N. 519 ORDINANZA (Atto di promovimento) 25 maggio 2005
Ordinanza emessa il 25 maggio 2005 dal tribunale di Milano nel procedimento penale a carico di Gustav Larissa Straniero e apolide - Espulsione amministrativa - Delitto di trattenimento, senza giustificato motivo, nel territorio dello Stato in violazione dell'ordine di allontanamento impartito dal questore - Trattamento sanzionatorio - Reclusione da uno a quattro anni - Violazione del principio di ragionevolezza e di proporzionalita' della pena - Disparita' di trattamento rispetto a fattispecie analoghe - Contrasto con il principio della finalita' rieducativa della pena - Limitazione della liberta' di circolazione. - Decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, art. 14, comma 5-ter, prima parte, modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189 e dalla legge 12 novembre 2004, n. 271 [rectius: dal decreto-legge 14 settembre 2004, n. 241, convertito, con modificazioni, nella legge 12 novembre 2004, n. 271]. - Costituzione, artt. 3, 16 e 27, comma terzo.(GU n.43 del 26-10-2005 )
IL TRIBUNALE Eccepisce l'illegittimita' costituzionale dell'art. 14, comma 5-ter, d.lgs. n. 286/1998 (modif. dall'art. 1, comma 5-bis, legge n. 271/2004 che ha convertito, con modificazioni, il d.l. n. 241/2004) per contrasto con gli artt. 3, 16 e 27, terzo comma Cost. Quanto alla rilevanza, si premette che l'imputata Gustav Larissa e' stata tratta in arresto in data 14 marzo 2005, nella flagranza del reato previsto dall'art. 14, comma 5-ter, d.lgs. n. 286/1998 (modif. dalla legge n. 271/2004 che ha convertito, con modificazioni, il d.l. n. 241/2004). All'imputata, infatti, in data 6 marzo 2005, e' stato notificato il decreto di espulsione emesso dal Prefetto di Milano in pari data, nonche' l'ordine di allontanamento dal territorio dello Stato entro 5 giorni emesso dal Questore di Milano lo stesso giorno. Il decreto di espulsione e' stato emesso ai sensi dell'art. 13, comma 2, lettera a) per essersi la straniera introdotta illegalmente nel territorio dello Stato, sottraendosi ai controlli di frontiera. Entrambi i provvedimenti sono stati tradotti in lingua rumena, compresa e parlata dall'imputata. Quest'ultima, in sede d'interrogatorio, reso all'udienza di convalida, ha dichiarato di avere compreso il significato dei due provvedimenti; non e' stato dimostrato alcun giustificato motivo in ordine al mancato allontanamento. All'esito dell'udienza di convalida, infine, Gustav Larissa ha chiesto ed ottenuto l'ammissione al rito abbreviato; il p.m. ha quindi prodotto il proprio fascicolo e le parti hanno rassegnato le proprie conclusioni. Pertanto, il giudice e' chiamato ad applicare il disposto dell'art. 14, comma 5-ter, d.lgs. n. 286/1998 prima parte, come modificato dall'art. 1, comma 5-bis, legge n. 271/2004 (che ha convertito, con modificazioni, il d.l. n. 241/2004). In ordine alla non manifesta infondatezza della questione, si rileva quanto segue. Il reato previsto dalla norma della cui costituzionalita' si dubita, e' stato introdotto dalla legge n. 189/2002; l'art. 14, comma 5-ter, nella sua originaria formulazione, puniva lo straniero che, senza giustificato motivo, si trattiene nel territorio dello Stato in violazione dell'ordine del questore, impartito ai sensi del comma 5-bis stessa legge, con la pena dell'arresto da sei mesi ad un anno. In seguito, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 223/2004, ha dichiarato l'illegittimita' dell'art. 14, comma 5-quinquies, d.lgs. n. 286/1998, per contrasto con gli artt. 3 e 13 Cost. «nella parte in cui stabilisce che per il reato previsto dal comma 5-ter del medesimo art. 14 e' previsto l'arresto obbligatorio in flagranza». La Corte ha infatti osservato che «la misura precautelare prevista dall'art. 14, comma 5-quinquies (...) non essendo finalizzata all'adozione di alcun provvedimento coercitivo, si risolv(e) in una limitazione provvisoria della liberta' personale priva di qualsiasi funzione processuale e quindi (...) manifestamente irragionevole» (v. sent. Corte cost. n. 223/2004). E' stato quindi emanato il d.l. n. 241/2004, il quale ha limitato la misura dell'arresto obbligatorio all'ipotesi di reato prevista dal comma 5-quater dell'art. 14 (e cioe' il reingresso nel territorio dello Stato dello straniero espulso, delitto punito con la pena della reclusione da uno a quattro anni). La legge di conversione del decreto, n. 271 del 2004, ha invece profondamente inciso sulla disciplina sanzionatoria dell'art. 14, comma 5-ter, il cui testo vigente e' il seguente: Lo straniero che senza giustificato motivo si trattiene nel territorio dello Stato in violazione dell'ordine impartito dal questore ai sensi del comma 5-bis, e' punito con la reclusione da uno a quattro anni se l'espulsione e' stata disposta per ingresso illegale sul territorio nazionale ai sensi dell'art. 13, comma 2, lettere a) e c), ovvero per non aver richiesto il permesso di soggiorno nel termine prescritto in assenza di cause di forza maggiore, ovvero per essere stato il permesso revocato o annullato. Si applica la pena dell'arresto da sei mesi ad un anno se l'espulsione e' stata disposta perche' il permesso di soggiorno e' scaduto da piu' di sessanta giorni e non ne e' stato richiesto il rinnovo. In ogni caso si procede all'adozione di un nuovo provvedimento di espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica. La pena edittale - per le condotte indicate nella prima parte della norma - ha subito pertanto un notevole inasprimento, che questo giudice ritiene superi i canoni della proporzionalita' e ragionevolezza. Il rimettente non ignora il costante orientamento della Corte costituzionale in ordine alla discrezionalita' del legislatore sulla determinazione e quantificazione delle sanzioni penali. La medesima Corte, peraltro, pur ricusando il compito di «rimodulare le scelte punitive effettuate dal legislatore» e «stabilire quantificazioni sanzionatorie» (sent. n. 341 del 1994, 217 e 370 del 1996, ordinanze n. 89, 165 e 190 del 1997), ha tuttavia affermato che «l'esercizio di tale discrezionalita' puo' essere censurato quando esso non rispetti il limite della ragionevolezza e dia quindi luogo ad una disparita' di trattamento palese ed ingiustificata» (sent. n. 25 del 1994, ordinanze n. 456 del 1997 e 435 del 1998). Inoltre, con la nota sentenza n. 341 del 1994, nella quale fu dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 341 c.p., nella parte in cui prevedeva, quale minimo edittale per il reato di oltraggio a p.u., la pena di sei mesi di reclusione, ha ribadito che «alla Corte rimane il compito di verificare che l'uso della discrezionalita' legislativa in materia rispetti il limite della ragionevolezza». La Corte, infatti, ha ritenuto il superamento del predetto limite contrasti innanzitutto con l'art. 3 Cost. Nella sentenza n. 409/1989, ha affermato che «il principio di uguaglianza, di cui all'art. 3, primo comma Cost., esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela di posizioni individuali». Il mancato rispetto del limite della ragionevolezza porta a «negare legittimita' alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalita' statuali di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all'individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed alla societa', sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti con la tutela dei beni e dei valori offesi dalle predette incriminazioni» (sentenza n. 409 del 1989). Inoltre, il superamento del principio di proporzionalita' contrasta con il disposto del terzo comma, art. 27 Cost., impedendo la funzione rieducativa della pena. Questa, infatti, costituisceuna «una delle sue qualita' essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l'accompagnano da quando nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in concreto di estingue»: tale finalita' rieducativa implica pertanto un costante «principio di proporzione tra qualita' e quantita' della sanzione, da una parte, e offesa, dall'altra» (sentenza n. 341 del 1994, con rif. alla sentenza n. 313 del 1990). «La palese sproporzione del sacrificio della liberta' personale (...) produce, infatti, una vanificazione del fine rieducativo della pena prescritto dall'art. 27, terzo comma Cost., che di quella liberta' costituisce una garanzia istituzionale in relazione allo stato di detenzione» (sentenza n. 343 del 1993). Sulla scorta di tali enunciazioni, la Corte, con la sentenza n. 341 del 1994, ha dichiarato incostituzionale l'art. 341 c.p., nella parte in cui prevedeva come minimo edittale per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale la pena di sei mesi di reclusione. Innanzitutto, la Corte ha rilevato l'incongruenza della previsione rispetto alla tradizione liberale italiana ed europea ed inoltre la sua estraneita' alla coscienza democratica del Paese sancita dalla Carta costituzionale. Inoltre, ne ha evidenziato l'irragionevolezza se raffrontata al trattamento sanzionatorio del reato di ingiuria previsto dall'art. 594 c.p. Piu' di recente, la Corte ha ribadito la necessita' che la pena comminata sia commisurata all'effettivo disvalore sociale del fatto punito (ordinanza n. 207 del 1999) e alla «particolare importanza del bene protetto» (ordinanza n. 213 del 2000). Con particolare riferimento alle norme che qui vengono in rilievo, la Corte costituzionale - dichiarando inammissibile la richiesta di referendum abrogativo con la sentenza n. 31 del 2000 - ha avuto modo di osservare che il decreto legislativo n. 286 del 1998 - in particolare il titolo II che concerne l'ingresso, il soggiorno e l'allontanamento dal territorio dello Stato - costituisce l'adempimento, da parte dello Stato italiano, agli obblighi imposti agli Stati membri della Comunita' europea dal trattato di Amsterdam (ratificato e reso esecutivo con legge n. 209/1998) di regolare in modo uniforme l'ingresso e il soggiorno dei cittadini extracomunitari (art. 61 e 63 del trattato di Roma, modificato dal trattato di Amsterdam). Cio' in ottemperanza, inoltre, al Trattato di Maastricht - ratificato e reso esecutivo con legge n. 454/1992 - che annovera tra i propri fini quello di conservare e sviluppare l'Unione «quale spazio di liberta', sicurezza e giustizia in cui sia assicurata la liberta' di circolazione delle persone, insieme a misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l'asilo, l'immigrazione, la prevenzione della criminalita' e la lotta contro quest'ultima» (artt. 2, comma 1 e 29 del Trattato) (sent. n. 31 del 2000). La disciplina in esame, infatti, regola e limita il diritto alla libera circolazione delle persone nel territorio dello Stato, riconosciuto dall'art. 16 della Costituzione. Tale diritto, in quanto manifestazione di un diritto di liberta', e' riconosciuto anche allo straniero, per ripetuto e consolidato orientamento della Corte costituzionale, la quale ha ammesso «l'applicabilita' allo straniero del principio di uguaglianza, riconoscendone la validita' a favore delle situazioni soggettive nel campo della titolarita' dei diritti di liberta» (sentenza n. 46 del 1977). Tuttavia, la medesima Corte ha avallato limitazioni alle liberta' fondamentali dello straniero, in nome della tutela della sicurezza, della sanita' e dell'ordine pubblico dei cittadini. Infatti, pur ribadendo che «quando venga riferito al godimento dei diritti inviolabili dell'uomo, qual e' nel caso la liberta' personale, il principio costituzionale di eguaglianza in generale non tollera discriminazioni fra la posizione del cittadino e quella dello straniero, va tuttavia precisato che inerisce al controllo di costituzionalita' sotto il profilo della disparita' di trattamento considerare le posizioni messe a confronto, non gia' in astratto, bensi' in relazione alla concreta fattispecie oggetto della disciplina normativa contestata». In particolare in materia di espulsione, la Corte ha considerato la posizione dello straniero «peculiare e non comparabile, (...), con quella del cittadino, poiche' l'espulsione e' una misura riferibile unicamente allo straniero e in nessun caso estensibile al cittadino. A quest'ultimo, infatti, la Costituzione ha riservato, in relazione alle possibilita' di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, una posizione assolutamente opposta, connotata da un generale status libertatis» (art. 16, secondo comma, della Costituzione). (...) Al contrario, la mancanza nello straniero di un legame ontologico con la comunita' nazionale, e quindi di un nesso giuridico costitutivo con lo Stato italiano, conduce a negare allo stesso una posizione di liberta' in ordine all'ingresso e alla permanenza nel territorio italiano, dal momento che egli puo' «entrarvi e soggiornarvi solo conseguendo determinate autorizzazioni (revocabili in ogni momento) e, per lo piu', per un periodo determinato». Pertanto, la Corte ha considerato legittima la regolamentazione dell'ingresso e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale, perche' «collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanita' pubblica, l'ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione». Peraltro, ha precisato che seppure la ponderazione degli interessi pubblici considerati «spetta in via primaria al legislatore ordinario, il quale possiede in materia un'ampia discrezionalita», essa trova un'inevitabile limitazione «sotto il profilo della conformita' a Costituzione, soltanto dal vincolo che le sue scelte non risultino manifestamente irragionevoli» (sentenza n. 62 del 1994 e sentt. nn. 144 del 1970 e 104 del 1969). La compressione dei diritti fondamentali dello straniero, quindi, e' legittima solo se, in comparazione con le esigenze dello Stato e dei cittadini, sia esercitata ragionevolmente, alla stregua degli altri parametri costituzionali prima citati. Alla luce dei principi enunciati, si perviene alla conclusione che il trattamento sanzionatorio ora previsto dall'art. 14, comma 5-ter, prima parte, per il reato di trattenimento nel territorio dello Stato in violazione dell'ordine del questore, non risponde ai canoni della proporzionalita' e ragionevolezza. Essa infatti determina un'eccessiva compressione della liberta' di circolazione dello straniero, in proporzione alle esigenze di sicurezza dei cittadini, in violazione del principio di uguaglianza e della finalita' rieducativa della pena, nell'interpretazione fornita dalle sentenze della Corte sin qui citate. Innanzitutto, si ritiene che la pena prevista per il reato di trattenimento sia assolutamente sproporzionata quanto alla previsione minima di un anno di reclusione. Si evidenzia che la norma punisce il trattenimento dello straniero, senza operare alcuna distinzione tra le varie ipotesi per le quali sia stata comminata l'espulsione: e cioe' ingresso illegale nel territorio sottraendosi ai controlli di frontiera (art. 13, comma 2, lett. a); appartenenza ad alcune delle categorie di soggetti c.d. «pericolosi socialmente» ovvero indiziati di appartenere ad associazioni mafiose (lett. c); mancata richiesta del permesso di soggiorno nei termini prescritti; revoca od annullamento del permesso medesimo. Si tratta di fattispecie che presentano tra loro una rilevante diversita' quanto ad allarme sociale e disvalore del fatto illecito. L'assoluta sproporzione tra pena minima prevista e offensivita' della condotta vale innanzitutto per le ipotesi, quale il caso in esame, del trattenimento sul territorio del cittadino extracomunitario, soggiornante in Italia da circa tre mesi, irregolare sul territorio ma comunque privo di precedenti penali od anche di segnalazioni dattiloscopiche, destinatario di un provvedimento di espulsione perche' sottrattosi, all'ingresso, ai controlli di frontiera. L'allarme sociale - invero modesto - destato da una tale condotta, infatti, non appare giustificare la comminazione di una sanzione tanto elevata nel minimo edittale. Giova ricordare inoltre che, tra le cause di revoca del permesso di soggiorno, l'art. 30, comma 1-bis, d.lgs, cita l'accertamento della mancata effettiva convivenza a seguito di matrimonio con cittadino italiano (salvo che vi sia prole). Inoltre, causa di revoca del permesso di soggiorno rilasciato per motivi di lavoro e' costituita dalla cessazione del rapporto di lavoro. E' evidente che anche ipotesi del genere - di frequente verificazione nella prassi - nelle quali lo straniero regolarmente soggiornante sul territorio veda improvvisamente venir meno il presupposto della sua permanenza - per ragioni che prescindono da una sua reale pericolosita' sociale - e sia costretto, nel brevissimo termine di cinque giorni, a lasciare il territorio dello Stato e non vi ottemperi, presentano una scarsa offensivita' e un minimo disvalore sociale. Tali ipotesi, in effetti, sembrerebbero assimilabili piu' a quella prevista dalla seconda parte dell'art. 14, comma 5-ter - e cioe' trattenimento sul territorio dello straniero espulso per mancata richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno scaduto da oltre sessanta giorni - che ha mantenuto la natura di reato contravvenzionale, punito con l'originaria pena dell'arresto da sei mesi a un anno. Rispetto alle situazioni qui descritte, pertanto, la sanzione minima di un anno di reclusione appare assolutamente irragionevole. Altrettanto irragionevole e sproporzionata appare anche la pena massima prevista (quadruplicata rispetto all'originaria previsione). Oltre alla considerazione che pure le ipotesi di maggiore gravita' previste dall'art. 14, comma 5-ter (trattenimento nel territorio dello Stato di cittadino straniero espulso perche' socialmente pericoloso, ovvero indiziato di far parte di associazione mafiosa, art. 13, comma 2, lett. c) difficilmente saranno punite con una pena cosi' elevata, giova rilevare che la modifica e' intervenuta per consentire l'obbligatorieta' dell'arresto e l'applicazione della misura cautelare custodiale, in adeguamento a quanto disposto dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 223 del 2004. Risulta infatti dai lavori parlamentari che l'emendamento che ha introdotto la modifica del trattamento sanzionatorio si e' reso necessario al fine di individuare «una base normativa (effettivamente non prevista dalla legge Bossi-Fini) per l'imposizione delle misure coercitive ai soggetti di cui al comma 5-ter dell'art. 14 del decreto legislativo n. 286 del 1998» (v. resoconto stenografico della seduta al Senato n. 678 del 20 ottobre 2004 in www.senato.it). Nessun cenno nella discussione ad un incrementato allarme sociale eventualmente verificatosi nelle more tra l'adozione del decreto-legge (che lasciava immutate le sanzioni della fattispecie in oggetto) e la promulgazione della legge di conversione. Condividendo sul punto le motivazioni dell'ordinanza di rimessione a questa Corte emessa dal Tribunale di Genova in data 10 dicembre 2004, si ritiene che la discrezionalita' del legislatore non comprenda esigenze di carattere processuale che non siano sostenute anche da ragioni di politica criminale e di adeguamento della pena al mutato disvalore sociale del fatto (Trib. Genova, ord. n. 544 del 10 dicembre 2004, in Guida al diritto n. 7 del 2005). Invero, l'applicazione di misure cautelari particolannente afflittive, quali la custodia in carcere, e' consentita solo rispetto a fatti di rilevante pericolosita': e' la gravita' del reato, evidenziata da un elevato trattamento sanzionatorio, a giustificare l'adozione di tale misura. Si dubita, invece, che il legislatore, compiendo un percorso logico inverso, possa aumentare il limite edittale di pena, prescindendo dalla mutata gravita' del fatto, al solo fine di rendere applicabile la misura coercitiva. Si aggiunge che la pena della fattispecie in esame appare sproporzionata anche in comparazione al trattamento sanzionatorio di altre fattispecie incriminatrici. Innanzitutto rispetto alla previsione dell'art. 14, comma 5-quater del medesimo d.lgs. n. 286/1998, il quale punisce (dopo la modifica della legge n. 271/2004 che ha aumentato l'originario limite massimo di quattro anni) con la reclusione da uno a cinque anni il regresso nel territorio dello Stato dello straniero gia' espulso. Prima della legge di conversione, il diverso disvalore delle due fattispecie era sancito da un trattamento sanzionatorio affatto differente, poiche', coerentemente, il legislatore aveva considerato notevolmente piu' grave la condotta di chi, gia' espulso, rientri sul territorio dello Stato rispetto a chi, pur essendo espulso e dovendosi allontanare, ingiustificatamente vi si trattenga. La differenza di un anno di reclusione nel massimo di pena edittale (comunque di difficile applicazione) comporta la sostanziale assimilazione, nel trattamento sanzionatorio, di condotte caratterizzate da una diversa offensivita'; scelta che appare pertanto parimenti irragionevole. Inoltre, la sanzione per l'ipotesi in esame appare del tutto sperequata rispetto al trattamento sanzionatorio previsto per altre fattispecie analogamente poste a tutela di beni quali l'ordine pubblico e la sicurezza pubblica. Si fa riferimento ad esempio alla norma di cui all'art. 650 c.p., che punisce con l'arresto fino a tre mesi o con la sola ammenda l'inottemperanza ad un ordine legalmente dato dall'autorita' per ragioni di sicurezza pubblica od ordine pubblico. Ovvero, all'art. 2, legge n. 1423/1956 che punisce con la pena dell'arresto da uno a sei mesi il contravventore del foglio di via emesso dal questore nei confronti di soggetti considerati pericolosi per la sicurezza pubblica. In tale ultimo caso, tra l'altro, il contravventore e' soggetto gia' considerato «pericoloso» da un provvedimento dell'autorita', circostanza che invece, nell'ipotesi dell'art. 14, comma 5-ter, e' solo eventuale. Altrettanto significativo e' il richiamo alla disposizione dell'art. 6 legge n. 401 del 1989, modificata dal d.l. n. 336 del 2001 (conv. in legge n. 377 del 2001). Il comma 6 punisce con la pena della reclusione da tre a diciotto mesi o con la sola multa il contravventore al divieto di accesso ai luoghi in cui si svolgono competizioni agonistiche, emesso dal questore. In tale caso, la gravita' della pena detentiva (comunque notevolmente inferiore a quella prevista per la fattispecie di trattenimento, e prevista in alternativa alla pena pecuniaria) e' giustificata dalla circostanza che destinatari del provvedimento del questore sono «persone che risultano denunciate o condannate per uno dei reati di cui all'art. 4, primo e secondo comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110, all'art. 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152 (1. armi, n.d.r.), all'art. 2, comma 2, del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205 (reati in materia di discriminazione razziale, etnica o religiosa, n.d.r.), e all'art. 6-bis, commi 1 e 2, della presente legge (comportamenti violenti in occasione di manifestazioni sportive, n.d.r.), ovvero per aver preso parte attiva ad episodi di violenza su persone o cose in occasione o a causa di competizioni agonistiche, o che nelle medesime circostanze abbiano incitato, inneggiato o indotto alla violenza». Ritenuta pertanto la pena prevista per il reato di cui all'art. 14, comma 5-ter, prima parte d.lgs. n. 286/1998, (modif. dalla legge n. 189/2002 e dalla legge n. 271/2004) assolutamente irragionevole, nel massimo e nel minimo, rispetto alla gravita' del fatto e sproporzionata in relazione alla pena prevista per fattispecie analoghe.
P. Q. M. Solleva questione di legittimita' costituzionale dell'art. 14, comma 5-ter prima parte d.lgs. n. 286/1998, (modif. dalla legge n. 189/2002 e dalla legge n. 271/2004), nella parte in cui prevede la pena della reclusione da uno a quattro anni per lo straniero che senza giustificato motivo, nelle ipotesi ivi previste, si trattiene nel territorio dello Stato in violazione dell'ordine impartito dal questore ai sensi del comma 5-bis, art. 14 stessa legge, per contrasto con gli artt. 3, 16 e 27, terzo comma della Costituzione. Sospende il giudizio in corso a carico di Gustav Larissa. Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Milano, addi' 25 maggio 2005 Il giudice: Centonze 05C1069