N. 568 ORDINANZA (Atto di promovimento) 27 settembre 2005

Ordinanza  emessa  il  27  settembre 2005 dal tribunale di Milano nel
procedimento  penale  a  carico  di  Dell'Utri Marcello, Luzi Romano,
Comincioli Romano

Reati  e  pene  -  False  comunicazioni  sociali - Nuova disciplina -
  Trattamento  sanzionatorio  -  Inadeguatezza  a  sanzionare in modo
  efficace  e  dissuasivo  le  condotte  colpevoli previste - Mancato
  adeguamento ai precetti europei.
- Codice  civile,  artt. 2621  e  2622,  come  sostituiti dal decreto
  legislativo 11 aprile 2002, n. 61.
- Costituzione,  artt. 3,  10,  11  e 117, con riferimento all'art. 6
  della  direttiva CEE 9 marzo 1968, n. 151 e all'art. 5 del Trattato
  CEE (ora art. 10 del Trattato CE).
(GU n.49 del 7-12-2005 )
                            IL TRIBUNALE

    Nell'udienza  del  27  settembre  2005  nel procedimento penale a
carico  di  dell'Utri  Marcello,  Luzi  Romano, Comincioli Romano, ha
pronunciato la seguente ordinanza.
    Il  p.m.  di  Milano,  nel corso dell'udienza del 30 giugno u.s.,
pronunciandosi   in   via   preliminare   nel   corso   dell'apertura
dell'udienza  medesima  riassunta dinanzi a questo collegio penale in
seguito  alla  comunicazione  formale  della  sentenza pervenuta alla
cancelleria di questa sezione da parte della Corte di Giustizia della
CE  nei procedimenti riuniti C-387/02, C391/02, C403/02, ha richiesto
a  questo  collegio  la  sospensione  ed  il  conseguente  rinvio del
presente  procedimento  in  attesa  che  la  Corte  costituzionale si
pronunci  sulla  richiesta di incostituzionalita' dell'art. 2622 c.c.
(cosi'  come  modificato  dall'art. 1  del  d.l. n. 61 del 2002), per
violazione  degli  artt. 11  e  117  della  Costituzione in relazione
all'art. 6   della   Direttiva   del  Consiglio  dell'Unione  europea
n. 68/151/CEE,  richiesta inviata alla suddetta Corte dal giudice per
le indagini preliminari di Potenza con ordinanza del 1° giugno 2005.
    Il  motivo addotto dal p.m. nella richiesta in questione e' stato
la  sostanziale  coincidenza  della vicenda sottoposta al giudizio di
questo  tribunale  con  quella  sottoposta al giudizio del giudice di
Potenza e conseguentemente prospettata alla corte con l'ordinanza che
si e' citata.
    I  difensori  degli  imputati  si sono opposti alla richiesta del
p.m.,  insistendo,  anche  e  soprattutto alla luce delle conclusioni
della  sentenza  della  Corte di Giustizia CE, per il proscioglimento
dei  loro  assistiti,  essendo  ormai trascorso il termine massimo di
prescrizione per i reati loro contestati.
      Questo  collegio  si  e'  riservata  la  decisione,  avendo  la
necessita'  di  acquisire  la  ordinanza  del  G.i.p. di Potenza e di
leggere le motivazioni nella stessa contenute.
    Va  comunque rammentato che, per piu' correttamente inquadrare la
vicenda  in  questione,  nel  corso  dell'udienza del 29 ottobre 2002
questo  stesso  collegio,  nel rispondere ad una articolata richiesta
del  p.m.  che  eccepiva  l'incostituzionalita' della stessa norma in
esame  (artt. 2621  e  2622  c.c.)  emanava  una  lunga  e  complessa
ordinanza  ai  sensi  dell'art. 234  (gia' art. 177) del Trattato CE,
chiedendo   alla   Corte   di   Giustizia   della  CE  una  pronuncia
pregiudiziale  in merito alla interpretazione dell'art. 6 della Prima
Direttiva  n. 168/151  del  Consiglio del 9 marzo 1968, e dell'art. 5
del Trattato CEE, ordinanza sospensiva del procedimento in questione,
che si ritiene opportuno e necessario compiutamente richiamare:
        «Il  p.m.  di Milano, nel corso dell'udienza del 24 settembre
u.s.   nel  procedimento  in  questione  (procedimento  a  carico  di
Dell'Utri Marcello, Luzi Romano e Comincioli Romano in relazione, tra
l'altro,  ai  reati  di  falso  in  bilancio  commessi  fino al 1993,
originariamente   puniti   ai  sensi  dell'art. 2621,  2640  c.c.,  e
successivamente  tramutati  in  violazione  dell'art. 2622  c.c.), ha
eccepito:
        l'incostituzionalita'  dell'art. 1  comma  2  del  d.lgs.  11
aprile  2002,  n. 61  (e per quanto occorra, dell'art. 11 della legge
3 ottobre  2001, n. 366) nella parte in cui prevede la procedibilita'
a  querela  per  il  reato  nello  stesso  previsto,  per  violazione
dell'art. 3 della Costituzione;
        ovvero,  in  subordine,  l'incostituzionalita'  degli artt. 1
comma  2 e 5 del d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61 (e, per quanto occorra,
della  legge  3 ottobre 2001, n. 366) nella parte in cui prevedono la
procedibilita'  a querela per i reati negli stessi previsti, commessi
anteriormente  alla  sua  entrata  in  vigore  per  violazione  degli
artt. 11 e 117 della Costituzione.
    In  conseguenza  di  tale eccezione egli ha richiesto al Collegio
procedente  di ritenere tale questione rilevante e non manifestamente
infondata, e di trasmettere gli atti alla Corte costituzionale per la
decisione.
    In  via  subordinata, infine, ha chiesto che il tribunale, ove lo
ritenga  necessario,  adisca in via incidentale la Corte di Giustizia
delle  comunita' europee perche' dichiari che la normativa introdotta
dal  decreto  legislativo  n. 61/2002  non e' adeguata a sanzionare i
fatti di falso in bilancio, dai quali sia derivato un danno, commessi
anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto stesso.
    Il  discorso  del  p.m.,  nel  trattare e motivare l'eccezione in
questione, parte da una premessa e si sviluppa su due piani paralleli
ma  convergenti nel richiedere la declaratoria di incostituzionalita'
delle  norme  indicate  (melius:  la  declaratoria  di  non manifesta
infondatezza delle questioni proposte):
        In  primo luogo il p.m. (e tutto cio' costituisce la premessa
del  suo  ragionamento),  ritiene  di  poter legittimamente affermare
(sulla base di alcune sentenze di giudici di merito e di legittimita)
la  «continuita'  normativa»  tra  la norma preesistente punitiva dei
comportamenti  sussumibili  sub  specie  «falso  in  bilancio» ovvero
«falsita' in comunicazioni sociali», e cioe' il vecchio art. 2621 del
c.c.,  e  le norme introdotte dal decreto legislativo 11 aprile 2002,
n. 61,  e cioe' i nuovi articoli 2621 e 2622 c.c. indicati nel corpus
legislativo  citato  come  «False  comunicazioni  sociali»  e  «False
comunicazioni sociali in danno di soci o creditori».
        Partendo  da tale presupposto e dal corollario interpretativo
conseguente della «residualita» del nuovo art. 2621 rispetto al nuovo
art.  2622  c.c.  (nel senso di ritenere applicabile l'art. 2621 ogni
qual volta, pur essendosi causato un danno, non sia stata pronunciata
querela  dai  soggetti  legittimati  ex  art.  2622  c.c.),  il  p.m.
eccepisce  (melius: richiede di eccepire) l'incostituzionalita' della
nuova norma sotto due diversi profili.
        La  prima  censura  di  incostituzionalita' riguarda la parte
della  norma  di  cui  all'art.  2622  c.c.  in  cui  si  prevede  la
procedibilita' a querela dei soci e dei creditori sociali di societa'
non  quotate  in borsa (societa' non soggette alle disposizioni della
parte  IV  titolo  III,  capo II del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58):
secondo   l'ufficio  procedente  tale  previsione  consentirebbe  una
evidente  disparita'  di trattamento con la ipotesi contravvenzionale
di  cui  all'art.  2621  c.c.,  nella  misura in cui prevederebbe una
perseguibilita'  a  querela  per  fatti piu' gravi (e cioe' causativi
di danno)  rispetto a fatti meno gravi (e cioe' senza danno); da cio'
la censura di incostituzionalita' in relazione all'art. 3 della Corte
costituzionale.
        La   seconda   eccezione   proposta  dal  p.m.  e'  piuttosto
articolata  e  si  basa  su una lettura congiunta degli art. 11 e 117
della  Carta  Costituzionale  in relazione all'art. 6 della Direttiva
del  Consiglio  dell'Unione  europea  datata 9 marzo 1968, n. 68/151,
nella  parte  in cui prescrive che «... gli Stati membri stabiliscano
adeguate sanzioni per il caso di mancata pubblicazione del bilancio e
del  conto profitti e perdite». Secondo il p.m. il combinato disposto
degli  artt. 2622  citato e 5 del decreto legislativo n. 61/2002 (che
prevede,  come  disposizione  transitoria, il termine di tre mesi per
poter  presentare  la  querela  da  parte dei soggetti legittimati ex
art. 2622  per i fatti commessi anteriormente alla data di entrata in
vigore   del  decreto  medesimo)  configurerebbe  una  situazione  di
incostituzionalita' ai sensi degli articoli e della direttiva citate,
in quanto apparirebbe del tutto inadeguata la sanzione cosi' prevista
per tali fattispecie, che sarebbero, ineluttabilmente, destinate alla
prescrizione.  Sempre secondo l'Accusa, il concetto di adeguatezza di
cui  al  citato  art. 6  corrisponderebbe  a  quelli  di  «efficacia,
effettivita',   dissuasivita»  delle  norme  sanzionatorie  previste,
concetti che mancherebbero del tutto nella fattispecie in questione.
    Continua  il p.m. richiedendo, di conseguenza, la declaratoria di
incostituzionalita'  delle  norme citate: nella misura in cui occorra
una  valutazione  ed  una  declaratoria del contrasto tra le suddette
norme  e  la  direttiva  comunitaria,  egli  infine  chiede  a questo
Collegio  di  adire  la  Corte  di  Giustizia delle comunita' europee
affinche'  si  pronunci,  incidentalmente,  sul  contrasto medesimo e
dichiari  che la normativa introdotta dal legislatore italiano con il
d.lgs.  n. 61/2002  non  e' adeguata a sanzionare i fatti di falso in
bilancio  in  ordine  ai  quali il procedimento fosse ancora in corso
all'entrata in vigore del decreto medesimo.
    Fin qui' il p.m.
    Le  altri  parti presenti all'udienza si sono rimesse (Avvocatura
dello  Stato),  ovvero  hanno  chiesto  di  respingere  le  eccezioni
proposte   (difensori   degli  imputati)  sostenendone  la  manifesta
infondatezza ed insistendo per la declaratoria di proscioglimento dei
propri  assistiti proprio alla luce della introduzione delle norme di
cui al d.lgs. n. 61/2002.
    Prima di affrontare in modo dettagliato le eccezioni proposte dal
p.m.,  questo Collegio ritiene preliminare, ex art. 23 legge 11 marzo
1953, la valutazione della c.d. «rilevanza» della questione proposta,
sia  in  funzione  di una eventuale immediata trasmissione degli atti
alla  Corte  Costituzionale, una volta risolta anche la non manifesta
infondatezza della medesima, sia anche in relazione ad un preliminare
invio  degli  atti  alla  Corte  di  Giustizia ex art. 234 (gia' 177)
Trattato  CEE,  affinche'  si  pronunci  sulla  interpretazione della
direttiva  citata  e  quindi  risolva,  in  modo  obbligatorio per il
Tribunale  procedente,  il  problema della fondatezza della questione
proposta.
    E'  infatti  evidente, perlomeno nella valutazione di chi scrive,
che l'eventuale trasmissione degli atti alla Corte di Giustizia porti
alla  sospensione  del procedimento e non consenta di procedere nella
ulteriore  valutazione  di  fondatezza  della questione senza che, su
tale  argomento, si sia pronunciata la corte adita proprio a tal fine
interpretativo.
    In ogni caso la valutazione di rilevanza della eccezione proposta
precede,  logicamente  e  temporalmente,  l'ulteriore approfondimento
della  vicenda:  e'  evidente  che nel momento in cui questo Collegio
dovesse  ritenerla  irrilevante ai fini, della soluzione dei fatti di
causa,  apparirebbe  del  tutto  privo  di  ragionevolezza percorrere
l'iter  procedurale  di  cui  si  e' parlato, essendo poi preclusa al
Collegio     medesimo     la    richiesta    di    declaratoria    di
incostituzionalita'.
    La    questione   della   «rilevanza»   di   una   eccezione   di
incostituzionalita' che preveda un intervento «in malam partem» della
Corte  costituzionale  (cosa  che avverrebbe senza dubbio nel caso in
esame  attesa  la  richiesta di declaratoria di illegittimita' di una
norma  che  prevede  un  trattamento  piu' favorevole per il soggetto
imputato,  anche  soltanto  abolendo una condizione di procedibilita'
quale  la querela e', senza dubbio, un argomento fortemente dibattuto
in  dottrina  ed  in  giurisprudenza,  toccando in maniera inequivoca
l'interpretazione  dell'art. 2  del  codice  penale  e quindi uno dei
massimi   pilastri   che   sorreggono   la  costruzione  del  sistema
processualpenalistico.
    La   Corte,   anche   recentemente,   ha  piu'  volte  affermato,
pronunciandosi  sull'argomento,  che  le  questioni  riguardanti  gli
interventi    additivi   in   malam   partem   «sono   manifestamente
inammissibili,   in  quanto  il  fondamentale  principio  di  strette
legalita'  dei  reati e delle pene preclude pronunzie che configurino
nuove  ipotesi  di  reato  o  aggravamenti  di pena» (ord. n. 432 del
1996),  ovvero  «sono  inammissibili  le  questioni  di  legittimita'
costituzionale  in  riferimento  agli artt. 3, 9, 10, 11, 25, 32, 41,
117,   101   e   102  Cost.  della  legge  17  maggio  1995,  n. 172,
...(Omissis).  ...Le questioni sollevate tendono inammissibilmente ad
introdurre,  o a reintrodurre, figure di reato o aggravamenti di pena
chiedendo  una  pronuncia  che  esula  dai poteri della Corte, cost.,
giacche'  il  potere  di  creare fattispecie penali o di aggravare le
pene  e'  esclusivamente  riservato  al  legislatore,  in  forza  del
principio  di  stretta  legalita'  dei  reati  e  delle pene, sancito
dall'art. 25, secondo comma, Cost. (sentenza n. 330 del 1996).
    Va  tuttavia  rilevato  che  le questioni c.d. «additive in malam
partem»  non  costituiscono l'unica possibile modalita' di intervento
abrogativo  dei giudici costituzionali, e che, anzi, e' stata proprio
la  stessa Corte che, nella sentenza n. 148 del 1983, ha affrontato e
risolto  una  volta  per  tutte,  proprio  l'argomento che si sta ora
affrontando:
        «....  Una, infatti e' la garanzia che i principi del diritto
penale/costituzionale  possono  offrire agli imputati, circoscrivendo
l'efficacia  spettante  a dichiarazioni di illegittimita' delle norme
penali  di  favore;  altro e' il sindacato cui le norme stesse devono
pur  sempre  sottostare,  a  pena di istituire zone franche del tutto
impreviste dalla Costituzione all'interno delle quali la legislazione
stessa  diverrebbe  incontrollabile ............. in secondo luogo le
norme  penali  di favore fanno anch'esse parte del sistema al pari di
qualunque  altra  norma costitutiva dell'ordinamento: lo stabilire in
quali  modi il sistema potrebbe reagire all'annullamento di norme del
genere,  non  e'  quesito  cui la Corte possa rispondere in astratto,
salve  le  implicazioni  ricavabili dal principio di irretroattivita'
dei  reati e delle pene; sicche', per questa parte, va confermato che
si  tratta di un problema (ovvero di una somma di problemi), inerente
all'interpretazione  di  norme  diverse  da  quelle  annullate, che i
singoli   giudici   dovranno  comunque  affrontare,  caso  per  caso,
nell'ambito  delle  rispettive competenze. In terzo luogo la tesi che
le  questioni  di  illegittimita'  costituzionale  concernenti  norme
penali  di  favore non siano mai pregiudiziali ai fini del giudizio a
quo,  muove  da  una  visione troppo semplificante delle pronunce che
questa  Corte  potrebbe  adottare,  una volta affrontato il merito di
tali  impugnative... ln altre parole non puo' escludersi a priori che
il giudizio della Corte su una norma penale di favore si concluda con
una  sentenza  interpretativa di rigetta o con una pronuncia comunque
correttiva  delle  premesse  esegetiche  su  cui  si  fosse  comunque
pronunciata  l'ordinanza  di rimessione: donde una serie di decisioni
certamente  suscettibili di in fluire sugli esiti del giudizio penale
pendente».
    In   breve,  per  cercare  di  riassumere  quanto  autorevolmente
riportato, la prospettazione alla Corte costituzionale dell'eventuale
illegittimita'  di  norme  penali  «di  favore», appare attivita' del
tutto   legittima   (ed   anzi,  obbligatoria  ove  ne  sussistano  i
presupposti),  e  nient'affatto  inammissibile,  considerati i limiti
dell'intervento   della   stessa   Corte   in  relazione  alle  norme
costituzionali  esistenti, a fronte di una possibilita' di intervento
dei  giudici  supremi  che  possa certamente influire sugli esiti del
giudizio a quo: «le norme penali di favore, quindi ben possono essere
sospettate  di incostituzionalita', in quanto la sentenza della Corte
costituzionale dichiarativa di incostituzionalita', anche se non puo'
produrre  retroattivamente conseguenze sfavorevoli al reo e far venir
meno   (retroattivamente)   cause  di  giustificazione,  puo'  sempre
incidere  sul  dispositivo  e  sulla  «ratio  decidendi» spettando al
giudice  de  quo  stabilire  in  qual modo il sistema giuridico debba
reagire,   in  caso  di  annullamento  di  norme  di  favore»  (Corte
cost. sentenza citata n. 148).
    Va,  tra  l'altro,  rammentato  che  l'eventuale  declaratoria di
illegittimita'   costituzionale   delle   norme   eccepite  con  ogni
probabilita'   non   verrebbe  a  colpire  la  sanzionabilita'  e  la
punibilita'   di   attivita'   commesse   prima  dell'approvazione  e
promulgazione  della  norma  in  questione, in virtu' della possibile
reviviscenza  delle norme pregresse e della loro esistenza al momento
dei fatti commessi.
    In  breve,  e  concludendo sul punto, le questioni proposte nella
eccezione del p.m. appaiono sicuramente rilevanti nel procedimento in
corso   e  la  loro  eventuale  declaratoria  di  illegittimita'  non
escluderebbe  «a  priori»  la  punibilita'  degli  autori per i fatti
commessi  anteriormente  alla  loro  promulgazione  (si ricordi che i
reati   attualmente   sottoposti  al  giudizio  di  questo  Tribunale
riguardano fattispecie commesse entro il 1993).
    Passando  ora  a  trattare  l'argomento che il p.m. ha posto come
premessa  del  suo ragionamento, e cioe' la continuita' normativa tra
il  «vecchio»  art. 2621 c.c. ed i nuovi artt. 2621 e 2622 c.c., deve
osservarsi  che  tale questione puo' ormai ritenersi acclarata, sulla
base di numerose pronunce dei giudici di merito (tra cui quelle della
II sezione del Tribunale di Milano citate dal p.m.), e dei giudici di
legittimita':  oltre,  infatti  alla  pronuncia della V sezione della
S.C.  del  21 maggio 2002, n. 6921, che l'accusa ha allegato alla sua
eccezione  e  che  appariva  gia'  definitoria  dell'argomento,  puo'
citarsi  anche  la sentenza della V sezione della Corte di Cassazione
dell'8  maggio  - 3 giugno 2002, n. 21532, che cosi' recita «La nuova
disciplina  del  falso  in bilancio di cui agli artt. 2621 e 2622 del
codice  civile,  cosi'  come  modificata  dal  d.lgs. 11 aprile 2002,
n. 61,  realizza  un fenomeno di successione di norme nell'ambito del
quale  la  vigente  disciplina  si  pone  in  rapporto di specialita'
rispetto   a   quella  precedente  (art.  2621  del  c.c.  nel  testo
previgente):  la  fattispecie  astratta originariamente delineata dal
legislatore   risulta   incompresa  in  quelle  ora  incriminate  con
l'aggiunta  di  alcuni elementi specializzanti; in tal modo, mentre i
fatti  attualmente  punibili  gia'  lo erano in precedenza, non tutti
quelli rilevanti penalmente in passato lo sono ancora. In particolare
i  novellati  articoli  2621  e  2622  che hanno appunto un ambito di
applicabilita'  piu'  ristretto,  richiedono,  sul  piano  oggettivo,
l'idoneita'  delle  false esposizioni e delle comunicazioni omesse ad
indurre  in  errore  i  destinatari  delle  medesime  e la violazione
configura  una contravvenzione, salvo che il fatto abbia cagionato un
danno  patrimoniale  ai  soci  o  ai  creditori  nel qual caso, ferma
restando  l'ipotesi delittuosa, la procedibilita' e' subordinata alla
querela, a meno che si tratti di societa' quotate».
    Quanto poi alla citata «residualita» del nuovo art. 2621 rispetto
al  2622,  la  stessa,  come  giustamente indicato dal p.m. deriva da
ragioni   letterali,   procedurali  e  sistematiche:  la  sostanziale
sovrapponibilita'  tra  le due fattispecie (che differiscono solo per
quel  che  concerne  la  procedibilita' a querela e la causazione del
danno  per la seconda rispetto alla prima), la necessita' sistematica
di  «coprire»  la  «plurioffensivita» dell'originaria fattispecie, la
maggiore  ampiezza  della prima fattispecie rispetto alla seconda (da
cui deriva evidentemente, la ricaduta dei comportamenti criminosi dal
secondo  reato  al primo nel momento in cui, mancando la querela, non
appare   possibile  procedere  nell'accertamento  del  reato  di  cui
all'art. 2622 c.c.).
    Tale  residualita' appare vieppiu' significativa nella vicenda in
questione  nel  momento  in  cui,  come  si  e'  detto, il meccanismo
sanzionatorio  costruito  dal  legislatore  in  relazione ai reati di
falso in bilancio appare complessivamente strutturato in modo tale da
coprire  sia le falsificazioni senza danno patrimoniale (perseguibili
d'ufficio),  sia  quelle  in  cui  il  danno sia la conseguenza della
condotta (perseguibili, per le societa' non quotate, solo a querela):
ed infatti tale costruzione apparirebbe monca o comunque instabile se
si  dovesse  ritenere  che  le  due  fattispecie non siano figlie del
medesimo  grembo  e  quindi  ricollegate  in  termini  procedurali  e
sostanziali nel modo che si e' fin qui evidenziato.
    In  breve  il  legislatore, con il d.lgs. n. 61/2002, in ossequio
alla  delega  contenuta nella legge 3 ottobre 2001, n. 366, ha inteso
perseguire  una scelta di politica criminale ben precisa «che tende a
specificare  e  distinguere  in varie ipotesi il contenuto del reato,
ritenendo   in   alcuni   casi   rilevante   penalmente  la  semplice
pericolosita'   delle   false  comunicazioni  sociali  ed  in  altri,
richiedendo l'esistenza di un danno effettivamente cagionato a soci e
creditori,   ed   escludendo   nelle  ipotesi  di  minor  rilievo  la
punibilita'. La scelta attiene, in parte, ad un dato sociologico, che
riguarda l'evoluzione delle strutture societarie verso nuove forme di
aggregazione  anche  a carattere sovranazionale, tali da rendere piu'
efficiente  il  controllo  effettuato  dal  mercato rispetto a quello
penale.  A cio' deve aggiungersi la scelta effettuata dal legislatore
di   affievolire   il   controllo   penale  della  correttezza  degli
amministratori  delle  societa', attenuando le sanzioni ed escludendo
la  responsabilita'  nei  casi  di  minore gravita» (Cass., V sezione
penale, sentenza 21 maggio 2002, n. 6921).
    Venendo   ora   a   trattare   della  prima  delle  eccezioni  di
incostituzionalita'  sollevate dal p.m., e cioe' l'illegittimita' del
nuovo  art. 2622 c.c., nella parte in cui prevede la procedibilita' a
querela  per  i  reati commessi nell'ambito di' societa' non quotate,
nei  confronti dell'art. 3 della Costituzione, deve osservarsi quanto
segue:
        come  si  e'  gia'  detto  riportando  le sentenze della S.C.
sull'argomento,  la  nuova  strutturazione dei reati che puniscono il
falso  in  bilancio  (e  cioe' i nuovi artt. 2621 e 2622 c.c.) appare
conseguente  ad  una  volonta'  di  politica  legislativa  tendente a
mantenere   una   fattispecie   a   piu'   ampio   spettro,  di  tipo
contravvenzionale,  punibile  ad  iniziativa  d'ufficio  (l'art. 2621
c.c.), ed a creare un'altra fattispecie, di tipo delittuoso, punibile
a  querela  di parte per i fatti commessi nell'ambito di societa' non
quotate in borsa, e causativa di un danno patrimoniale per i soci o i
creditori  sociali  (l'art.  2622  c.c.); in questo senso e' ben vero
quanto  riferito  dal  p.m.,  e  cioe'  che per i reati meno gravi e'
prevista  una procedibilita' d'ufficio, mentre per i reati piu' gravi
(sempre  se  commessi  nelle  societa'  non quotate) e' richiesta una
querela di parte:
        deve  tuttavia  rilevarsi  che,  al di la' di tale meccanismo
procedurale,   la   pena   prevista  per  i  reati  «piu'  gravi»  e'
sensibilmente  piu' alta (e di specie diversa, trattandosi di delitto
e  non  di  contravvenzionale)  di  quella indicata per i reati «meno
gravi», che appare invece assai esigua e collegata, come si vedra' in
seguito,  ad  una estinzione per prescrizione significativamente piu'
breve  della  prima  (4  anni  e  mezzo  rispetto  a  15 anni in toto
comprensivi, in ambedue i casi delle eventuali interruzioni).
    Il  collegare  quindi,  per  i  reati  previsti dalla prima parte
dell'art. 2622  c.c.,  la procedibilita' ad una richiesta qualificata
della  parte  interessata (e cioe' ad una querele), sembra essere una
esigenza  dovuta  piu'  alla  ricaduta  patrimoniale  della  condotta
prevista  (che,  come  si  e'  visto,  deve  aver  causato  un  danno
patrimoniale   per  poter  attingere  alla  punibilita)  che  ad  una
valutazione  di  gravita' di comportamenti; gravita' che, in presenza
di  un  danno, appare comunque tutelata dalla previsione normativa di
una pena non esigua.
    In  breve,  e  prescindendo  per  un  attimo anche dalla costante
giurisprudenza  della  S.C.  in  tema di uguaglianza, responsabilita'
penale  e  pene  che  e'  sempre  stata  assolutamente  costante  nel
rigettare  le eccezioni del tipo di quella che si sta trattando, deve
ritenersi  che  l'assunto  del  posto a base della sua richiesta (che
cioe'  i  fatti piu' gravi verrebbero, nella norma in esame, trattati
in  modo  meno  grave  rispetto  ai  fatti  meno  gravi)  appare  non
condivisibile  in  quanto  non  rispondente alla realta' normativa in
esame:  il  prevedere,  per le societa' non quotate in borsa, nel cui
ambito  si  sia  creato  un  falso in bilancio causativo di danno una
punibilita'  a  querela  di  parte  (soci  o  creditori),  non appare
irragionevolmente  dovuto  ad  una valutazione di trattamento diverso
rispetto  a  societa'  in  cui  tale  danno non si sia verificato, ma
soltanto  collegato  ad  una  conseguenza  patrimoniale  dannosa  non
presente   nella   ipotesi  alternativa;  la  presenza  di  una  pena
notevolmente  piu'  alta  per  il caso in questione rispetto a quella
prevista  per  il  caso  alternativo  consente  di bilanciare in modo
apprezzabile    la    gravita'   dei   comportamenti   dei   soggetti
dell'attivita'  delittuosa.  In  ogni  caso,  e  per fugare qualsiasi
dubbio in merito alla opportunita' di prospettare tale questione alla
Corte  costituzionale,  si  vedano le sentenze o le ordinanze di tale
organo,  costanti  nel  tempo nel rigettare eccezioni relative a tali
argomenti:  in  particolare, ordinanza n. 288 del 2002 («questa Corte
ha  costantemente  affermato  che  la  determinazione  delle condotte
punibili   e   delle   relative   sanzioni,   siano   esse  penali  o
amministrative,   rientra   nella  piu'  ampia  discrezionalita'  del
legislatore  e che lo scrutinio sul merito delle scelte sanzionatorie
e'  ammissibile  soltanto  ove  l'opzione normativa contrasti in modo
manifesto  con  il canone della ragionevolezza»); ordinanza n. 33 del
2001,  sentenza  n. 84  del 1997, ordinanza n. 267 del 1999, sentenza
n. 341 del 1994, sentenza n. 333 del 1991.
    Per tali considerazioni la prima eccezione di incostituzionalita'
proposta  dal  p.m.  va  ritenuta  manifestamente  infondate e quindi
respinta.
    Passando ora a trattare il secondo profilo di incostituzionalita'
che  il  p.m.  ha  sollevato  in  merito  al  d.lgs. n. 61/2002, deve
osservarsi quanto segue:
        Il   percorso  argomentativo  dell'accusa  nella  vicenda  in
questione appare molto piu' complesso ed articolato rispetto a quello
seguito   nella   precedente  eccezione  partendo  dal  condivisibile
presupposto  della  prevalenza  della  norma comunitaria (nel caso in
questione  l'art. 6  della  prima  direttiva  CEE 68/151) sulla norma
nazionale  (il  citato), prevalenza piu' volte confermata anche dalla
S.C.  vedi, per es. sentenza della C.C. n. 170 del 5 giugno 1964), ma
ritenendo  comunque  che,  nel caso di possibile abrogazione di norme
penali  operi  il fondamentale principio costituzionale della riserva
di  legge  ex  art. 25  Cost.,  e che quindi il giudice nazionale non
potrebbe,  ex  se, disapplicare una norma penale interna in contrasto
con   una   fattispecie  di  diritto  comunitario,  il  p.m.  ritiene
necessario  rivolgersi alle Corte costituzionale affinche' la stessa,
una  volta  che  gli  sia stato prospettato il contrasto tra la norma
internazionale  e e quella interna, valuti se quest'ultima sia ancora
conforme  alla  Costituzione  ovvero  contrevvenga  al disposto degli
artt. 11  e  117  della  stessa  (norme che consentono, attraverso il
riconoscimento   del   rinvio   pattizio,   l'ingresso   delle  fonti
comunitarie nel diritto interno).
        A  questo  punto  il  p.m.  con  argomentazioni  che appaiono
largamente  condivisibili),  interpretando il significato del termine
«adeguata» riferibile al concetto di sanzione nell'ambito dell'art. 6
della  citata  direttiva,  come  di «efficacia in concreto e di reale
capacita'  dissuasiva»  della stessa (anche, e soprattutto, alla luce
di  altra  sentenza  della  Corte di Giustizia, del 21 settembre 1998
C68/88,  la  c.d.  sentenza del «mais greco», nella quale si e' detto
che  le sanzioni alle violazioni del diritto comunitario devono avere
carattere    di    «effettivita',   proporzionalita',   e   capacita'
dissuasiva»),  e  raffrontando  tali  significati  in concreto con la
norma che punisce con una sanzione di tipo contravvenzionale il falso
in  bilancio  non  causativo  di danno patrimoniale (e cioe' il nuovo
art. 2621 c.c.), giunge, evidentemente, al risultato di ritenere tale
normativa   del   tutto  inadeguata,  a  livello  sanzionatorio,  per
contrastare  efficacemente  la  condotta  punibile  suindicata. Come,
infatti,  e'  assolutamente notorio fra gli operatori del diritto nel
nostro paese, (ma come peraltro e' facilmente interpretabile anche da
un   lettore   sprovvisto   di  pregresse  conoscenze  autoctone)  le
violazioni di tipo contravvenzionale sono punite con pene risibili in
termini quantitativi (inferiori quasi sempre a due anni di reclusione
e  quindi rientranti nell'ambito della sospensione condizionale della
pena),  con  una massima previsione prescrizionale di 4 anni e mezzo,
comprensiva  di  ogni  possibile  allungamento  temporale dovuto alle
interruzioni  della  prescrizione medesima; non vi e' chi non veda (e
questo  Collegio  e'  fra questi vedenti) che non c'e' alcuna pratica
possibilita'  (se  non  in  casi  estremi  «di  scuola» di condurre a
termine un processo penale per vicende di falso in bilancio correlate
a  sanzioni  cosi' limitate in un termine rientrante nella previsione
prescrizionale  suddetta: questo, sia ben chiaro, non per incapacita'
professionali  da  parte degli operatori del diritto, ma per evidente
sproporzione  tra  la  presenza di garanzie procedurali che prevedono
tre  gradi  di  giudizio  per  ottenere  una sentenza definitivamente
operativa  ed un termine prescrizionale assolutamente contenuto quale
quello  anzidetto;  in  piu'  va  sottolineato che l'accertamento del
reato   in   questione   (e   cioe'  il  falso  in  bilancio)  appare
assolutamente   difficile  e  complesso  (collegandosi  a  violazioni
documentali  di  tipo  contabile  ed  economico) e quindi richiedendo
all'interprete un sovrappiu' di tipo temporale del tutto incoercibile
nell'ambito   ristretto   delle   indagini   preliminari  cosi'  come
attualmente  strutturate;  tanto  piu'  che il termine prescrizionale
decorre  dalla  data  di  commissione  del  fatto, che puo' essere (e
normalmente e) ben antecedente a quella del suo accertamento.
        Va inoltre rilevato urulteriore profilo rispetto a quelli fin
qui'  evidenziati  dal  p.m. a norma dell'art. 42, quarto comma c.p.,
«nelle  contravvenzioni  ciascuno  risponde  della  propria azione od
omissione  cosciente  e  volontaria,  sia  essa dolosa o colposa». In
materia   contravvenzionale,  pertanto,  la  regola  generale  e'  la
punibilita'  a  titolo di dolo o di colpa: a fronte, tuttavia, di una
pena  assai contenuta ed alla previsione di un termine prescrizionale
molto breve, per l'autorita' giudiziaria che procede sotto il profilo
dell  accertamento  del  l'elemento  soggettivo,  e' normalmente meno
impegnativo ravvisare la colpa ai fini della punibilita' dei reato, o
comunque  la  presenza  di  una  previsione colposa amplia lo spettro
delle condotte punibili. Si tratta, con tutta evidenza, di una scelta
di   politica   criminale;  nel  caso  di  specie,  con  la  modifica
dell'art. 2621  c.c.,  viene creata una vistosa eccezione alta logica
di  questo sistema: si prevede una contravvenzione, ma si richiede la
sussistenza  di  un  elemento soggettivo particolarmente qualificato;
non  solo  il  dolo,  ma  addirittura  il  dolo  specifico, spesso di
difficile accertamento, con una evidente conseguenza di indebolimento
della tutela del bene giuridico protetto.
        Sotto  questo  ultimo  profilo  va ancora ricordato che, alla
luce  della  costante  giurisprudenza  formatasi  sotto il previgente
regime, l'impianto della tutela penale in materia societaria dovrebbe
mirare  a garantire la protezione di una pluralita' di beni giuridici
quali,  da  un  lato,  gli  interessi  economici o patrimoniali della
societa'  o  dei  soci,  e,  dall'altro,  l'interesse  pubblico  alla
affidabilita'  e  trasparenza  delle  scritture  sociali (vedi in tal
senso,  Cass.  Sez.  V  n. 14730 del 29 dicembre 1999, e Cass. Sez. V
n. 6889  del 20 febbraio 2001: ebbene, il nuovo impianto normativo di
cui  si  discute  sembra  invece  limitare  l'effettiva  tutela della
trasparenza  del  mercato  (per  il  caso  di societa' non quotate in
borsa)  alle  sole  violazioni  piu'  lievi, e cioe' a quelle che non
abbiano  causato  un  danno  patrimoniale  ai  soci  ed ai creditori,
lasciando,  in  tale  seconda  ipotesi,  che  l'esercizio dell'azione
penale  sia  subordinato  al consenso dell'offeso, pur in presenza di
una  possibile  lesione  del  bene giuridico della fede pubblica, che
dovrebbe caratterizzarsi quale diritto tipicamente indisponibile.
        Al   termine   di   tale   lungo   (e,   come  si  e'  detto,
complessivamente condivisibile) excursus nel quale si e' attentamente
valutata  la  «inadeguatezza»  del nuovo art. 2621 c.c. rispetto alla
normativa sovranazionale indicata a sanzionare le violazioni di falso
in  bilancio  senza  danno,  il  p.m.  chiede tuttavia di limitare il
possibile sindacato della Corte costituzionale al solo art. 2622 c.c.
«nella  parte  in  cui prevede che il falso in bilancio dal quale sia
derivato  danno  sia  punito a querela di parte anche nei processi in
corso  alla  sua  entrata  in  vigore»;  e  cioe' l'art. 5 del d.lgs.
n. 61/2002  che,  come norma transitoria, prevede la possibilita' per
gli  aventi diritto di proporre querela nei tre mesi conseguenti alla
entrata in vigore della legge, per i fatti antecedenti commessi.
        Come  si  e' infine gia' riferito, il p.m. (offre al Collegio
procedente una duplice possibilita':
          o   ritenere   immediatamente   operativa   la   disciplina
introdotta dalla direttiva comunitaria in esame (anche sulla base del
precedente  della Corte di Giustizia del 4 dicembre 1997, C97/96 che,
secondo l'accusa, avrebbe gia' deciso un caso analogo);
          ovvero  ricorrere in via interpretativa ed incidentale alla
Corte  di  Giustizia  medesima  affinche'  dichiari  che la normativa
italiana  sia  in  palese  contrasto  con la direttiva CEE piu' volte
citata.
    Esaminando   e   valutando   in   maniera   piu'  dettagliata  le
argomentazioni dell'accusa, deve osservarsi quanto segue:
        La  prima  direttiva  68/151/CEE  del  Consiglio, del 9 marzo
1968,  e'  stata  adottata,  come si legge nella parte iniziale della
stessa  «per  coordinare,  per  renderle equivalenti, le garanzie che
sono  richieste,  negli Stati membri, alle societa' a mente dell'art.
58, secondo comma, del Trattato per proteggere gli interessi dei soci
e  dei  terzi,  e  poi  continuando considerando che il coordinamento
delle disposizioni nazionali concernenti la pubblicita', la validita'
degli  obblighi  di  tali  societa',  e  la nullita' di queste ultime
riveste una importanza particolare, soprattutto in ordine alla tutela
degli  interessi  dei  terzi;  considerando  che nei predetti settori
devono  adottarsi  simultaneamente  disposizioni comunitarie per tali
societa',  poiche'  esse  non  offrono ai terzi altra garanzia che il
patrimonio  sociale;  considerando che la pubblicita' deve consentire
ai  terzi  di  conoscere  gli  atti  essenziali  della  societa', ...
(Omissis)...  considerando  che  la  tutela  dei  terzi  deve  essere
assicurata  mediante disposizioni che limitino, per quanto possibile,
le  cause  di  invalidita'  delle  obbligazioni assunte in nome della
societa';  considerando  che e' necessario, per garantire la certezza
del  diritto  nei  rapporti  tra  la societa' ed i terzi, nonche' nei
rapporti  fra  i  soci,  limitare  i  casi  di nullita'...»; per tali
motivi,  all'art.  6  si  prevede  che «Gli Stati membri stabiliscono
adeguate  sanzioni per i casi di - mancata pubblicita' del bilancio e
del   conto   profitti   e   perdite,  come  prescritta  dall'art. 2,
paragrafo 1, lettera f), - mancanza, nei documenti commerciali, delle
indicazioni obbligatorie, di cui all'art. 4.
    Come  si  vede  si  tratta  di  una  c.d. «Direttiva dettagliata»
indirizzata  a  tutti  i  paesi  membri  della  Comunita'  (e quindi,
esplicitamente,  anche all'Italia), che riguarda, in particolare, gli
obblighi  concernenti  la  pubblicita'  degli  organi  sociali  e dei
documenti  contabili  ed economici atti a garantire l'esistenza della
societa',  il  suo  stato  patrimoniale, i suoi obblighi giuridici ed
economici  nei confronti dei soci e dei terzi (e cioe' il bilancio ed
il  conto  profitti  e  perdite). In considerazione di cio', l'art. 6
prevede,  a  garanzia  di tutto questo, che gli Stati membri adottino
«adeguate  sanzioni»  per  i  casi  (che qui interessano) di «mancata
pubblicita' del bilancio».
    Dice  il  p.m. che «non necessita di motivazione la constatazione
che  se  sanzioni  adeguate  devono  essere  previste  per la mancata
pubblicazione  del  bilancio  a  maggior  ragione  ne  devono  essere
previste per il bilancio presentato, ma falso»;
    Deve  invece  rilevarsi  che  tale  equiparazione  interpretativa
avrebbe  grande  necessita' di una qualche motivazione ulteriore: una
cosa   sono  le  sanzioni,  presumibilmente  di  tipo  civilistico  o
amministrativo  atteso l'impianto complessivo della normativa, che lo
Stato deve garantire in mancanza di pubblicita' di un bilancio, altra
cosa  sono  (o  potrebbero  essere)  le  sanzioni  penali adeguate in
presenza   di  una  constatata  falsita'  del  bilancio  sociale;  il
passaggio   di   logica  deduttiva  che  il  p.m.  compie  appare  si
giustificabile    sulla    base    di    una    analisi    di    tipo
analogico/interpretativo, ma assai pericoloso ai fini di una corretta
ed  inequivoca  impostazione  della fattispecie in esame. In breve, e
fatte   salve  le  considerazioni  che  in  seguito  si  svolgeranno,
l'interpretazione  autentica  della  normativa comunitaria in oggetto
appare  compito  da  affidarsi con sicurezza alla Corte di Giustizia,
senza  adottare scorciatoie interpretative che consentano una lettura
«in malam partem» a danno dei soggetti dalla stessa obbligati.
    E' ben vero, cosi' come suggerito dal p.m. che la stessa Corte di
Giustizia, giudicando in un caso che appare analogo a quello in corso
(e cioe' il caso «Verband/Dahiatsu» del 4 dicembre 1997), ha ritenuto
che  «l'art. 6  della  prima  direttiva va interpretato nel senso che
esso  osta alla legge di uno Stato membro che preveda solo per i soci
creditori  nonche'  la commissione interna della societa', il diritto
di  chiedere  la  sanzione  prevista da tale normativa nazionale, nel
caso  di  mancato rispetto da parte di una societa' degli obblighi in
materia di pubblicita' dei conti annuali», ma e' altrettanto vero che
nel  caso in questione si parlava di una possibilita' di chiedere una
sanzione  da  parte  di  soggetti che ne apparivano esclusi in via di
principio  (terzi  non  creditori),  e  quindi  d una possibilita' di
tutela   che   invece  e'  garantita  (perlomeno  formalmente)  dalla
normativa italiana all'art. 2621 del c.c.; va inoltre rilevato che il
criterio  di  «adeguatezza»  della  sanzione appare comunque e sempre
riferibile  ad  una mancata pubblicazione dei dati sociali e non alla
loro   falsificazione;   che   infine,  sebbene  il  giudice  tedesco
remittente  parli  di  una  irrogazione di' una ammenda, la Corte non
sembra aver definito in modo esplicito la possibilita' di intervenire
sulla  quantificazione  della stessa e quindi sul concetto di pena in
concreto irrogabile.
    In  breve  questo  Collegio  ritiene  che,  pur in presenza di un
«precedente»  del  tipo  di  quello  indicato dal p.m., relativo alla
interpretazione   che  la  Corte  di  Giustizia  ha  dato  in  merito
all'art. 6 della direttiva in parola, appaia comunque necessario che,
se  ritenuto  pregiudiziale  alla  vicenda  in esame, sia la Corte di
Giustizia  a  fornire una nuova interpretazione autentica della norma
di  cui  si  tratta, non ritenendosi che la presenza di tale sentenza
(C97/96)  costituisca  un  esauriente  supporto chiarificatorio delle
possibilita' di applicazione della norma.
    Continuando  l'esegesi  delle  richieste  del p.m., deve a questo
punto   rilevarsi  che  data  per  acquisita  la  proposizione  della
questione  incidentale  alla Corte di Giustizia sulla interpretazione
dell'art. 6   della   prima   direttiva,   la  domanda  che  l'organo
dell'accusa  richiede  sia  posta  da  parte  del Collegio procedente
appare  sostanzialmente  irrilevante  e  priva  di  significato nella
vicenda  in  questione:  ed  infatti  richiedere  alla  Corte  se  la
normativa   introdotta  con  il  d.lgs.  n. 61/2002  dal  legislatore
italiano  sia  idonea  ed  adeguata  a sanzionare i fatti di falso in
bilancio  in ordine ai quali il procedimento fosse in corso alla data
di   entrata   in  vigore  del  decreto  medesimo,  significa,  senza
possibilita'  di dubbio, farsi rispondere di si', nella misura in cui
la  Corte  verifichi  che  nel  coacervo  delle norme in esame vi sia
proprio  quella  di  cui  all'art. 5 del d.lgs. in parola, e cioe' la
norma  transitoria  che  consente  a  chi  non doveva farlo prima, di
proporre  querela  nei  confronti  dei  soggetti  autori  di falsi in
bilancio   che  abbiano  arrecato  un  danno  patrimoniale  ai  terzi
qualiticati  in  breve,  non  vi e' dubbio che prevedere da parte del
legislatore  italiano  una  norma transitoria come quella suindicata,
costituisce  un  esercizio  dovuto  di  correttezza  istituzionale  e
costituzionale  nel  momento in cui equipara i comportamenti commessi
prima    della   emanazione   della   norma   con   quelli   commessi
posteriormente.
        Ne'  altro  poteva  fare il legislatore, a pena di incorrere,
questa   volta   certamente,   nella   violazione  dell'art. 3  della
Costituzione   o   dell'art.   25   della  stessa.  In  questo  senso
l'inadeguatezza  della  normativa  di cui il p.m. chiede il confronto
con  la  direttiva  comunitaria  non  e' sicuramente quella di cui al
novellato art. 2622 c.c. e 5 d.lgs. n. 61/2002, per quel che concerne
il  trattamento dei reati commessi prima della emanazione del d.lgs.,
ma,  con  ogni  evidenza, quella che si ricava dal combinato disposto
tra  gli  artt. 2621  e 2622 c.c. della citata legge, nella misura in
cui,  in  presenza di falso in bilancio non causativo di danno ovvero
causativo di danno ma non procedibile per carenza di querela, prevede
una pena detentiva di un anno e sei mesi di arresto, e cioe' una pena
contravvenzionale di risibile portata e significato.
        In  questo  senso la presenza della querela rileva non per la
sua  necessita' procedurale collegabile a reati gia' commessi (che, a
questo   riguardo,  ripara  la  presenza  del  citato  art. 5  d.lgs.
n. 61/2002), ma, ex adverso, in relazione alla sua possibile mancanza
e  quindi alla ricaduta dei comportamenti colpevoli nell'ambito della
violazione prevista dall'art. 2621 c.c.
        In  estrema  sintesi quella che appare prima et secunda facie
inadeguata  nella  indicata  normativa  e'  la pena edittale prevista
nell'art. 2621  c.c.,  sia che si guardi il reato ex se, e cioe' come
semplice  falso  in bilancio non causativo di danno patrimoniale, sia
che  lo  si  guardi  (ed  e'  il caso in esame) come reato di riserva
rispetto  a  quello  previsto dall'art. 2622 c.c. nel momento in cui,
pur  in presenza di un danno, magari grave a livello patrimoniale, la
carenza   della   querela  comporti  la  ricaduta  dei  comportamenti
colpevoli  nella  violazione  «meno grave» di cui al citato art. 2621
c.c.
        Pertanto nel momento in cui questo Collegio ritenga possibile
ed   utile  l'invio  degli  atti  alla  Corte  di  Giustizia  per  la
risoluzione  della  questione  citata,  lo  fara' per sottoporre alla
stessa  una valutazione di adeguatezza dell'intero combinato disposto
fra  le  norme  di cui ai novellati artt. 2621 e 2622 c.c. e 5 d.lgs.
n. 61/2002,  non  limitando  la questione alla sola domanda posta dal
p.m.,  che  deve  ritenersi  limitativa ed insufficiente per chiarire
l'argomento in esame.
    A  questo  punto, e conseguentemente a quanto affermato nel corso
della  presente  trattazione,  va  affrontata  e risolta la questione
fondamentale  che  la  eccezione  del p.m. ha posto nel caso in esame
(sebbene,  a  parere  di  questo  collegio,  non cogliendo in maniera
precisa l'oggetto principale del problema), e cioe':
        la  possibilita' e l'opportunita' di rivolgersi alla Corte di
Giustizia  della  CE,  ai sensi dell'art. 234 (gia' 177) del Trattato
istitutivo   della   comunita',   ai   fini  di  richiedere,  in  via
incidentale,  una sentenza interpretativa dell'art. 6 della direttiva
n. 68/151,   consentendo   alla  stessa  Corte  un  intervento  sulla
legislazione penale di uno Stato membro;
        nella  misura  in cui si dia una risposta positiva alla prima
questione:  quali  domande  porre  alla  Corte stessa in modo tale da
chiarire,  in via obbligatoria per le parti in causa, l'oggetto della
controversia,  e  cioe'  il  rapporto  tra  il contenuto del suddetto
art. 6 e le norme del d.lgs. in esame.
    In  via di principio sia la dottrina piu' attenta ai rapporti tra
diritto  comunitario  e  diritto penale, sia la costante (sebbene non
numerosa)  giurisprudenza della Corte di Giustizia sull'argomento (di
cui in seguito) hanno ritenuto e ritengono che una «competenza penale
comunitaria»  abbia  assoluto  diritto di cittadinanza sia nel nostro
che negli altri Paesi che aderiscono alla CE.
    Ed  infatti,  partendo dal condiviso presupposto della preminenza
del  diritto  comunitario  su  quello  nazionale (vedi sentenze Corte
costituzionale  n. 170 del 1984, n. 113 del 1985, n. 168 del 1991 con
la  quale  e'  stata riconosciuta l'efficacia diretta delle direttive
comunitarie  nell'ambito  dell'ordinamento  nazionale),  la  Corte di
Giustizia  ha  piu'  volte  riconosciuto  la  propria  competenza  ad
occuparsi  di  materie  che  riguardino un ambito legislativo di tipo
processualpenalistico.
    Si  vedano,  in  tal  senso, la sentenza del 21 marzo 1972, 82/71
caso  S.A.I.L. (secondo la Corte «l'efficacia del diritto comunitario
non  puo' variare a seconda dei diversi settori del diritto nazionale
nei  quali  esso  puo'  spiegare  effetti»), la sentenza 21 settembre
1989,  68/88 nella causa detta del «mais greco» (nella quale la Corte
ha chiaramente riconosciuto, sulla base dell'art. 5 T.C.E., l'obbligo
per  gli  Stati,  ivi  compresi  i relativi organi, di perseguire con
concreta  adeguatezza  sotto il profilo sostanziale e procedurale, le
violazioni  del  diritto  comunitario  «in  termini analoghi a quelli
previsti  per  le violazioni del diritto interno simili per natura ed
importanza» e comunque in termini tali «da conferire alla sanzione un
carattere  di  effettivita',  di  proporzionalita',  e  di  capacita'
dissuasiva»),  la sentenza 13 luglio 1990, 2/88 nell'affare Zwartveld
(nella  quale  la  Corte ha ribadito che l'art. 5 T.C.E. obbliga ªgli
Stati  membri  ad  adottare  tutte  le  misure  atte  a garantire, se
necessario  anche  penalmente,  la  portata e l'efficacia del diritto
comunitario»)  la sentenza 10 aprile 1984, 14/83 caso Von Colson/Land
(dalla  quale  si  desume  che  il  diritto  comunitario  preclude la
previsione e la irrogazione di pene sproporzionate per difetto, tanto
che  la  Corte ha obbligato i giudici nazionali a trovare nel proprio
ordinamento  sanzioni  «non  simboliche»  per le violazioni attinenti
all'ambito  comunitario), la sentenza del 10 luglio 1990, 326/88, nel
caso  Hansen  &  Son  (nella  quale  la  Corte  e'  intervenuta nella
valutazione  di proporzionalita' di un'ammenda comminata in una causa
relativa  ad  infortunio  sul  lavoro)  ed  infine  la  sentenza  del
4 dicembre  1997  n. 97/1996,  nel  caso Dahiatsu che ha gia' formato
oggetto di analisi nel corso della presente trattazione.
    Sulla  base  di  quanto  fin  qui'  esposto puo' quindi dirsi con
ragionevole  certezza  che  esiste un nesso di dipendenza del diritto
penale  nazionale  dal  diritto  penale comunitario, seguendo il filo
indicato  dal  principio di cui al citato art. 5 del T.C.E.: la Corte
di  Giustizia  (come si e' cercato di dimostrare) ha evidenziato piu'
di   una  volta  di  poter  esercitare  un  esplicito  sindacato  sia
sull'attribuzione  (o  non  attribuzione) da parte dello Stato membro
del  carattere  penale ad una certa fattispecie, sia sulla tecnica di
incriminazione, sia sui livelli di pena.
    In  questo senso non puo', a parere di questo Collegio, dubitarsi
che  lo  Stato  membro della CE non sia piu' del tutto «libero» nella
scelta dei mezzi sanzionatori che esso ritiene adeguati nel prevenire
o  colpire una certa fattispecie penale, dovendo la sua liberta' fare
i  conti  con delle esigenze sovranazionali trasfuse negli atti degli
organi a cio' preposti.
    Pertanto,  una  volta  che  lo  Stato nazionale abbia emanato una
norma  che  assicuri  una  tutela al bene o al diritto comunitario in
questione,  non  vi  e' dubbio che l'adeguatezza di tale tutela debba
poter  essere sindacabile da parte degli organi di giustizia preposti
a  tale  valutazione,  e  cioe',  nel  caso,  da parte della Corte di
Giustizia,  ovvero  anche  da  parte  dei  singoli  giudici nazionali
chiamati  ad  operare,  ex art. 5 del Trattato, come organi obbligati
alla solidarieta' comunitaria.
    Per  questi  motivi non sembra dubitabile che la norma penale non
possa  sfuggire  al  dominio  comunitario,  non  solo  per  la  parte
precettiva,  ma  anche per quella piu' prettamente sanzionatoria: per
cui  la  risposta che questo Collegio deve darsi alla prima questione
proposta  (se  cioe' sia possibile rivolgersi alla Corte di Giustizia
per  chiedere  di  interpretare  una  norma  che rientri in un ambito
penalistico) e' certamente positiva.
    In  questo  senso  va  rammentato  che  rivolgersi,  da parte del
giudice  procedente,  alla  Corte di Giustizia ex art. 234 (gia' 177)
Trattato  CE, affinche' risolva, in via incidentale, una questione di
interpretazione   di   un   qualsiasi  atto  compiuto  da  una  delle
istituzioni  della  comunita',  e'  attivita'  non  obbligatoria  nel
momento in cui, come nel caso in esame non si tratti di un giudice di
ultima  istanza;  ma,  come  insegna  la copiosa giurisprudenza della
Corte,  in  casi  di  difficile  o ambigua interpretazione di diritto
comunitario   (che   cioe'  non  abbiano  costituito  un  oggetto  di
interpretazione  univoca  e  costante da parte dei giudici comunitari
sentenza  6  ottobre  1982, caso CILFIT) il ricorso ex art. 234 (gia'
177) Trattato CE diventa certamente opportuno e consigliabile ai fini
di  ottenere  una  interpretazione  autoritativa  che  risolva  senza
margini  di  dubbio  il  caso sottoposto alla valutazione del giudice
procedente.
    Il  caso  in  esame,  sia  per  la  complessita'  della questione
esaminata,   sia   per  le  sue  eventuali  ricadute  in  termini  di
illegittimita' costituzionale di norme penali incriminatrici, sia per
la  mancanza di precedenti univocamente interpretativi della norma in
questione, appare senza dubbio un caso da sottoporre alla valutazione
della Corte.
    Sembra,  in  definitiva, necessario al Collegio procedente, prima
di continuare l'iter procedurale nella vicenda in questione, chiedere
alla Corte di Giustizia la corretta interpretazione dell'art. 6 della
Direttiva  68/151  CEE  e,  in  particolare,  se tale interpretazione
confligga  con  le  norme  di  cui  al  d.lgs.  n. 61/2002,  anche  e
soprattutto   alla  luce  degli  obblighi  previsti  dall'art. 5  del
Trattato CEE incombenti nei confronti degli Stati membri e dei propri
organi di giustizia.
    Pertanto,  tirando  le  somme di tutte le argomentazioni fin qui'
spese,  questo  Collegio  ritiene  necessario  rivolgersi ex art. 234
(gia'  177)  Trattato  CEE  alla  Corte  di Giustizia della Comunita'
europee,  affinche'  risponda  in via incidentale ai seguenti quesiti
interpretativi:
        se  l'art. 6  della  direttiva  68/151  (prima direttiva) CEE
possa  essere  inteso  nel  senso  di  obbligare  gli  Stati membri a
stabilire  adeguate  sanzioni non solo per la mancata pubblicita' del
bilancio  e  del conto profitti e perdite delle societa' commerciali,
ma   anche   per   la   falsificazione   dello  stesso,  delle  altre
comunicazioni  sociali  dirette ai soci o al pubblico, o di qualsiasi
informazione  sulla  situazione economica, patrimoniale o finanziaria
che  la societa' abbia obbligo di fornire sulla societa' stessa o sul
gruppo alla quale essa appartiene;
        se,  anche ai sensi dell'art. 5 del Trattato CEE, il concetto
di   «adeguatezza»   della  sanzione  debba  essere  inteso  in  modo
concretamente   valutabile  nell'ambito  normativo  (sia  penale  che
procedurale)  del  Paese  membro,  e  cioe'  come sanzione «efficace,
effettiva, realmente dissuasiva»;
        se,  infine,  tali  caratteristiche  siano  riscontrabili nel
combinato  disposto  dei  novellati  artt. 2621 c.c., 2622 c.c. cosi'
modificati  dal d.lgs. emanato dallo Stato italiano l'11 aprile 2002,
n. 61: in particolare se possa definirsi «efficacemente dissuasiva» e
«concretamente  adeguata»  la  norma  che prevede (all'art. 2621 c.c.
citato)  per  i  reati  di  falso  in bilancio non causativi di danno
patrimoniale  ovvero  causativi di danno ma ritenuti improcedibili ex
art. 2622  c.c. per carenza di querela, una pena contravvenzionale di
anni  1  e mesi 6 di arresto; se, infine, risulti adeguato prevedere,
per  i  reati  previsti  dal primo comma dell'art. 2622 c.c. (e cioe'
commessi  nell'ambito  di  societa' commerciali non quotate in Borsa)
una procedibilita' a querela di parte (e cioe' a querela di soci e di
creditori)   anche   in  relazione  alla  concreta  tutela  del  bene
collettivo  della  «trasparenza»  del  mercato  societario  sotto  il
profilo della possibile estensione comunitaria dello stesso.
    Questo  Collegio  sa  che  la  Corte,  chiamata  a  rispondere ex
art. 234  (gia'  177)  Trattato CEE, non e' formalmente competente ad
interpretare  il diritto nazionale ne' a pronunciarsi sulla validita'
dello  stesso,  ma  sa  anche  che,  sempre  sulla  base  di costante
giurisprudenza  della  Corte  medesima  (si veda, per es. sentenza 26
gennaio 1990,  n. 286/1988, Caso Falciola/comune di Pavia), la stessa
puo'  fornire  al giudice interno elementi interpretativi del diritto
comunitario  che consentano al giudice di pronunciarsi (o di chiedere
che   la   Corte   costituzionale   si   pronunci)   in  merito  alla
compatibilita'   di   leggi  nazionali  con  il  diritto  comunitario
interpretato.
    In  questo  senso, e per queste ragioni, si ritiene opportuno che
la  Corte  possa  e debba avere una piena conoscenza della vicenda in
esame,  e  pertanto si dispone la trasmissione alla stessa degli atti
processuali in questione.
                              P. Q. M.
    Visto  l'art. 234  (gia'  art. 177) del Trattato istitutivo della
Comunita'  europea, questo Collegio procedente, ritenendo necessaria,
ai fini della decisione nella vicenda sottoposta al suo giudizio, una
pronuncia  pregiudiziale  della  Corte  di  Giustizia delle Comunita'
europee  in  merito  alla  interpretazione  dell'art. 6  della  Prima
Direttiva  n. 68/151 del Consiglio del 9 marzo 1968 e dell'art. 5 del
Trattato CEE in relazione agli artt. 2621 c.c. e 2622 c.c. cosi' come
introdotti nella normativa italiana dal d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61;
    Rimette  alla Corte di Giustizia delle C.E. le questioni relative
alla   interpretazione   delle   norme  e  dei  principi  di  diritto
comunitario   sopracitati,  chiedendo  di  rispondere  alle  seguenti
domande:
        Se  l'art. 6  della direttiva n. 68/151 (prima direttiva) CEE
possa  essere  inteso  nel  senso  di  obbligare  gli  Stati membri a
stabilire  adeguate  sanzioni non solo per la mancata pubblicita' del
bilancio  e  del conto profitti e perdite delle societa' commerciali,
ma   anche   per   la   falsificazione   dello  stesso,  delle  altre
comunicazioni  sociali  dirette  ai soci o al pubblico o di qualsiasi
informazione  sulla  situazione economica, patrimoniale o finanziaria
che  la societa' abbia obbligo di fornire sulla societa' stessa o sul
gruppo alla quale essa appartiene.
        Se,  anche ai sensi dell'art. 5 del Trattato CEE, il concetto
di   «adeguatezza»   della  sanzione  debba  essere  inteso  in  modo
concretamente   valutabile  nell'ambito  normativo  (sia  penale  che
procedurale)  del  Paese  membro,  e  cioe'  come sanzione «efficace,
effettiva, realmente dissuasiva».
        Se,  infine,  tali  caratteristiche  siano  riscontrabili nel
combinato  disposto  dei  novellati  artt. 2621 c.c., 2622 c.c. cosi'
modificati  dal  d.l.  emanato dallo Stato italiano l'11 aprile 2002,
n. 61: in particolare se possa definirsi «efficacemente dissuasiva» e
«concretamente  adeguata»  la  norma  che prevede (all'art. 2621 c.c.
citato)  per  i  reati  di  falso  in bilancio non causativi di danno
patrimoniale  ovvero  causativi di danno ma ritenuti improcedibili ex
art. 2622  c.c. per carenza di querela, una pena contravvenzionale di
anni 1 e mesi 6 di arresto se, infine, risulti adeguato prevedere per
i  reati  previsti  dal  primo  comma  dell'art. 2622  c.c.  (e cioe'
commessi  nell'ambito  di  societa' commerciali non quotate in Borsa)
una procedibilita' a querela di parte (e cioe' a querela di soci e di
creditori)   anche   in  relazione  alla  concreta  tutela  del  bene
collettivo  della  «trasparenza»  del  mercato  societario  sotto  il
profilo della possibile estensione comunitaria dello stesso.
    Sospende,     conseguentemente,    il    presente    procedimento
(limitatamente  alle imputazioni di cui all'art. 2622 c.c. cosi' come
separate  con  ordinanza  in pari data di cui al verbale dell'odierna
udienza) manda alla cancelleria di questa IV sezione del Tribunale di
Milano  di trasmettere la presente ordinanza e gli atti allegati alla
Corte di Giustizia delle Comunita' europee.»
    In  seguito a tale ordinanza (ed ad altri provvedimenti di eguale
contenuto  e  tenore inviati alla Corte di Giustizia da altra sezione
del  Tribunale di Milano e dalla Corte di Appello di Lecce), la Corte
di  Giustizia  della CE, Grande Sezione, ha emanato la sentenza del 3
maggio  2005  della  quale, per comodita' espositiva, si riportano di
seguito i paragrafi finali:
    Sentenza della Corte (Grande Sezione).
    (Omissis).
    Sull'esigenza  del  diritto  comunitario relativa all'adeguatezza
delle sanzioni.
    53) In via preliminare, occorre esaminare se l'esigenza afferente
all'adeguatezza  delle  sanzioni  per reati risultanti da falsita' in
scritture contabili, come quelli previsti dai nuovi artt. 2621 e 2622
del  codice  civile,  venga imposta dall'art. 6 della prima direttiva
sul  diritto  societario, oppure derivi dall'art. 5 del Trattato che,
secondo  una  giurisprudenza  costante  ricordata  al  punto 36 della
presente  sentenza,  implica  che  le  sanzioni  per la violazione di
disposizioni   del   diritto  comunitario  devono  essere  effettive,
proporzionate e dissuasive.
    54)  A  tal  riguardo,  va  constatato  che  sanzioni  per  reati
risultanti  da  falsita' in scritture contabili, come quelli previsti
dai  nuovi  artt. 2621  e  2622 del codice civile, mirano a reprimere
violazioni  gravi  e  manifeste  del  principio  fondamentale, il cui
rispetto  costituisce  l'obiettivo  di massima rilevanza della quarta
direttiva   sul   diritto   societario,   che   deriva   dal   quarto
«considerando» e dall'art. 2, nn. 3 e 5, di questa direttiva, secondo
cui  i  conti  annuali  delle  societa'  a  cui si riferisce la detta
direttiva   devono   fornire   un   quadro  fedele  della  situazione
patrimoniale  e  finanziaria  nonche'  del  risultato economico della
stessa  (v.,  in  tal senso, sentenza 7 gennaio 2003, causa C-306/99,
BIAO, Racc. pag. l-1, punto 72 e giurisprudenza ivi citata).
    55)  Tale constatazione puo' essere estesa del resto alla settima
direttiva sul diritto societario che, all'art. 16, nn. 3 e 5, prevede
in  sostanza, in materia di conti consolidati, disposizioni identiche
a quelle enunciate dall'art. 2, nn. 3 e 5, della quarta direttiva sul
diritto societario per i conti annuali.
    56)   Per   quanto  riguarda  il  regime  sanzionatorio  previsto
all'art. 6   della   prima   direttiva  sul  diritto  societario,  la
formulazione  di tale disposizione fornisce di per se' un indizio nel
senso  che tale regime deve essere inteso come concernente non solo i
casi  di  un'omissione di qualsiasi pubblicita' dei conti annuali, ma
anche  quelli  di  una  pubblicita'  di  conti  annuali  non  redatti
conformemente  alle  disposizioni previste dalla quarta direttiva sul
diritto societario relativamente al contenuto di tali conti.
    57)  Infatti, il detto art. 6 non si limita a prevedere l'obbligo
per  gli  Stati  membri  di  stabilire  sanzioni adeguate per mancata
pubblicazione del bilancio e del conto profitti e perdite, ma prevede
un  obbligo  di tale tipo per mancata pubblicazione di tali documenti
come  prescritta  dall'art. 2,  n. 1, lett. f), della prima direttiva
sul diritto societario. Orbene, quest'ultima disposizione fa espresso
riferimento  all'armonizzazione  prevista  delle  norme  relative  al
contenuto  dei  conti  annuali,  la  quale  e' stata realizzata dalla
quarta direttiva sul diritto societario.
    58)  Dall'economia della quarta direttiva sul diritto societario,
la  quale  completa,  per  gli  stessi tipi di societa', gli obblighi
stabiliti   dalla   prima   direttiva   sul   diritto  societario,  e
dall'assenza  in  tale  direttiva  di  norme  generali  relative alle
sanzioni,  risulta  che,  a prescindere dai casi coperti dalla deroga
specifica  prevista  all'art. 51,  n. 3,  della  quarta direttiva sul
diritto    societario,   il   legislatore   comunitario   ha   voluto
effettivamente  estendere  l'applicazione del regime sanzionatorio di
cui  all'art. 6  della  prima  direttiva  sul diritto societario alle
violazioni  degli  obblighi  contenuti  nella  quarta  direttiva  sul
diritto  societario  e, in particolare, alla mancata pubblicazione di
conti annuali conformi, quanto al loro contenuto, alle norme previste
a tal riguardo.
    59)  La settima direttiva sul diritto societario prevede, invece,
una  norma  generale  di  tale  tipo  all'art. 38,  n. 6. Non si puo'
contestare che tale norma generale si applichi anche alla pubblicita'
di  conti  consolidati non redatti conformemente alle norme stabilite
da questa stessa direttiva.
    60)  Tale  differenza  di  contenuto  tra  la quarta e la settima
direttiva sul diritto societario si spiega per il fatto che l'art. 2,
n. 1,  lett.  f), della prima direttiva sul diritto societario non fa
alcun  riferimento ai conti consolidati. L'art. 6 di questa direttiva
non  puo'  quindi  essere  considerato  come  applicabile  al caso di
inosservanza degli obblighi relativi ai conti consolidati.
    61)  Un'interpretazione  del  detto  art. 6 nel senso che esso si
applica  anche  alla  mancata  pubblicazione di conti annuali redatti
conformemente  alle  norme  previste per quanto riguarda il contenuto
degli  stessi  e'  inoltre  confermata dal contesto e dagli obiettivi
delle direttive in questione.
    62)  A  tale  riguardo  occorre  prendere  in  considerazione, in
particolare,  come rilevato dall'avvocato generale ai paragrafi 72-75
delle  sue  conclusioni,  il ruolo fondamentale della pubblicita' dei
conti  annuali  delle  societa' di capitali e, a maggior ragione, dei
conti  annuali  redatti conformemente alle norme armonizzate relative
al  loro  contenuto,  al  fine  di  tutelare gli interessi dei terzi,
obiettivo  chiaramente sottolineato nei preamboli sia della prima sia
della quarta direttiva sul diritto societario.
    63)  Ne  consegue  che  l'esigenza relativa all'adeguatezza delle
sanzioni  come quelle previste dai nuovi artt. 2621 e 2622 del codice
civile  per  i reati risultanti da falsita' in scritture contabili e'
imposto dall'art. 6 della prima direttiva sul diritto societario.
    64)  Cio'  non  toglie che, per chiarire la portata dell'esigenza
relativa  all'adeguatezza  delle  sanzioni stabilite al detto art. 6,
puo'  essere  utilmente  presa  in  considerazione  la giurisprudenza
costante  della Corte relativa all'art. 5 del Trattato, da cui deriva
un esigenza di identica natura.
    65)  Secondo tale giurisprudenza, pur conservando la scelta delle
sanzioni,  gli  Stati  membri  devono  segnatamente vegliare a che le
violazioni  del  diritto  comunitario  siano punite, sotto il profilo
sostanziale e procedurale, in forme analoghe a quelle previste per le
violazioni  del diritto interno simili per natura e importanza e che,
in   ogni  caso,  conferiscano  alla  sanzione  stessa  un  carattere
effettivo,  proporzionale  e dissuasivo (v., in particolare, sentenze
Commissione/Grecia,  cit.,  punti  23  e  24;  10  luglio 1990, causa
C-326/88,  Hansen,  Racc.  pag.  I-2911, punto 17; 30 settembre 2003,
causa  C-167/01,  Inspire  Art,  Racc.  pag.  I-10155, punto 62, e 15
gennaio  2004,  causa C-230/01, Penycoed, non ancora pubblicata nella
Raccolta, punto 36 e giurisprudenza ivi citata).
    Sul principio dell'applicazione retroattiva della pena piu' mite.
    66)  A  prescindere  dall'applicabilita'  dell'art. 6 della prima
direttiva sul diritto societario alla mancata pubblicazione dei conti
annuali,  va  osservato che, in virtu' dell'art. 2 del codice penale,
che  enuncia  il  principio  dell'applicazione retroattiva della pena
piu'  mite,  i  nuovi  artt. 2621 e 2622 del codice civile dovrebbero
essere applicati anche se sono entrati in vigore solo successivamente
alla  commissione  dei fatti che sono all'origine delle azioni penali
avviate nelle cause principali.
    67)  Va  a tal riguardo ricordato che, secondo una giurisprudenza
costante,  i  diritti fondamentali costituiscono parte integrante dei
principi   generali   del   diritto   di   cui  la  Corte  garantisce
l'osservanza.  A  tal  fine,  quest'ultima  s'ispira  alle tradizioni
costituzionali  comuni  agli  Stati membri e alle indicazioni fornite
dai   trattati  internazionali  in  materia  di  tutela  dei  diritti
dell'uomo  cui  gli  Stati  membri  hanno cooperato o aderito (v., in
particolare,  sentenze  12 giugno 2003, causa C-112/00, Schmidberger,
Racc.  pag. I-5659, punto 71 e giurisprudenza ivi citata, e 10 luglio
2003,  cause  riunite  C-20/00  e C-64/00, Booker Aquaculture e Hydro
Seafood, Racc. pag. I-7411, punto 65 e giurisprudenza ivi citata).
    68) Orbene, il principio dell'applicazione retroattiva della pena
piu' mite fa parte delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati
membri.
    69)  Ne  deriva  che  tale principio deve essere considerato come
parte integrante dei principi generali del diritto comunitario che il
giudice  nazionale deve osservare quando applica il diritto nazionale
adottato  per  attuare l'ordinamento comunitario e, nella fattispecie
in particolare, le direttive sul diritto societario.
    Sulla  possibilita'  di  invocare  la prima direttiva sul diritto
societario.
    70)   Si   pone   tuttavia   la   questione   se   il   principio
dell'applicazione  retroattiva  della  pena  piu'  mite  si  applichi
qualora questa sia contraria ad altre norme di diritto comunitario.
    71) Non e' pero' necessario decidere tale questione ai fini delle
controversie principali, poiche' la norma comunitaria in questione e'
contenuta  in una direttiva fatta valere nei confronti di un soggetto
dall'autorita' giudiziaria nell'ambito di procedimenti penali.
    72) E' vero che, nel caso in cui i giudici del rinvio, sulla base
delle  soluzioni  loro  fornite  dalla Corte, dovessero giungere alla
conclusione  che i nuovi artt. 2621 e 2622 del codice civile, a causa
di  talune  disposizioni  in essi contenute, non soddisfano l'obbligo
del  diritto  comunitario relativo all'adeguatezza delle sanzioni, ne
deriverebbe,  secondo una giurisprudenza consolidata della Corte, che
gli  stessi  giudici  del  rinvio sarebbero tenuti a disapplicare, di
loro  iniziativa,  i  detti  nuovi  articoli,  senza  che  ne debbano
chiedere  o  attendere  la  previa  rimozione  in  via  legislativa o
mediante   qualsiasi   altro   procedimento  costituzionale  (v.,  in
particolare,  sentenze  9 marzo 1978, causa 106/77, Simmenthal, Racc.
pag.  629,  punti  21  e  24;  4 giugno 1992, cause riunite C-13/91 e
C-113/91,  Debus,  Racc.  pag.  I-3617,  punto 32, e 22 ottobre 1998,
cause  riunite  da  C-10/97 a C-22/97, IN.CO.GE. '90 e a., Racc. pag.
I-6307, punto 20).
    73)  Tuttavia,  la  Corte ha anche dichiarato in maniera costante
che  una direttiva non puo' di per se' creare obblighi a carico di un
soggetto  e  non  puo'  quindi essere fatta valere in quanto tale nei
suoi  confronti  (v.,  in particolare, sentenza 5 ottobre 2004, cause
riunite  da C-397/01 a C-403/01, Pfeiffer e a., non ancora pubblicata
nella Raccolta, punto 108 e giurisprudenza ivi citata).
    74) Nel contesto specifico di una situazione in cui una direttiva
viene  invocata  nei  confronti di un soggetto dalle autorita' di uno
Stato   membro  nell'ambito  di  procedimenti  penali,  la  Corte  ha
precisato che una direttiva non puo' avere come effetto, di per se' e
indipendentemente  da  una legge interna di uno Stato membro adottata
per  la sua attuazione, di determinare o aggravare la responsabilita'
penale  di coloro che agiscono in violazione delle dette disposizioni
(v., in particolare, sentenze 8 ottobre 1987, causa 80/86 Kolpinghuis
Nijmegen, Racc. pag. 3969, punto 13, e 7 gennaio 2004, causa C-60/02,
X,  non  ancora  pubblicata nella Raccolta, punto 61 e giurisprudenza
ivi citata).
    75)  Orbene,  far  valere nel caso di specie l'art. 6 della prima
direttiva  sul  diritto  societario  al  fine  di  far controllare la
compatibilita'  con tale disposizione dei nuovi artt. 2621 e 2622 del
codice  civile  potrebbe  avere l'effetto di escludere l'applicazione
del regime sanzionatorio piu' mite previsto dai detti articoli.
    76)  Infatti,  dalle  ordinanze di rinvio risulta che, se i nuovi
artt. 2621  e  2622 del codice civile dovessero essere disapplicati a
causa  della  loro  incompatibilita'  con il detto art. 6 della prima
direttiva sul diritto societario, ne potrebbe derivare l'applicazione
di  una  sanzione  penale  manifestamente  piu'  pesante, come quella
prevista  dall'originario  art. 2621  di  tale codice, durante la cui
vigenza  sono  stati commessi i fatti all'origine delle azioni penali
avviate nelle cause principali.
    77)  Una  tale  conseguenza contrasterebbe con i limiti derivanti
dalla natura stessa di qualsiasi direttiva, che vietano, come risulta
dalla  giurisprudenza  ricordata  ai  punti  73  e  74 della presente
sentenza, che una direttiva possa avere il risultato di determinare o
di aggravare la responsabilita' penale degli imputati.
    78)   Tenuto   conto   di  tutto  quanto  precede,  le  questioni
pregiudiziali  vanno  risolte  dichiarando  che,  in circostanze come
quelle  in  questione  nelle cause principali, la prima direttiva sul
diritto  societario  non  puo'  essere  invocata in quanto tale dalle
autorita'   di   uno   Stato  membro  nei  confronti  degli  imputati
nell'ambito  di  procedimenti  penali, poiche' una direttiva non puo'
avere  come  effetto,  di  per  se'  e indipendentemente da una legge
interna  di  uno  Stato  membro  adottata  per  la sua attuazione, di
determinare o aggravare la responsabilita' penale degli imputati.
    Sulle spese.
    79)  Nei confronti delle parti nella causa principale il presente
procedimento  costituisce  un  incidente sollevato dinanzi al giudice
nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute
per sottoporre osservazioni alla Corte, diverse da quelle delle dette
parti, non possono dar luogo a rifusione.
    Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:
        In   circostanze   come   quelle  in  questione  nelle  cause
principali,   la   prima   direttiva   del   Consiglio  9 marzo 1968,
68/151/CEE,   intesa  a  coordinare,  per  renderle  equivalenti,  le
garanzie  che  sono  richieste,  negli  Stati membri, alle societa' a
mente  dell'art. 58,  secondo  comma, del Trattato per proteggere gli
interessi  dei  soci  e dei terzi, non puo' essere invocata in quanto
tale dalle autorita' di uno Stato membro nei confronti degli imputati
nell'ambito  di  procedimenti  penali, poiche' una direttiva non puo'
avere  come  effetto,  di  per  se'  e indipendentemente da una legge
interna  di  uno  Stato  membro  adottata  per  la sua attuazione, di
determinare o aggravare la responsabilita' penale degli imputati.
    Firme
                               ------
    *Lingua processuale: l'italiano.
    Il  procedimento,  quindi,  e'  stato  riassunto dinanzi a questo
collegio  a  seguito  della  comunicazione  ufficiale  della suddetta
sentenza alla quarta sezione penale del Tribunale di Milano.
    Va  preliminarmente  considerato  che,  nonostante  la  ulteriore
richiesta  formulata dall'Accusa nel corso dell'udienza del 30 giugno
u.s.,  pende ancora dinanzi a questo collegio la precedente richiesta
del   p.m.  di  trasmissione  del  procedimento  dinanzi  alla  Corte
costituzionale  in  relazione ai profili di incostituzionalita' della
norma   in   questione,  richiesta  su  cui  questo  collegio  si  e'
sostanzialmente    riservato   di   decidere   all'esito   dell'esame
pregiudiziale  della vicenda dinanzi alla Corte di Giustizia ai sensi
dell'art. 234 del Trattato CE.
    In questo senso va, in ogni caso, rilevato che (ferma restando la
successiva  valutazione  che  si compiera' della sentenza della Corte
CE)  nella  ordinanza  del 29 ottobre 2002, questi giudici hanno gia'
compiuto  una  valutazione  di rilevanza della richiesta in questione
nel  procedimento  a quo valutazione da cui, evidentemente, non ci si
intende discostare e che qui' viene integralmente richiamata.
    Con  particolare  riferimento, poi, alla prospettata questione in
relazione  alla  eventuale  caducazione delle norme penali cc.dd. «di
favore»  (quali  sarebbero  quelle in questione atteso il trattamento
sanzionatorio  piu'  favorevole  nelle stesse contenuto rispetto alla
precedente   formulazione   dell'art. 2621   c.c.)  appare  opportuno
richiamare  all'attenzione  di  chi  legge  non  solo  le gia' citate
argomentazioni  della  Corte costituzionale nella sentenza n. 148 del
1983,  ma  anche  le  successive motivazioni contenute nella sentenza
della   stessa  Corte  n. 51  del  1985  in  tema  di  illegittimita'
costituzionale  dell'art. 2  comma  quinto nella parte in cui rendeva
applicabili  alle  ipotesi da esso previste le disposizioni contenute
nei commi secondo e terzo dello stesso art. 2 c.p.
    Fatta  quindi  salva  la «rilevanza» della questione proposta nel
procedimento  «a  quo»,  occorre,  a  questo  punto, esaminare con la
dovuta  attenzione  la sentenza della Corte di Giustizia a cui questo
tribunale si era rivolto in via pregiudiziale ai fini di interpretare
il  contenuto dell'art. 6 della prima direttiva CEE e dell'art. 5 del
Trattato  CEE  in  relazione  alle  norme che il legislatore italiano
aveva creato con l'approvazione del d.l. 11 aprile 2002, n. 61.
    Con  la  scelta  del  percorso  procedurale  suindicato  (la c.d.
«doppia  pregiudiziale» cosi' come indicata dalla prevalente dottrina
processualpenalistica)  infatti,  questi giudici hanno richiesto alla
Corte  non  di interpretare il diritto nazionale, ne' di pronunciarsi
sulla  validita'  dello  stesso,  ma  soltanto  di fornire al giudice
nazionale  quegli elementi interpretativi del diritto comunitario che
consentano  allo stesso giudice di pronunciarsi (o di chiedere che la
Corte  costituzionale  si  pronunci) in merito alla compatibilita' di
leggi nazionali con il diritto comunitario esistente.
    Questi  giudici,  in particolare, avevano richiesto alla Corte CE
la sua interpretazione su una serie di questioni, cosi' riassumibili:
        se  l'art. 6  della prima direttiva potesse essere inteso nel
senso  di obbligare gli Stati membri a stabilire adeguate sanzioni di
tipo penale non solo per la mancata pubblicita' del bilancio ma anche
per la falsificazione dello stesso;
        se,  anche ai sensi dell'art. 5 del Trattato CEE, il concetto
di  sanzione  «adeguata»  per  tali  eventi  penalmente  perseguibili
dovesse  essere  intesa  nel  senso di sanzione «efficace, effettiva,
realmente dissuasiva»;
        se   tali  caratteristiche  di  adeguatezza  fossero  o  meno
riscontrabili  nelle  norme  emanate  dal legislatore italiano con il
combinato  disposto  dei  «nuovi» articoli 2621 e 2622 c.c. di cui al
d.l. n. 61 dell'11 aprile 2002.
    Ora,  perlomeno a parere di questo collegio giudicante, non vi e'
dubbio che la Corte di Giustizia nella sentenza riportata (par. 53/65
«sull'esigenza del diritto comunitario relativa all'adeguatezza delle
sanzioni»)  abbia  dato  delle  risposte  che  interpretano  in  modo
inequivocabile la normativa (comunitaria e nazionale) citata:
        che  cioe'  tale  normativa (quella comunitaria, art. 6 prima
direttiva,  ma anche quarta e settima) si applica in modo certo anche
alla  ipotesi  di  falsificazione  dei bilanci o dei conti profitti e
perdite delle societa' commerciali;
        che   l'esigenza   di   una   sanzione   adeguata   per  tali
comportamenti  penalmente rilevanti derivi in modo incontestabile dal
contenuto  dell'art. 6  della prima direttiva, ma anche dal contenuto
dell'art. 5  del  trattato CEE, cosi' come coniugato in numerosissime
sentenze della stessa Corte;
        che,  «pur  conservando  la  scelta delle sanzioni» gli Stati
membri  della  CE  devono conferire alla sanzione scelta un carattere
«effettivo, proporzionale e dissuasivo».
    Come  puo'  agevolmente  notarsi, la Corte ha «omesso» (per cosi'
dire)  di  rispondere  sull'ultimo  quesito  postole  in  merito alla
effettiva  adeguatezza  della  normativa  nazionale rispetto a quella
europea, e lo ha fatto per due ordini di motivi:
        il  primo (si vedano i paragrafi 66/70 della citata sentenza)
a  motivo  della  esistenza  (a  parere  della  stessa  Corte)  di un
principio  generale di diritto comunitario (mutuato dalle «tradizioni
costituzionali   comuni  degli  Stati  membri»)  concretantesi  nella
«applicazione retroattiva della pena piu' mite»;
        il  secondo (paragrafi 72/77 sentenza citata) e' il principio
(giurisprudenzialmente  costante  a  detta  sempre della Corte) della
inapplicabilita'  della  direttiva  comunitaria (sic et simpliciter e
cioe'  senza  la  presenza  di una legge nazionale di adeguamento) da
parte  dell'autorita'  di  uno  Stato  membro  nei  confronti  di  un
qualsiasi soggetto, in particolare al fine di determinare o aggravare
la sua responsabilita' penale.
    In  estrema  sintesi,  i giudici comunitari, pur riaffermando con
nettezza  la  superiorita'  delle norme comunitarie rispetto a quelle
nazionali  e  dando  delle  prime una interpretazione inequivocabile,
hanno  ritenuto  di  doversi  fermare  dinanzi  ad una valutazione di
adeguatezza   sanzionatoria   di   norme   statali   penali,   attesa
l'inesistenza  di  una  norma generale di adeguamento della normativa
sovranazionale  a  quella  statale,  e  comunque  in  presenza  di un
eventuale  rischio  di  aggravamento della responsabilita' penale dei
singoli imputati.
    Va detto, con una certa franchezza, che alcune affermazioni della
Corte  contenute  nella  sentenza  de qua appaiono (pur nell'assoluto
rispetto  che si deve alle promanazioni giurisprudenziali del supremo
organo  di  giustizia  della  CE) non del tutto condivisibili, mentre
altre   rischiano   di   essere   non  del  tutto  chiare  a  livello
interpretativo.  In particolare l'affermazione che il principio della
applicazione   retroattiva  della  pena  piu'  mite  sia  un  «dogma»
costituzionale assolutamente privo di eccezioni trova un immediato ed
evidente  contrasto proprio dalla lettura della citata sentenza della
Corte  costituzionale n. 51 del 1985 che ha ritenuto l'illegittimita'
costituzionale del comma V dell'art. 2 c.p.
    In  tal senso andrebbe precisato (in uno con la migliore dottrina
costituzionalista   italiana)   che   altro   e'  il  fenomeno  della
successione  di  leggi  regolata  dal divieto di retroattivita' della
norma  sfavorevole  e  dalla  retroattivita'  della norma favorevole,
altro  e'  il  principio  dell'applicazione  della  pena  piu'  mite,
Quest'ultimo  e' propriamente la conseguenza o dell'entrata in vigore
di  una  norma  piu' favorevole, o del fatto che, pur venuta meno una
norma  incriminatrice  successiva favorevole, sia pur sempre ritenuta
applicabile  (anche  se,  ad esempio, dichiarata incostituzionale) se
cio'  e'  conforme  alla  ratio  che sottende l'efficacia della legge
penale nel tempo.
    In  ogni  caso  e'  la stessa Corte CE che, nella sentenza citata
(paragrafi  70/71),  pur  affermando a chiare lettere l'esistenza del
principio   in   questione,  si  chiede  tuttavia  «se  il  principio
dell'applicazione  retroattiva  della  pena  piu'  mite  si  applichi
qualora questa sia contraria ad altre norme di diritto comunitario».
    E,  continuando,  non  si da' (e quindi non fornisce nemmeno agli
interpreti  e  lettori)  alcuna  risposta,  in  quanto  «non e' pero'
necessario   decidere  tale  questione  ai  fini  delle  controversie
principali, poiche' la norma comunitaria in questione e' contenuta in
una   direttiva   fatta   valere   nei   confronti   di  un  soggetto
dall'autorita' giudiziaria nell'ambito di procedimenti penali».
    Il problema, quindi, dell'applicabilita' della lex mitior che sia
in  contrasto  con norme comunitarie diverse dalla direttiva non solo
si pone, ma, come si vedra', a parere di chi scrive permane anche nel
momento  in  cui  si  venga  a  discutere  di una direttiva c.d. self
executing  o comunque resa esecutiva da una legge interna applicativa
della stessa.
    E' infatti patrimonio comune sia della giurisprudenza della Corte
CE,  che  della  stessa  giurisprudenza  della  Corte  costituzionale
italiana (si veda, in particolare la sentenza n. 168 del 1991) che la
direttiva  cosiddetta «dettagliata» debba avere piena applicazione da
parte  dei giudici comuni che, nel caso in questione, nemmeno debbano
passare  per l'ulteriore filtro del ricorso alla Corte costituzionale
ai  fini  di  conoscere l'applicabilita' della norma in esame. E tale
circostanza  e',  inoltre,  ammessa  dalla stessa Corte CE che, nella
sentenza de qua (par. 72), afferma che «nel caso in cui i giudici del
rinvio sulla base delle soluzioni loro fornite dalla Corte, dovessero
giungere  alle  conclusioni  che  i  nuovi  articoli  2621 e 2622 del
c.c....  non  soddisfino  l'obbligo  del diritto comunitario relativo
all'adeguatezza   delle   sanzioni,   ne   deriverebbe,  secondo  una
giurisprudenza  consolidata  della  Corte, che gli stessi giudici del
rinvio  sarebbero  tenuti a disapplicare, di loro iniziativa, i detti
nuovi  articoli,  senza che ne debbano chiedere o attendere la previa
rimozione  in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento
costituzionale».
    Va  rilevato,  a  parere  di  chi scrive, ma anche a parere della
Corte  CE,  che,  nel caso in questione non si sia in presenza di una
direttiva   «self  executing»  altrimenti  questi  giudici  avrebbero
seguito, nella vicenda in questione, strade processuali probabilmente
diverse.
    E'  abbastanza  evidente (o perlomeno questo e' il pensiero della
Corte  CE)  che la direttiva in parola non possegga nemmeno una legge
interna di attuazione che possa consentirne una vigenza nazionale (ed
e'  per  questo, tra l'altro, che, come dice la Corte «non puo' avere
come  effetto di determinare o aggravare la responsabilita' penale di
coloro che agiscono in violazione delle dette disposizioni»).
    Va quindi conclusivamente notato che la «non applicabilita» della
direttiva  nel  caso  in  questione  non  deriva  (come  inizialmente
suggerito  dalla  stessa  Corte  CE)  dal  fatto che essa si ponga in
contrasto con una lex mitior (e cioe' le norme penali di cui ai nuovi
articoli  2621 e 2622 c.c.) e che dalla sua eventuale applicazione si
abbia  come  risultato «di determinare o aggravare la responsabilita'
penale  degli  imputati»,  ma  solo e soltanto dal fatto che lo Stato
italiano  non  abbia  provveduto con un suo atto interno normativo ad
attuare ed applicare la direttiva stessa.
    Perche', altrimenti, non avrebbe senso la domanda che la Corte si
pone al paragrafo 70 della citata sentenza e, soprattutto la risposta
(o la mancata risposta) che essa stessa si da' al paragrafo 71.
    In breve, quid iuris (in termini di determinazione o aggravamento
di  pena)  se  la  direttiva  in  parola  fosse  stata  una direttiva
dettagliata  o  comunque  se lo Stato italiano avesse provveduto alla
sua attuazione ?
    Il  principio  generale  di diritto comunitario dell'applicazione
della  pena  piu'  favorevole  (paragrafo 69 della sentenza Corte CE)
avrebbe  resistito o meno a fronte di una direttiva di diversa natura
o compiutamente adeguata ?
    Le  domande  che  fin  qui' questi giudici si sono poste non sono
domande   retoriche   sono,   da   un   differente  punto  di  vista,
sostanzialmente  le  stesse  che il giudice per l'udienza preliminare
del  Tribunale  di  Palermo  ha  posto  alla Corte costituzionale con
l'ordinanza   n. 232   del   20   novembre   2002   decidendo   sulla
ammissibilita'  della  questione di legittimita' costituzionale degli
artt. 2621  e  2622  c.c.  in  relazione  agli  artt. 3, 10, 11 e 117
Costituzione.
    In  relazione  a  tale richiesta la suddetta Corte, con ordinanza
n. 165  del  26  maggio  - 1° giugno 2004, ha deciso di sospendere il
proprio  giudizio  in attesa proprio delle determinazioni della Corte
di  Giustizia  della CE nelle cause C-387/02, C-391/02, e C-403/02, e
cioe' nelle cause trattate nella sentenza che si e' riportata.
    In  sostanza  il  giudice  di  Palermo  ha  richiesto  alla Corte
costituzionale  di  verificare  la validita' delle norme in questione
alla  luce  dell'esistenza  della prima direttiva CEE n. 68/151 e del
mancato adeguamento della stessa da parte del legislatore italiano, a
tale  adeguamento  obbligato dagli articoli 10, 11, e 117 della Carta
Costituzionale.
    Come  si  vede,  la  questione sottoposta al giudizio della Corte
italiana   (ed   attualmente   sospesa)   appare   sostanzialmente  e
formalmente  identica a quella che era stata prospettata inizialmente
all'attenzione di questo collegio e che questi giudici avevano deciso
di  inviare  in  via pregiudiziale ai sensi dell'art. 234 Trattato CE
alla Corte di Giustizia.
    Appare  quindi  opportuno che, esaurito l'iter europeo, la stessa
questione   sia   sottoposta   anch'essa  al  giudicato  della  Corte
costituzionale,  prospettandole  anche  l'iter  argomentativo seguito
dalla  Corte  CE  ed i risultati di tale approfondimento procedurale.
Questo anche alla luce delle motivazioni dell'ordinanza del G.u.p. di
Potenza  del  1° giugno 2005 (Proc. n. 3087/2000 RGGIP), che appaiono
sostanzialmente  identiche  a quelle contenute nella citata ordinanza
del G.u.p. di Palermo sopra riportate e che differiscono dalle stesse
per   l'unica   ragione   temporale  di  essere  state  scritte  dopo
l'emanazione della sentenza della Corte CE.
    In sintesi ed in conseguenza logica di quanto gia' evidenziato da
questi giudici all'atto dell'emanazione dell'ordinanza del 29 ottobre
2002,  va  dichiarata  rilevante  e  non  manifestamente infondata la
questione  della  legittimita'  costituzionale  degli articoli 2621 e
2622  c.c.,  cosi'  come  modificati  dal  decreto  legislativo n. 61
dell'11 aprile  2002,  in  relazione  agli  artt.  10, 11 e 117 della
Costituzione  con  riferimento  al  contenuto dell'art. 6 della prima
direttiva  CEE  n. 68/151 e dell'art. 5 del trattato CEE (ora art. 10
trattato CE) attesa la totale inadeguatezza degli stessi a sanzionare
in  modo  efficace e dissuasivo le condotte colpevoli ivi previste, e
quindi  il  mancato adeguamento legislativo delle norme suindicate al
contenuto dei precetti europei.
    In  sostanza,  ed  alla  luce  degli  argomenti  contenuti  nella
sentenza  della  CE  del  3  maggio  2005  che  qui' si e' cercato di
commentare  ed  interpretare,  questi  giudici  chiedono  ai  supremi
giudici  costituzionali  se sia ammissibile e consentito, in presenza
degli  articoli della Costituzione citati da cui si evince la vigenza
e la rilevanza delle norme extrastatuali riconosciute, al legislatore
italiano  emanare  delle norme che appaiono in evidente contrasto con
le norme superiori citate e se queste ultime possano essere disattese
da  una  semplice  situazione  di  inadeguamento  delle  stesse se la
presenza  di  una  direttiva comunitaria non dettagliata, ma comunque
inequivoca  nella  sua  interpretazione,  non  obblighi  il  suddetto
legislatore  al  suo  immediato  adeguamento  e  comunque al rispetto
costituzionale  della stessa, e se il mancato adeguamento non sia, di
per  se',  un  atto  costituzionalmente  illegittimo  e,  come  tale,
passibile  di  interpretazione correttiva da parte dei giudici a cio'
preposti.
    Tutto  questo,  evidentemente,  prescindendo  dal contenuto della
norma  interna  contrastante  con quella europea e prescindendo dalla
ricaduta procedimentale della sua eventuale ablazione.
    Perche'  sebbene  sia  possibile che (come suggerito dalla stessa
Corte costituzionale nella sentenza n. 161 del 1° giugno 2004, che ha
rigettato  per manifesta inammissibilita' le questioni concernenti la
legittimita'   costituzionale  degli  artt. 2621  e  2622  del  c.c.,
proposte  dai  giudici  di  Melfi,  Forli'  e  Milano) la ricaduta in
termini  di  rilevanza  penale  delle  false comunicazioni sociali in
conseguenza   di   una   eventuale  dichiarazione  di  illegittimita'
costituzionale  della norma, sia una totale «abolitio criminis» e non
una dilatazione della rilevanza della stessa, con «riemersione» della
normativa  precedentemente applicata, tuttavia tale risultato appare,
secondo  gli  scriventi,  come  una  delle  evenienze possibili e non
l'unica eventualita' prevedibile a livello interpretativo. Dovendosi,
quantomeno  in  stretta  teoria,  ritenere  possibile anche l'ipotesi
alternativamente  citata  (e  cioe'  la rivalutazione della normativa
precedentemente vigente).
    Questo  anche  in ipotesi di una piu' attenta lettura dell'art. 2
del  codice  penale in particolare al comma 3, che preveda, a livello
interpretativo,  di  consentire  la prevalenza della norma posteriore
piu'  favorevole  sulla  legge  del  tempus  commissi  delicti solo e
soltanto  nel  momento  in  cui  tale  legge  sia  ancora  vigente ed
operativa e non, per esempio, ritenuta costituzionalmente illegittima
a   seguito   di   intervento  della  Corte.  Cio'  naturalmente  con
riferimento  alla  disciplina  delle condotte realizzatesi in vigenza
della norma meno favorevole.
    Questo  anche  al  fine (in ossequio al generalissimo criterio di
ragionevolezza  legislativa  di cui all'art. 3 della Costituzione) di
evitare meccanismi legislativi che utilizzino la via della emanazione
di una lex mitior (a fini di riduzione di un'area di incidenza penale
e  sanzionatoria)  invece  di  percorrere altre strade normativamente
possibili  e forse piu' aderenti allo spirito costituzionale (per es.
la concessione di una amnistia).
    Comunque,   quandanche   l'eventuale  ablazione  della  norma  in
questione  porti  alle drastiche conseguenze prospettate dalla Corte,
questo,   sempre   a  parere  di  chi  scrive,  non  rileverebbe  nel
procedimento  a  quo,  se  non  nel  determinare  una diversa formula
definitoria dei fatti contestati.
                              P. Q. M.
    Visti  gli  artt. 23 legge 11 marzo 1953, n. 87, 2621 e 2622 c.c.
cosi'  come  modificati  dal d.lgs. n. 61 dell'11 aprile 2002; 3, 10,
11,   117  della  Costituzione;  art. 6  della  prima  direttiva  CEE
n. 68/151  del  9  marzo  1968,  art. 5 del Trattato CEE, ora art. 10
Trattato CE;
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita'  costituzionale  degli art. 2621 e 2622 c.c., cosi' come
modificati  dal  d.lgs.  n. 61 dell'11 aprile 2002, in relazione agli
artt. 3, 10, 11, 117 della Costituzione, con riferimento al contenuto
dell'art. 6  della  Prima  Direttiva  CEE n. 68/151 e dell'art. 5 del
Trattato   CEE   (ora   art. 10   Trattato   CE),  attesa  la  totale
inadeguatezza degli stessi a sanzionare in modo efficace e dissuasivo
le  condotte  colpevoli ivi previste, e quindi il mancato adeguamento
legislativo delle norme suindicate al contenuto dei precetti europei.
    Ordina   la  sospensione  del  presente  procedimento  e  dispone
l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
    Ordina  che  a  cura  della cancelleria la presente ordinanza sia
notificata  al  Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai
Presidenti delle due Camere del Parlamento.
        Milano, addi' 27 settembre 2005
                         Il Presidente: Magi
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