detta direttiva,
oppure  in elenchi equivalenti, o il cui detentore abbia l'intenzione
o l'obbligo di destinarli a sifatte operazioni.
    2) La  nozione di rifiuto ai sensi dell'art. 1, lettera a), primo
comma,  della direttiva 75/442 come modificata dalla direttiva 91/156
e  dalla decisione 96/350, non deve essere interpretata nel senso che
essa  escluderebbe  l'insieme  dei residui di produzione o di consumo
che  possono essere o sono riutilizzati in un ciclo di produzione odi
consumo,  vuoi  in assenza di trattamento preventivo e senza arrecare
danni  all'ambiente,  vuoi  previo  trattamento  ma senza che occorra
tuttavia  un'operazione  di  recupero  ai sensi dell'allegato II B di
tale direttiva.»
    Si  osserva,  a  margine,  che  la condizione in cui si trovano i
rottami  ferrosi  di  cui  e' stato negato il sequestro e esattamente
quella  sopra  detta:  di  materiali  che, pure potendo avere qualche
valore  economico,  stando  al  principio  enunciato  dalla  Corte di
Giustizia comunitaria, devono conservare qualificazione di «rifiuto»,
giacche'  risultano  essere  oggetto  di  dismissione  da parte degli
originari  produttori  e  di  conferimento ad utilizzatori altri, con
destinazione  al  reimpiego in processo produttivo altro da quello di
derivazione.
    Stando  al  principio  enunciato  dalla Corte di Giustizia, detti
rottami  devono  conservare  la  qualificazione di «rifiuto», fino al
momento di avvenuto riutilizzo in prodotti siderurgici.
    3.2.  -  Puo'  il giudice nazionale disapplicare la norma interna
contrastante,  qualora  da  tale  atto siano suscettibili di derivare
(comunque) effetti penali «in malam partem».
    Il  tribunale  versa in una situazione di primo impasse, perche',
mentre  la  sentenza della Corte di Giustizia orienta nel senso della
necessaria   «disapplicazione»   della   norma   di  diritto  interno
contrastante,  la  legge  15 dicembre 2004, n. 308 [art. 1, commi 25,
26,  27,  28  e  29],  successiva  alla  pubblicazione della sentenza
suddetta,  ripropone  la  qualificazione  disdetta,  tal quale. Nella
Gazzetta  Ufficiale  del 27 dicembre 2004 e' stata infatti pubblicata
la  legge  15 dicembre  2004, n. 308 (vige dall'11 gennaio 2005) che,
oltre  a rendere «delega al Governo per il riordino, il coordinamento
e   l'integrazione   della   legislazione   in  materia  ambientale»,
prevedendo   misure   di  immediata  e  diretta  applicazione,  detta
modifiche   del   decreto   legislativo   5   febbraio  1997,  n. 22,
intercalando  un «q-bis» nel testo dell' art. 6, comma 1. I commi 25,
26,  27,  28 e 29 dell'art. 1 recano nuove disposizioni in materia di
rottami  ferrosi  (e  non).  Viene cosi' introdotta la definizione di
«materia    prima    secondaria    per   attivita'   siderurgiche   e
metallurgiche», tali i rottami, derivanti da operazioni di recupero e
rispondenti  a  specifiche  CECA,  AISI,  CAEF,  UNI, EURO o ad altre
specifiche  nazionali  e  internazionali, nonche' i rottami scarti di
lavorazioni   industriali   o  artigianali  o  provenienti  da  cicli
produttivi  o  di  consumo,  esclusa  la  raccolta differenziata, che
possiedono  in  origine  le  medesime caratteristiche riportate nelle
specifiche sopra merizionate».
    Risulta  essere  evidente  che,  in  luogo  di  adeguare  il dato
normativo interno, la legge 15 dicembre 2004, n. 308, successiva alla
sentenza  della  Corte  di Giustizia C-457 11 novembre 2004, mantiene
perentoriamente  «fermo»  il  disposto  dell'art. 14  del  convertito
decreto-legge  8 luglio  2002, n. 138 (art. 1, comma 26.) finendo per
disciplinare  la  vicenda della circolazione dei materiali ferrosi in
termini  ancora una volta incompatibili con l'ordinamento comunitario
[art. 1, comma 25, 26, 27, 28 e 29].
    Viene  dunque in rilievo contrasto tra la sentenza dalla Corte di
Giustizia  delle  Comunita'  europee (interpretazione della direttiva
75/442/CEE)  e  l'art.  1, commi 25, 26, 27, 28 e 29 dalla successiva
legge delega per l'ambiente 15 dicembre 2004, n. 308.
    Per  quel  che in questa sede interessa, si osserva che mentre la
sentenza  allerma  che  i  rottami  metallici  devono  conservare  la
qualifica  di  «rifiuti»  finche' non risultino essere effettivamente
riciclati   in   prodotti   siderurgici,   e,  percio',  finche'  non
costituiscano  i  prodotti  finiti del processo di trasformazione cui
sono  destinati,  la  legge italiana successiva afferma il contrario,
la'  dove  pone  che  tali  rottami  sono  sottoposti al regime delle
materie  prime  (non  a  quello  dei  rifiuti)  se  rispondenti  alla
definizione   (introdotta  dalla  nominate  disposizioni  di  diritto
interno,  contrastanti)  di  materia  prima  secondaria per attivita'
siderurgiche  e  metallurgiche, purche' abbiano certe caratteristiche
merceologiche  e  siano  destinati  in modo oggettivo ed effettivo al
reimpiego nei richiamati cicli produttivi.
    Ed  e' palese che con le nominate disposizioni di legge il nostro
Paese  si sia sottratto agli obblighi derivanti dall'appartenenza sua
all'Unione  europea  obblighi  sanciti dall'art. 249 del Trattato CE,
spettando  agli  Stati  membri di adottare ogni misura necessaria per
conformarsi alle direttive, vincolanti; obblighi sanciti dall'art. 10
del medesimo Trattato, gravanti non solo sulle autorita' cui spettano
il  potere  legislativo  e quello regolamentare, ma anche sul giudice
nazionale,  che,  stando  il  primato  e la capacita' di penetrazione
nell'ordinamento  interno  del diritto comunitario e' (anche) giudice
comunitario;  obblighi  sanciti  dall'art. 234 del medesimo Trattato,
che,  attraverso  il  ricorso in via pregiudiziale, realizza forme di
necessaria  cooperazione  tra giudici nazionali e Corte di Giustizia,
garante dell'interpretazione uniforme del diritto comunitario.
    Tanto premesso, osserva il Tribunale che, nella materia de qua la
Corte  di  Giustizia  comunitaria ha gia' fornito al giudice italiano
tutti   gli   elementi   interpretativi  necessari  per  dirimere  il
contrasto.
    La  proposizione chiave dell'appello proposto dal p.m. avverso il
diniego  del  g.i.p.  risulta  essere  fondato:  il  contrasto tra la
sentenza  della  Corte  di  Giustizia  comunitaria e la norme interne
(anteriori  e  successive  alla  statuizione  della stessa), potrebbe
dirsi  risolto,  in  quanto, adeguandosi all'insegnamento della Corte
costituzionale,  funzionari e giudici italiani devono «non applicare»
le  disposizioni  tutte  che  qualificano  i  rottami  metallici come
materie   prime   secondarie:   non  solo  perche'  contrastanti  con
l'interpretazione   di   «rifiuto»  dichiarata  conforme  al  diritto
comunitario  dalla  Corte di Giustizia, ma anche perche' contrastanti
con   il   regolamento   CEE   n. 259/1993   relativo  ai  «trasporti
transfrontalieri di rifiuti», fonte normativa obbligatoria in tutti i
suoi  elementi  costitutivi  e immediatamente applicabile in ciascuno
degli  Stati  membri,  che,  espressamente richiama la definizione di
matrice  comunitaria, disattesa, come si e' detto, tanto dall'art. 14
del  convertito  decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138, che dalla legge
15 dicembre 2004, n. 308 [art. 1, commi 25, 26, 27, 28 e 29].
    E,  pertanto,  ribadita  la necessita' di applicazione immediata,
diretta  e  prevalente, nell'ordinamento interno dei principi fissati
[meno  che  da direttive non autoapplicative, quale quella oggetto di
interpretazione  da  parte  della  nominata  sentenza  della Corte di
Giustizia comunitaria] dai Regolamenti comunitari (cosi' Corte cost.,
ord.  144/1990) e dalle sentenze della Corte di Giustizia comunitaria
(cosi'  Corte  cost., sentenza n. 389/1989 e n. 113/1985), ancora una
volta  richiamato  che giusta sentenza C-457 di data 11 novembre 2004
il  principio di diritto comunitario risulta essere incontrovertibile
e  che  le  nominate  disposizioni di legge risultano essere con esso
incompatibili  [art. 14  del  convertito decreto-legge 8 luglio 2002,
n. 138  e  art. 1  commi 25,  26, 27, 28 e 29 legge 15 dicembre 2004,
n. 308],  il  tribunale ritiene sussistere nel caso sottoposto al suo
esame  condizioni  vincolanti  nel  senso della disapplicazione delle
norme  di  diritto  interno  in contrasto (tanto, seguendo la traccia
segnata   dalla   Corte   costituzionale  a  partire  dalla  sentenza
n. 170/1984).
    Sennonche'    pure    occorre    richiamare   che   nel   rendere
giustificazione  della  primazia  del diritto comunitario sul diritto
interno,  attraverso l'interpretazione del testo vigente dell'art. 11
Costituzione,  la Corte costituzionale, a partire dalla nota sentenza
n. 170/1984, descrive l'ordine dei rapporti esistenti tra ordinamento
comunitario  e  ordinamento  costituzionale  italiano  alla  luce del
principio  di  competenza,  pensando  a «sistemi autonomi e distinti,
ancorche' coordinati».
    Come noto e' la stessa Corte costituzionale a individuare i punti
nodali di tale relazione:
        1) nella disapplicazione del diritto interno contrastante col
diritto  comunitario, da operarsi direttamente dal giudice ordinario,
senza    necessita'    di    sollevare    apposita    questione    di
costituzionalita';
        2)  nella  competenza  pregiudiziale  riservata alla Corte di
Giustizia   comunitaria  sull'interpretazione  (e  sul  controllo  di
legittimita) del diritto comunitario;
        3)  nella  competenza  riservata  a  se' del controllo ultimo
sulla  produzione  normativa  comunitaria,  qualora urtasse «principi
fondamentali  del  nostro  ordinamento  costituzionale»  o  rivelasse
deficit  nella  protezione  dei «diritti inalienabili della persona»,
l'un  insieme  e l'altro ritenuti imprescindibili, sicche' in caso di
contrasto  sara' detta norma comunitaria ad essere disapplicata dalla
Corte costituzionale.
    Quanto  al  rapporto tra dritto penale e ordinamento comunitario,
occorre  richiamare  che  il  punto  fermo  da  preporre  al discorso
interpretativo    risulta    essere    costituito   dalla   specifica
«incompetenza»  penale  degli  organi  dell'Unione  europea  e  della
Comunita'   europea.   Nella   prospettiva  costituzionale  italiana,
l'improbabile  esercizio  della  competenza  penale da parte della CE
urterebbe  la  riserva  di legge sancita dall'art. 25, comma 2, della
Costituzione,  come  «principio  fondamentale  del nostro ordinamento
costituzionale».
    Il  principio  di  competenza  esclusiva  degli  Stati  membri in
materia penale e' del resto pacificamente riconosciuto dalla Corte di
Giustizia  come  limite  imposto  alla norma di fonte comunitaria. La
Corte  di  Giustizia  non  assume  posizioni  agnostiche  sul  punto:
riconosciuto  al  principio  di  legalita'  penale rango di principio
generale  dell'azione  comunitaria,  tale enunciazione fonda non solo
con  occhi  rivolti  alla tradizione costituzionale comune agli Stati
membri,  ma  guardando immediatamente e direttamente all'art. 7 della
Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo, i cui principi
costituiscono  principi  generali  del  diritto  comunitario, a norma
dell'art. 6 del T.U.E.
    Puntuazione chiara di tali acquisizioni risulta essere costituita
dalla sentenza 8 ottobre 1987, causa n. 80/1986, Kolpinghuis Nijmegen
Bv,   la'   dove,   ribadita   la  vincolativita'  del  principio  di
interpretazione  conforme, la Corte di Giustizia spiega che l'obbligo
di  riferirsi  al  contenuto  della direttiva nell'interpretare norme
incriminatici  di  diritto  interno  incontra  il  limite  dei «[...]
principi giuridici generali che fanno parte del diritto comunitario e
in   particolare   quelli   della   certezza   del  diritto  e  della
irretroattivita»;  principi  che  impediscono  di riconoscere che una
direttiva «[...] di per se' ed indipendentemente da una legge emanata
per   la   sua   attuazione»   possa   determinare   o  aggravare  la
responsabilita' penale di coloro che agiscono in violazione delle sue
disposizioni.
    Puntuazione   ulteriore   di  tali  acquisizioni  risulta  essere
costituita dalla sentenza 26 settembre 1996, causa C168/1995, Arcaro,
la'  dove  ancora  una  volta  la  Corte  di  Giustizia, evidenzia il
significato  del  principio  di legalita' penale nella dimensione del
diritto   comunitario,   come   limite   proprio   del   vincolo   di
interpretazione conforme.
    L'ordine    del   discorso   non   muta   qualora   obblighi   di
interpretazione  conforme  del  diritto interno derivino, meno che da
una  direttiva,  derivino da fonte provvista di piu' sicura capacita'
di  penetrazione  nell'ordinamento  interno,  quale  il  regolamento,
immediatamente  e direttamente applicabile senza necessita' di misure
di  attuazione  (sentenza  7 gennaio  2004,  causa  60/2002,  Montres
Rolex).
    In  definitiva.  ancorche' la Corte di Giustiza comunitaria abbia
offerto  al  giudice  nazionale  tutti  gli  elementi  interpretativi
necessari  per dirimere l'antinomia, sussistendo nel caso concreto le
condizioni   legittimanti   la   «disapplicazione»  dell'art. 14  del
convertito  decreto-legge  8 luglio  2002,  n. 138 e dell'art.1 commi
25-29  della  legge  15 dicembre 2004, n. 308, il tribunale dubita di
potere  considerare  (sia  pure incidentalmente) tamquam non esset la
norma   di  diritto  interno  contrastante,  giacche'  da  tale  atto
deriverebbero nei confronti dell'indagato Lorenzato effetti penali in
malam partem.
    Sul  tribunale  gravano,  insieme,  l'obbligo  di interpretazione
conforme  al  diritto comunitario (secondo cui le autorita' nazionali
tutte   devono  adottare  tutti  i  provvedimenti  atti  a  garantire
Iadempimento  dei  precetti  comunitari  come individuati e precisati
attraverso   una   specifica   pronuncia  della  Corte  di  Giustizia
comunitaria)  e  obblighi  di  interpretazione  conforme  al  dettato
costituzionale, giacche' un intervento sulla cornice della tipicita',
sia  pure  di  portata  endoprocedimentale, tramite «disapplicazione»
della  norma di diritto interno incompatibile, urterebbe il principio
di riserva di legge sancita dall'art. 25 comma 2 della Costituzione.
    Il  tribunale  dubita che il giudice nazionale possa disanplicare
la   norma   interna   contrastante,   qualora  da  tale  atto  siano
suscettibili di derivare (comunque) effetti penali, in malam partem.
    3.4. - Rivelanza e non manifesta infondatezza della questione per
violazione degli articoli 11 e 117 primo comma, Costituzione.
    Si  potrebbe  pensare, a questo punto, che il diritto comunitario
non  disponga  di  strumenti  giuridici idonei ad azionare anche solo
mediatamente  i  suoi  vincoli  di  tutela  e/o a influire anche solo
mediatamente  sulla  cornice  della tipicita' penale, proprio a causa
della  unanimemente  riconosciuta  «incompetenza» penale degli organi
dell'Unione europea e della Comunita' europea.
    E  pero',  quanto  alla  struttura  della descritta antinomia, il
tribunale   osserva   che   essa   non  corrisponde  affatto  ad  una
inattuazione originaria (totale o parziale) dell'obbligo di tutela da
parte   del  legislatore  nazionale;  e  neppure  ad  una  attuazione
inadeguata  o  non proporzionata; ma ad una modificazione della norma
interna   preesistente,   che   [stando  a  quanto  specificamente  e
incontrovertibilmente  accertato  dalla  Corte di Giustizia] obblighi
[di  tutela]  derivanti  dall'appartenenza dell'Italia alle Comunita'
europee andava espressamente attuando.
    Si vuole significare che il possibile vizio di legittimita' della
norma   interna   modificatrice   deriva   [meno  che  dalla  mancata
attuazione]  dalla  revoca  di  una tutela gia' accordata, che, prima
facie   non   sembra   essere   rispettosa   dei   vincoli  derivanti
dall'ordinamento comunitario.
    Il  tribunale  si  interroga:  stante la «prevalenza» del diritto
comunitario   sul  diritto  interno,  stante  l'immediata  e  diretta
applicabilita'  in  ambito  interno  delle  decisioni  della Corte di
Giustizia  comunitaria  (Corte Cost. n. 113/1985; Corte Cost. n 232 e
n. 389/1989),  stante  la  capacita' di penetrazione nell'ordinamento
interno  del  regolamento  CEE  n. 259/1993  relativo  ai  «trasporti
transfrontalieri  di  rifiuti»  (in quanto regolamento CEE), davvero,
nessuna capacita' di «resistenza» puo' essere riconosciuta alle norme
(penali o non, poco conta) attuative di obblighi derivanti da vincoli
di natura comunitaria gia' adempiuti?
    E,  comunque:  e'  costituzionalmente  plausibile che la potesta'
legislativa sia esercitata dallo Stato per sottrarsi a detti vincoli?
    Definitivamente  chiarita dalla Corte di Giustizia l'antinomia di
cui  si  e'  detto  (mediante  sentenza  C457 dell'11 novembre 2004),
seriamente  dubitando  questo  giudice  di potere risolvere da se' il
conflitto  normativo  esistente  (sia  pure  incidentalmente, tramite
«disapplicazione»,  giacche'  da  tale  atto deriverebbero effetti in
malam  partem)  il tribunale ritiene di dovere sollevare questione di
legittimita'   costituzionale,   impugnando   la   norma   interna  -
«abrogratrice»  di  qualsivoglia  di  forma  tutela (nella materia de
qua),  norma interferente, per un verso, con l'ambito di applicazione
della recepita Direttiva CEE 75/442, e, per altro verso, con l'ambito
di   applicazione   del   regolamento  CEE  n. 259/1993  relativo  ai
«trasporti  transfrontalieri  di rifiuti» per violazione dell'art. 11
della Costituzione.
    Il   tribunale   non   ignora  del  tutto  che,  giusta  costante
giurisprudenza  della  Corte  costituzionale,  il contrasto tra norme
interne  e norme comunitarie non da' ordinariamente luogo a questioni
di  legittimita'  costituzionale,  per  il  motivo  che nelle materie
riservate  alla  competenza comunitaria le norme interne contrastanti
non  sono  applicabili.  E  pero', considerato che l'antinomia emerge
dalla  modificazione  di  una  norma  interna che l'obbligo di tutela
derivante   dall'ordinamento   comunitario   andava   gia'  attuando,
considerato   che   l'antinomia  assume  come  termine  di  relazione
immediato   e   diretto   una   sentenza  della  Corte  di  Giustizia
comunitaria, e, inoltre, un regolamento CEE, nondimeno ritiene che il
controllo  di costituzionalita' sull'atto legislativo di revoca della
tutela possa dirsi plausibile.
    Anche  considerato che, sui limiti «costituzionali» pertinenti ai
riflessi in malam [in materia penale] dell'obbligo di interpretazione
conforme,  non  pare che la Corte costituzionale si sia espressamente
pronunciata  (e  che  una sua parola sul tema davvero potrebbe essere
preziosa).
    Sennonche',  sotto  altro  distinto  profilo, rileva che il nuovo
testo  dell'art. 117  della  Costituzione,  introdotto  dalla recente
legge  costituzionale  18 ottobre  2001  n.3,  recante  «Modifiche al
Titolo V della parte seconda della Costituzione», qualcosa di inedito
parrebbe  potere  significare  la'  dove, al primo comma, pone che la
potesta'  legislativa e' esercitata dallo Stato [e dalle regioni] nel
rispetto   della   Costituzione,   nonche'   dei   vincoli  derivanti
dall'ordinamento comunitario [e dagli obblighi internazionali].
    Non  e'  dunque  pensabile  che gli obblighi comunitari di tutela
trovino  segno di riconoscimento, oltre che nell'art. 11 Costituzione
(sulla  base  dell'interpretazione  del  quale risultano essere stati
fondati),   anche   nel   nuovo   testo   dell'art. 117  comma  primo
Costituzione?
    Rimane ovviamente fermo che, appartenendo il principio di riserva
di  legge in materia penale (25 comma 2 Costituzione) al catalogo dei
«principi   fondamentali   del   nostro  ordinamento»,  gli  obblighi
comunitari  di  tutela  in  nessun  modo  potrebbero  condizionare il
legislatore  penale,  la  cui  potesta' nell'esercizio della funzione
incriminatrice rimane (deve rimanere) impregiudicata. E pero nel caso
in  esame,  ancora  una  volta  osserva  il tribunale, non vengono in
considerazione  problemi  di «adeguatezza» e/o di «razionalita» della
tutela  esatta  da  fonte  comunitaria;  e,  neppure,  a bene vedere,
vengono  in  rilievo  questioni  attinenti all'«an» della tutela, sub
specie di «inattuazione originaria» dell'obbligo. Giacche' si tratta,
diversamente,  di revoca legislativa di una tutela gia' accordata (si
tratta  di  transizione  dalla  previsione  di  una  qualche forma di
reazione ordinamentale interna, doverosa, a nessuna reazione).
    Percio'  il  tribunale  ritiene  di dovere sollevare questione di
legittimita' costituzionale, impugnando la norma interna «abrogativa»
della  tutela  anteriormente  apprestata,  in  ottemperanza a vincoli
derivanti  dall'ordinamento comunitario, per violazione dell'art. 117
della  Costituzione  che,  al suo primo comma, quei i vincoli pone la
necesita' di rispettare.
    In  questa  prospettiva  sembra  essere  rilevante  che  nel caso
particolare  [interferendo  con  l'ambito  di applicazione della gia'
recepita  Direttiva  CEE  75/442,  stante l'antinomia accertata dalla
Corte di Giustizia comunitaria con la sentenza suddetta, interferendo
con l'ambito di applicazione del regolamento CEE n. 259/1993 relativo
ai  «trasporti transfrontalieri di rifiuti»] il legislatore nazionale
abbia  «revocato»  ogni  tutela, comunitariamente necessaria (essendo
incidentale    il    fatto   che,   rispettando   vincoli   derivanti
dall'ordinamento  comunitario,  egli  avesse  anteriormente  ritenuto
necessario  approntare tutela «penale», giacche', come noto, obblighi
comunitari  e/o  costituzionali  di  tutela  «penale»  non sono punto
configurabili).
    In nessun modo il tribunale considera plausibile che le modifiche
apportate  dalla  legge  costituzionale  n. 3/2001  al titolo V della
parte seconda della Costituzione possano indurre la Corte ad assumere
il  controllo  di  legittimita'  di leggi confliggenti con il diritto
comunitario, in quanto tali.
    Tanto  piu' che, stabilendo garanzie costituzionali di attuazione
di  obblighi  [internazionali e] comunitari e ponendo a priori limiti
concernenti  l'esercizio della potesta' legislativa, l'art. 117 primo
comma  Costituzione non attiene alle modalita' di attuazione di detti
obblighi  nell'ordinamento  interno.  Sicche'  il  Tribunale  e' bene
consapevole  che la riforma dell'art. 117 risulta essere coerente con
gli  orientamenti  consolidati  della  giurisprudenza  costituzionale
italiana,  che hanno riguardo, piuttosto, alla necessita' (imposta al
giudice  ordinario  dall'ordinamento  interno)  di disapplicare leggi
confliggenti con il diritto comunitario.
    E  pero', osserva il tribunale, che seppure e' impensabile che la
legge  di  riforma  costituzionale  n. 3/2001  intendesse  mettere in
discussione   gli  esiti  di  tanto  significativa  evoluzione  della
giurisprudenza   costituzionale,  seppure  e'  impensabile  che  essa
intendesse  mutare  assetto  dei  rapporti fra ordinamento interno ed
ordinamento  comunitario,  pure  e'  innegabile  che  il  nuovo testo
dell'art. 117   primo   comma   Costituzione   appresta  garanzie  di
osservanza   di   vincoli   derivanti   dall'ordinamento  comunitario
attraverso  la  previsione  di  un limite esterno all'esercizio della
potesta' legislativa.
    Una volta liberamente eletta la via della attuazione dell'obbligo
comunitario  di  tutela,  puo' il legislatore ordinario revocare tout
court la tutela gia' apprestata?
    In  ordine  alla  rilevanza della questione, osserva il tribunale
che gli esiti dell'appello promosso dalla Procura della Repubblica ai
sensi  dell'art.322-bis c.p.p. dipendono essenzialmente dal come essa
possa  essere  preventivamente  risolta, trattandosi di pregiudiziale
condizionante  altresi'  la  decisione  finale del processo: la norma
ordinaria  (di diritto interno) di cui si sospetta la non conformita'
a  Costituzione  risulta  essere  di  indispensabile applicazione per
giudicare  sul  caso  concreto,  essendo  dato procedere per presunta
violazione  degli obblighi, penalmente sanzionati, relativi a rottami
metallici  considerati  «rifiuti»,  peraltro  oggetto  di «spedizione
transfrontaliera», in quanto, come evidenziato in modo corretto dalla
difesa,  superato  il problema di tale qualificazione, giusta diritto
sopravvenuto  alla  sentenza  della  Corte di Gustizia comunitaria (e
alla  cogenza  di detto regolamento CEE), l'ipotesi contravvenzionale
di  riferimento,  costituente  titolo  della domanda di cautela reale
respinta dal giudice di prime cure, non sarebbe punto configurabile.
    Taluno  potrebbe  opinare che, rimettendo gli atti alla Corte, il
tribunale  auspica  pronunce suscettibili di dar luogo a modifiche in
peius del trattamento penale. Se tale rilievo fosse fondato (e non lo
e) la questione sarebbe, certo, manifestamente inammissibile, ostando
il  comma  secondo  dell'art. 25  Costituzione,  la'  dove e' noto al
rimettente  che  la  Corte  costituzionale non puo' introdurre in via
additiva  nuovi  reati;  e  dove  pure  e'  noto che l'effetto di una
sentenza della Corte costituzionale non puo' consistere nell'ampliare
o  aggravare  figure di reato gia' esistenti: trattandosi, questi, di
interventi  riservati  in  via  esclusiva  alla  discrezionalita' del
legislatore.
    Parrebbero    essere   pero'   suscettibili   di   sindacato   di
costituzionalita',  anche  in  malam  partem,  disposizioni  di legge
aventi chiara connotazione «di favore»: e dunque, norme, quali quelle
in esame, che per determinati soggetti o per determinate categorie di
beni,  stabiliscano  un trattamento penalistico favorevole rispetto a
quello  che  deriverebbe dall'applicazione di norme generali o comuni
(ex plurimis, sentenze 148/1983; 25/1994; 167/1993; 194/1993).
    In proposito osserva il rimettente che, se il criterio distintivo
in  base al quale valutare il rispetto della riserva di legge risiede
nel  fatto  che,  sempre  e comunque, la funzione incriminatrice deve
essere  riservata  al  Parlamento,  nel caso particolare, meno che la
prerogativa  di creazione della norma penale da parte del legislatore
(gia'  esercitata),  risulta  essere  in  discussione  un suo «limite
esterno».
    Ne',  come  accennato,  la Corte costituzionale viene sollecitata
dal  tribunale  ad  esprimere  giudizi in termini di adeguatezza o di
proporzionalita' o di razionalita' della tutela.
    Sicche',   l'eventuale  ablazione  della  norma  «di  favore»  si
limiterebbe  a  ricondurre  la  fattispecie  (oggetto  di trattamento
derogatorio)  alla norma generale, preesistente, dettata dallo stesso
legislatore.
    Sulla  base di questi presupposti il giudice rimettente evidenzia
che  da una pronuncia della Corte costituzionale che eliminasse dalla
scena   la   norma  impugnata  non  deriverebbe  fumus  di  creazione
legislativa in malam partem: la Corte assumerebbe unicamente il ruolo
di  garante  del  rispetto  di  un «limite esterno», stando il quale,
attesa la necessita' costituzionalmente imposta di rispettare vincoli
derivanti  dall'ordinamento  comunitario, nelle materie ripartite, il
legislatore   non   puo'  perentoriamente  revocare  la  tutela  gia'
accordata  [irrilevante  essendo  il  fatto  che  si tratti di tutela
penale  o  di  altra  tutela,  giacche',  pure  si  e'  detto che il,
tribunale  non  pensa affatto che l'art. 117 comma primo Costituzione
produca  l'effetto  di  costituzionalizzare  vincoli  di razionalita'
della tutela richiesta da fonte comunitaria].
    La  fattispecie  penale  (pre)esiste. Ne' si chiede alla Corte di
estendere o comunque intervenire sul suo ambito di operativita', ogni
valutazione  di  meritevolezza  e/o necessita' della pena restando di
esclusivo  dominio  del  legislatore nazionale: che tutto puo', salvo
revocare  tout court la tutela gia' accordata, sottraendosi a vincoli
immediatamente e direttamente derivanti dall'ordinamento comunitario.
                              P. Q. M.
    Visti gli articoli 134 costituzione 23 legge 11 marzo 1953 n. 87;
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita' costituzionale dell'art. 14 del convertito decreto-legge
8  luglio  2002  n. 138 e dell'art. 1 commi 25, 26, 27, 28 e 29 della
legge  15  dicembre  2004  n. 308, nella parte in cui prevedono che i
«rottami   ferrosi»   siano   esclusi   dalla   disciplina  normativa
concernente  la gestione dei «rifiuti», per violazione degli articoli
11 e 117 primo comma costituzione;
    Dispone  la  trasmissione  degli atti del procedimento alla Corte
costituzionale e sospende il giudizio in corso;
    Dispone  altresi'  che,  a  cura  della  cancelleria, la presente
ordinanza  sia  notificata  alla parte privata in causa, al difensore
suo, al pubblico ministero, al Presidente del Consiglio dei ministri,
[con  successiva trasmissione delle prove dell'avvenuta notificazione
alla corte adita].
    Dispone  altresi'  che,  a  cura  della  cancelleria, la presente
ordinanza sia comunicata al Presidente della Camera dei deputati e al
Presidente del Senato della Repubblica.
        Venezia, addi' 8 marzo 2005
                  Il presidente estensore: Liguori
05C0531