N. 22 RICORSO PER CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE 1 giugno 2005
Ricorso per conflitto tra poteri dello Stato, depositato in cancelleria 1° giugno 2005 (della Camera dei deputati) Parlamento - Mandato parlamentare - Adempimento da parte dell'on. Cesare Previti, sottoposto a procedimento penale - Partecipazione ai lavori parlamentari - Valore di legittimo impedimento a comparire nelle udienze penali fissate in concomitanza con essi - Diniego da parte del Tribunale di Milano, prima sezione penale, con provvedimenti in cui si afferma che l'impedimento non opera, non consistendo i lavori parlamentari di cui si tratta in votazioni, che lo stesso non e' stato provato o che comunque il suo mancato riconoscimento e' rimasto «innocuo» - Conseguente rigetto delle eccezioni difensive in ordine alla nullita' degli atti processuali compiuti in tali udienze nonche' del decreto che dispone il giudizio - Conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dalla Camera dei deputati - Denunciata lesione dell'autonomia e funzionalita' delle Camere - Incidenza sull'esercizio della funzione legislativa e di quella di indirizzo politico - Compromissione del libero esercizio del mandato parlamentare - Inadeguata ponderazione del contemperamento tra esigenze del processo ed esigenze del mandato parlamentare - Violazione del principio di ragionevolezza - Contrasto con il principio di leale collaborazione tra poteri dello Stato - Violazione del giudicato costituzionale - Richiamo alla sentenza n. 225/2001 della Corte costituzionale. - Ordinanze del Tribunale di Milano, prima sezione penale, 5 giugno 2000 e 1° ottobre 2001; sentenza del Tribunale di Milano, prima sezione penale, 22 novembre 2003, n. 11069. - Costituzione, artt. 3, 55, 64, 67, 68, 70, 72, 94, 134, comma secondo, e 137, comma terzo.(GU n.24 del 15-6-2005 )
Ricorso della Camera dei deputati, in persona del Presidente on. Pier Ferdinando Casini, come da deliberazioni dell'Ufficio di Presidenza n. 199 in data 30 settembre 2004 e dell'Assemblea della Camera dei deputati in data 4 ottobre 2004, rappresentato e difeso, in virtu' di procura ad litem per notar Francesco Colistra, in Roma, rep. n. 100.637 del 28 dicembre 2004, dall'avv. prof. Roberto Nania, ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in Roma, via Carlo Poma n. 2. Contro il Tribunale di Milano, Sezione I penale, in ragione e per l'annullamento dell'ordinanza emessa dal Tribunale di Milano, Sez. I penale, in data 5 giugno 2000, nell'ambito del procedimento penale R.G. 879/00 nei confronti del deputato Cesare Previti, con la quale sono state respinte le eccezioni relative al dedotto impegno parlamentare dell'imputato concomitante con l'udienza del 20 settembre 1999, ed e' stato altresi' disposto doversi procedere oltre nel dibattimento; dell'ordinanza emessa dal Tribunale di Milano, Sez. I penale, in data 1° ottobre 2001, nell'ambito del medesimo procedimento penale R.G. 879/00 nei confronti del deputato Cesare Previti, con la quale, relativamente allo stesso impedimento, sono state respinte le eccezioni difensive in ordine alla nullita' degli atti processuali tra cui il decreto che ha disposto il giudizio, ed e' stato disposto doversi procedere oltre nel dibattimento; della sentenza adottata dal Tribunale di Milano, Sez. I penale, in data 22 novembre 2003, n. 11069, sempre nell'ambito del procedimento penale R.G. 879/00 nei confronti del deputato Cesare Previti, con la quale e' stato implicitamente ribadito, ma senza alcuna motivazione, quanto stabilito nelle ordinanze del 5 giugno 2000 e del 1° ottobre 200l; e per la statuizione che non spetta all'autorita' giudiziaria, e per essa al Tribunale di Milano, Sezione Prima penale, disconoscere nella specie, negandogli validita', l'impedimento del deputato a partecipare all'udienza penale per concomitanti impegni parlamentari, cosi' come non le spetta affermare che l'impedimento non opera non consistendo i lavori parlamentari di cui si tratta in votazioni o che l'impedimento non sia stato provato o che comunque il mancato riconoscimento dell'impedimento sia rimasto «innocuo»; che pertanto non le spetti impedire che il contemperamento tra esigenze del processo ed esigenze del mandato parlamentare venga realizzato in concreto a seguito della declaratoria di nullita' degli atti compiuti in tali udienze nonche' del decreto che dispone il giudizio. F a t t o E' da rammentare che con le ordinanze in data 17 settembre, 20 settembre, 22 settembre, 5 ottobre e 6 ottobre 1999, adottate nell'ambito di due diversi procedimenti penali, il G.U.P. presso il Tribunale di Milano respingeva le rispettive istanze di rinvio dell'udienza - motivate dalla concomitanza di impegni parlamentari - avanzate dall'on. Cesare Previti, che in quei procedimenti era imputato. Avverso tali ordinanze, la Camera dei deputati - ritenendole lesive delle proprie attribuzioni costituzionalmente garantite - sollevava conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato con ricorso depositato presso la Corte costituzionale in data 19 novembre 1999. In data 6 luglio 2001, con la sentenza n. 225/2001, la Corte costituzionale, accogliendo il ricorso proposto dalla Camera, annullava le ordinanze emesse dal G.U.P. stabilendo altresi' «che non spettava al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, in funzione di giudice dell'udienza preliminare, nell'apprezzare i caratteri e la rilevanza degli impedimenti addotti dalla difesa dell'imputato per chiedere il rinvio dell'udienza, affermare che l'interesse della Camera dei deputati allo svolgimento delle attivita' parlamentari, e quindi all'esercizio dei diritti-doveri inerenti alla funzione parlamentare, dovesse essere sacrificato all'interesse relativo alla speditezza del procedimento giudiziario». Nelle more della decisione, la Prima Sezione penale del Tribunale di Milano, che nel frattempo aveva assunto la competenza in ordine ad uno dei due procedimenti originariamente incardinati presso il G.U.P. (quello contrassegnato con il R.G. n. 879/00), si pronunziava sul legittimo impedimento dell'on. Cesare Previti a partecipare all'udienza tenutasi innanzi al G.U.P. in data 20 settembre 1999, asserendo che detto impedimento non poteva riconoscersi poiche' «concerneva non la partecipazione a votazioni in assemblea, ma ad altri lavori parlamentari» (cfr. l'ordinanza in data 5 giugno 2000). Successivamente, la medesima Sezione del Tribunale di Milano, a seguito della menzionata sentenza della Corte costituzionale n. 225/2001, dichiarava di prendere atto dell'annullamento della precedente ordinanza del G.U.P. in data 20 settembre 1999, ed ammetteva esplicitamente che la stessa doveva considerarsi tamquam non esset. Cio' nonostante, disponeva doversi procedere oltre nel dibattimento rilevando, in conformita' all'indirizzo precedentemente assunto,«la legittimita' del mancato rinvio dell'udienza del 20 settembre 1999». A tale conclusione il tribunale perveniva - oltre che mediante le precedenti considerazioni in merito alla natura dei lavori parlamentari in data 20 settembre 1999 - anche accampando un ulteriore duplice rilievo: da un lato, osservava che la nullita' delle attivita' dibattimentali di cui si tratta, a causa del disconoscimento dell'impedimento parlamentare, era comunque «rimasta "innocua"»; dall'altro rilevava che «l'allegazione dell'impedimento (era) stata manchevole ed assolutamente inidonea a consentire al giudice quella valutazione di contemperamento di esigenze che la Corte costituzionale ha ammonito dover costituire oggetto necessario della valutazione del giudice» (cfr. l'ordinanza in data 1° ottobre 2001). I medesimi postulati venivano implicitamente fatti propri anche dalla sentenza in data 22 novembre 2003, conclusiva del procedimento R.G. n. 789/00. In tal modo, l'Autorita' Giudiziaria, e per essa la Prima Sezione penale del Tribunale di Milano, ha affermato, mediante i distinti atti impugnati e specificati in epigrafe, un convergente indirizzo in tema di impedimento parlamentare nel procedimento penale che, anche in ragione delle motivazioni addotte a suo sostegno, risulta lesivo delle attribuzioni costituzionali della ricorrente Camera dei deputati, per i seguenti motivi di D i r i t t o Sulla ammissibilita' del ricorso. 1. - Giova preliminarmente osservare che nella specie sussistono tutti i requisiti richiesti ai fini della ammissibilita' del presente ricorso per conflitto di attribuzione. In punto di legittimazione attiva, e' appena da precisare che secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, la Camera dei deputati, in quanto abilitata ad esprimere in via definitiva la volonta' del potere che essa rappresenta, e' facoltizzata a sollevare conflitto di attribuzione concernente l'impedimento del deputato relativo alla concomitanza tra lavori parlamentari ed udienze penali (cfr. le sentenze nn. 225/2001; 263/2003; 284/2004). In ordine alla legittimazione passiva del Tribunale di Milano, Sez. I penale, la gia' richiamata giurisprudenza costituzionale ha riconosciuto - proprio con specifico riferimento alle fattispecie riguardanti l'impedimento parlamentare - «la legittimazione degli organi giudiziari che hanno adottato i provvedimenti in relazione ai quali e' promosso il conflitto di attribuzione a essere parti del medesimo, poiche', come ripetutamente affermato da questa Corte (da ultimo, ordinanze n. 84, n. 37 e n. 6 del 2002), i singoli organi giurisdizionali sono legittimati, nell'esercizio della funzione a essi assegnata dalla Costituzione ed esercitata in piena indipendenza, a essere parti nei conflitti costituzionali in questione» (cosi' l'ordinanza n. 126/02). Quanto ai requisiti oggettivi del conflitto di attribuzione, nessun dubbio puo' esservi sulla loro sussistenza. E' ampiamente noto che il conflitto risolvibile ai sensi degli articoli 134, Cost., e 37, legge n. 87/1953, si configura quando - sia sotto forma di vindicatio potestatis, sia sotto forma di conflitto da menomazione o da interferenza - si controverta in ordine alla delimitazione della sfera delle attribuzioni di cui sono titolati i poteri dello Stato. Ora, che nella specie la controversia presenti siffatta natura risulta di immediata evidenza, dovendosi stabilire se mediante i provvedimenti impugnati emessi nell'esercizio della funzione giurisdizionale (artt. 101 e 102 ss. Cost.), tutti concernenti la materia dell'impedimento parlamentare, si sia inciso illegittimamente sulle attribuzioni della Camera con particolare riguardo, come sara' ulteriormente dimostrato nella parte sul merito del conflitto, alle disposizioni costituzionali poste a tutela della indipendenza, autonomia ed integrita' della Camera, nonche' di quelle, preordinate alla tutela dei medesimi valori, che presidiano il libero esercizio del mandato rappresentativo. Quanto all'interesse specifico della Camera dei deputati a proporre il presente ricorso per conflitto di attribuzioni, giova sin d'ora segnalare che nella specie detto interesse discende dal fatto che gli atti impugnati non hanno proceduto ad alcun bilanciamento, allo scopo di renderle compatibili, tra le esigenze del processo e quelle connesse all'attivita' parlamentare; interesse ancor piu' attuale dopo l'intervenuto annullamento degli atti del G.U.P. di Milano da parte della sentenza della Corte costituzionale n. 225/2001 che una siffatta modalita' di bilanciamento aveva prescritto. Il che sarebbe sufficiente, considerata la divergenza di vedute tra i poteri interessati, a comprovare la sussistenza dell'interesse al ricorso in ragione della lesivita' che il contenuto decisorio dei provvedimenti in oggetto e' di per se' suscettibile di esprimere, soprattutto sotto l'aspetto della vanificazione del conflitto gia' proposto dalla Camera e risolto con la predetta declaratoria di nullita' degli atti del G.U.P. Altrettanto chiaro l'interesse della ricorrente a veder stigmatizzata l'affermazione, reiterata nei provvedimenti impugnati, in ordine alla pretesa inidoneita' della prova dell'impedimento di cui si tratta con conseguente negazione della validita' dell'impedimento stesso: affermazione che, per le argomentazioni in cui si articola, risulta lesiva, come meglio si vedra' in seguito, della posizione del singolo deputato e della Camera nel suo complesso nonche' del principio di leale collaborazione tra poteri dello Stato, anche alla luce della sua portata palesemente elusiva del canone della coesistenza tra esigenze del processo ed esigenze delle funzioni parlamentari. Violazione sotto diversi profili degli artt. 55, 64, 67, 68, 72, oltre che degli artt. 70 e 94 Cost., nonche' del principio costituzionale che ne discende, di cui alla giurisprudenza costituzionale, di bilanciamento tra esigenze del processo e tutela della integrita' funzionale della Camera; Violazione del giudicato costituzionale con conseguente lesione delle attribuzioni della Camera in esso riconosciute e di cui ai parametri costituzionali appena richiamati; Violazione del principio costituzionale di ragionevolezza e di leale cooperazione tra poteri dello Stato anche in riferimento ai medesimi principi costituzionali. 2. - Nel merito, come gia' si e' avuto modo di rammentare con la sentenza n. 225/01, la Corte costituzionale - nel risolvere il conflitto di attribuzioni determinatosi anteriormente all'apertura del dibattimento, nell'ambito dello stesso procedimento penale dal quale trae origine il presente conflitto - ha statuito che non spettava al G.U.P. di Milano, pur chiamato ad applicare le comuni regole processuali in materia, disconoscere l'impedimento a comparire all'udienza del 20 settembre 1999, addotto, in ragione di concomitanti impegni di carattere parlamentare, dall'on. Cesare Previti che nel predetto procedimento era imputato. La Corte ha dunque annullato l'ordinanza emessa in pari data dal medesimo G.U.P., puntualizzando che questi, in sede di applicazione dell'art. 486 c.p.p. in tema di impedimento dell'imputato a comparire in udienza, avrebbe dovuto tenere conto «non solo delle esigenze delle attivita' di propria pertinenza, ma anche degli interessi, costituzionalmente tutelati, di altri poteri, che vengano in considerazione ai fini dell'applicazione delle regole comuni»; e cio' proprio «ai fini dell'apprezzamento degli impedimenti invocati per chiedere il rinvio dell'udienza». Giova aggiungere che l'anzidetta ratio decidendi trovava ulteriore e circostanziato svolgimento nella stessa sentenza, in particolare la' dove - stante, puo' ben dirsi, la indispensabile convivenza tra il diritto-dovere di partecipare ai lavori parlamentari ed il diritto-dovere di prendere parte alle udienze - veniva additata la possibilita' di «adattare i calendari delle udienze, previamente stabiliti e discussi con le parti, in modo da tenere conto di prospettati impegni parlamentari concomitanti dell'imputato»; considerato altresi' che - come il giudice potrebbe facilmente accertare «data la pubblicita' degli atti e dei lavori parlamentari» - vi sono nel corso dell'anno giorni e periodi «in cui non vengono programmate riunioni degli organi parlamentari», sicche' mediante la semplice «consultazione dei calendari parlamentari», sarebbe agevole scongiurare quella «concomitanza con i lavori della Camera» che si e' verificata nella specie e che ha determinato appunto l'annullamento dei provvedimenti giudiziari. Mette conto evidenziare che nella stessa sentenza in esame, la Corte ha precisato che detti canoni di comportamento - derivanti dalla «parita' di rango costituzionale degli interessi configgenti» - devono operare con riguardo alla intera attivita' di natura parlamentare, che consista o meno in votazioni: atteso che altrimenti non sarebbe adeguatamente garantito l'interesse del Parlamento, «sia per la netta (e quanto meno discutibile) distinzione che verrebbe cosi' introdotta fra diversi aspetti dell'attivita' del parlamentare, tutti riconducibili egualmente ai suoi diritti e doveri funzionali». Ora, i provvedimenti oggi contestati incorrono nei medesimi vizi ravvisati dalla Corte costituzionale ed appena riassunti: basti osservare che essi, mediante capziose ed unilaterali interpretazioni della normativa processuale, negano in definitiva qualunque rilievo all'interesse costituzionalmente garantito della Camera dei deputati a veder adeguatamente riconoscere l'incidenza dell'impedimento parlamentare nello svolgimento della attivita' processuale, sottraendosi in concreto all'obbligo di bilanciare le esigenze processuali con quelle della integrita' funzionale del Parlamento in modo da renderne possibile la coesistenza e da assicurare cosi' il sereno esercizio da parte del deputato dei diritti-doveri inerenti alla funzione. E' sufficiente leggere le due ordinanze emesse dal Tribunale di Milano, Sez. I penale, per avere l'immediata conferma del fatto che detto bilanciamento e' stato del tutto omesso o che comunque esso ha avuto un esito irragionevole ed inadeguato, con la conseguente lesione delle attribuzioni della ricorrente Camera dei deputati. Per quanto attiene alla ordinanza del 5 giugno 2000, va premesso che essa andrebbe considerata travolta in via automatica dalla citata sentenza n. 225/2001, a nulla valendo il tentativo, effettuato a posteriori dall'ordinanza del 1° ottobre 2001, di integrarne la motivazione al fine di sanarne retroattivamente gli effetti lesivi oramai prodottisi. In ogni caso, essa e' incentrata in via esclusiva sulla circostanza che il legittimo impedimento «concerneva non la partecipazione a votazioni in assemblea, ma ad altri lavori parlamentari», di talche', sempre ad erroneo avviso del giudice, «non era dovuto il rinvio dell'udienza e la sua celebrazione in assenza dell'imputato (da ritenersi espressione di sua libera scelta) non ha comportato alcun vizio di nullita». Per parte sua, la ordinanza del 1° ottobre 2001, pur essendo intervenuta successivamente alla sentenza della Corte costituzionale sopra citata - omettendo ancora una volta qualsiasi ponderazione degli interessi costituzionalmente garantiti della Camera dei deputati - e' arrivata alla conclusione di proseguire nel dibattimento, postulando che «la nullita' dell'ordinanza 20 settembre 1999, pure intervenuta, nel caso specifico in esame, e' rimasta "innocua"», ossia pretesamente priva di qualunque lesivita', nonostante la decisione della Corte costituzionale, nei confronti della posizione del deputato. Altrettanto irragionevole ed unilaterale e' l'ulteriore argomentazione per la quale sarebbe mancata «idonea allegazione» dell'impedimento, tale non essendo - per le pretese ragioni ivi esposte e che di seguito si vedranno - il «foglio-lettera intestata, datata 17 settembre 1999 dell'on. Pisanu indirizzata agli onorevoli Frattini e Previti». Per non dire, infine, della sentenza in data 22 novembre 2003, adottata sempre dalla medesima sezione del Tribunale di Milano, dove e' stato sbrigativamente ribadito, ed addirittura per implicito stante l'assenza di specifica motivazione sul punto, lo stesso orientamento adottato dalle due ordinanze sopra considerate. Ebbene, la giurisprudenza costituzionale ha escluso in termini univoci che, in presenza di un impegno parlamentare anche non di votazione, il giudice sia esentato ut sic dall'obbligo di riconoscere all'impegno stesso il peso che gli e' costituzionalmente dovuto nella modulazione della attivita' processuale (cfr. le sentenze nn. 225/2001 e 263/2003). Inoltre, la Corte costituzionale nella citata sentenza n. 263 del 2003, ha evidenziato come, in presenza di una allegazione di impedimento di carattere parlamentare, risulta comunque indispensabile che il giudice proceda alla ponderazione dell'interesse della Camera ed al relativo confronto con l'interesse del processo, non essendogli consentito eludere tale ponderazione in forza di pretese riserve di carattere probatorio, ossia limitandosi «a osservare che non sarebbe stato specificato se il deputato avrebbe effettivamente partecipato ai lavori o se la sua presenza fosse indispensabile in Parlamento». Proposizioni pressoche' identiche si trovano formulate anche nella sentenza n. 284 del 2004, dove si e' argomentato, ai fini dell'annullamento dell'atto giudiziario che aveva negato la validita' dell'impedimento parlamentare addotto, come il giudice si fosse «trincerato dietro un rilievo di pretesa tardivita' dell'istanza (presentata peraltro gia' il giorno prima della udienza fissata) pur in assenza di qualsiasi termine prescritto per l'allegazione dell'impedimento». E si e' altresi' censurato, ancora piu' in termini vista la trasparente allusione al riguardo reperibile nella ordinanza del 1° ottobre 2001, «l'improbabile rilievo della possibilita' di conciliare le due presenze in citta' diverse e lontane nel giorno in questione». Ne deriva, in termini che piu' chiari ed univoci non potrebbero essere, la riprova che l'obbligo, imposto dal sistema costituzionale delle attribuzioni, della ponderazione tra esigenze processuali ed esigenze della funzione parlamentare, a fronte della allegazione del relativo impedimento, e' appunto immanente ad ogni attivita' del giudice: di talche' questi - a meno, per ipotesi, di contestare la stessa veridicita' della allegazione - non vi si puo' sottrarre accampando semplicemente ragioni di ordine probatorio. Ne' tanto meno vi si puo' sottrarre elaborando alla bisogna la non conosciuta categoria della «innocuita» della illegittimita' compiuta dal giudice: dove addirittura il riconoscimento del vizio in cui e' incorso il provvedimento del G.U.P., ossia l'aver precluso al deputato la possibilita' di partecipare all'udienza, non mette capo alla ovvia esigenza di emendare il processo dalla acclarata violazione delle regole costituzionali che reggono l'ordine delle attribuzioni dei poteri dello Stato, ma induce a confermare l'anzidetto vulnus. Sotto un diverso ma convergente profilo, non puo' non suonare conferma della portata obiettivamente elusiva del modo di procedere dell'autorita' giudiziaria nella vicenda in questione, il fatto che l'idoneita' probatoria della documentazione prodotta nella specie risultava gia' a suo tempo appurata dal G.U.P.: esso difatti - pur avendo negato, nei termini poi stigmatizzati, ogni rilevanza all'impedimento - aveva dato atto che la documentazione depositata dalla difesa del deputato era idonea ad «attestare» l'«impedimento parlamentare». Al che aggiungasi che il dato obiettivo della esistenza dell'impedimento ha costituito il presupposto, ancorche' implicito, della piu' volte citata pronunzia della Corte costituzionale n. 225/01, non fosse altro che alla luce di quanto affermato in sentenza in ordine alla «pubblicita' degli atti e dei lavori parlamentari», e per conseguenza della praticabilita' del relativo riscontro, se del caso, da parte del giudice procedente. Resta da sottolineare che l'omessa ponderazione appare, se possibile, ancor piu' rilevante per i provvedimenti giudiziari successivi alla sentenza n. 225/01: cio' in quanto, disattendendo detta sentenza, ossia non osservando gli obblighi applicativi e gli ulteriori adempimenti indicati dalla Corte intesi ad inverare la regola della coesistenza tra attivita' processuale ed attivita' parlamentare, si' e' lasciata integra - ed anzi la si e' ulteriormente aggravata - la lesione determinatasi a carico della posizione della Camera ed acclarata nella sentenza stessa. Sotto questo aspetto, deve avanzarsi, a carico dei provvedimenti impugnati e segnatamente della ordinanza in data 1° ottobre 2001 e della sentenza in data 22 novembre 2003, l'ulteriore doglianza della violazione del giudicato costituzionale (art. 134, comma 2 e art. 137, comma 3, Cost.), posto che una siffatta violazione non puo' che ridondare in lesione delle attribuzioni della Camera che in quel medesimo giudicato hanno trovato il loro riconoscimento ai sensi dei principi e delle disposizioni costituzionali menzionate in rubrica. Si aggiunga che la riaffermazione della pretesa legittimita' del modo di procedere del G.U.P., l'aver negato al parlamentare il diritto di partecipare alle udienze (art. 24 Cost.) nonostante l'impedimento, determina di per se' la reviviscenza della volonta' lesiva ivi contenuta e con essa la sostanziale vanificazione dell'esito del conflitto gia' risolto dalla Corte mediante l'annullamento degli atti in cui simile volonta' si era espressa. In conclusione, alla luce di quanto svolto non puo' che ribadirsi che, nel fare applicazione delle regole processuali, l'organo giudicante ha sacrificato, persino piu' radicalmente di quanto non fosse avvenuto in precedenza, le attribuzioni della Camera, compromettendo la liberta' di espletamento del mandato parlamentare che e' garantita dagli artt. 67 e 68 della Costituzione, nonche' violando in particolare gli artt. 64, 68 e 72 Cost. sui quali si fonda la posizione di autonomia della Camera, con le ulteriori disposizioni costituzionali che vi si correlano. Ne risulta inoltre violato l'art. 3 Cost., con il canone di ragionevolezza che vi e' racchiuso, in uno col principio di leale collaborazione tra poteri dello Stato come da tempo codificato nella giurisprudenza costituzionale (sentenze nn. 231/1975, 379/1992, 403/1994): cio' essendosi impedito che il criterio della equilibrata coesistenza tra processo ed attivita' parlamentare trovi nella fattispecie la sua effettiva realizzazione. 3. - Ferma restando l'assorbente censura di cui sopra, e' da ravvisare una indubbia portata lesiva delle prerogative della Camera di cui agli invocati parametri costituzionali - quali sono state definite dalla giurisprudenza costituzionale in tema di impedimento parlamentare - nella affermazione che l'impedimento sarebbe nella specie irrilevante, atteso che esso «concerneva non la partecipazione a votazioni in assemblea, ma ad altri lavori parlamentari» (cfr. l'ordinanza in data 5 giugno 2000, pag. 11; ed in senso sostanzialmente conforme, l'ordinanza in data 1° ottobre 2001, pag. 5, ss.). Si tratta di argomentazione che - come gia' si e' anticipato - e' in palese contrasto con l'orientamento espresso dallo stesso G.U.P. procedente, che aveva dimostrato di non ritenere discriminante la circostanza che gli impegni parlamentari coincidessero o meno con l'attivita' di voto in Parlamento. Il G.U.P., infatti, pur invocando erroneamente la priorita' assoluta del valore dell'effettivita' della giurisdizione, concordava comunque «con le difese che non e' possibile fare una distinzione tra impegni parlamentari, ritenendo taluni prevalenti ed altri subvalenti rispetto alle esigenze di celebrazione del processo, poiche' quello che si afferma e' un principio generale, derivante dalla comparazione di attivita' parimenti previste dalla Carta costituzionale» (cfr. ordinanza in data 20 settembre 1999, pagg. 3 e 4). Ma quel che piu' conta e' che le argomentazioni del tribunale entrano in vera e propria rotta di collisione con i principi enunciati dalla Corte costituzionale in sede di annullamento della menzionata ordinanza del G.U.P. Ha rilevato invero la Corte - vale la pena di riportarne ancora una volta testualmente le affermazioni piu' significative - che la tesi oggi espressa dal tribunale si dimostra «inadeguata a garantire l'interesse del Parlamento: sia per la netta (e quanto meno discutibile) distinzione che verrebbe cosi' introdotta fra diversi aspetti dell'attivita' del parlamentare, tutti riconducibili egualmente ai suoi diritti e doveri funzionali» (cfr. Corte cost., 225/2001). Dal che deriva in via immediata, anche la incongruita' della ulteriore argomentazione avanzata oggi dal Tribunale di Milano per la quale, a fronte della contemporaneita' tra impegno giudiziario ed impegno parlamentare non di votazione, il deputato avrebbe dovuto puramente e semplicemente soprassedere al secondo. Ebbene, applicando la medesima ratio decidendi alle ordinanze del tribunale in data 5 giugno 2000 e 1° ottobre 2001, le quali continuano a propugnare la stessa tesi giudicata «inadeguata» dalla Corte costituzionale in vista del corretto bilanciamento tra esigenze processuali ed esigenze della attivita' parlamentare, non si potra' che pervenire all'annullamento delle medesime ordinanze, nonche' della sentenza conclusiva del giudizio che, implicitamente, fa propria tale tesi. D'altronde, il principio di parita' tra le attivita' che si svolgono in seno al Parlamento, ai fini della attivazione del legittimo impedimento, discende dalla constatazione che tutte quante godono di fondamento costituzionale, cosi' come tutte risultano strettamente correlate al ruolo che la Camera e' chiamata ad assolvere nel sistema costituzionale, con particolare riguardo agli artt. 70 e 94 Cost. in tema di funzione legislativa e funzione di indirizzo politico, nonche' alle altre disposizioni costituzionali indicate in rubrica. 4. - Parimenti lesiva risulta l'ulteriore argomentazione svolta dall'ordinanza del 1° ottobre 2001 - anch'essa implicitamente fatta propria dalla sentenza conclusiva del processo penale di primo grado - secondo cui la nullita' determinatasi a seguito della pronunzia della Corte costituzionale sarebbe nullita' «innocua», posto che nell'udienza cui il deputato in questione non prese parte «fu svolta unicamente una mera attivita' interlocutoria...» e non fu assunto «nessun provvedimento» se non quello di rinvio ad una successiva udienza. Va precisato che, come si puo' constatare leggendo il dispositivo della relativa ordinanza, non di udienza di mero rinvio si e' trattato, essendosi scrutinate nel merito le istanze avanzate dai difensori ed essendo stato deciso di procedersi oltre. A parte cio', il solo fatto di prefigurare allo scopo una medita categoria processuale (quella, appunto, della nullita' «innocua») sta a dimostrare l'intento di evitare le conseguenze della pronunzia della Corte, in primo luogo quella di restituire al deputato, stante la oggettivita' dell'impedimento, la possibilita' di esercitare il proprio diritto di difesa. Cio' detto, non e' nemmeno immaginabile che il canone della coesistenza tra attivita' giudiziaria ed attivita' parlamentare non sia governato dalla razionalita' costituzionale sibbene dal puro caso: solo per caso, infatti, avverrebbe che l'udienza alla quale il deputato sia stato costretto a rinunziare presenti quel carattere di pretesa ininfluenza sulla vicenda processuale che il giudice postula. Mentre e' da ritenere che quando sono in gioco attribuzioni di rango costituzionale devono operare criteri preventivi e decifrabili - quelli codificati appunto nella giurisprudenza costituzionale in tema di coesistenza tra impegni giudiziari ed impegni parlamentari - che consentano immancabilmente di scongiurarne la vulnerazione. Ma vi e' altro da aggiungere. Richiamarsi alla attivita' svoltasi in udienza allo scopo di derivarne ex post la inutilita' della partecipazione che il deputato legittimamente impedito avrebbe potuto dispiegarvi, significa rinnegare la stessa finalita' cui il criterio costituzionale della coesistenza tra udienza e impegno parlamentare e' preordinata: se la finalita', invero, e' quella di assicurare al deputato la possibilita' di esercitare appieno il diritto di difesa, e' sufficiente che tale opportunita' non si sia realizzata - come non si e' realizzata nella specie - stante il disconoscimento dell'impegno parlamentare addotto, per ritenere acclarata la intervenuta lesione dell'ordine delle attribuzioni costituzionali e, conseguentemente, per addivenire alla sua reintegrazione. Insomma, quel che e' costituzionalmente ineludibile - alla luce della giurisprudenza in materia - e' che al deputato che si trovi impedito venga assicurata, nei termini che si' sono visti, la possibilita' di presenziare all'udienza, utilizzando, come per ogni altro soggetto che si trovi nella posizione di imputato, le potenzialita' difensive insite in detta partecipazione: potenzialita' che, come tali, non sono giammai preventivabili ne' giammai potrebbero ritenersi, come fa il Tribunale di Milano, aprioristicamente inutili ai fini dell'andamento del processo. 5. - Ulteriore e grave vulnus alle attribuzioni costituzionali della odierna ricorrente scaturisce, in particolare, dall'affermazione - esplicitata nell'ordinanza del 1° ottobre 2001, e da ritenersi implicitamente confermata dalla sentenza del 22 novembre 2003 - secondo la quale l'allegazione dell'impedimento, non contenendo i dati e la documentazione necessaria ad attestare l'attualita' dell'impedimento stesso, sarebbe stata «manchevole ed assolutamente inidonea a consentire al giudice quella valutazione di contemperamento di esigenze» imposta dalla sentenza n. 225/01 della Corte costituzionale. Sarebbe stato necessario - sempre secondo il tribunale milanese - dimostrare l'attualita' dell'impedimento allegato, indicando «per esempio, l'ora dell'inizio lavori» della riunione svoltasi nella sede istituzionale, ovvero indicando dati idonei «a mettere il giudice in grado di svolgere la propria valutazione che non puo' essere surrogata da frasi di stile come quella riportata» nella lettera di convocazione a firma del capogruppo del gruppo parlamentare nel quale e' iscritto l'on. Previti (cfr. l'ordinanza in data 1° ottobre 2001, pag. 6). Si tratta di argomentazione palesemente arbitraria ed incongrua sotto diversi profili. In primo luogo, perche' oltre alla convocazione da parte del capogruppo, era stata depositata in atti, e ben prima della udienza del 20 settembre, la conforme documentazione della Camera relativa al calendario lavori 14 settembre-1° ottobre 1999, e segnatamente alla attivita' prevista in coincidenza con la predetta udienza penale (cfr. deposito difensivo all'udienza del 17 settembre 1999). Inoltre, perche' non e' nemmeno immaginabile che i rapporti tra deputato e gruppo, quando, come nella specie, si tratti di rapporti aventi ad oggetto l'attivita' parlamentare cui i gruppi sono chiamati a concorrere, si possano relegare in una dimensione informale o privata o quant'altro, disconoscendo cosi' la loro appartenenza all'ordinamento parlamentare. Ma ancor piu' grave e lesiva per la Camera e per il singolo parlamentare appare una simile presa di posizione se si considera che nella specie si pretende di reputare come irrilevante, o comunque inadeguata, la comunicazione del presidente del gruppo in ordine ai lavori parlamentari previsti ed alle relative incombenze dei singoli appartenenti al gruppo. E' difatti improprio, avuto riguardo alle specifiche attribuzioni dei presidenti di gruppo in materia di programma dei lavori dell'Assemblea (art. 23 Reg.), degradare la comunicazione di cui si tratta ad allegazione «manchevole ed assolutamente inidonea», nella terminologia adoperata dalla ordinanza del 17 novembre 2001, perche' cio' significa estrometterla dalla sfera parlamentare in cui essa, per le ragioni anzidette, va inscritta. La conferma di tutto quanto dedotto si puo' trarre dalla sentenza della Corte costituzionale n. 219 del 2003. In detta occasione, nel risolvere un conflitto di attribuzione in punto di applicazione dell'art. 68, primo comma, Cost. in cui veniva in discussione la valenza da riconoscersi a tal fine ad una lettera inviata da un componente di una commissione parlamentare di inchiesta al presidente della commissione stessa, si e' escluso che la missiva fosse riducibile a mera «comunicazione privata»; le si e' riconosciuta pertanto la natura di atto parlamentare in considerazione del suo promanare da «una fonte parlamentare» (ossia dal senatore che la missiva aveva inviato) e nell'esercizio delle attribuzioni proprie del componente della commissione (principio questo che e' stato puntualmente ribadito nella sentenza n. 298 del 2004). Alla luce di tali paradigmi decisionali, ne deriva che nel caso di specie, ancorche' in presenza di un circuito comunicativo che ha come fonte il presidente del gruppo e come destinatario l'appartenente al gruppo, alla informativa di cui si parla non poteva negarsi tanto radicalmente l'idoneita' a comprovare l'impedimento occorso al deputato sottoposto a procedimento penale. Ed e' in ogni caso ragionevole, a parte ogni altra considerazione, che il deputato, che e' avvinto da un rapporto di natura anche istituzionale col proprio gruppo, ritenga di avvalersi di tale informativa al fine di comprovare l'impedimento stesso. Si aggiunga infine, come e' stato osservato dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza 225 del 2001, che l'ordine del giorno della Camera e' pubblico ed agevolmente accessibile, cosicche', indipendentemente dalla sua materiale allegazione, risulta implicito il rinvio ad esso e ad ogni riscontro che si ritenga opportuno in ordine ai lavori previsti. Se cosi' e', parimenti lesiva risulta, per le ragioni gia' esposte, l'affermazione secondo la quale, a quanto e' dato comprendere, tutte le frasi di cui si compone la comunicazione presidenziale (relative alla iscrizione a parlare da parte dei destinatari) ed in particolare quella con la quale si chiude («la vostra presenza e' quindi assolutamente necessaria») sarebbero nient'altro che «frasi di stile», come appunto ritiene di definirle l'ordinanza del 17 novembre 2001. Quanto alla notazione del giudice milanese reperibile nella ordinanza appena citata, benche' dedotta in via allusiva, riguardante la possibilita' per il deputato di essere presente nel corso della stessa giornata nella sede parlamentare ed in quella giudiziaria, pur trattandosi di citta' diverse e lontane, non vi e' che da ribadire che nella sentenza della Corte costituzionale n. 284/2004 non si e' esitato a reputare un simile argomento come «improbabile»: il che e' da condividere, posto che il principio di coesistenza tra le due attivita' in gioco, quella parlamentare e quella processuale, deve riposare su di una base certa, qual e' appunto quella della compatibile organizzazione dei tempi processuali indicata dalla giurisprudenza costituzionale. Dovendosi presumere che il giudice voglia postulare anche che non sia stata data prova tempestiva della effettiva presenza del deputato in aula, e' da evidenziare che, fermo restando il diritto-dovere dei deputati di partecipare ai lavori della Camera, non sono contemplate procedure intese segnatamente a verificare la presenza in aula dei singoli deputati all'inizio o nel corso della seduta, e pertanto - in caso di partecipazioni a dibattiti o votazioni - la presenza del deputato puo' essere documentata, di regola, soltanto ex post tramite i resoconti stenografici delle sedute stesse. Peraltro, anche detti resoconti non consentono di documentare la presenza dei deputati quando gli stessi, pur presenziando alla seduta, non prendano parte alle votazioni ovvero non intervengano nella discussione. Richiedere quindi che il deputato debba fornire la prova della partecipazione ai lavori parlamentari, della cui esistenza egli non possiede preventiva certezza, significa spingerlo verosimilmente - proprio a causa dell'incertezza di cui si e' detto - ad optare per la presenza in udienza, indipendentemente da ogni conseguenza che siffatta abdicazione alla propria funzione politico parlamentare e' suscettibile di comportare. Sotto altro profilo, la liberta' di esercizio della funzione parlamentare, insita nel mandato rappresentativo, ne viene vulnerata perche' si immagina che essa debba per forza esprimersi con le modalita' tali che ne consentano la documentazione (e comunque sempre a posteriori): mentre e' indiscutibile che ogni singolo membro del Parlamento e' facoltizzato, in relazione alle piu' diverse e non preventivabili evenienze politico parlamentari, a modulare liberamente la propria partecipazione alla dinamica dei lavori (si pensi appunto alla presenza fisica non documentata, oppure alla astensione dai lavori, come anche allo stesso abbandono dell'aula). Si e' in presenza, dunque, ove mai sia stata fatta, di una inadeguata ed irragionevole ponderazione del rapporto tra esigenze processuali ed esigenze della attivita' parlamentare; e' chiaro difatti che chiedere ora per allora adempimenti non previsti (e nemmeno mai richiesti dal G.U.P.) ai fini della dimostrazione dell'impedimento, significa assolutizzare l'esigenza probatoria ai di la' di ogni soglia di ragionevolezza e di compatibilita' con i criteri al riguardo fissati nella giurisprudenza costituzionale, sino a renderla in concreto non assolvibile da parte del deputato interessato. D'altro canto, non puo' sfuggire la irragionevolezza di un esito della vicenda, quale sarebbe quello propiziato dall'organo giudiziario, che originata dalla mancata applicazione del criterio di coesistenza tra impegni parlamentari e svolgimento del processo, dovrebbe concludersi, per quanto qui interessa, con l'affermazione della inesistenza dell'impedimento stesso (in quanto non provato con le stringenti cadenze prescritte, ed in via successiva, dal giudice). E cio' per di piu' postulando, in aperta contraddizione col canone della leale collaborazione tra poteri dello Stato, che nessun onere di alcun genere sarebbe stato configurabile a carico del G.U.P. che avesse inteso avere certezza, nei termini descritti, dell'effettivo assolvimento dell'attivita' parlamentare dedotta quale impedimento, nemmeno quello di chiedere gli eventuali riscontri da parte della Camera. 6. - Sotto quest'ultimo profilo, e' da dire che ancor piu' insostenibili appaiono le richiamate posizioni dell'organo giudicante, e l'indirizzo unitario che esso ha espresso per negare in definitiva la rilevanza dell'impedimento parlamentare, se si considera il criterio di comportamento che, a seguito della pronunzia della Corte costituzionale n. 225/2001, proprio il Tribunale in questione ha ritenuto di assumere nelle circostanze posteriori in cui, sempre nell'ambito del processo di cui trattasi, e' venuta in considerazione all'udienza la sussistenza di impedimenti di carattere parlamentare. In tali occasioni, invero, la menzionata sezione, nella persona del suo Presidente ha richiesto alla Camera notizie in ordine all'andamento dei lavori dell'Assemblea concomitanti con le udienze penali, ivi comprese quelle relative alla presenza dell'on. Previti, ed a tali richieste la Camera dei deputati ha fornito puntuale ed immediato riscontro. Sicche' la Camera dei deputati non puo' che dolersi, facendone specifico motivo del ricorso anche con riferimento ai parametri costituzionali in precedenza invocati, che questa ratio di cooperazione, sia sotto l'aspetto della verifica della effettivita' dell'impedimento sia sotto quello del coordinamento, mediante l'opportuna collaborazione informativa, tra attivita' processuale ed attivita' parlamentare, risulti contraddittoriamente smentita dagli atti impugnati: quasi che i criteri fissati dalla Corte costituzionale debbano valere soltanto pro futuro, e come se per la lesione in precedenza prodottasi a carico delle attribuzioni di rango costituzionale della Camera, e confermata proprio dal successivo comportamento della sezione penale assunto in conformita' al giudicato della Corte, altre regole, opposte al canone della leale collaborazione, possano sanzionare la irretrattabilita' della lesione.
P. Q. M. Si chiede che la Corte costituzionale voglia dichiarare che non spetta all'autorita' giudiziaria, e per essa al Tribunale di Milano, Sez. Prima penale, disconoscere nella specie, negandogli validita', l'impedimento del deputato a partecipare all'udienza penale per concomitanti impegni parlamentari, cosi' come non le spetta affermare che l'impedimento non opera non consistendo i lavori parlamentari di cui si tratta in votazioni, o che l'impedimento non sia stato provato o che comunque il suo mancato riconoscimento sia rimasto «innocuo»; e che pertanto non le spetta impedire che il contemperamento tra esigenze del processo ed esigenze del mandato parlamentare venga realizzato in concreto a seguito della declaratoria di nullita' degli atti compiuti in udienza nonche' del decreto che dispone il giudizio. Si chiede, di conseguenza, che la Corte costituzionale annulli gli atti impugnati indicati in epigrafe. Roma, addi' 7 gennaio 2005 On. Pier Ferdinando Casini - Prof. avv. Roberto Nania Avvertenza: L'ammissibilita' del presente conflitto e' stata decisa con ordinanza n. 185/2005 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, 1ª s.s., n. 19 dell'11 maggio 2005. 05C0668