N. 433 ORDINANZA (Atto di promovimento) 27 maggio 2005

Ordinanza  emessa  il  27  maggio  2005  dal  G.U.P. del Tribunale di
Imperia nel procedimento penale a carico di Vigilante Carmelino

Processo  penale  -  Prove  - Testimonianza - Persona giudicata in un
  procedimento  connesso  che  assume  l'ufficio  di  testimone (c.d.
  testimone  assistito) - Esenzione dall'obbligo di deporre sui fatti
  per  i  quali  sia stata pronunciata nei suoi confronti sentenza di
  applicazione  della  pena, se nel procedimento egli aveva negato la
  propria  responsabilita'  o  non  aveva reso alcuna dichiarazione -
  Mancata  previsione  -  Disparita'  di  trattamento  rispetto  alla
  situazione  analoga  del  testimone  nei  cui  confronti  sia stata
  pronunciata sentenza di condanna - Lesione del diritto di difesa.
- Codice di procedura penale, art. 197-bis, comma 4.
- Costituzione, artt. 3 e 24, comma secondo.
(GU n.38 del 21-9-2005 )
                            IL TRIBUNALE

    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  nel  corso dell'udienza
preliminare  relativa  al  procedimento  n. 2501/04  RGNR a carico di
Vigilante  Carmelino,  nato Vallecrosia (IM) 12 agosto 1961, imputato
per i reati:
        a) 110, 368, comma 1 e 2 c.p.;
        b) 81 cpv., 110, 61 n. 2, 374 c.p.;
        c) 371-bis c.p.;
        d) 372 c.p.
    Nel corso della quale sono state prospettate sia dal p.m. sia dal
difensore  del  teste  c.d.  «assistito»  profili  di  illegittimita'
costituzionale  dell'art. 197-bis, comma 4 c.p.p. - per contrasto con
gli  artt. 3  e  24  Cost. - nella parte in cui non prevede che anche
l'imputato  giudicato con sentenza di applicazione della pena passata
in giudicato non possa essere obbligato a deporre.
    Il p.m. ha avanzato richiesta di rinvio a giudizio, oltre che per
l'odierno  imputato,  anche nei confronti di Sabatino Bruno, Brunelli
Guido,  Barbabella  Danilo  e  Fazzini  Carmelo - questi ultimi tutti
appartenenti  all'Arma  dei  carabinieri,  e all'epoca in servizio in
Imperia   -   per   fatti   di  calunnia,  falsita'  in  atti,  false
dichiarazioni  al  p.m.  e  falsa  testimonianza.  Nella  fase  delle
indagini  preliminari,  il  coimputato  mar. Ditta Salvatore chiedeva
l'applicazione  della  pena  cui  seguiva,  previo consenso del p.m.,
sentenza emessa dal g.i.p.
    Giunti  all'udienza  preliminare,  le  varie  posizioni  si  sono
scisse:  l'imputato  Vigilante  chiedeva di essere giudicato con rito
abbreviato condizionato all'audizione del mar. Ditta, il quale mai ha
reso alcuna dichiarazione nel corso del procedimento.
    Laddove  costui  fosse  stato  condannato con sentenza passata in
giudicato,  ben  avrebbe  potuto  avvalersi  della  facolta'  di  non
rispondere;  avendo  patteggiato  la  pena  (con  sentenza passata in
giudicato)  tale  evenienza non pare, a una prima lettura, possibile:
il   comma  4  dell'art. 197-bis  c.p.p.  recita,  infatti,  «...  il
testimone  non  puo' essere obbligato a deporre sui fatti per i quali
e'  stata  pronunciata  in  giudizio  sentenza  di  condanna nei suoi
confronti,    se   nel   procedimento   aveva   negato   la   propria
responsabilita' ovvero non aveva reso alcuna dichiarazione.».
    Non  sfugge  a questo giudice come, in prima battuta, ben sarebbe
possibile    una   lettura   «costituzionalmente   orientata»   della
disposizione in esame, in ottemperanza alle plurime indicazioni della
Corte  di  legittimita',  nel  senso  di  ritenere  ricompresa  nella
previsione  di cui all'art. 197-bis, comma 4 c.p.p. anche la sentenza
di applicazione della pena. Invero:
        la  sentenza di patteggiamento e' equiparata dall'ordinamento
a  quella  di  condanna; art. 445, comma 1-bis c.p.p.: «Salve diverse
disposizioni  di  legge, la sentenza e' equiparata a una pronuncia di
condanna»;
        la  legge  n. 134/2000,  modificando  l'art. 629  c.p.p.,  ha
esteso la possibilita' del giudizio di revisione anche le sentenze di
patteggiamento,   cosi'   -   evidentemente  -  ammettendo  il  pieno
accertamento del fatto anche per tale tipo di pronuncia.
    Tuttavia,   una  tale  interpretazione  trova  un  insormontabile
ostacolo   nella   lettura   degli   atti   parlamentari;  queste  le
dichiarazioni  del  sen. Calvi  (seduta  senato  commissione  in sede
deliberante 20 dicembre 2000) a proposito del comma 4 in discussione:
«Per  quanto  riguarda invece il comma 4 osserva come - tenendo conto
anche  della  diversa formulazione del comma 1 - la previsione di cui
al  primo  periodo  di tale comma debba essere interpretata nel senso
che  essa  non  ricomprende  le ipotesi di applicazione della pena su
richiesta  delle parti ai sensi dell'art. 444 del codice di procedura
penale.  Si  tratta di una scelta consapevole volta a far si' che, in
tali  ipotesi,  il  soggetto  che  assume  l'obbligo testimoniale sia
tenuto  a rispondere anche sui fatti per i quali e' stata pronunciata
nei  suoi  confronti  la  sentenza  di  applicazione  della  pena  su
richiesta,  in  modo  da  realizzare cosi una significativa riduzione
dell'area  del  diritto  al silenzio nell'ambito qui specificatamente
considerato. Prospetta tuttavia la possibilita' di inserire nel comma
4  dell'art.  197-bis - come proposto con l'emendamento 6.2 - dopo la
parola  "pronunciata"  le  altre  "in  giudizio"  al  fine di evitare
possibili    dubbi   interpretativi   che   potrebbero   nascere   in
considerazione,  tra  l'altro,  del  disposto dell'art. 445, comma 1,
ultimo periodo del codice di procedura penale».
    In  definitiva,  il  legislatore  ha  oculatamentente vagliato la
formulazione  del comma 4 dell'art. 197-bis c.p.p., con l'esplicitata
intenzione  di  volervi  ricomprendere solo le «sentenze di condanna»
emesse  all'esito  di  un  «giudizio»: con esclusione, quindi, tra le
altre,  delle  sentenze  di  applicazione della pena, per definizione
prive   di   una  pregressa  fase  di  «giudizio»  in  senso  tecnico
(tralasciandosi   le  questioni  inerenti  la  natura  di  «giudizio»
riconosciuta all'udienza preliminare dal Giudice delle leggi).
    Dunque,  non  resta  che verificare la compatibilita' di una tale
esplicita esclusione con i principi costituzionali.
    L'analisi  non  puo'  che  partire  dalla ratio ispiratrice della
disposizione  in esame: nel contemperamento di due opposti principi -
da  un  lato,  il  diritto  dell'accusato  al  confronto  col proprio
accusatore  (art. 111  Cost.);  dall'altro,  il  diritto  alla difesa
(art. 24   Cost.)   -  l'ordinamento  riconosce  al  c.d.  «testimone
assistito»  il  «diritto  al silenzio» solo laddove sia stata operata
una iniziale e irrevocabile scelta in tal senso (ovvero, ma non e' il
caso che occupa, se abbia negato la propria responsabilita).
    Peraltro - laddove il dichiarante abbia l'obbligo di rispondere o
non  si  sia  avvalso  della  facolta'  di  astenersi  dal  deporre -
l'assunzione   della  veste  formale  di  testimone  rende  a  costui
applicabili  le relative norme procedurali e sostanziali: di talche',
tra le altre, egli potra' rispondere del reato di falsa testimonianza
nonche'  avvalersi,  nella sussistenza dei presupposti, dell'esimente
di cui all'art. 384 c.p.
    E  proprio l'analisi di tale ultima disposizione, che rappresenta
una norma di chiusura, appare necessaria al fine in discussione: essa
prevede la non punibilita' - in ossequio al principio nemo tenetur se
detegere  -  relativamente  a una serie di reati laddove il fatto sia
stato  commesso  dall'agente  poiche'  «costretto dalla necessita' di
salvare   se'  medesimo  o  un  prossimo  congiunto  da  un  grave  e
inevitabile nocumento nella liberta' o nell'onore».
    Orbene, recentemente la suprema Corte ha piu' volte avuto modo di
esprimersi  su  tale  norma,  esplicitando  il  principio  espresso e
definendone  l'applicabilita'  pro  reo (con un evidente parallelismo
rispetto  all'ampliamento della tutela riconosciuta alle disposizioni
sanzionatici dei delitti contro l'onore).
    Cosi',   sono   stati   riconosciuti   quali   fatti  costituenti
pregiudizio ai sensi dell'art. 384 c.p.:
        il  dover  ammettere  l'uso  di  sostanze stupefacenti: Cass.
n. 37013/03   «ai   fini   dell'applicazione   dell'esimente  di  cui
all'art. 384  cod.  pen. per il delitto di favoreggiamento personale,
e'   configurabile   quale   "grave  e  inevitabile  nocumento  nella
liberta'", ed esclude dunque la punibilita' del fatto, la prospettiva
dell'applicazione delle sanzioni amministrative delineate all'art. 75
del  d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, per evitare la quale il testimone
abbia  negato  falsamente  l'acquisto  di  stupefacente  destinato al
proprio personale consumo»;
        l'aver  testimoniato  il  falso  dopo aver sporto una querela
calunniosa:  Cass. n. 35554/3 «non e' punibile, per il principio nemo
tenetur  se  detegere di cui all'art. 384, cpv. cod. pen., la persona
che   sia   stata   costretta   a  rendere  falsa  testimonianza  nel
procedimento  promosso  su  sua querela, cosi' sostenendo l'accusa al
fine di evitare l'incriminazione per calunnia»;
        il  dover  dichiarare  di  esercitare la prostituzione: Cass.
n. 21431/2003 «in tema di reato di falsa testimonianza, l'esimente di
cui  all'art. 384  cod.  pen. va  applicata  anche nei casi in cui la
situazione  di  necessita'  sia  collegabile  a  scelte  dell'agente.
(Fattispecie  in  cui  un  soggetto  aveva  reso  false dichiarazioni
dettate  dall'intento  di  non  rivelare l'attivita' di prostituzione
esercitata  dall'agente che avrebbe determinato un grave nocumento al
suo onore)».
    Inoltre,  la  suprema Corte ha attribuito assoluta rilevanza alle
condizioni  personali  e  sociali  dell'agente, si da soggettivizzare
l'esimente in esame: Cass. n. 11409/2003 «ai fini dell'applicabilita'
dell'esimente di cui all'art. 384 cod. pen., il giudice deve valutare
il   pericolo   del  grave  nocumento  all'onore  in  relazione  alla
personalita'  dell'autore,  desunta anche dall'ambiente in cui vive e
dalla  sua  incensuratezza  e  pertanto  esso  puo'  ravvisarsi nella
necessita'  di  difendere  la propria onorabilita' per evitare di far
conoscere   la  dipendenza  dalla  droga.  (Fattispecie  nella  quale
l'imputato   rispondeva  del  delitto  di  favoreggiamento  per  aver
ingoiato   l'involucro  contenente  stupefacente,  e  si  era  difeso
affermando che aveva agito non per favorire lo spacciatore ma per non
far conoscere la sua tossicodipendenza)».
    In  definitiva,  ben  puo'  dirsi  che  nel nostro ordinamento il
principio  nemo  tenetur  se  detegere  tutela le condotte che, ancor
prima  di costituire illecito penalmente rilevante, potrebbero essere
lesive dell'onore e del decoro dell'agente.
    Vieppiu', tale principio vige indipendentemente dalla sussistenza
di una possibile diversa soluzione per l'agente, purche' si prospetti
il  pericolo per la liberta' e l'onore cfr. Cass. n. 44743/2003: «non
e'  punibile,  ai  sensi  di cui all'art. 384 cod. pen., colui che ha
posto in essere una condotta di favoreggiamento personale, consistita
nel  negare, agli agenti della polizia giudiziaria, la presenza nella
propria abitazione degli autori di una rapina, quando l'agire in modo
conforme alla legge avrebbe comportato un'accusa contro se stesso, in
contrasto  con il principio nemo tenetur se detegere senza che rilevi
la  circostanza  che  avrebbero  potuto  delinearsi  altre  e diverse
possibilita' difensive».
    E,  finanche,  laddove  lo  stato  di necessita' sia dipeso dalla
volonta' dell'agente: cfr. Cass. n. 21431/2003 su riportata.
    Se  cosi'  e',  non  si  vede  come  la  norma della quale si sta
valutando   la  legittimita'  possa  ritenersi  conforme  al  dettato
costituzionale  laddove,  a  fronte  di  due situazioni assolutamente
analoghe  e  assimilabili  (ovvero,  la  sentenza  di  condanna  e la
sentenza   di  applicazione  della  pena),  propone  due  antitetiche
modalita' di assunzione della prova.
    Non  si  vede,  allora,  come una analoga tutela non possa essere
accordata  a  colui che sceglie la via del «patteggiamento», spesso -
come  nel  caso  in  esame  - addirittura in fase pre-processuale, al
dichiarato fine di evitare la stessa richiesta di rinvio a giudizio.
    In  entrambi  i casi, infatti, i testimoni assistiti hanno scelto
la  via  del  silenzio  e  hanno  riportato  una sentenza comportante
l'irrogazione   di   una   pena;  entrambi,  laddove  costretti  alla
deposizione,  ben  potrebbero invocare a loro favore il principio del
nemo  tenetur  se  detegere:  e,  allora,  non  pare  che  il momento
processuale    in   cui   la   sentenza   e'   stata   emessa   possa
costituzionalmente giustificare la disparita' di trattamento.
    Si  aggiunga  che  il  tenore  del  comma  5 della norma in esame
recita:  «in  ogni  caso le dichiarazioni rese dai soggetti di cui al
presente articolo non possono essere utilizzate contro la persona che
le  ha  rese  nel  procedimento  a  suo  carico,  nel procedimento di
revisione  della sentenza di condanna ed in qualsiasi giudizio civile
o  amministrativo  relativo al fatto oggetto dei procedimenti e delle
sentenze  suddette»,  cosi' escludendosi il giudizio disciplinare nel
quale,  pertanto,  potrebbero essere utilizzate le dichiarazioni rese
quale  testimone  assistito.  Appare  ovvio  come,  solo  laddove sia
lasciata  la possibilita' di scelta, il dichiarante possa valutare le
conseguenze  e decidere se rispondere o meno: evenienza disattesa nel
caso che ci occupa.
    A  parere  di  questo  giudice  pare di tutta evidenza l'assoluta
irragionevolezza  del  differente trattamento previsto per l'imputato
che  abbia  «patteggiato» la pena rispetto colui che abbia subito una
sentenza  di  condanna,  poiche'  le  situazioni  appaiono  del tutto
omogenee e sovrapponibili: consegue la violazione dell'art. 3 Cost.
    Consegue,  altresi', la violazione del diritto alla difesa di cui
all'art. 24,  comma  2 Cost., poiche' nell'obbligo alla testimonianza
vi   e'   palese   violazione  del  diritto  al  silenzio  codificato
dall'art. 64 c.p.p., e poiche' espone il dichiarante al rischio di un
procedimento   per   falsa   testimonianza   (ancorche'   applicabile
l'esimente di cui all'art. 384 c.p.).
    Innegabile  la  rilevanza  della questione nel giudizio in esame,
essendo  stata ammessa l'audizione del mar. Ditta in sede di giudizio
abbreviato   cd.  condizionato:  avuta  la  presenza  del  teste,  il
difensore di costui ha chiesto venisse avvisato della facolta' di non
rispondere, cui e' seguita l'eccezione di legittimita' costituzionale
sollevata   dal  p.m.  cui  si  e'  associata,  finanche,  la  difesa
dell'imputato.
                              P. Q. M.
    Rilevante  e  non manifestamente infondata nel processo de quo la
questione  di  legittimita' costituzionale dell'art. 197-bis, comma 4
per  c.p.p.,  per violazione degli artt. 3 e 24, comma 2 Cost., nella
parte  in cui non prevede che il testimone non possa essere obbligato
a  deporre  sui  fatti  per  i  quali  sia stata pronunciata nei suoi
confronti  sentenza  di  applicazione della pena, se nel procedimento
egli  aveva  negato  la propria responsabilita' ovvero non aveva reso
alcuna dichiarazione.
    Dispone  la  trasmissione  degli atti alla Corte costituzionale e
sospende il giudizio in corso.
    Manda  per  la  notifica  all'imputato,  ai  difensori,  al p.m.,
nonche' al Presidente del Consiglio dei ministri.
    Si comunichi ai Presidenti delle due Camere.
    Manda   alla   cancelleria   per  gli  ulteriori  adempimenti  di
competenza.
        Imperia, addi' 27 maggio 2005
                          Il giudice: Russo
05C0942