N. 460 SENTENZA 14 - 23 dicembre 2005

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Procedimento   civile  -  Astensione  e  ricusazione  del  giudice  -
  Magistrati   membri   del  tribunale  che  ha  emesso  la  sentenza
  dichiarativa  di  fallimento - Obbligo di astenersi dal giudizio di
  opposizione   ex   art. 18   della  legge  fallimentare  -  Mancata
  previsione  - Denunciata incidenza sulla terzieta' ed imparzialita'
  del  giudice  e  lesione  del diritto alla tutela giurisdizionale -
  Questione    sollevata   sulla   base   dell'erronea   affermazione
  dell'esistenza  di  un  diritto  vivente  - Natura impugnatoria del
  procedimento   di   opposizione   alla   sentenza  dichiarativa  di
  fallimento  -  Configurabilita' di detta fase come «altro grado del
  processo»  -  Conseguente sussistenza dell'obbligo di astensione ex
  art. 51,  primo  comma,  n.   4, cod. proc. civ. per il giudice che
  abbia  partecipato  alla  decisione  relativa alla dichiarazione di
  fallimento  nel  giudizio di opposizione - Necessita' di far valere
  la  mancata  astensione  con  la  ricusazione - Non fondatezza, nei
  sensi di cui in motivazione, della questione.
- Cod. proc. civ., art. 51, primo comma, n. 4.
- Costituzione arrt. 24 e 111.
(GU n.52 del 28-12-2005 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
  Presidente: Annibale MARINI;
  Giudici: Franco BILE, Giovanni Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo
DE  SIERVO,  Romano  VACCARELLA,  Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO,
Alfonso  QUARANTA,  Franco  GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI,
Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO;
ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 51,  primo
comma,  numero  4,  del  codice  di  procedura  civile, promosso, con
ordinanza del 20 settembre 2004, dal Tribunale ordinario di Grosseto,
nel  procedimento  civile  vertente  tra  Francesco  Innocenti  e  la
curatela  del  fallimento di Francesco Innocenti, iscritta al n. 1047
del  registro  ordinanze  2004  e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica italiana n. 3, 1ª serie speciale, dell'anno 2005.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera di consiglio del 16 novembre 2005 il giudice
relatore Romano Vaccarella.

                          Ritenuto in fatto

    1.  -  Nel corso di un giudizio di opposizione a dichiarazione di
fallimento,  promosso  dinanzi al Tribunale ordinario di Grosseto, il
giudice istruttore ha sollevato, con ordinanza del 20 settembre 2004,
questione   di   legittimita'  costituzionale,  in  riferimento  agli
articoli 24  e  111  della  Costituzione,  dell'art. 51, primo comma,
numero  4,  del  codice  di  procedura civile, nella parte in cui non
prevede  l'obbligo  di  astensione dal partecipare al giudizio di cui
all'art. 18  del  regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del
fallimento,    del    concordato   preventivo,   dell'amministrazione
controllata  e  della  liquidazione  coatta  amministrativa),  per il
magistrato  che  abbia  fatto parte del collegio che ha deliberato la
sentenza dichiarativa di fallimento.
    1.1.  -  In  punto  di fatto, il giudice a quo riferisce che egli
aveva  partecipato alla deliberazione della sentenza dichiarativa del
fallimento  di  una  societa'  in  accomandita  semplice  e del socio
illimitatamente responsabile di essa ed era stato, poi, designato dal
presidente  quale  giudice  istruttore  della  causa  di opposizione,
proposta  dal socio fallito ai sensi dell'art. 18 del r.d. n. 267 del
1942 («legge fallimentare»).
    1.2.  -  In  punto di diritto, il giudice rimettente osserva che,
secondo   l'orientamento   della  giurisprudenza  di  legittimita'  -
costituente  «diritto  vivente»,  in quanto consolidato, costante nel
tempo e univoco - il magistrato che sia stato componente del collegio
che  ha  deliberato  la  sentenza  dichiarativa  di fallimento non e'
obbligato  ad  astenersi  dal  partecipare al giudizio di opposizione
avverso  la  medesima  sentenza  (Cass.  19 settembre 2000, n. 12410;
Cass. 23 ottobre 1998, n. 10527; Cass. 20 febbraio 1978, n. 801).
    1.3.   -  Quanto  alla  rilevanza  della  questione,  il  giudice
rimettente  osserva  che  l'eventuale accoglimento della eccezione di
incostituzionalita'  comporterebbe per lui l'obbligo di astensione ai
sensi dell'art. 51, primo comma, numero 4, cod. proc. civ.
    1.4.  -  Quanto  alla legittimazione a sollevare la questione, il
giudice  rimettente  rileva  che  la  norma  denunciata  deve  essere
applicata   dal   giudice   tenuto   ad  astenersi  e  non  gia'  dal
capo dell'ufficio,   posto   che   quest'ultimo,   nelle  ipotesi  di
astensione  obbligatoria,  non  ha  il  potere  di autorizzare o meno
l'astensione,   ma   deve  solo  prenderne  atto  e  provvedere  alla
sostituzione del giudice astenutosi.
    1.5. - Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il
giudice  a  quo  ricorda che la Corte costituzionale ha avuto modo di
affermare  che - sebbene nel processo civile non siano applicabili le
regole  sulle  incompatibilita'  soggettive  per precedente attivita'
tipizzata  svolta nello stesso procedimento penale, in considerazione
delle  particolarita' e delle diversita' dei sistemi processuali - il
principio  di  imparzialita-terzieta'  della  giurisdizione  ha pieno
valore  costituzionale  con  riferimento a qualunque tipo di processo
(sentenze n. 387 del 1999, n. 51 del 1998, n. 326 del 1997).
    In   particolare,   la   Corte   ha   osservato   che   «esigenza
imprescindibile, rispetto ad ogni tipo di processo, e' solo quella di
evitare  che lo stesso, nel decidere, abbia a ripercorrere l'identico
itinerario   logico   precedentemente  seguito;  sicche',  condizione
necessaria per dover ritenere una incompatibilita' endoprocessuale e'
la preesistenza di valutazioni che cadano sulla stessa res iudicanda»
(sentenza n. 387 del 1999).
    Orbene,    poiche'    nel    processo    civile    la    garanzia
dell'imparzialita-terzieta'  del  giudice  si  attua,  per scelta del
legislatore,   attraverso   gli   istituti  dell'astensione  e  della
ricusazione,  la  ratio della disposizione dell'art. 51, primo comma,
numero  4, cod. proc. civ. - rileva il giudice rimettente - e' quella
di  evitare  che l'itinerario logico gia' seguito per l'emanazione di
un  provvedimento  sia  ripercorso dallo stesso magistrato in sede di
gravame,  perche'  cio'  lederebbe  la  garanzia  dell'alterita'  del
giudice dell'impugnazione.
    Simile   esigenza  e'  certamente  ravvisabile  nel  giudizio  di
opposizione  alla  sentenza dichiarativa di fallimento, giacche' tale
pronuncia e' suscettibile di acquistare valore di giudicato.
    Sebbene la dichiarazione di fallimento venga emessa al termine di
un    giudizio    a   cognizione   sommaria,   mentre   la   sentenza
sull'opposizione e' pronunciata all'esito di un giudizio a cognizione
piena,  sussiste  l'esigenza  di  garantire  la terzieta' del giudice
dell'opposizione,  posto  che  cio'  che  rileva a tal fine non e' la
natura   piena  o  sommaria  della  cognizione,  quanto  la  funzione
decisoria che caratterizza la sentenza di fallimento.
    In  proposito,  il  giudice  rimettente osserva che la principale
argomentazione  con  cui  la  dottrina e la giurisprudenza prevalenti
escludono  per  il giudice dell'esecuzione l'obbligo di astenersi dal
giudizio  di  opposizione  agli  atti esecutivi, avente ad oggetto un
provvedimento  emesso  dallo  stesso giudice, e' proprio l'assenza di
poteri decisori in capo al giudice dell'esecuzione, cui spettano solo
poteri   ordinatori   di   direzione  e  controllo  del  procedimento
esecutivo.
    1.6.  -  Il  giudice  a  quo  ritiene  che  non sia possibile una
interpretazione  adeguatrice  della  norma denunciata alla luce della
sentenza della Corte costituzionale n. 387 del 1999.
    Rileva,  infatti,  che  la  Corte di cassazione si e' pronunciata
successivamente  alla  citata  sentenza  e  ha  ribadito  il  proprio
orientamento circa la non configurabilita' neppure in astratto di una
incompatibilita'  fra il giudice che ha dichiarato il fallimento e il
giudice   dell'opposizione   (Cass.   19 settembre  2000,  n. 12410),
lasciando  cosi' intendere di non ritenere estensibili al giudizio ex
art. 18  della  legge  fallimentare  le  argomentazioni con cui si e'
sostenuta  un'interpretazione  costituzionalmente  orientata riguardo
all'opposizione    in   materia   di   repressione   della   condotta
antisindacale,  di cui all'art. 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300
(Norme  sulla  tutela della liberta' e dignita' dei lavoratori, della
liberta'  sindacale e dell'attivita' sindacale nei luoghi di lavoro e
norme sul collocamento).
    Osserva,  inoltre,  che  la richiamata sentenza del giudice delle
leggi  attribuisce un significato interpretativo fondamentale al dato
normativo  rappresentato da cio', che nella disciplina originaria del
procedimento di repressione della condotta antisindacale era prevista
una prima fase davanti al pretore ed una successiva eventuale fase, a
seguito  di opposizione, davanti al tribunale, per cui «non si poteva
dubitare  della sussistenza di una duplicita' di fasi processuali, la
seconda   delle   quali   avanti   al  Tribunale  assumeva  tutte  le
caratteristiche di un ulteriore grado di giudizio» (cosi', ancora, la
sentenza n. 387 del 1999).
    Tale  argomentazione  non  puo' essere estesa alla fattispecie in
esame,  in  quanto  la  legge  fallimentare  ha  sempre  previsto  la
competenza  del  tribunale,  in  composizione  collegiale,  e  per la
dichiarazione di fallimento e per il giudizio di opposizione.
    In  conclusione,  ad  avviso  del  giudice  rimettente,  la norma
denunciata,  «secondo  l'interpretazione  consolidata  in  termini di
diritto  vivente,  viola gli artt. 24 e 111 della Costituzione per la
lesione  del diritto alla tutela giurisdizionale, sotto il profilo di
esclusione della terzieta' e della imparzialita' del giudice».
    2.  - E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, il quale ha concluso per l'infondatezza della questione.
    La difesa erariale osserva che, se non puo' sorgere dubbio che vi
e'  incompatibilita' in ipotesi di passaggio tra «gradi» del medesimo
giudizio,  ove  per «grado» si intende la duplicazione di valutazioni
ricadenti  sulla  medesima  res  iudicanda  per l'assolvimento di una
funzione  di  controllo  propriamente  impugnatorio,  la questione in
esame  riguarda,  invece,  la possibilita' di estendere la disciplina
dell'art. 51,  primo  comma, numero 4, cod. proc. civ. all'ipotesi di
successione  tra mere «fasi» di un unico procedimento, ove per «fase»
si intende un fenomeno del tutto diverso dal controllo impugnatorio.
    La Corte costituzionale si e' piu' volte pronunciata nel senso di
ravvisare incompatibilita' del giudice, in materia fallimentare, solo
in  relazione  alla  funzione  impugnatoria e non anche in ipotesi di
mera successione di una fase all'altra nell'ambito del medesimo grado
di giudizio.
    Cosi',  quanto al reclamo ex art. 26 della legge fallimentare, la
Corte  ha ritenuto costituzionalmente legittima la partecipazione del
giudice   delegato   alla   decisione  sul  reclamo  avverso  un  suo
provvedimento,  sul  rilievo  che  il reclamo endofallimentare non e'
qualificabile  come  un  ulteriore  grado di giudizio, in quanto esso
«rimane   nell'ambito  della  stessa  fase  processuale,  essendo  da
considerarsi  come  un momento dell'iter della procedura concorsuale,
le  cui  peculiarita'  impongono  speciali  esigenze  di  continuita»
(sentenza n. 363 del 1998).
    Analogamente,  quanto  al  giudizio  di  opposizione  allo  stato
passivo (artt. 98 e 99 della legge fallimentare), la Corte ha escluso
l'incostituzionalita' della normativa che investe il giudice delegato
dell'istruzione   della   causa,   ribadendo   il  principio  che  la
continuita'  interna  della  procedura  deve  essere  garantita dalla
unitarieta' del giudicante (sentenze n. 363 del 1998, n. 94 del 1975,
n. 158  del  1970;  ordinanza  n. 304 del 1998). Inoltre, la Corte ha
evidenziato  come  la diversa intensita' della cognizione del giudice
delegato  nella  fase di verifica dei crediti, sommaria e «fondata su
materiale  probatorio  di natura esclusivamente cartolare» (ordinanza
n. 167  del 2001), rispetto a quella piena del successivo giudizio di
opposizione, non solo dimostra che essa non ricade sulla medesima res
iudicanda, ma conferma la natura non impugnatoria della seconda fase.
    Le  medesime  argomentazioni  -  ad  avviso  dell'Avvocatura - si
attagliano  all'opposizione alla dichiarazione di fallimento, essendo
questa  pronunciata  all'esito di un procedimento sommario, mentre la
sentenza  sull'opposizione  e'  emessa  all'esito  di  un  giudizio a
cognizione  piena,  che permette l'acquisizione di ulteriori elementi
probatori  attraverso  qualsiasi  mezzo  di  prova  nell'ambito di un
contradddittorio pieno tra le parti.
    Detta opposizione, pertanto, non rappresenta un grado di giudizio
ulteriore,  ma  determina soltanto l'apertura di una fase eventuale a
cognizione  piena  del medesimo giudizio di primo grado, tant'e' vero
che  la  sentenza che la definisce e' soggetta agli ordinari mezzi di
impugnazione.

                       Considerato in diritto

    1.  -  Il  giudice  istruttore  presso  il tribunale ordinario di
Grosseto  dubita  della  legittimita'  costituzionale, in riferimento
agli articoli 24 e 111 della Costituzione, dell'art. 51, primo comma,
numero  4,  del  codice  di  procedura  civile,  nella parte in cui -
stabilendo  che  «il  giudice  ha  l'obbligo  di  astenersi»  se  «ha
conosciuto» della causa «come magistrato in altro grado del processo»
-  non prevede l'obbligo di astensione dal partecipare al giudizio di
opposizione  di  cui  all'art. 18  del  regio  decreto 16 marzo 1942,
n. 267   (Disciplina   del  fallimento,  del  concordato  preventivo,
dell'amministrazione   controllata   e   della   liquidazione  coatta
amministrativa), per il magistrato che abbia fatto parte del collegio
che  ha  deliberato la sentenza dichiarativa di fallimento, assumendo
che  cio'  comporta «lesione del diritto alla tutela giurisdizionale,
sotto  il profilo di esclusione della terzieta' e della imparzialita'
del giudice».
    2. - La questione non e' fondata.
    2.1.  -  Il  rimettente  - designato dal presidente del tribunale
quale  giudice  istruttore  nel giudizio di opposizione alla sentenza
dichiarativa  di  fallimento, deliberata da un collegio del quale era
stato  componente  -  assume  che  un  costante  ed univoco indirizzo
giurisprudenziale  di  legittimita'  gli  impedirebbe  di  astenersi,
laddove  a  tanto  sarebbe  tenuto  in  ossequio  al  principio della
terzieta'  ed  imparzialita'  del  giudice di cui agli artt. 24 e 111
Cost.
    L'art. 51,  primo  comma,  numero 4, cod. proc. civ. - osserva il
rimettente - configura l'obbligo del magistrato di astenersi soltanto
se,  per  quel  che  interessa  in  questa sede, egli della causa «ha
conosciuto  come  magistrato in altro grado del processo»: norma che,
secondo  il  «diritto vivente» costituito da numerose decisioni della
Corte di cassazione, non si attaglierebbe all'ipotesi in esame.
    2.2.  -  Va premesso che la norma sull'astensione obbligatoria e'
costitutiva  di  un  dovere in capo al magistrato che si trovi in una
delle  situazioni  previste  dai  numeri  da  1  a  5 del primo comma
dell'art. 51  cod.  proc.  civ;  dovere  a presidio del quale, ove il
magistrato  non si astenga, la legge prevede che ciascuna parte possa
proporre  la  ricusazione  (art. 52  cod.  proc.  civ.),  sulla quale
provvede,  ove  si  tratti  di  uno  dei componenti del tribunale, il
collegio con ordinanza non impugnabile (art. 53 cod. proc. civ.).
    Ove  la  ricusazione  sia respinta o dichiarata inammissibile, la
decisione  della  causa  alla  quale  abbia preso parte il magistrato
ricusato  puo'  essere impugnata dalla parte ricusante, deducendo che
l'erroneita'   della  pronuncia  sulla  ricusazione  e'  causa  della
nullita'   della  decisione  in  quanto  emessa  da  un  giudice  non
imparziale.
    Di qui la legittimazione a sollevare la questione di legittimita'
costituzionale  del  magistrato  che,  designato  giudice istruttore,
ritenga  di  trovarsi  in  una  situazione  di  incompatibilita'  non
espressamente  prevista, e tuttavia sostanzialmente identica a taluna
di  quelle  contemplate  dall'art. 51,  primo  comma, cod. proc. civ.
(cfr.  sentenze  n. 71 del 1975 e n. 236 del 1997), ma di qui, anche,
l'erroneita' del presupposto da cui muove il rimettente.
    2.3.  -  Le  sentenze  della  Corte  di cassazione invocate quale
«diritto  vivente», in realta', non hanno posto a fondamento del loro
decisum  l'inesistenza  dell'obbligo  di  astensione, nel giudizio di
opposizione  ex  art. 18 della legge fallimentare, del magistrato che
abbia  fatto  parte  del  collegio  che  ha  dichiarato il fallimento
opposto.
    La  piu'  risalente  di tali sentenze, in effetti, e' relativa ad
un'ipotesi  nella  quale  il magistrato era componente di un collegio
che aveva respinto l'istanza di fallimento, e non gia' di quello che,
successivamente,  lo  aveva  dichiarato;  le  piu'  recenti,  pur  se
escludono  l'esistenza dell'obbligo di astensione nell'ipotesi qui in
esame, in realta' hanno entrambe la loro ratio decidendi in cio', che
la  mancata  proposizione della ricusazione non consentiva di dedurre
l'(asseritamente)  illegittima  composizione  del  giudice in sede di
impugnazione quale causa di nullita' della sentenza.
    Non  e'  un  caso, peraltro, ma la conferma della inesistenza del
«diritto  vivente»  evocato dal rimettente, che recentemente la Corte
di   cassazione   abbia   dichiarato   irrilevante  la  questione  di
legittimita'   costituzionale   ora   in  esame  quando  «la  pretesa
violazione  dell'obbligo  di  astensione  non  sia stata fatta valere
attraverso  una  tempestiva e rituale istanza di ricusazione, «atteso
che,  per  non  esser  stata  proposta,  nel giudizio di opposizione,
un'istanza   di  ricusazione  del  giudice,  non  vi  sarebbe  alcuna
possibilita' di far valere l'eventuale declaratoria di illegittimita'
costituzionale  come  vizio  inficiante  di nullita' ex art. 158 cod.
proc.  civ.  [...]  la  sentenza  emessa  in  quel  giudizio»  (Cass.
1° luglio 2004, n. 12029).
    3.  -  Cio' posto, non possono essere condivise le ragioni per le
quali   il   rimettente  ritiene  impraticabile  una  interpretazione
dell'art. 51,  primo  comma,  numero  4,  cod. proc. civ., conforme a
Costituzione e, in particolare, a quanto questa Corte ha statuito con
la sentenza n. 387 del 1999: e' inespressiva, per quanto si e' appena
rilevato  sub  2.3,  la circostanza che la Corte di cassazione abbia,
successivamente alla sentenza n. 387 del 1999, ribadito (in un obiter
dictum)  il suo orientamento riguardo alla questione qui in esame, ma
e'   altresi'   inconferente   la   circostanza  che  originariamente
l'opposizione   avverso   il   decreto  emesso  dal  pretore  per  la
repressione della condotta antisindacale fosse proponibile davanti al
tribunale.
    Nella  sentenza  n. 387 del 1999 tale circostanza e' sottolineata
per  dedurne  che  «la fattispecie rientrava all'evidenza nell'ambito
della  previsione  dell'art. 51, numero 4, cod. proc. civ.» - e cioe'
quale  argomento  per  l'interpretazione, costituzionalmente corretta
(art. 24 Cost.), della locuzione «altro grado del processo» impiegata
dal codice - e non certamente quale fondamento della sentenza stessa:
ed  infatti,  premesso  che  «il  rapporto  tra le due fasi, sotto il
profilo  della  imparzialita-terzieta'  del  giudice,  non puo', ora,
ritenersi  mutato per il semplice sopravvenuto intervento di modifica
[...]   della  sola  norma  di  competenza»,  questa  Corte  prosegue
osservando  che la locuzione de qua va intesa «alla luce dei principi
che  si ricavano dalla Costituzione relativi al giusto processo, come
espressione  necessaria  del  diritto  ad  una tutela giurisdizionale
mediante azione (art. 24 della Costituzione) avanti ad un giudice con
le  garanzie  proprie  della  giurisdizione, cioe' con la connaturale
imparzialita',   senza  la  quale  non  avrebbe  significato  ne'  la
soggezione dei giudici solo alla legge (art. 101 della Costituzione),
ne' la stessa autonomia ed indipendenza della magistratura (art. 104,
primo  comma,  della  Costituzione). In altri termini, la espressione
"altro  grado"  non  puo'  avere  un ambito ristretto al solo diverso
grado  del  processo,  secondo l'ordine degli uffici giudiziari, come
previsto  dall'ordinamento  giudiziario,  ma deve ricomprendere - con
una  interpretazione  conforme a Costituzione - anche la fase che, in
un  processo  civile,  si  succede con carattere di autonomia, avente
contenuto  impugnatorio,  caratterizzata  (per  la  peculiarita'  del
giudizio  di  opposizione di cui si discute) da pronuncia che attiene
al  medesimo  oggetto  e alle stesse valutazioni decisorie sul merito
dell'azione  proposta  nella prima fase, ancorche' avanti allo stesso
organo giudiziario».
    Esclusa   ogni   rilevanza  dei  pretesi  inconvenienti  fattuali
derivanti  dalla  interpretazione  adottata  come  l'unica conforme a
Costituzione,  la  sentenza  n. 387  del 1999 si fonda, dunque, sulla
intrinseca  natura  impugnatoria  della fase che si svolge davanti al
medesimo  ufficio  giudiziario,  e  cio'  per  avere il provvedimento
soggetto  a  revisio  «una  funzione  decisoria  idonea  di per se' a
realizzare  un  assetto  dei  rapporti  tra  le  parti, non meramente
incidentale  o strumentale e provvisorio ovvero interinale (fino alla
decisione  del  merito),  ma  anzi  suscettibile - in caso di mancata
opposizione - di assumere valore di pronuncia definitiva, con effetti
di  giudicato  tra  le  parti»; ed inoltre per essere «la valutazione
delle  condizioni  che  legittimano il provvedimento» non divergente,
quanto  a  parametri  di  giudizio,  «da  quella che deve compiere il
giudice  dell'eventuale  opposizione,  se  non  per  il carattere del
contraddittorio e della cognizione sommaria».
    3.1. - Alla luce di questi criteri, la fase dell'opposizione alla
sentenza   dichiarativa   di  fallimento  assume  certamente  «valore
impugnatorio   con   contenuto   sostanziale   di   revisio   prioris
instantiae»: non soltanto la sentenza dichiarativa di fallimento, ove
non  opposta,  e'  idonea  a  passare  in  giudicato, non soltanto le
condizioni   che   legittimano   il  provvedimento  sono  oggetto  di
rivalutazione  in  sede  di opposizione, ma proprio la gravita' delle
conseguenze (non di rado irreversibili) derivanti dalla dichiarazione
di  fallimento  rende  evidente come la «sommarieta» della cognizione
camerale   vada   intesa   nel  senso  non  gia'  di  «parzialita»  o
«superficialita», bensi' di «deformalizzazione».
    Ove  cio'  non  fosse - se, cioe', la dichiarazione di fallimento
potesse  seguire ad una cognizione parziale o incompleta, nella quale
gli  elementi  utilizzabili  dal giudice per la decisione non fossero
assunti  nel  (sia  pur non formalizzato) contraddittorio delle parti
(ed in primis del fallendo) - la disciplina legislativa, che consente
effetti  tanto rilevanti e potenzialmente definitivi, sarebbe di piu'
che   dubbia  costituzionalita';  a  fortiori  se  si  considera  che
l'immediata (dal momento della pronuncia) esecutivita' della sentenza
non  puo'  in nessun caso essere sospesa a seguito dell'opposizione e
che  la  revoca  lascia  «salvi  gli  effetti  degli  atti legalmente
compiuti   dagli   organi   del   fallimento»  (art. 21  della  legge
fallimentare).
    A   cio'  si  aggiunga  che  la  giurisprudenza  di  legittimita'
costantemente   qualifica   l'opposizione   ex  art. 18  della  legge
fallimentare  come  «impugnazione  in  senso  tecnico»,  ai fini, tra
l'altro,  del  suo rapporto con il regolamento di competenza (art. 43
cod.  proc.  civ.),  della  appellabilita'  della  sentenza che abbia
sostituito  il  fallimento  personale a quello dichiarato come socio,
del principio della consumazione del mezzo di gravame.
    3.2.  -  E'  appena il caso di ribadire che la sostanziale natura
impugnatoria   dell'opposizione   alla   sentenza   dichiarativa   di
fallimento  non si riscontra, come questa Corte ha gia' statuito, nel
caso   dell'opposizione   allo   stato   passivo  (caratterizzato  da
accertamento sommario, incompleto e superficiale: sentenze n. 158 del
1970;  n. 94  del  1975;  ordinanze n. 304 del 1998; n. 167 del 2001;
n. 75  del  2002),  del  reclamo  ex art. 26 della legge fallimentare
avverso  provvedimenti  del  giudice  delegato  (caratterizzato dalle
esigenze   di   continuita'   dello   svolgimento   della   procedura
concorsuale:  sentenza  n. 363  del  1998), del giudizio promosso dal
curatore  su  autorizzazione del giudice delegato (data sulla base di
una mera delibazione di non infondatezza: ordinanza n. 176 del 2001).
    Ne'  si  riscontra,  al di fuori delle procedure concorsuali, nei
casi  -  anch'essi  esaminati  da  questa  Corte  -  di provvedimento
cautelare autorizzato ante causam e di successiva cognizione piena in
sede  di  giudizio di merito (sentenza n. 326 del 1997), di decisione
emessa  ex  art. 187-quater  cod.  proc.  civ.  (ordinanza n. 168 del
2000),  di rinvio cosiddetto restitutorio ex art. 354 cod. proc. civ.
(sentenza n. 341 del 1998).
    3.3.   -  In  conclusione,  l'obbligo  di  astensione  -  la  cui
violazione  e'  idonea  a  rendere  nulla  la  sentenza  per vizio di
costituzione  del  giudice  solo  se  sia tempestivamente proposta la
ricusazione  e  questa venga erroneamente respinta - presuppone, come
nell'ipotesi qui in esame, che il procedimento svolgentesi davanti al
medesimo  ufficio  giudiziario  sia  solo  apparentemente «bifasico»,
mentre   in  realta'  esso  -  per  le  caratteristiche  decisorie  e
potenzialmente  definitive del provvedimento che chiude la prima fase
e  per  la  sostanziale  identita'  di  valutazioni  da  compiersi in
entrambe  le  fasi  nel  rispetto  del principio del contraddittorio,
ancorche'  realizzato  con  modalita' deformalizzate - si articola in
due  momenti, il secondo dei quali assume il valore di vera e propria
impugnazione,  e acquista, pertanto, i caratteri essenziali di «altro
grado del processo».
                          Per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
    Dichiara  non  fondata,  nei  sensi  di  cui  in  motivazione, la
questione  di  legittimita' costituzionale dell'art. 51, primo comma,
numero  4  del  codice di procedura civile, sollevata, in riferimento
agli articoli 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di
Grosseto con l'ordinanza in epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 14 dicembre 2005.
                        Il Presidente: Marini
                      Il redattore: Vaccarella
                       Il cancelliere:Di Paola
    Depositata in cancelleria il 23 dicembre 2005 dicembre.
              Il direttore della cancelleria: Di Paola
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