N. 21 RICORSO PER CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE 26 gennaio 2006
Ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato (merito) depositato in cancelleria il 26 gennaio 2006 (della Corte d'appello di Venezia) Parlamento - Immunita' parlamentari - Procedimento penale a carico dell'on. Vittorio Sgarbi per il reato di diffamazione pluriaggravata per le dichiarazioni da questi rese, nel corso di trasmissioni televisive, nei confronti del magistrato Raffaele Tito - Deliberazione di insindacabilta' della Camera dei deputati - Conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dalla Corte di appello di Venezia, quarta sezione penale - Denunciata mancanza di nesso funzionale tra opinioni espresse ed attivita' parlamentari. - Deliberazione della Camera dei deputati del 7 ottobre 2003. - Costituzione, art. 68, primo comma.(GU n.6 del 8-2-2006 )
Ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato avverso la delibera della Camera dei deputati in data 7 ottobre 2003, relativa all'insindacabilita' delle opinioni espresse dal deputato Vittorio Sgarbi nei confronti del dott. Raffaele Tito. 1. - Va premesso in fatto: Vittorio Sgarbi, all'epoca ed attualmente deputato, era imputato di diffamazione pluriaggravata per avere, in quattro trasmissioni televisive della serie «Sgarbi quotidiani», diffuse dall'emittente «Canale 5» i giorni 10, 14 e 18 gennaio e 24 luglio 1997 e da lui condotte, offeso la reputazione del magistrato Raffaele Tito, con riferimento alla sua attivita' di sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pordenone in relazione ai procedimenti penali contro il deputato Michelangelo Agrusti e il sindaco del Comune di Buia Molinaro. La quarta trasmissione segue la presentazione di querela per le prime tre, e la commenta. In estrema sintesi, la contestazione dava conto dell'accusa rivolta al magistrato, con le parole e le espressioni riportate nelle due imputazioni in epigrafe (originariamente oggetto di due distinti procedimenti poi riuniti), di avere approfittato della relazione sentimentale con la dott.ssa Fasan, magistrato che svolgeva funzioni di g.i.p. nel medesimo ufficio giudiziario (relazione che si assumeva in corso all'epoca dei fatti denunciati), per ottenere provvedimenti restrittivi e decisioni giurisdizionali compiacenti. Attesa la formulazione del capo d'imputazione del procedimento originariamente recante il n. 22/99 R.G., che utilizza la locuzione «i cui testi devono intendersi tutti integralmente riportati», fin d'ora va disposta l'allegazione al presente ricorso, di cui costituiscono parte integrante, delle non controverse trascrizioni dei testi delle tre trasmissioni 10, 14 e 18 gennaio 1997. La vicenda aveva tratto origine da un memoriale del marito della Fasan, Danilo Da Re, consegnato all'Agrusti e da questi diffuso, anche ad organi di stampa. Su di essa il 22 dicembre del 1996 era stata presentata un'interrogazione parlamentare dal deputato Armando Veneto. In relazione al contenuto delle quattro trasmissioni erano state proposte due querele autonome, da parte del dott. Tito e della dott.ssa Fasan; secondo le regole sulla competenza territoriale (avendo riguardo al domicilio delle persone querelanti ed in ragione del luogo d'esercizio dell'attivita' professionale del dott. Tito) erano iniziati due processi, a Treviso per la dott.ssa Fasan ed a Venezia per il dott. Tito. Il processo di Treviso si e' definito con sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p. in relazione all'art. 68 Cost. In data 24 febbraio 1999 infatti la Camera dei deputati, cui apparteneva lo Sgarbi, deputato, aveva deliberato che i fatti per i quali era in corso il processo concernevano opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni. Il Tribunale di Treviso aveva sollevato conflitto d'attribuzioni tra i poteri dello Stato, ma il ricorso era stato dichiarato inammissibile una prima volta per questioni formali (la mancata adeguata indicazione del petitum). Riproposto il medesimo conflitto con atto che recepiva la censura, con ordinanza 12 dicembre 2003, n. 358 la Corte costituzionale dichiarava inammissibile anche il nuovo ricorso per una diversa questione, sempre in rito: confermando la propria giurisprudenza sul punto, la Corte ribadiva «l'esigenza costituzionale che il giudizio, una volta instaurato, sia concluso in termini certi non rimessi alle parti configgenti», non essendo ammissibile «mantenere indefinitivamente in sede processuale una situazione di conflittualita' tra poteri, protraendo cosi' ad libitum il ristabilimento della «certezza e definitivita' di rapporti», essenziale ai fini di un regolare svolgimento delle funzioni costituzionali. 1.1. - Con sentenza del 23 marzo - 13 giugno 2001 il Tribunale di Venezia ha dichiarato lo Sgarbi responsabile dei reati ascrittigli, uniti nella continuazione, e, negate le attenuanti generiche, lo ha condannato alla complessiva pena di un anno un mese di reclusione e lire tre milioni di multa. Gli ha concesso la sospensione condizionale della pena. Ha altresi' condannato lui e il responsabile civile Reti Televisive Italiane S.p.A. a risarcire in solido alla parte civile Tito il danno, liquidato in via definitiva in lire trecento milioni, e le spese di lite. Il giudice lagunare innanzi tutto argomentava proprio sul punto del perche' dovesse escludersi nella fattispecie l'immunita' ex art. 68 Cost. Lo Sgarbi aveva reso quelle dichiarazioni extra moenia e fuori del contesto d'iniziative parlamentari; l'occasione delle propalazioni era stato l'esercizio di mera attivita' professionale di natura giornalistica che «nulla ha obiettivamente a che vedere con la prerogativa accordata dall'art. 68.1 della Costituzione»; le sue dichiarazioni non potevano essere connesse con alcuna forma d'esercizio di funzioni parlamentari, non essendo individuabile alcun atto parlamentare specifico da lui adottato quale deputato; vi era solo una «vaga comunanza tematica» con atti (parlamentari) altrui, tuttavia «neppure indirettamente richiamati» in occasione della propalazione oggetto d'imputazione. In particolare, confrontando espressamente i contenuti degli interventi televisivi e dell'interrogazione del deputato Armando Veneto, il tribunale tra l'altro argomentava che «le dichiarazioni diffamatorie rese dallo Sgarbi-conduttore televisivo neppure lontanamente appaiono essere riproduttive di quelle pronunciate nell'interpellanza»; il raffronto evidenziava appunto solo qualche comunanza tematica in se' inidonea a ricondurre le prime a quelle insindacabili e protette; specialmente il dep. Veneto si esprimeva in forma dubitativa in ordine alla verita' dei fatti e chiedeva all'interlocutore istituzionale di volerla accertare, mantenendo prudenza nei confronti della fonte (il memoriale del marito della dott.ssa Fasan) e continenza ed adeguatezza espositiva, mentre lo Sgarbi consegnava il resoconto al pubblico come verita' in senso rigorosamente oggettivo, senza alcun dubbio, e in un contesto espositivo dove «la denigrazione gratuita risulta essere oggettivamente prevalente rispetto a qualsivoglia contenuto informativo». 1.2. - Sul punto i motivi d'appello, richiamata la pronuncia della Camera per il ramo trevigiano del processo, deducevano che invece sussisteva il nesso con l'esercizio delle funzioni parlamentari, da riconoscersi anche quando il deputato «trasporti» extra moenia il senso di un dibattito politico sviluppatosi in Parlamento, indipendentemente dal fatto che sia stato quel medesimo deputato ad affrontare la questione nella sede istituzionale. La difesa osservava che nel caso di specie nella trascrizione della trasmissione 10 gennaio 1997 si leggeva un esplicito richiamo a precedente interpellanza del deputato Armando Veneto (fg. 34 appello). Sarebbe stata poi irrilevante la diversita' del tenore delle rispettive affermazioni (interrogazione Veneto e trasmissioni Sgarbi), posto che ai fini del riconoscimento del nesso funzionale dovrebbe sussistere non un linguaggio asettico e acritico, bensi' una comunanza d'argomenti, seppur non nella forma della riproduzione integrale: cio' perche' la prerogativa dell'art. 68 Cost non potrebbe che entrare in gioco quando le espressioni siano astrattamente lesive della reputazione altrui. In terzo luogo l'analisi del contenuto dell'interrogazione del deputato Veneto imporrebbe di concludere, diversamente da quanto fatto dal tribunale, che anche quel deputato ha in tale atto sviluppato una profonda critica, censurando pesantemente le condotte dei due magistrati e non esprimendosi affatto - secondo l'appellante - in forma dubitativa (non potendo giungersi a tale valutazione solo valorizzando i continui riferimenti al memoriale). 1.3. - In data 7 ottobre 2003 e' intervenuta delibera con cui la Camera dei deputati ha dichiarato «che i fatti per i quali e' in corso il procedimento di cui al Doc. IV quater n. 19 (quelli per il reato di diffamazione aggravata pendenti presso questa Corte d'appello) concernono opinioni espresse dal deputato Vittorio Sgarbi nell'esercizio delle sue funzioni, ai sensi del primo comma dell'art. 68 della Costituzione». 2. - In rito. A norma dell'art. 3 della legge 20 giugno 2003, n. 140 questa Corte dovrebbe provvedere immediatamente con sentenza a norma dell'art. 129 del codice di procedura penale. Con sentenza 16 aprile 2004, n. 120 la Corte costituzionale ha gia' avuto occasione di affermare che la nuova normativa non ha innovato la predetta disposizione costituzionale, limitandosi a renderne esplicito il contenuto, confermando la necessita' della connessione alla funzione parlamentare degli atti tipici o non tipici, a prescindere dal criterio della localizzazione. Va subito chiarito che il precedente specifico per il ramo trevigiano del processo (quello in cui era persona offesa la dott.ssa Fasan) non ha alcuna rilevanza poiche', come riferito, la Corte costituzionale ha definito quella procedura con pronuncia in rito sicche' la questione che si affronta e' rimasta del tutto impregiudicata nel suo merito. 3. - Nel merito. Va confermato innanzitutto che l'unica questione da affrontare in questa sede e' quella se nelle quattro trasmissioni televisive indicate nelle due imputazioni lo Sgarbi abbia svolto attivita' connessa alla funzione parlamentare. In particolare esulano del tutto le diverse questioni dell'eventuale natura oggettivamente diffamatoria di talune espressioni o del contesto espositivo di alcune o tutte le trasmissioni e, poi, dell'eventuale sussistenza del diritto di critica o del diritto di cronaca o dell'esercizio d'attivita' o critica politica, anche solo putativi, tali questioni afferendo il merito del processo di cui questa Corte e' investita a seguito e nei limiti devolutivi degli atti d'impugnazione e di cui dovra' occuparsi nel caso il processo possa proseguire. Nella gia' richiamata importante sentenza n. 120 del 2004 la stessa Corte ha insegnato e statuito «una volta per tutte ed in modo esaustivo» (cosi' testualmente nella sentenza) il contenuto della prerogativa parlamentare prevista nel primo comma dell'art. 68 Cost., che segna i confini oltre i quali la giurisdizione non puo' spingersi, chiarendo in via definitiva che la connessione con l'esercizio di funzioni parlamentari (intese come riferibili in astratto ai lavori parlamentari prescindendo dalla «localizzazione» dell'atto) e' il presidio delle prerogative parlamentari e, insieme, del principio d'eguaglianza e dei diritti fondamentali dei terzi lesi sicche', anche dopo la legge n. 240/2003, non «ogni espressione dei membri delle Camere, in ragione del rapporto rappresentativo che li lega agli elettori, e' per cio' solo assistita dalla garanzia dell'immunita». L'espressione dei membri delle Camere partecipa quindi dei diritti propri d'ogni cittadino (appunto, esercizio del diritto d'attivita' politica, di critica, di cronaca, di manifestazione del pensiero), ottenendo le tutele previste per tali tipi di diritti, ma gode dell'immunita' solo quando sia connessa non alla mera qualita' soggettiva di parlamentare ma al dato oggettivo dei lavori parlamentari: altrimenti la prerogativa dell'insindacabilita' si trasformerebbe in privilegio personale. Sul punto la Corte costituzionale ha significativamente ricordato la giurisprudenza recente della Corte europea dei diritti dell'uomo (decisioni 30 gennaio 2003) sull'esigenza di una stretta interpretazione dell'immunita' ogni qualvolta manchi un chiaro legame tra opinione espressa ed esercizio delle funzioni parlamentari, in ragione dell'effetto di negazione del diritto essenziale di agire in giudizio per il cittadino soggetto leso. Solo il riferimento in astratto ai lavori parlamentari consente pertanto di individuare il nesso funzionale. Con due importanti e consolidate precisazioni: che si prescinde da ogni criterio di «localizzazione» (sicche' possono rientrare nell'immunita' anche attivita' svolte all'esterno del «sito» Parlamento); che non vi e' automatica equivalenza tra atto non previsto dai regolamenti parlamentari e atto estraneo alla funzione parlamentare. Ulteriore importante chiarimento si evince tra le altre dalla sentenza n. 508 del 2002 (proprio nell'ambito di quella che con suggestiva espressione potrebbe definirsi ormai la giurisprudenza sgarbiana della Corte costituzionale, attesi gli ormai davvero numerosi precedenti specifici relativi all'odierno imputato): il richiamo ai lavori parlamentari deve essere specifico e circostanziato, non bastando un generico riferimento all'«occuparsi quotidianamente dei problemi della giustizia e del contrasto alla malagiustizia». Il richiamo necessario a specifici lavori parlamentari trova una sua ragionevole ed essenziale spiegazione, pure evidenziata dalla Corte (per tutte sent. 25 luglio 2001, n. 289): la soggezione di tali lavori alle regole proprie del diritto parlamentare; cosi' da un lato si evita un'immunita' legibus soluta, dall'altro si garantisce la pienezza della salvaguardia delle prerogative parlamentari essendo appunto i relativi controlli ed interventi attribuiti agli stessi organi parlamentari. Ecco perche' per il riconoscimento dell'operativita' dell'immunita' e' indispensabile un rigoroso legame tra le espressioni di pensiero di colui che ha la qualita' di parlamentare e i lavori parlamentari: perche' solo tale legame assicura che il contenuto dell'attivita' sia stato gia' valutato nella sede costituzionalmente competente; altrimenti, come avvertito dalla Corte l'immunita' si risolverebbe in un privilegio personale che annienta diritti di rango costituzionale altrui senza che cio' risponda a specifiche e prevalenti esigenze sistematiche. 3.1. - Attraverso le parole della relatrice la Camera cui appartiene lo Sgarbi argomenta la delibera d'insindacabilita' sostanzialmente con tre rilievi. Il primo: lo Sgarbi nelle trasmissioni si sarebbe limitato a «formulare una precisa denuncia nei confronti della mala giustizia riproducendo un fatto relativo a un pubblico ministero e ad un g.i.p., precisamente il dott. Tito, il denunciante relativamente al caso che ci occupa, e la dott.ssa Fasan, entrambi in carico presso il Tribunale penale di Pordenone», fatti che traevano «origine da una denuncia ufficialmente realizzata dal marito della dott.ssa Fasan che denunciava l'esistenza di una relazione sentimentale tra il dott. Tito e la dott.ssa Fasan e riportava fatti, dichiarazioni specifiche e incontri avvenuti tra questi due magistrati nei quali si aveva l'abitudine di discutere di questioni giudiziarie in corso presso il Tribunale di Pordenone, quindi fatti che agli stessi erano affidati nel loro ruolo specifico, rispettivamente, di g.i.p. e di pubblico ministero»; lo Sgarbi «non faceva altro che denunciare un gravissimo episodio di malagiustizia, ricollegandosi peraltro a fatti e iniziative parlamentari specifiche» e il riferimento era all'interrogazione presentata dall'on. Armando Veneto sul caso Agrusti. Aggiungeva sul punto la relatrice che «si tratta di una denuncia ("motivata e documentata circa un fatto realmente increscioso per la nostra giustizia") che l'on. Sgarbi ha fatto bene a portare a conoscenza dei cittadini e del pubblico e che e' strettamente connessa all'attivita' e alla funzione parlamentare che l'on. Sgarbi svolgeva e svolge ancora oggi». Il secondo rilievo era infatti che «si tratta di un'attivita' che l'on. Sgarbi svolge sovente perche' egli si occupa quotidianamente dei problemi della giustizia, del contrasto alla malagiustizia». Il terzo rilievo era al «precedente» sugli stessi fatti, per il procedimento separato di Treviso con persona offesa la dott.ssa Fasan; cosi' si esprimeva sul punto la relatrice: «Il Tribunale di Treviso sollevo' al riguardo un conflitto di attribuzione che la Corte costituzionale rigetto». Il secondo ed il terzo rilievo non sono pertinenti, per quanto anche gia' argomentato: il ricorso del Tribunale di Treviso non e' stato rigettato ma dichiarato inammissibile per ragioni afferenti il rito. Il riferimento generico ad attivita' di «contrasto della malagiustizia» e' inidoneo a costituire il nesso funzionale. Nessuno di questi due rilievi pertanto e' idoneo a costituire presupposto legittimo per una valutazione di insindacabilita'. 3.2. - Il primo rilievo e' invece quello sicuramente decisivo, e pone due problemi in diritto ed uno in fatto. 3.2.1. - In questo caso, infatti, il collegamento tra quanto detto dallo Sgarbi nelle quattro trasmissioni e i lavori parlamentari e' costituito dall'interrogazione presentata da altro parlamentare, interrogazione che nel processo di primo grado non si e' in alcun modo documentato abbia avuto seguito e, tantomeno, abbia su quella specifica tematica coinvolto durante i lavori parlamentari il deputato Sgarbi. Sul punto la difesa aveva chiesto di sentire il deputato Veneto, ed e' pendente questione in rito specificamente riproposta nei motivi d'appello, ma appare evidente che essendo i lavori parlamentari documentati congruamente il tema poteva essere oggetto di prova anche documentale. Cio' pone la questione «se un deputato possa giovarsi, ai fini della non sindacabilita' di sue dichiarazioni, dell'attivita' ispettiva posta in essere sul medesimo tema da altri membri delle Camere». Si tratta di questione che piu' volte e' stata allegata dalla Camera dei deputati in precedenti giudizi su conflitti di attribuzione, anche relativi allo stesso odierno imputato appellante, ma la Corte nei procedimenti sgarbiani non ha finora ritenuto la necessita' di trattarla compiutamente al fine del decidere le singole questioni propostele, per l'assorbente considerazione che in quei casi il riferimento sarebbe stato comunque inidoneo, in ragione del suo contenuto, ad offrire copertura parlamentare alle affermazioni dello Sgarbi (in tal senso, per tutte, sent. 4 dicembre 2002, n. 508 e la gia' ricordata sent. n. 289/2001). Il secondo problema in diritto riguarda la riconoscibilita' dell'immunita' anche nei casi in cui la divulgazione in ipotesi diffamatoria (eppero', sempre in ipotesi, riproduttiva di contenuto di lavori parlamentari sia pure con protagonisti attivi diversi dal successivo «esternatore») avvenga durante una trasmissione televisiva in cui chi «parla» non e' colui che interviene come parlamentare ospite e per riferire dei «suoi» lavori parlamentari o, comunque, di «lavori parlamentari», ma chi conduce le trasmissioni, sulla base di un rapporto contrattuale retribuito con l'editore televisivo, rapporto che nulla ha in se' a che vedere con il temporalmente contestuale svolgimento del mandato parlamentare. In altri termini la questione e' se chi e' pagato da un terzo per scegliere cosa dire e poi effettivamente dire, con retribuzione che e' altro rispetto alla (sola) indennita' prevista dall'art. 69 Cost per i membri del Parlamento, quando parla pagato dal terzo possa comunque godere delle prerogative parlamentari, quasi realizzandosi una sorta di esercizio di funzione parlamentare a richiesta retribuita da soggetto diverso dallo Stato. Anche questo aspetto non risulta ancora espressamente affrontato dalla Corte costituzionale, che pure in piu' occasioni vi ha accennato, e sempre per la mancanza di una rilevanza decisiva nei casi concreti gia' trattati. 3.2.2. - Quanto al secondo aspetto la Corte ritiene che la prestazione di un'attivita' lavorativa retribuita da terzi, da parte di chi e' pure parlamentare, non sia in se' elemento idoneo ad influire sulla applicabilita' o meno dell'immunita' ex art. 68.1 Cost. Una volta infatti chiarito che l'immunita' non riguarda la persona del parlamentare in quanto tale, non essendo un privilegio personale connesso oggettivamente al mero fatto della qualita' di eletto, non appare esservi una ragione sistematica (in assenza di puntuali disposizioni normative sul punto) per differenziare la posizione del parlamentare che intervenga in un comizio piuttosto che in un dibattito o in una trasmissione televisiva (sia ospite o conduttore, anche professionalmente retribuito). La problematica del doppio lavoro del parlamentare e del contesto in cui l'attivita' lavorativa personale si affianca all'attivita' lavorativa funzionale di parlamentare e' certo attuale, ma allo stato della legislazione puo' rilevare sotto l'aspetto dell'opportunita', dell'etica, della fedelta' al mandato chiesto e ottenuto dai cittadini elettori, dell'efficacia del suo adempimento, non avendo invece incidenza dirimente in questa sede. Perche' la conclusione cui, per quanto si e' argomentato alla stregua degli insegnamenti ricordati della Corte costituzionale, si deve pervenire e' che, quale che sia il contesto logisticamente estraneo alle mura parlamentari, cio' che solo importa e' che l'opinione che e' manifestata fuori sia funzionalmente connessa ai lavori parlamentari. 3.2.3. - Per il primo e in realta' fondamentale aspetto, appare certamente legittima (e piu' appropriata) l'interpretazione che limiti l'immunita' alle sole proprie opinioni espresse nei lavori parlamentari: l'immunita' e' istituto eccezionale, scopo della salvaguardia e' la liberta' di opinione del singolo parlamentare nei relativi lavori, e tale finalita' si realizza e si consuma garantendo al singolo parlamentare di poter manifestare le opinioni che vuole con il solo limite dei controlli e degli interventi propri del diritto parlamentare. In tal contesto interpretativo, riferirsi all'opinione resa da un altro parlamentare durante i lavori parlamentari atterrebbe sempre, chiunque sia l'autore del riferimento, a diritto di cronaca, a diritto di critica, ad esercizio di attivita' politica, mai potrebbe costituire partecipazione all'immunita' che garantisce quello specifico e diverso parlamentare. Ed invero, applicando le generali positive regole ermeneutiche il significato proprio delle parole secondo la loro connessione e la natura eccezionale della previsione costituzionale dell'art. 68 (significativamente riconosciuta dalla piu' consolidata dottrina come costitutiva e non dichiarativa o ricognitiva) limitano l'immunita' a colui che l'opinione ha manifestato o ha dato il voto. Anche la giurisprudenza della Corte europea, gia' ricordata, concorre al medesimo risultato ermeneutico. Aderendo a questa interpretazione, nel caso di specie, poiche' l'atto parlamentare cui si fa riferimento e' di soggetto diverso dall'imputato, difetta questo essenziale presupposto per l'esercizio dello speciale potere attribuito dall'art. 68.1. Cost. alla Camera dei deputati. Deve a questo punto prendersi atto che con la recente sentenza 15-19 novembre 2004, n. 347 la Corte costituzionale, decidendo il conflitto di attribuzioni sorto tra il Tribunale di Roma ed il Senato della Repubblica relativamente ad affermazioni rese dal sen. Marcello Pera nel 2001 nei confronti dei magistrati Caselli, Teresi ed Ingroia, ha motivatamente scelto questa interpretazione, insegnando che «anche l'estensione dell'immunita' (operata dalla giurisprudenza della Corte) alle dichiarazioni rese all'esterno della sede parlamentare, riproduttive e divulgative di atti costituenti esercizio di funzioni parlamentari, non puo' che riferirsi agli atti che il medesimo parlamentare riproduce e divulga, con la conseguente irrilevanza di quelli posti non da lui, ma da altri membri del Parlamento». 3.2.4. - Nella fattispecie, comunque, conduce alla medesima conclusione anche l'adesione ad interpretazione che «estenda» a tutti i parlamentari l'immunita' prevista per chi ha manifestato l'opinione. Tale interpretazione, in definitiva, riconoscerebbe a tutti gli altri parlamentari la copertura in relazione alla divulgazione all'esterno dell'opinione di un determinato parlamentare nell'ambito dei lavori parlamentari; cio' ovviamente anche nel caso in cui gli altri parlamentari non siano personalmente intervenuti sullo specifico tema oggetto dell'opinione, nel corso del medesimo dibattito o in tempi successivi, e comunque nell'ambito di attivita' riconducibili ai lavori parlamentari. E' infatti da ritenere che pure in questo caso debba sussistere il limite oggettivo che vale per il medesimo parlamentare che quell'opinione abbia espresso: deve trattarsi di sostanziale ripetizione e non anche di integrazione o modificazione di quella espressa nell'ambito dei lavori parlamentari. Si tratta di limite su cui concordano dottrina e giurisprudenza della Corte costituzionale (numerose sono le decisioni, anche sgarbiane, nelle quali e' stato affermato essere necessario che vi sia quantomeno «una sostanziale corrispondenza di significati tra le dichiarazioni rese al di fuori dell'esercizio delle attivita' parlamentari tipiche svolte in Parlamento e le opinioni gia' espresse nell'ambito di queste ultime»: per tutte, sent. n 257 del 20 giugno 2002). Si noti, a questo punto, che proprio l'ovvia necessita' di rispettare questo limite finisce con l'introdurre altro argomento a favore dell'interpretazione «restrittiva» esposta per prima: se infatti il parlamentare che «esterna» l'opinione di diverso parlamentare e' tenuto comunque al rispetto della sostanziale corrispondenza di significati con il contenuto di quell'opinione, in realta' egli viene a trovarsi nelle stesse condizioni di un qualunque cronista, critico, politico, finanche cittadino gia' legittimato a riferire dei pubblici lavori parlamentari e soggetto ai soli usuali obblighi di rispetto del contenuto e della continenza espositiva. Potrebbe argomentarsi che permarrebbe comunque una differenza tra cronista, critico, politico non parlamentare e cittadino, tenuti al rispetto dei limiti imposti all'esercizio dei rispettivi diritti, e il parlamentare, invece non soggetto al limite della continenza espositiva, e che tale differenza potrebbe giustificare l'adozione dell'interpretazione estensiva. Ma ci si potrebbe chiedere se - obbligata la connessione oggettiva ai lavori parlamentari (di altri) - si giustifichi l'immunita' sulle sole modalita' espositive, cosi' individuando in esse un valore-bene di rilievo costituzionale tale da giustificare l'estensione dell'applicazione di una norma eccezionale di tale rilievo da comportare l'immunita' penale. 3.2.4.1. - Orbene, l'interrogazione del deputato Armando Veneto e' stata presentata nella seduta 122 del 22 dicembre 1996 (e va disposta l'allegazione anche di tale testo come parte integrante di questo ricorso per gli immediati riscontri che esso consente ed agevola), quindi prima delle quattro trasmissioni televisive. E nella prima di queste, quella del 10 gennaio 1997, come esattamente dedotto in uno dei due atti d'appello ed invece non considerato dal primo giudice, lo Sgarbi ebbe a richiamarla espressamente («... E queste cose le dico io? No: non potro' essere querelato, perche' sono dette in una interrogazione parlamentare ... Tutte queste cose sono riassunte in un'interpellanza parlamentare, presentata al Ministro di grazia e giustizia dal deputato Armando Veneto, del PDS». Si tratta allora, ed ecco infine il problema in fatto, di verificare se vi sia quella sostanziale corrispondenza tra contenuto dell'interrogazione e dichiarazioni televisive dello Sgarbi per cui sono state presentate dal dott. Tito le due querele originanti i due procedimenti oggi riuniti e per cui pendono le specifiche imputazioni gia' valutate dal tribunale lagunare. A giudizio di questa Corte distrettuale tale sostanziale corrispondenza non vi e' (e va ancora precisato che questa valutazione attiene esclusivamente al punto della procedibilita' ulteriore dell'azione penale, lasciando impregiudicati - nell'ipotesi che la Corte adita dovesse accogliere questo ricorso - gli ulteriori punti della sussistenza eventuale dei diritti di critica anche politica, o di cronaca, o addirittura di una putativa convinzione di agire in condizioni di immunita' - invero i motivi d'appello non contestano la natura oggettivamente diffamatoria delle espressioni usate nei confronti del dott. Tito, punto della decisione pertanto ormai precluso ad ulteriori valutazioni - ). L'interrogazione del deputato Veneto si richiama sostanzialmente alla dichiarazione del marito della dott.ssa Fasan, Danilo Da Re, il cui contenuto segue sinteticamente punto per punto. 3.2.4.2. - Bene, in tale dichiarazione non si parla mai del caso Molinaro (sindaco di Buia); ed effettivamente anche nell'interrogazione del deputato Veneto di tale caso non si parla. Ma il capo di imputazione relativo al procedimento originariamente recante il n. 706/98 contesta anche le espressioni relative a quel caso e in primo grado e' intervenuta motivata condanna anche per esse (si tratta della trasmissione del 24 luglio 1997). Di tutta evidenza appare pertanto che la delibera della Camera contro cui qui si ricorre abbia in ogni caso e comunque esorbitato dai poteri attribuiti a quel Potere dello Stato, imponendo all'autorita' giudiziaria una sentenza di improcedibilita' anche per un'autonoma ipotesi di reato per cui in primo grado vi e' stata condanna e che questa Corte dovrebbe ulteriormente conoscere, nell'ambito dei poteri giurisdizionali che le sono dati a seguito della rituale impugnazione anche su tale capo della sentenza, e di cui mai si e' specificamente trattato in lavori parlamentari. 3.2.4.3. - Per quanto riguarda le altre affermazioni, relative alle vicende del deputato Michelangelo Agrusti, la lettura dei due documenti-parametro (l'interrogazione del deputato Armando Veneto, le trascrizioni delle quattro trasmissioni) impone di condividere in particolare una delle valutazioni gia' operate dal tribunale e di cui si e' prima dato conto. L'interrogazione richiama l'esposto-dichiarazione del Da Re e, indicandone i vari passaggi, se commenta trattarsi di comportamenti gravi evidenzia pero' contestualmente la necessita' di un rigoroso «accertamento», parlandosi di fatti che «potrebbero costituire piu' gravi reati e che solo una approfondita indagine potra' evidenziare». L'esposizione del contenuto della dichiarazione del Da Re e' sempre preceduto, punto per punto, da locuzioni tipo «si legge», «a leggere», «in particolare pare che», «che sarebbe stata frutto dell'accordo», «aggiunge il Da Re», «prosegue il Da Re». In particolare l'interrogazione conclude la parte espositiva con questa specifica opinione: «il racconto del sig. Da Re e' denso di particolari ed individua fonti di prova utili per accertare la verita', a condizione che si agisca con immediatezza, prima cioe' che il potere del quale sono dotati i personaggi da investigare valga ad inquinare le prove» e «i riscontri alle dichiarazioni del Da Re serviranno, non solo per conoscere i fatti, ma anche per saggiare la credibilita' dello stesso che, tuttavia, pare essere in possesso di conoscenze particolareggiate e riscontrabili anche attraverso l'esame dei fascicoli processuali citati; primo fra tutti quello relativo alla vicenda Agrusti, conclusasi con l'assoluzione dell'imputato in grado d'appello, dopo che la sentenza, a firma della dott.ssa Fasan, aveva interpretato i dati probatori in senso accusatorio». Chiaro appare il senso ed il contenuto dell'interrogazione: sono denunciati comportamenti gravi, la fonte pare molto informata, e' necessario accertare con rapidita' come stanno i fatti, investigando efficacemente anche saggiando l'attendibilita' della fonte, per poter eventualmente adottare i consequenziali provvedimenti per garantire la dignita' dell'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Pordenone. Si rivela cosi' infondata la doglianza dei motivi di appello relativa alla valutazione che anche il tribunale ha fatto del tenore dell'interrogazione: non si tratta di aver esasperato i richiami continui al Da Re come autore delle affermazioni, e' lo stesso interrogante che (e doverosamente! per rispetto dei fatti e della propria funzione) parla espressamente di accertamento della verita' e di saggiare la credibilita' della fonte (che, non si dimentichi, era marito animato da pur comprensibili volonta' di rivalsa). Nelle affermazioni documentate nelle quattro trasmissioni televisive, invece, lo Sgarbi «si appropria del resoconto che proviene immediatamente dall'on. Veneto e mediatamente da altre fonti di informazione, lo rielabora grossolanamente e, alteratolo, lo consegna all'opinione pubblica come narrazione di fatti realmente accaduti, come descrizione di una sequenza di accadimenti quali sono stati e sono nella realta', come verita' in senso rigorosamente oggettivo, mai come "una" delle verita' possibile» (cosi' il tribunale a pag. 7 della motivazione della prima sentenza di merito). In altri termini, la pur astrattamente verosimile ipotesi da verificare (ancorche' con le anche condivisibili stigmatizzazioni di gravita' ed urgenza) del deputato Armando Veneto diviene il fatto accertato e come tale meritevole di censura. L'opinione parlamentare del deputato Veneto nell'esternazione dello Sgarbi diviene altro fatto, altra opinione, opinione integrata e modificata. Basta leggere il contenuto dei capi di imputazione (con le espressioni che per rispetto della Corte adita non si rinnovano in questa parte del testo del ricorso, ma che sono anche negli allegati che il ricorso integrano, come avvertito) per cogliere che l'opinione partecipata al pubblico televisivo dallo Sgarbi e' che i due magistrati hanno avuto un legame sentimentale e sessuale fin da prima dell'inizio dei procedimenti interessanti l'Agrusti, dando vita ad un contesto dove il sesso e il lavoro si compenetravano ed il secondo era strumentalizzato e dipendente dal primo. Un fatto, una situazione differente - dall'ipotesi da verificare con urgenza, al fatto storico accertato e verificato - che significativamente allo stato il tribunale ha escluso sussistere, avendo collocato il sorgere della non contestata relazione sentimentale tra i due magistrati dopo la trattazione dei procedimenti oggetto della dichiarazione del Da Re (e dell'interrogazione Veneto). Ed e' significativo che gli stessi motivi d'appello, pur contestando tale ricostruzione del primo giudice del merito, tuttavia non giungano a dedurre che la relazione debba, o possa, essere retrodatata a prima del compimento di tutti gli atti procedimentali riguardanti l'Agrusti. 4. - Per le ragioni ora esposte deve essere proposto ricorso per conflitto d'attribuzione tra Poteri dello Stato avverso la delibera della Camera dei deputati che in data 7 ottobre 2003 ha stabilito l'insindacabilita' delle dichiarazioni di Vittorio Sgarbi nei confronti di Raffaele Tito, per le quali e' in corso procedimento penale davanti a questo giudice, risultando tale delibera adottata senza che ricorrano i presupposti per l'applicabilita' dell'art. 68.1 Cost. Va da ultimo rilevato che questa Corte d'appello e' legittimata a sollevare conflitto, poiche' organo giurisdizionale, in posizione d'indipendenza costituzionalmente garantita, competente a dichiarare definitivamente, per il procedimento di cui e' investito, la volonta' del Potere cui appartiene, e che altresi' sussiste la legittimazione della Camera dei deputati ad essere parte nel presente conflitto, quale organo competente a dichiarare in modo definitivo la propria volonta' in ordine all'applicabilita' dell'art. 68 primo comma della Costituzione. 5. - Infine, poiche' la Corte costituzionale ha ripetutamente insegnato che e' onere del notificante attivarsi perche' il procedimento di notificazione si concluda con il ritorno degli atti nella sua disponibilita' nel tempo utile per il rituale proseguimento del processo (sentenze nn. 247 e 278 del 2004), per osservare il termine dei venti giorni per il successivo deposito, termine ritenuto perentorio nella giurisprudenza della Corte adita, vanno adottate le disposizioni organizzative di cui al dispositivo che segue. Il presente processo penale deve pertanto essere sospeso, a norma del richiamo operato dall'art. 37.5, legge n. 87/1953 anche al precedente art. 23.
P. Q. M. Visti gli artt. 68 Cost. 3, legge n. 140 del 20 giugno 2003, 37 e 38, legge n. 87 dell'11 marzo 1953. Chiede che la Corte costituzionale dichiari che non spetta alla Camera dei deputati deliberare che i fatti per i quali e' in corso il procedimento penale d'appello nei confronti del deputato Vittorio Sgarbi, recante il n. 2587/01 R.G. App. e di cui al presente ricorso, riguardano opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni parlamentari, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione e, per l'effetto, annulli la deliberazione di insindacabilita' adottata dalla Camera dei deputati nella seduta del 7 ottobre 2003. Visti gli artt. 37.5 e 23, legge n. 87/1953 sospende il giudizio, dando atto che del ricorso e' data lettura nel pubblico dibattimento. Visto l'art. 26 delibera Corte costituzionale 16 marzo 1956, recante Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, dispone che il presente ricorso sia depositato nella cancelleria della Corte costituzionale e, fin d'ora, dispone che il dirigente la cancelleria di questa Corte predisponga attivita' e servizio idonei ad assicurare che dopo l'eventuale ordinanza di ammissibilita' del proposto ricorso, il medesimo ricorso sia depositato nella cancelleria della Corte costituzionale con la prova delle notificazioni eseguite a norma dell'art. 37.4, legge n. 87/1953 entro venti giorni dalla notificazione alla Camera dei deputati in persona del suo Presidente. Dispone l'allegazione al presente ricorso delle trascrizioni delle trasmissioni 10, 14 e 18 gennaio 1997 e del testo dell'interrogazione parlamentare del deputato Armando Veneto. Venezia, addi' 12 aprile 2005 Il Presidente: Zampetti L'estensore: Citterio Avvertenza: L'ammissibilita' del presente conflitto e' stata decisa con ordinanza n. 473/2005 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, 1ª s.s., n. 1 del 4 gennaio 2006. 06C0067