N. 299 SENTENZA 7 - 22 luglio 2005

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Processo  penale  -  Custodia  cautelare  -  Termini  massimi di fase
  determinati  dall'art. 304, comma 6, del codice di procedura penale
  -  Computo  dei  periodi  di  custodia cautelare sofferti in fasi o
  gradi  diversi  dalla  fase  o  dal grado in cui il procedimento e'
  regredito   -   Mancata  previsione  -  Lesione  del  principio  di
  proporzionalita'   e   adeguatezza   della   pena,   ingiustificato
  sacrificio della liberta' personale - Illegittimita' costituzionale
  in parte qua.
- Cod. proc. pen., art. 303, comma 2.
- Costituzione, artt. 3 e 13.
(GU n.30 del 27-7-2005 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
  Presidente: Piero Alberto CAPOTOSTI;
  Giudici: Guido NEPPI MODONA, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni
Maria  FLICK,  Francesco  AMIRANTE, Ugo DE SIERVO, Romano VACCARELLA,
Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO;
ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nei  giudizi di legittimita' costituzionale degli artt. 303, comma 2,
e 304, comma 6, del codice di procedura penale, promossi, nell'ambito
di  diversi  procedimenti penali, dal Tribunale di Bari con ordinanza
in  data  11 luglio  2003  e dal Tribunale di Torino con ordinanza in
data 11 giugno 2003, rispettivamente iscritte ai numeri 816 e 841 del
registro  ordinanze  2003 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica numeri 42 e 43, 1ª serie speciale, dell'anno 2003.
    Visti  gli  atti  di  intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio del 25 maggio 2005 il giudice
relatore Guido Neppi Modona.

                          Ritenuto in fatto

    1.  -  Con ordinanza in data 11 luglio 2003 il Tribunale di Bari,
chiamato  a  pronunciarsi  sulla  istanza  di  un  imputato  volta ad
ottenere  la  scarcerazione  per  decorrenza  del  termine massimo di
custodia  cautelare  ai sensi del combinato disposto degli artt. 303,
comma  1,  lettera  b),  numero  2,  e  304,  comma  6, del codice di
procedura  penale,  ha  sollevato,  in riferimento agli artt. 13 e 24
della   Costituzione,   questione   di   legittimita'  costituzionale
dell'art. 304,  comma  6, del codice di procedura penale, nella parte
in cui, facendo riferimento all'art. 303, comma 2, cod. proc. pen. ai
fini del calcolo della durata massima dei termini di fase di custodia
cautelare,  non consente di computare i periodi di custodia cautelare
sofferti in diversa fase processuale.
    Il  Tribunale premette che il periodo compreso tra il 18 febbraio
2003  (data  del  primo  rinvio  a giudizio) e il 3 aprile 2003 (data
della  pronuncia  della  nullita'  della  prima richiesta di rinvio a
giudizio)  non  potrebbe  essere  considerato  ai fini della asserita
decorrenza  del  termine biennale previsto per la fase delle indagini
preliminari  alla  stregua  degli  argomenti  esposti  dalla Corte di
cassazione  a  sezioni  unite  nella sentenza 29 febbraio 2000, n. 4;
argomenti  che  il  Tribunale dichiara di condividere e di avere gia'
recepito   in   altri  processi.  L'art. 304,  comma  6,  cod.  proc.
pen. stabilisce  infatti  che  la durata della custodia cautelare non
puo'  comunque superare il doppio dei termini previsti dall'art. 303,
commi 1, 2 e 3, mentre l'art. 303, comma 2, attiene in modo specifico
alla   decorrenza  ex  novo  dei  termini  di  fase  nell'ipotesi  di
regressione  del  processo, e anche in questo caso il termine di fase
non  puo'  superare  il  doppio della sua durata. Sicche' - rileva il
rimettente  -  sostenere  la necessita' del computo indiscriminato di
tutte   le  fasi  intermedie  farebbe  perdere  al  limite  stabilito
dall'art. 304, comma 6, il carattere endofasico che normativamente lo
caratterizza   e  creerebbe  un  nuovo  termine  finale  plurifasico,
estraneo  alle  previsioni degli artt. 303 e 304, comma 6, cod. proc.
pen.
    Nell'estendere  la  durata della misura cautelare anche a seguito
di  eventi  patologici non solo rilevati d'ufficio, ma eccepiti (come
nella  specie)  dall'imputato  a tutela dei propri diritti, il quadro
normativo  cosi'  delineato si porrebbe tuttavia in contrasto con gli
artt. 13  e  24 Cost., in quanto l'imputato potrebbe essere indotto a
rinunciare   alle  eccezioni  difensive  allo  scopo  di  evitare  la
dilatazione  della  durata  della custodia cautelare, con conseguente
compressione   del  diritto  di  difesa,  mentre,  avvalendosi  della
eccezione,  sarebbe  costretto  a subire lo stato di privazione della
liberta', comunque incidente su una piena esplicazione del diritto di
difesa.
    Nel  caso  di specie, ricorda il rimettente, il provvedimento del
3 aprile  2003  aveva  avuto  ad  oggetto la declaratoria di nullita'
della  prima richiesta di rinvio a giudizio, a causa della violazione
di  una  norma  attinente  al  diritto di difesa che, se puntualmente
osservata,  avrebbe  determinato  la  liberazione  dell'imputato «per
decorrenza  del  termine di fase gia' «ripartito», ex art. 303, comma
2,   per   effetto  della  sentenza  [di  incompetenza]  del  giudice
dell'udienza preliminare del Tribunale di Palermo».
    2.  -  E'  intervenuto  il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato   e   difeso   dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,
chiedendo  che  la  questione  sia  dichiarata  inammissibile  per un
duplice  ordine  di  ragioni. In primo luogo, infatti, l'ordinanza di
rimessione,   nella  quale  viene  solamente  richiamato  il  termine
biennale  previsto  per  la  fase  delle  indagini  preliminari,  non
consentirebbe  di comprendere quale sia il fatto oggetto del giudizio
a   quo   e,  conseguentemente,  di  verificare  la  rilevanza  della
questione.  Inoltre la questione sarebbe uguale ad altre in relazione
alle  quali  questa  Corte ha affermato che l'art. 304, comma 6, cod.
proc.  pen. costituisce  una  regola  di  chiusura  del sistema della
custodia cautelare e fissa un termine finale, «sicche' il superamento
di un termine di custodia pari al doppio del termine stabilito per la
fase  presa in considerazione determina la perdita di efficacia della
custodia  anche se quei termini hanno iniziato a decorrere nuovamente
a seguito della regressione» (ordinanza n. 243 del 2003).
    3. - Con ordinanza in data 11 giugno 2003 il Tribunale di Torino,
chiamato  a  pronunciarsi  sull'appello  proposto  dalla difesa di un
imputato  avverso  il  provvedimento  con il quale la Corte d'appello
della  medesima  citta' aveva respinto l'istanza di scarcerazione per
decorrenza  dei  termini  previsti  dagli  artt. 303, comma 2, e 304,
comma 6, cod. proc. pen., ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e
13  Cost.,  questione  di  legittimita' costituzionale dell'art. 303,
comma  2,  cod.  proc. pen., «nella parte in cui prevede, nel caso in
cui  il  procedimento  regredisca a una fase o a un grado di giudizio
diversi,  che  "dalla  data del provvedimento che dispone il regresso
[...]   decorrono   di   nuovo   i  termini  previsti  dal  comma  1,
relativamente  a ciascuno stato e grado del procedimento", invece che
prevedere,  cosi'  come  disposto  dall'art. 304, comma 6, cod. proc.
pen.,  che  detti  termini  non cominciano nuovamente a decorrere, in
quanto  "la  durata  (complessiva)  della custodia cautelare non puo'
comunque superare il doppio dei termini previsti dall'art. 303, comma
1"».
    Il rimettente riferisce che l'imputato, in custodia cautelare dal
4 maggio  2001  per  il  reato  di cui agli artt. 110 cod. pen. e 73,
comma  1, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (traffico di stupefacenti
in   concorso),  era  stato  condannato,  con  sentenza  del  giudice
dell'udienza  preliminare  del Tribunale di Torino del 2 maggio 2002,
alla  pena  di  sei  anni,  otto  mesi e venti giorni di reclusione e
quarantamila  euro  di  multa.  Successivamente la Corte d'appello di
Torino,  con  sentenza  del  27 novembre  2002,  aveva  dichiarato la
nullita'  del provvedimento con cui era stato disposto il giudizio di
primo   grado   e   rinviato  gli  atti  al  giudice  delle  indagini
preliminari.  A  seguito  del  ricorso  dell'imputato,  la  Corte  di
cassazione,  con  sentenza del 15 maggio 2003, aveva rimesso gli atti
al  pubblico ministero. Il 28 aprile 2003 l'imputato aveva chiesto la
sua  scarcerazione  per decorrenza dei termini di custodia cautelare,
in  base  al  rilievo  che  -  secondo  quanto  affermato dalla Corte
costituzionale nella sentenza n. 292 del 1998 e nell'ordinanza n. 529
del 2000 - l'art. 304, comma 6, cod. proc. pen. era applicabile anche
all'ipotesi  di  regressione  del procedimento, sicche' alla data del
3 maggio  2003  era  maturato  il doppio del termine di fase previsto
dall'art. 303,  comma  1,  lettera  a),  numero 3, cod. proc. pen. La
Corte   d'appello   aveva  respinto  la  richiesta  di  scarcerazione
argomentando   che  «il  richiamo  della  difesa  a  quanto  previsto
dall'art. 304,  comma  6, deve ritenersi inconferente, trattandosi di
fattispecie relativa al caso in cui sia stata disposta la sospensione
dei termini della custodia cautelare».
    Tanto  premesso,  il  giudice  a quo ricorda che, a seguito della
sentenza  interpretativa  di  rigetto  n. 292  del  1998, la Corte di
cassazione  a  sezioni  unite  (sentenza 29 febbraio 2000, n. 4), pur
dichiarando  di aderire espressamente a tale pronuncia, aveva risolto
il  contrasto  insorto  in ordine al metodo di calcolo dei termini in
caso  di  regressione  del procedimento, affermando che ai fini della
durata  massima  di  fase  dovevano essere computati esclusivamente i
periodi  di  custodia  cautelare  trascorsi  nella  medesima fase. Il
rimettente   precisa   altresi'   che   tale   soluzione   era  stata
stigmatizzata  dalla  Corte  costituzionale nell'ordinanza n. 529 del
2000 con la quale aveva ribadito che l'interpretazione dell'art. 304,
comma  6,  cod.  proc.  pen. secondo  cui la custodia cautelare perde
efficacia allorquando la sua durata abbia superato un periodo pari al
doppio  del  termine  stabilito  per la fase presa in considerazione,
anche  nel  caso  in  cui  quel  termine  sia  cominciato a decorrere
nuovamente  a  seguito  della  regressione del processo, «deve essere
ritenuta  costituzionalmente  obbligata  in forza del valore espresso
dall'art. 13  della  Costituzione».  Ricorda  infine  che la Corte di
cassazione, con ordinanza delle sezioni unite in data 10 luglio 2002,
n. 28,  sulla base della premessa che l'art. 303, comma 2, cod. proc.
pen. impedisce  di  addizionare,  nel  calcolo del doppio del termine
finale  di  fase,  periodi  di  detenzione  sofferti  in fasi o gradi
diversi  da  quelli in cui il procedimento e' regredito, e che non e'
possibile  - alla luce di quanto precisato dalla Corte costituzionale
con   l'ordinanza  n. 529  del  2000  -  affermare  con  certezza  la
illegittimita' costituzionale del criterio di calcolo imposto da tale
norma,   ha   sollevato   questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 303,  comma  2,  cod.  proc.  pen.,  chiedendo  «alla Corte
costituzionale,   nel  rispetto  delle  reciproche  attribuzioni,  di
intervenire   sulla   disposizione   indicata   con   una   pronuncia
caducatoria».
    Il  Tribunale  di  Torino  dichiara  di  condividere  entrambe le
premesse  dalle  quali  muove l'ordinanza di rimessione delle sezioni
unite,  e  cioe' che l'interpretazione letterale e logico-sistematica
dell'art. 303,   comma  2,  cod.  proc.  pen. non  consente  di  dare
interpretazioni  diverse  da quella data dalle medesime sezioni unite
nella  sentenza n. 4 del 2000, e che detta interpretazione, alla luce
di  quanto affermato dalla Corte costituzionale nell'ordinanza n. 529
del 2000, e' di dubbia legittimita' costituzionale.
    Ritenuta  la  questione rilevante e non manifestamente infondata,
il  Tribunale  di  Torino solleva dunque la questione di legittimita'
costituzionale  nei  termini  esposti,  osservando  che  il principio
secondo  cui  il  giudice,  tra  piu' interpretazioni, deve scegliere
quella   conforme  al  dettato  costituzionale,  presuppone  che  sia
possibile  dare  alla  norma  l'interpretazione  conforme ai principi
costituzionali sulla base di corretti canoni ermeneutici.
    4.  -  E'  intervenuto anche in questo giudizio il Presidente del
Consiglio   dei  ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura
generale  dello  Stato,  chiedendo  che  la  questione sia dichiarata
inammissibile, perche' analoga a quella, sollevata da altro tribunale
e  dalla Corte di cassazione, dichiarata manifestamente inammissibile
con  ordinanza  n. 243  del  2003  da questa Corte, senza che vengano
prospettati nuovi e diversi profili di censura.

                       Considerato in diritto

    1.  - Il Tribunale di Bari dubita, in riferimento agli artt. 13 e
24    della    Costituzione,    della   legittimita'   costituzionale
dell'art. 304,  comma  6, del codice di procedura penale, nella parte
in  cui, richiamando l'art. 303, comma 2, dello stesso codice ai fini
del  calcolo  della durata massima dei termini di fase della custodia
cautelare,  non consente di computare i periodi di custodia cautelare
sofferti in fasi o gradi diversi del procedimento.
    Dal  canto suo il Tribunale di Torino dubita, in riferimento agli
artt. 3  e 13 Cost., della legittimita' costituzionale dell'art. 303,
comma  2,  cod.  proc.  pen., nella parte in cui prevede, nel caso il
procedimento  regredisca  a una fase o ad un grado diversi, che dalla
data  che  dispone  la  regressione  decorrono  nuovamente  i termini
previsti  dal  comma  1  relativamente  a  ciascuno stato o grado del
procedimento,    anziche'    stabilire,   secondo   quanto   disposto
dall'art. 304,  comma  6,  dello stesso codice, che detti termini non
cominciano  a  decorrere  nuovamente, in quanto la durata complessiva
dei  termini di fase non puo' comunque superare il doppio dei termini
previsti dall'art. 303, comma 1, cod. proc. pen.
    Entrambe  le  ordinanze  di  rimessione,  sia  pure rivolgendo le
censure  di  costituzionalita'  a norme diverse (rispettivamente, gli
artt. 304,  comma 6, e 303, comma 2, cod. proc. pen.), convergono nel
denunciare  la  disciplina che non consente di computare, ai fini del
calcolo  dei termini massimi di fase previsti dall'art. 304, comma 6,
cod.  proc.  pen., i periodi di custodia cautelare sofferti in fasi o
gradi  diversi  rispetto  alla fase o al grado in cui il procedimento
regredisce. Tale disciplina e' contenuta nell'art. 303, comma 2, cod.
proc.  pen.,  e  a  questa  norma vanno appunto riferite le questioni
sollevate dai rimettenti.
    Stante  l'identita'  delle questioni, deve quindi essere disposta
la riunione dei relativi giudizi.
    2. - La questione e' fondata.
    3.  -  Prima di esaminare il merito delle questioni, e' opportuno
ricordare  che  l'attuale  sistema dei termini massimi della custodia
cautelare,   il   cui  impianto  risale  ad  una  riforma  del  1984,
antecedente  all'emanazione  del codice di procedura penale del 1988,
e', per sommi capi, articolato in:
        termini  di  fase,  di  durata  variabile  in  funzione della
gravita'  della  pena  prevista per il reato contestato o ritenuto in
sentenza  e  della  fase  in  cui si trova il procedimento, stabiliti
dall'art. 303, comma 1, cod. proc pen.;
        termini   complessivi,   riferiti   all'intera   durata   del
procedimento,   comprensivi   delle   ipotesi   di   proroga  di  cui
all'art. 305  cod.  proc. pen., anch'essi variabili in funzione della
gravita'   della   pena   prevista   per   il   reato,   disciplinati
dall'art. 303, comma 4, cod. proc. pen.;
        termini  finali  complessivi,  in  funzione di limite massimo
insuperabile  (c.d.  massimo  dei  massimi)  anche ove si verifichino
ipotesi  di  sospensione,  proroga o neutralizzazione del decorso dei
termini  di  custodia cautelare. Originariamente previsti dal comma 4
dell'art. 304  cod.  proc.  pen. in misura non superiore ai due terzi
del  massimo della pena temporanea prevista per il reato contestato o
ritenuto  in  sentenza,  a  seguito  delle modifiche introdotte dalla
legge  8 agosto  1995, n. 332, tali termini sono ora disciplinati dal
comma   6,   con   riferimento  ai  termini  complessivi  contemplati
dall'art. 303,  comma  4,  aumentati  della  meta',  ovvero,  se piu'
favorevoli,  nella  misura  dei  due  terzi  del  massimo  della pena
temporanea prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza;
        termini  finali  di  fase, contemplati per la prima volta dal
comma  6  dell'art. 304  cod.  proc.  pen. a  seguito delle modifiche
introdotte dalla legge n. 332 del 1995, in funzione di limiti massimi
insuperabili  per  ciascuna fase, nella misura massima del doppio dei
termini  di  fase previsti dall'art. 303, comma 1, cod. proc. pen., e
operanti,  per  l'espresso richiamo all'art. 303, comma 2, cod. proc.
pen.,  anche  in  caso di regressione del procedimento o di rinvio ad
altro giudice (in tal senso v. sentenza n. 292 del 1998).
    La  legge  n. 332  del  1995  ha dunque introdotto nuove garanzie
prevedendo, in relazione alla durata sia dei termini complessivi, sia
dei  termini  di fase, dei limiti «finali» insuperabili, destinati ad
operare    anche    nelle   ipotesi   di   sospensione,   proroga   e
neutralizzazione dei termini di durata della custodia cautelare.
    4.  -  Entrata  in  vigore  la  riforma  del  1995, la potenziale
interferenza tra la natura invalicabile dei termini finali, posti dal
comma  6  dell'art. 304  cod.  proc.  pen. anche  con  riferimento ai
termini  di fase, e la decorrenza ex novo dei termini di fase in caso
di  regressione  prevista  dall'art. 303, comma 2, cod. proc. pen. e'
stata  per  la  prima  volta  presa in esame dalla sentenza di questa
Corte n. 292 del 1998.
    In  tale  decisione  la Corte ha affermato che «l'unica soluzione
ermeneutica  enucleabile dal sistema e che si appalesa in linea con i
valori   della   Carta   fondamentale»  e'  quella  secondo  cui  «il
superamento  di  un  periodo  di  custodia pari al doppio del termine
stabilito  per  la fase presa in considerazione, determina la perdita
di  efficacia  della  custodia,  anche  se  quei  termini  sono stati
sospesi,  prorogati  o [...] sono cominciati a decorrere nuovamente a
seguito  della  regressione  del  processo». Questa interpretazione -
prosegue  la  Corte  - «e' d'altra parte aderente alla ratio di favor
che  ha  ispirato  il  legislatore del 1995, ad un effettivo recupero
della  scelta di introdurre uno sbarramento finale ragguagliato anche
alla  durata  dei  termini di fase comunque modulata, e, infine, alla
stessa  logica dell'art. 13 della Carta fondamentale, la quale impone
di individuare, fra piu' interpretazioni, quella che riduca al minimo
il sacrificio della liberta' personale».
    Alla  base  della decisione della Corte sta il collegamento della
disciplina   dei  termini  di  durata  della  custodia  cautelare  al
principio  costituzionale di proporzionalita', cui si ispira anche il
nuovo  termine  finale  di  fase,  che  individua «il limite estremo,
superato  il  quale il permanere dello stato coercitivo si presuppone
essere  "sproporzionato",  in  quanto  eccedente gli stessi limiti di
tollerabilita' del sistema».
    La  formulazione  letterale  dell'art. 304,  comma  6, cod. proc.
pen. dimostra    d'altronde,   mediante   il   ricorso   all'avverbio
«comunque»,  che  i limiti massimi insuperabili vanno riferiti «anche
ai  fenomeni  che  comunque possono interferire con la disciplina dei
termini  di  fase  [...],  specie  quando, come nel caso in esame, la
soluzione   ermeneutica   si   appalesi   come   l'unica  conforme  a
Costituzione».  Il carattere di chiusura del comma 6 e' d'altra parte
comprovato  dal richiamo non solo al comma 1 dell'art. 303 cod. proc.
pen.,  ove  viene definita la durata dei termini di fase, ma anche al
comma  2,  che  riguarda  appunto il caso della regressione, rendendo
evidente  che  il  limite insuperabile del doppio dei termini di fase
opera anche in tale ipotesi.
    Tali  conclusioni  sono  ribadite  dalla  successiva ordinanza di
manifesta  infondatezza  n. 429  del  1999,  con  la  quale  la Corte
riafferma  che  il  «valore  assoluto e non condizionato» della norma
impone  di  ritenere,  «come soluzione ermeneutica costituzionalmente
obbligata»,  che il limite costituito da «un periodo di custodia pari
al  doppio del termine stabilito per la fase presa in considerazione»
opera anche quando i termini sono incominciati nuovamente a decorrere
a seguito della regressione del processo.
    5.  - A seguito della soluzione interpretativa indicata da questa
Corte,  a  partire  dal  2000  le sezioni unite della Cassazione sono
intervenute  a  dirimere  contrasti  tra  le sezioni semplici. Alcune
sezioni,  infatti,  hanno  affermato  che,  ai  fini  del computo del
termine  finale  pari  al  doppio  del termine di fase, devono essere
considerati  anche  i  periodi  di  custodia sofferti in fasi o gradi
diversi  rispetto  a quelli in cui il procedimento regredisce, mentre
altre  hanno  ritenuto  che  al medesimo fine devono essere calcolati
soltanto i periodi di custodia patiti durante le fasi omogenee, e non
anche nelle fasi intermedie.
    Nella decisione n. 4 del 2000 le sezioni unite premettono che «il
reale  problema  consiste  nello stabilire se [...] debbano cumularsi
indiscriminatamente alla durata della custodia nella fase o nel grado
aperto  dal  provvedimento  di  annullamento  o di regressione quella
relativa  a tutte le fasi o gradi pregressi oppure soltanto la durata
della  custodia  sofferta  nella fase o grado al quale il processo e'
tornato».  Secondo  le  sezioni  unite, «nell'assoluto silenzio della
motivazione»   della   sentenza   n. 292   del   1998   della   Corte
costituzionale sul punto, il computo dei periodi di custodia sofferti
in  tutte  le  fasi  intermedie significherebbe, «nella sostanza, far
perdere  a  quel  limite  il  carattere  rigorosamente  endofasico  o
monofasico,  che  normativamente  lo  tipicizza,  e  creare  un nuovo
termine  finale plurifasico, estraneo alle previsioni degli artt. 303
e  304,  comma  6, cod. proc. pen., alterando, per tale via, le linee
essenziali della disciplina dettata dal codice, che non conosce altra
distinzione  che  quella  tra  termini di fase e termine complessivo.
Resta  con  cio' confermato che l'eliminazione della frattura e della
separatezza  della  fase  successiva  all'annullamento [...] non puo'
avere  altro  effetto  che quello di permettere il collegamento della
predetta  fase con quella precedente nella quale e' stato pronunciato
il   provvedimento   annullato   e,   cosi',   di  rendere  possibile
l'unificazione della durata della custodia cautelare sofferta nei due
segmenti processuali, avvinti da una relazione di corrispondenza e di
omogeneita'  per  la  ragione  che  il  primo  puo' considerarsi come
ripristino del secondo».
    Con  due  successive  ordinanze la Corte costituzionale ribadisce
che, «in forza del valore espresso dall'art. 13 della Costituzione» e
dell'uso  dell'avverbio «comunque» nell'art. 304, comma 6, cod. proc.
pen.,   l'interpretazione   sinora   seguita  «deve  essere  ritenuta
costituzionalmente  obbligata»  (ordinanza  n. 214 del 2000) e che e'
quindi   erroneo   (ordinanza   n. 529   del   2000)  il  presupposto
interpretativo  che «ai fini del termine massimo di cui all'art. 304,
comma  6,  vadano  calcolati soltanto i periodi di custodia cautelare
subiti dall'imputato in fasi omogenee».
    Nell'ordinanza   n. 529   del   2000   la   Corte   precisa  che,
contrariamente  a  quanto ritenuto dalla stessa Corte di cassazione a
sezioni unite, la sentenza n. 292 del 1998 si riferisce, come risulta
chiaramente  dalla  esposizione  in  fatto,  a un «imputato che aveva
visto regredire il suo procedimento e aveva subito custodia cautelare
in  fasi  non  omogenee,  e  proprio  in  ragione di cio' la relativa
questione  era  stata ritenuta rilevante e decisa nel merito mediante
una   soluzione   interpretativa   coerente   con   i   principi   di
proporzionalita'  della  pena  e  di  inviolabilita'  della  liberta'
personale». Pertanto, «una volta stabilito che l'art. 13 Cost. impone
di  "individuare  il  limite  estremo, superato il quale il permanere
dello  stato coercitivo si presuppone essere sproporzionato in quanto
eccedente  gli stessi limiti di tollerabilita' del sistema" (sentenza
n. 292  del 1998), non vi e' luogo ad introdurre distinzioni riferite
alle  ragioni  che hanno determinato il nuovo corso del termine, come
del  resto risulta dal testo dell'art. 304, comma 6, cod. proc. pen.,
che   esplicitamente  richiama  i  primi  tre  commi  dell'art. 303».
Sicche',  soltanto  se  si  include nel calcolo dei termini finali di
fase  anche  la  custodia  cautelare  subita  dall'imputato  in  fasi
diverse,  «la disposizione censurata mantiene integra la sua naturale
sfera  di applicazione e non resta limitata [...] ai casi eccezionali
di  molteplici  regressioni  del  procedimento  o  di  pluralita'  di
evasioni».
    A  seguito  di  tale pronuncia, le sezioni unite hanno sollevato,
con  l'ordinanza  iscritta al n. 434 del registro ordinanze del 2002,
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 303, comma 2, cod.
proc.  pen.,  ribadendo che tale norma impedisce di computare ai fini
dei  termini  massimi di fase di cui all'art. 304, comma 6, i periodi
di detenzione sofferti in una fase o in un grado diversi da quello in
cui  il  procedimento e' regredito. Il codice avrebbe difatti accolto
per  i  termini  di fase della custodia una concezione «monofasica» o
«endofasica»,  distinguendo  unicamente tra termini di fase e termine
complessivo,    senza   prendere   in   considerazione   il   periodo
«interfasico»,  si'  che,  «quando  l'art. 303,  comma  2, cod. proc.
pen. fa  riferimento  ai  termini che decorrono di nuovo, a questi si
possono  sommare  [...]  solo  entita'  omogenee,  e  cioe' i periodi
trascorsi nella stessa fase».
    Richiamandosi  al  principio, affermato nella sentenza n. 292 del
1998,  della  riduzione  al  minimo  necessario  del sacrificio della
liberta'  personale,  i  giudici rimettenti tentano poi di conciliare
l'indirizzo  sino  ad allora sostenuto dalla Corte costituzionale con
le   posizioni  delle  sezioni  unite,  affermando  che  «il  periodo
trascorso  nella  fase intermedia [...] non va perduto, ma, per cosi'
dire,  accreditato alla fase di competenza, con la conseguenza che vi
sara'  sommato  quando  il  procedimento l'avra' raggiunta. In questo
modo  il  sacrificio per il soggetto privato e' comunque di carattere
transitorio  e  certo  non  puo'  paragonarsi  [...]  agli effetti di
rottura  del  sistema  che  il  criterio  del  cumulo indifferenziato
irragionevolmente e' in grado di provocare».
    Con  ordinanza  n. 243  del  2003  questa  Corte ha dichiarato la
questione  manifestamente  inammissibile,  per  essere la motivazione
perplessa  e  contraddittoria, non mancando tuttavia di rilevare come
la  costruzione  delle sezioni unite circa il recupero della custodia
cautelare  finisca  per subordinare «il principio di proporzionalita'
all'appagamento  delle  esigenze della fase processuale» e riduca «il
principio  del minor sacrificio della liberta' personale ad una sorta
di  credito  di liberta' spendibile nelle eventuali fasi successive».
Le  ordinanze  n. 335  del  2003  e  n. 59  del  2004  dichiarano poi
manifestamente  inammissibili  per  difetto di motivazione successive
analoghe questioni di legittimita' costituzionale.
    Con la sentenza n. 23016 del 2004 le sezioni unite della Corte di
cassazione  confermano  l'indirizzo  gia'  espresso  nelle precedenti
decisioni,  ribadendo che «il coordinamento degli artt. 304, comma 6,
e  303, comma 2, del codice porta univocamente a ritenere che, per il
calcolo   del   doppio   dei   termini   di  fase,  siano  cumulabili
esclusivamente  le  fasi  e i gradi omogenei, per la puntuale ragione
che soltanto questi rappresentano segmenti processuali avvinti da una
relazione   di   corrispondenza,  di  omogeneita'  e  di  successione
funzionale, di talche', rispetto alla disposizione ex art. 303, comma
2,  il  grado  successivo puo' essere considerato come ripristino del
primo».  Sostenere  che  nel  doppio  del  termine  di  fase  debbano
cumularsi  tutti  i  periodi  di  custodia cautelare sofferti in fasi
diverse   significherebbe,   a  parere  della  Corte  di  cassazione,
«sconvolgere  l'assetto complessivo dell'impianto codicistico che non
conosce  altra  distinzione  che quella tra termini di fase e termini
complessivi  di  durata»,  introducendo  «un  termine «interfasico» o
«plurifasico»,  che  ingloba,  in  forma  anomala ed ibrida, segmenti
custodiali  propri  di  fasi  eterogenee,  in  tal  modo  realizzando
un'operazione manipolatrice della normativa, il cui reale significato
consiste  nella  piena  cancellazione  dell'art. 303,  comma 2, senza
un'espressa  declaratoria  di  illegittimita' costituzionale, e nella
radicale  riperimetrazione  del sistema vigente in materia di termini
della custodia cautelare».
    Come  gia'  rilevato, nell'ordinanza n. 529 del 2000 questa Corte
ha ritenuto che l'interpretazione patrocinata dalle sezioni unite sia
tale  da  svuotare sostanzialmente la portata dell'art. 304, comma 6,
cod.  proc. pen., in quanto di norma per determinare il nuovo termine
finale  di  fase  conseguente  al  regresso  del procedimento sarebbe
sufficiente  il termine definito dall'art. 303, comma 2, dello stesso
codice,  che  stabilisce  che  a  seguito  del  regresso  riprende  a
decorrere  l'ordinario  termine  della fase in cui il procedimento e'
regredito.  Il  termine  di  cui  all'art. 304,  comma  6, cod. proc.
pen. avrebbe  cioe'  uno spazio di operativita' solo quando i termini
di  durata  della  custodia cautelare sono stati sospesi in base alle
previsioni  dello stesso art. 304 cod. proc. pen., ovvero nei casi di
plurime  regressioni  del procedimento, riducendosi in tali limiti la
funzione  di  garanzia  ultima  della  durata  massima della custodia
cautelare svolta dai termini finali di fase.
    Tale  garanzia non risulterebbe assicurata neppure dal criterio -
del  cosi'  detto credito di liberta' - secondo cui sarebbe possibile
recuperare  e  accreditare  nella  successiva  fase  di competenza il
periodo  di  custodia  cautelare  trascorso nella fase intermedia. Il
recupero  e'  infatti  una evenienza non solo futura e incerta (posto
che  l'imputato potrebbe essere prosciolto o medio tempore scarcerato
o  comunque il procedimento potrebbe non pervenire, per le piu' varie
cause, a fasi o gradi ulteriori), ma non puo' verificarsi proprio nel
caso piu' ricorrente di regressione del procedimento, e cioe' in caso
di  annullamento  di  una  sentenza  di  appello  confermativa di una
condanna  di  primo  grado:  situazione per la quale non valgono piu'
termini custodiali «di fase», ma esclusivamente quelli complessivi di
cui  all'art. 303,  comma  4, cod. proc. pen., giusta il disposto del
comma 1, lettera d) ultimo periodo, del medesimo articolo.
    6.  - Nel corso della vicenda in esame la Corte costituzionale ha
applicato il principio di astenersi dal pronunciare una dichiarazione
di  illegittimita'  sin  dove  e'  stato  possibile  prospettare  una
interpretazione  della norma censurata conforme a Costituzione, anche
al fine di evitare il formarsi di lacune nel sistema, particolarmente
critiche   quando   la  disciplina  censurata  riguarda  la  liberta'
personale.
    Sulla  base di questo consolidato orientamento giurisprudenziale,
la Corte ha appunto pronunciato la sentenza interpretativa di rigetto
n. 292   del   1998,  ed  ha  poi  confermato  la  scelta  della  via
interpretativa  dopo  i  primi  interventi  delle sezioni unite della
Cassazione, sollecitate a dirimere i contrasti insorti in materia tra
le  diverse  sezioni,  sino a quando la Corte di cassazione a sezioni
unite  ha  confermato  con  particolare  forza  il  proprio indirizzo
interpretativo nella sentenza n. 23016 del 2004.
    A  seguito di tali decisioni e, in particolare, della sentenza da
ultimo  citata,  non vi e' dubbio che l'indirizzo delle sezioni unite
debba   ritenersi  oramai  consolidato,  si'  da  costituire  diritto
vivente,  rispetto  al  quale  non  sono  piu'  proponibili decisioni
interpretative.
    7.  -  Le  considerazioni svolte nella sentenza n. 292 del 1998 e
nelle successive ordinanze in precedenza menzionate circa il rispetto
dei  principi di adeguatezza e di proporzionalita', operanti anche in
relazione  ai  limiti  che  deve  incontrare la durata della custodia
cautelare,  discendono  direttamente  dalla  natura  servente  che la
Costituzione   assegna   alla  carcerazione  preventiva  rispetto  al
perseguimento  delle  finalita'  del  processo,  da  un  lato, e alle
esigenze   di   tutela   della  collettivita',  dall'altro,  tali  da
giustificare,  nel  bilanciamento tra interessi meritevoli di tutela,
il  temporaneo  sacrificio  della  liberta'  personale  di chi non e'
ancora stato giudicato colpevole in via definitiva.
    Nella  giurisprudenza della Corte, d'altro canto, le esigenze che
impongono, nella logica dell'art. 13 Cost., di privilegiare soluzioni
che  comportino  il minor sacrificio della liberta' personale trovano
le  loro  radici  nella  fondamentale sentenza n. 64 del 1970, che ha
aperto la via alla vigente disciplina in tema di termini massimi - di
fase, complessivi e finali - della custodia cautelare.
    La  Corte  -  allora  chiamata a pronunciarsi, tra l'altro, sulla
legittimita'  costituzionale  dell'art. 272  del  codice di procedura
penale  del  1930,  nella  parte  in cui limitava «l'operativita' dei
termini massimi della custodia preventiva alla sola fase istruttoria»
e  consentiva  che, dopo la chiusura dell'istruzione, la custodia non
fosse  soggetta  ad alcun limite - nell'accogliere la questione muove
dalla  constatazione che con l'art. 13, quinto comma, la Costituzione
ha  voluto evitare che il sacrificio della liberta' determinato dalla
custodia  preventiva  «sia  interamente  subordinato alle vicende del
procedimento;  ed  ha,  pertanto,  voluto  che,  con  la legislazione
ordinaria,   si  determinassero  i  limiti  temporali  massimi  della
carcerazione  preventiva, al di la' dei quali verrebbe compromesso il
bene  della  liberta' personale, che [...] costituisce una delle basi
della convivenza civile».
    La  stessa  Corte  precisa  peraltro  che  le  statuizioni  della
sentenza  «non  precludono  al legislatore una nuova disciplina della
materia,  eventualmente  differenziata  [...] anche in relazione alle
varie  fasi  del  procedimento,  purche', in conformita' con l'ultimo
comma  dell'art. 13  della  Costituzione, si assicuri in ogni caso la
predeterminazione  d'un ragionevole limite di durata della detenzione
preventiva».
    Per  essere  conformi  a  Costituzione  i  termini massimi devono
dunque  coprire  l'intera durata del procedimento, sino alla sentenza
definitiva;  ove non fossero disciplinati termini massimi di custodia
cautelare,   il   sacrificio   della  liberta'  risulterebbe  infatti
interamente  subordinato  alle esigenze processuali e ne risulterebbe
compromesso  il bene fondamentale della liberta' personale; ove siano
previsti   termini   massimi   in   relazione  alle  varie  fasi  del
procedimento,  la  relativa disciplina deve essere tale da assicurare
in  ogni  modo  un  ragionevole  limite  di durata della custodia, in
conformita'   d'altra   parte  ai  parametri  di  proporzionalita'  e
adeguatezza  interni  allo  stesso precetto sancito dall'ultimo comma
dell'art. 13 Cost.
    Le  limitazioni  della liberta' connesse alle vicende processuali
devono   rispettare  il  principio  di  proporzionalita',  posto  che
contrasterebbe  con il giusto equilibrio tra le esigenze del processo
e  la tutela della liberta' una disciplina della detenzione cautelare
priva  di  limiti  di  durata  ragguagliati,  da  un  lato, alla pena
prevista   per   il  reato  contestato  o  ritenuto  in  sentenza  e,
dall'altro,  alla  concreta dinamica del processo e alle diverse fasi
in  cui  esso si articola. Unitamente al principio di adeguatezza, il
criterio  di proporzionalita' tra la gravita' della pena prevista per
il  reato  e  la  durata  della  custodia  lungo  l'intiero corso del
procedimento ispira l'esigenza di assicurare un ragionevole limite di
durata   della  custodia  cautelare  in  relazione  alla  sua  durata
complessiva e alle singole fasi del processo.
    Processo  e  fatto di reato sono infatti termini inscindibili del
binomio  al  quale va sempre parametrata la disciplina della custodia
cautelare  e  ad entrambi deve sempre essere ancorata la problematica
dei  termini  entro  i  quali la durata delle misure limitative della
liberta'  personale  puo' dirsi proporzionata e, quindi, ragionevole:
tra  l'altro,  in conformita' ai valori espressi dall'art. 5, par. 3,
della    Convenzione   europea   dei   diritti   dell'uomo,   secondo
l'interpretazione  datane  dalla  Corte  di  Strasburgo.  Nel sistema
attuale,  la  durata  ragionevole  e',  appunto, assicurata anche dai
termini  massimi  di  fase,  in  quanto  proporzionati alla effettiva
evoluzione della situazione processuale dell'imputato.
    Infine,  proporzionalita'  e  ragionevolezza stanno alla base del
principio  secondo  cui,  in  ossequio al favor libertatis che ispira
l'art. 13  Cost.,  deve  comunque  essere  scelta  la  soluzione  che
comporta il minor sacrificio della liberta' personale.
    La  tutela  della liberta' personale che si realizza attraverso i
limiti  massimi  di custodia voluti dall'art. 13, quinto comma, Cost.
e'  quindi  un  valore  unitario  e indivisibile, che non puo' subire
deroghe  o  eccezioni  riferite  a  particolari e contingenti vicende
processuali, ovvero desunte da una ricostruzione dell'attuale sistema
processuale  che non consenta di tenere conto, ai fini della garanzia
del termine massimo finale di fase, dei periodi di custodia cautelare
«comunque» sofferti nel corso del procedimento.
    9.  -  Sulla  base  di tali principi, ai quali questa Corte si e'
costantemente  richiamata per interpretare la disciplina censurata in
modo  conforme  a  Costituzione,  e  preso  atto che si e' formato un
diritto vivente incompatibile con l'interpretazione sinora sostenuta,
la   Corte   stessa   non   puo'   che   dichiarare  l'illegittimita'
costituzionale  dell'art. 303, comma 2, cod. proc. pen. per contrasto
con gli artt. 3 e 13 Cost.
    La  disciplina  impugnata  e'  infatti  lesiva  di tali parametri
costituzionali  nella  parte  in  cui  non  consente che i periodi di
custodia  cautelare derivanti da errores in judicando o in procedendo
che  hanno  comportato  la  regressione del procedimento, sofferti in
momenti  processuali  diversi  dalla  fase  o  dal  grado  in  cui il
procedimento  e'  regredito,  siano  computati  ai  fini  dei termini
massimi di fase determinati dall'art. 304, comma 6, cod. proc. pen.
                          Per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
    Riuniti i giudizi,
    Dichiara  l'illegittimita' costituzionale dell'art. 303, comma 2,
del  codice  di  procedura penale, nella parte in cui non consente di
computare   ai   fini   dei   termini  massimi  di  fase  determinati
dall'art. 304,  comma  6,  dello stesso codice, i periodi di custodia
cautelare  sofferti in fasi o in gradi diversi dalla fase o dal grado
in cui il procedimento e' regredito.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2005.
                      Il Presidente: Capotosti
                     Il redattore: Neppi Modona
                       Il cancelliere:Di Paola
    Depositata in cancelleria il 22 luglio 2005.
              Il direttore della cancelleria: Di Paola
05C0813