N. 61 SENTENZA 6 - 16 febbraio 2006

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Stato civile - Figlio legittimo - Acquisizione automatica del cognome
  del padre - Manifestazione di diversa concorde volonta' dei coniugi
  -   Irrilevanza   -   Denunciata   lesione  dei  diritti  dell'uomo
  nell'ambito  familiare, discriminazione, violazione dei principi di
  eguaglianza  e pari dignita' - Richiesta di intervento manipolativo
  esorbitante   dai  poteri  della  Corte  -  Inammissibilita'  della
  questione.
- Cod. civ., artt. 143-bis, 236, 237, secondo comma, 262 e 299, terzo
  comma; d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, artt. 33 e 34.
- Costituzione, artt. 2, 3 e 29, secondo comma.
(GU n.8 del 22-2-2006 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
  Presidente: Annibale MARINI;
Giudici:  Franco  BILE, Giovanni Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo
DE  SIERVO,  Romano  VACCARELLA,  Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO,
Alfonso  QUARANTA,  Franco  GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI,
Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO;
ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel giudizio di legittimita' costituzionale degli artt. 143-bis, 236,
237, secondo comma, 262 e 299, terzo comma, del codice civile e degli
artt. 33  e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la
revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a
norma  dell'art. 2,  comma 12,  della  legge 15 maggio 1997, n. 127),
promosso  con  ordinanza del 17 luglio 2004 dalla Corte di cassazione
sul ricorso proposto da C.A. e F.L. c/ il Procuratore generale presso
la  Corte  d'appello  di  Milano,  iscritta  al  n. 752  del registro
ordinanze 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 40, 1ª serie speciale, dell'anno 2004;
    Visto l'atto di costituzione di C.A. e di F.L;
    Udito  nell'udienza  pubblica  del  10 gennaio  2006  il  giudice
relatore Alfio Finocchiaro;
    Udito l'avvocato Luigi Fazzo per C.A. e F.L.

                          Ritenuto in fatto

    1.  -  La Corte di cassazione, I Sez. civile, chiamata a decidere
sul  ricorso  proposto  nei  confronti  della  sentenza  della  Corte
d'appello  di  Milano  con  la  quale  si confermava la decisione del
Tribunale  di Milano di rigetto della domanda dei coniugi C.A. e F.L.
diretta  ad  ottenere  la  rettificazione  dell'atto di nascita della
propria  figlia  minore  nel  senso  che  le fosse imposto il cognome
materno  in  luogo  di  quello  paterno, risultante dall'atto formato
dall'ufficiale  dello  stato  civile,  in  contrasto  con la volonta'
espressa  dal  padre  al  momento della dichiarazione di nascita, con
ordinanza  del  17 luglio  2004,  ha  sollevato,  in riferimento agli
artt. 2,  3  e  29,  secondo  comma, della Costituzione, questione di
legittimita'  costituzionale  degli  artt. 143-bis, 236, 237, secondo
comma,  262,  299, terzo comma, del codice civile, 33 e 34 del d.P.R.
3 novembre   2000,   n. 396   (Regolamento  per  la  revisione  e  la
semplificazione   dell'ordinamento   dello   stato  civile,  a  norma
dell'art. 2,  comma 12,  della  legge  15 maggio 1997, n. 127), nella
parte   in   cui   prevedono   che   il   figlio  legittimo  acquisti
automaticamente il cognome del padre anche quando vi sia in proposito
una diversa volonta' dei coniugi, legittimamente manifestata.
    Il  collegio  rimettente  premette  che  la Corte territoriale ha
osservato  che  il silenzio del legislatore della riforma del diritto
di  famiglia  in  ordine al cognome dei figli legittimi, pur a fronte
della  modifica  dell'art. 144  cod.  civ.  relativo al cognome della
moglie,  consente  di  desumere la persistente validita' di una norma
consuetudinaria    saldamente    radicata   nella   coscienza   della
collettivita'.
    La norma relativa all'assunzione del cognome paterno da parte del
figlio  legittimo,  ad  avviso  del predetto collegio, e' chiaramente
desumibile  dal  sistema,  in  quanto  presupposta  da  una  serie di
disposizioni regolatrici di fattispecie diverse.
    Si richiamano, in proposito, l'art. 237, secondo comma, cod. civ,
che  pone  tra gli elementi costitutivi del possesso di stato l'avere
portato  sempre  il  cognome  del  padre  che  si  pretende di avere;
l'art. 262   cod.  civ.,  in  materia  di  riconoscimento  di  figlio
naturale,   che,   al   primo   comma,  dispone  che  il  contestuale
riconoscimento da parte di entrambi i genitori comporta che il figlio
assuma   il   cognome  paterno,  evidentemente  nello  spirito  della
equiparazione  della prole naturale a quella legittima, e, al secondo
comma,  che,  in  caso  di  successivo riconoscimento del padre, o di
successivo  accertamento della paternita', il figlio puo' assumere il
cognome del padre, aggiungendolo o sostituendolo a quello materno, in
tal  modo  sottintendendo,  secondo  il  collegio  a quo, una maggior
rilevanza  del  cognome  paterno;  l'art. 299  cod.  civ., in tema di
adozione  di  maggiorenni,  che,  al terzo comma, prevede, ancora una
volta  in  ragione  della  equiparazione  della  posizione del figlio
adottivo  a  quello  legittimo,  che, compiuta l'adozione da coniugi,
l'adottato assuma il cognome del marito.
    Una  norma  attributiva  al  figlio legittimo del cognome paterno
appare,  secondo  la  Corte  di  cassazione,  presupposta anche dalla
disposizione  dell'art. 72,  primo  comma, del regio decreto 9 luglio
1939,  n. 1238  (Ordinamento  dello  stato  civile),  che  vietava di
imporre  al bambino lo stesso prenome del padre vivente, all'evidente
scopo  di  evitare omonimie per avere essi gia' lo stesso cognome, ed
e'  sottintesa dal corrispondente art. 34, comma 1, del d.P.R. n. 396
del  2000,  nonche'  dall'art. 33,  comma 1,  del  citato d.P.R., che
attribuisce al figlio legittimato - salva la opzione esercitabile dal
soggetto maggiorenne - il cognome del padre.
    Da  tali  previsioni  si  desume, secondo il collegio rimettente,
l'immanenza di una norma che non ha trovato corpo in una disposizione
espressa,  ma  che  e'  tuttavia presente nel sistema, configurandosi
come  traduzione  in regola dello Stato di una usanza consolidata nel
tempo,  alla  stregua della quale il cognome del figlio legittimo non
si trasmette di padre in figlio, ma si estende ipso iure dal primo al
secondo.
    Il  collegio  a quo dissente, percio', dalla opinione della Corte
d'appello  di  Milano  che ravvisa il fondamento dell'attribuzione al
figlio  legittimo  del  cognome paterno in una consuetudine, la quale
postula  una  reiterazione e continuita' di comportamenti conformi ad
una  medesima  regola da parte della generalita' dei consociati nella
convinzione  della loro doverosita', elementi non riscontrabili nella
vicenda   dell'attribuzione   del   cognome   paterno,   segnata   da
un'attivita'  vincolata  dell'ufficiale  dello stato civile, a fronte
della  quale  la volonta' ed il convincimento dei singoli dichiaranti
non trovano spazio.
    Del  resto,  si rileva nella ordinanza, una siffatta consuetudine
sarebbe  contra legem, in quanto contrastante con la legge di riforma
del  diritto  di  famiglia,  che  delinea  su basi paritarie il nuovo
modello  della  famiglia,  oltre che con i principi costituzionali di
riferimento, e, come tale, sarebbe suscettibile di disapplicazione da
parte del giudice.
    Cio'   posto,   il  collegio  rimettente,  fattosi  carico  delle
precedenti  pronunce  di  inammissibilita'  di  analoghe questioni di
legittimita'  costituzionale  (ordinanze  n. 176  e n. 586 del 1988),
ritiene  che il lungo tempo trascorso, ed il maturarsi di una diversa
sensibilita'  nella collettivita' e di diversi valori di riferimento,
nonche'  gli  impegni  imposti  da  convenzioni  internazionali, e le
sollecitazioni  provenienti dalle istituzioni comunitarie, richiedano
una  nuova  valutazione della conformita' della norma denunciata agli
artt. 2, 3 e 29, secondo comma, della Costituzione.
    In  particolare,  con  riguardo  al  denunciato  contrasto con il
citato art. 2 della Costituzione, si pone in evidenza il carattere di
detto  parametro quale norma a fattispecie aperta, diretta a recepire
e   garantire   le   nuove   esigenze   di   tutela   della  persona,
sottolineandosi  il  diritto  alla  identita' personale, del quale il
nome    costituisce    il   primo,   e   piu'   immediato,   elemento
caratterizzante,  e  rilevandosi che la tutela costituzionale offerta
dall'invocato  art. 2  ai diritti dell'uomo «nelle formazioni sociali
ove  si  svolge  la  sua  personalita» esige che il diritto di cui si
tratta  sia  garantito,  nell'ambito  di  quella  formazione  sociale
primaria  che  e'  la  famiglia,  nella duplice direzione del diritto
della  madre  di trasmettere il proprio cognome al figlio e di quello
del figlio di acquisire segni di identificazione rispetto ad entrambi
i  genitori,  testimoniando la continuita' della sua storia familiare
anche con riferimento alla linea materna.
    Quanto  al sospetto di contrasto con l'art. 3 della Costituzione,
esso   si   fonda  sul  rilievo  che  l'attribuzione,  automatica  ed
indefettibile,  ai  figli  del  cognome  paterno  si  risolve  in una
discriminazione  ed  in  una violazione del principio fondamentale di
uguaglianza  e  di  pari  dignita',  che,  nella legge di riforma del
diritto  di  famiglia,  trova  espressione  sia  con  riferimento  ai
rapporti  tra  coniugi  -  i quali, ai sensi dell'art. 143 cod. civ.,
acquistano  gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri - sia con
riguardo  al  rapporto con i figli, nei cui confronti l'art. 147 cod.
civ. impone ai coniugi obblighi di identico contenuto.
    La Corte di cassazione sospetta, poi, il contrasto con l'art. 29,
secondo  comma,  della  Costituzione,  rilevando  che  il  necessario
bilanciamento tra l'esigenza di tutela della unita' familiare, cui e'
riconosciuta  copertura  costituzionale, e la piena realizzazione del
principio di uguaglianza non e' correttamente perseguibile attraverso
una  norma cosi' marcatamente discriminatoria, tenuto anche conto che
l'unita'  familiare  si rafforza nella misura in cui i rapporti tra i
coniugi siano governati dalla solidarieta' e dalla parita'.
    Pertanto,   il  principio  di  uguaglianza  tra  i  coniugi,  che
costituisce esplicazione del principio fondamentale di cui all'art. 3
della  Costituzione,  in  quanto  funzionale alla realizzazione della
unita'  familiare,  non puo' connotarsi solo in chiave negativa, come
divieto  di ogni discriminazione fondata sul sesso, ma implica anche,
sottolinea  il  Collegio  rimettente, il riconoscimento di una uguale
responsabilita'   dei  coniugi  nello  svolgimento  in  concreto  dei
rapporti familiari, nel quadro di una reciproca solidarieta'.
    Si  osserva,  al  riguardo,  nella ordinanza di rimessione che il
limite  alla  uguaglianza  dei  coniugi  a  tutela della unita' della
famiglia  puo' trovare giustificazione solo in presenza di situazioni
che  rendano indispensabile una specifica previsione normativa, e che
comunque, in siffatte ipotesi, la soluzione legislativa che privilegi
uno  dei  coniugi  rispetto  all'altro  non  puo'  essere ancorata al
criterio  del  sesso  del  coniuge  designato,  non tollerando ne' il
principio   di  cui  all'art. 3  della  Costituzione,  ne'  le  varie
convenzioni   internazionali  sui  diritti  umani,  cui  l'Italia  ha
aderito, discriminazioni basate sul sesso.
    Del  resto,  il  Collegio  rimettente  dubita  che  la  soluzione
adottata  sia  effettivamente  indispensabile per assicurare l'unita'
familiare,  escludendo  che le altre soluzioni praticabili, ispirate,
come  nella  fattispecie  all'esame  della  Corte,  al criterio della
scelta preventiva dei coniugi, o a quello del doppio cognome, possano
costituire  attentato all'unita' ed alla stabilita' della famiglia, e
richiamando le numerose esperienze di altri Paesi la cui legislazione
si e' gia' mossa nel senso auspicato.
    Ne' vale in contrario, si legge nella ordinanza di rimessione, il
rilievo  che  il superamento del principio di immediata ed automatica
attribuzione  di un unico e predeterminato cognome creerebbe problemi
ed incertezze nel sistema: la esplicazione del fondamentale principio
costituzionale  di  uguaglianza  non  puo'  -  osserva al riguardo il
Collegio  a  quo - arrestarsi in presenza di inconvenienti, pur seri,
ma suscettibili di essere risolti in via legislativa.
    2. - Nel giudizio innanzi alla Corte si sono costituiti i coniugi
C.A.   e   F.L.  manifestando,  preliminarmente,  con  riguardo  alla
questione  della  fonte  della  norma di cui si discute, l'avviso che
essa  si identifichi nella consuetudine. Al riguardo, si rileva che i
dati   testuali   indicati   nella   ordinanza   di   rimessione  non
autorizzerebbero,  per  la  loro  eterogeneita'  e per il loro stesso
contenuto,  la  deduzione  della  esistenza  della regola non scritta
individuata dal collegio rimettente.
    Nel  merito,  la  difesa  della  parte  costituita  condivide  il
sospetto  di  illegittimita'  costituzionale  avanzato dalla Corte di
cassazione,  escludendo,  in  particolare,  ogni  correlazione tra la
prevalenza  maritale  nella  trasmissione  del  cognome  e  la tutela
dell'unita'  familiare.  In proposito, si osserva che non trova alcun
conforto nella Costituzione una nozione di unita' della famiglia come
unitarieta'  della stirpe attraverso le generazioni, che teoricamente
potrebbe  essere  tutelata attraverso la identificazione della stessa
famiglia  con il medesimo cognome per tutte le generazioni. E nemmeno
potrebbe   accogliersi   una   concezione  autoritaria  piu'  o  meno
accentuata  delle  relazioni  familiari,  di  cui la trasmissione del
cognome  paterno  sarebbe  espressione,  e  che  e'  ormai da decenni
completamente  abbandonata.  Al  contrario,  la  tutela  della unita'
familiare  trova  piu'  adeguata  e  duratura  garanzia  proprio  nel
rafforzamento della parita' tra coniugi.
    Ne'  il  pur rilevante interesse dello Stato alla identificazione
dei  propri  cittadini sarebbe messo in discussione dalla opzione dei
genitori,  da effettuarsi all'atto della registrazione anagrafica del
neonato,  in  ordine al cognome da trasmettergli, se quello paterno o
quello   materno,   come   potrebbe,  invece,  ipotizzarsi  se  fosse
introdotta  la possibilita' per gli individui di cambiare ad arbitrio
il  proprio  nome  (anche  se  gli  attuali  sistemi di registrazione
anagrafica   del  figlio  neonato,  caratterizzati  da  rapidita'  di
accesso, renderebbero gestibile pure una situazione di tal fatta).
    3.  - Nell'imminenza dell'udienza pubblica, i coniugi C.A. e F.L.
hanno  depositato  memoria, con la quale rilevano che i dati testuali
indicati  nella  ordinanza di rimessione non autorizzerebbero, per la
loro eterogeneita' e per il loro stesso contenuto, la deduzione della
esistenza   della  norma  individuata  dal  collegio  rimettente.  In
particolare,  quanto  all'art. 237 cod. civ., che elenca una serie di
fatti  indicativi  di  una  relazione di parentela, si osserva che il
ritenere che la persona che abbia sempre portato il cognome del padre
che  pretende  di  avere  sia  indicativo  del  possesso di stato non
presuppone  una  giuridica  obbligatorieta'  della  trasmissione  del
cognome  paterno, ma, se mai, la constatazione che, secondo l'id quod
plerumque  accidit,  le persone portano il cognome del padre. Analoga
valenza sarebbe da attribuire all'art. 34 del d.P.R. n. 396 del 2000,
che  vieta  la imposizione del prenome paterno, all'evidente scopo di
evitare  omonimie,  nella  considerazione che generalmente le persone
portano  il  cognome  del  padre.  L'art. 262  cod.  civ.,  poi,  non
consentirebbe  di  rinvenire,  come  suo  necessario  presupposto, la
esistenza  di  una  norma  cogente che impedisca alla prole legittima
l'adozione  del  cognome  materno,  essendo, anzi, espressione di una
tendenziale  liberta' di scelta. Ed anche l'art. 33, n. 1, del citato
d.P.R.  n. 396  del 2000 delinea, con riguardo al figlio legittimato,
una  soluzione simile a quella dettata dall'art. 262 cod. civ. per il
riconoscimento dei figli naturali. Solo l'art. 299, terzo comma, cod.
civ.,  nell'attribuire  il cognome del marito al maggiorenne adottato
da  due  coniugi,  sembra  delineare  - si rileva nella memoria - una
soluzione che esprime una giuridica prevalenza del cognome paterno su
quello materno.

                       Considerato in diritto

    1.  -  La  Corte  di  cassazione,  I  Sez.  civile,  dubita della
legittimita'    costituzionale    della    norma   desumibile   dagli
artt. 143-bis,  236,  237,  secondo comma, 262, 299, terzo comma, del
codice  civile,  e  dagli  artt. 33  e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000,
n. 396   (Regolamento   per   la   revisione   e  la  semplificazione
dell'ordinamento   dello   stato  civile,  a  norma  dell'articolo 2,
comma 12,  della  legge  15 maggio  1997, n. 127), nella parte in cui
prevede  che  il figlio legittimo acquisti automaticamente il cognome
del  padre, anche quando vi sia in proposito una diversa volonta' dei
coniugi,   legittimamente   manifestata.   Ad   avviso  del  collegio
rimettente,  la  predetta  normativa  si  pone  in  contrasto con gli
artt. 2,  3  e  29,  secondo  comma, della Costituzione, in quanto la
tutela  costituzionale  offerta dal primo degli invocati parametri ai
diritti  dell'uomo  «nelle  formazioni  sociali  ove si svolge la sua
personalita»  esige  che  il  diritto di cui si tratta sia garantito,
nell'ambito di quella formazione sociale primaria che e' la famiglia,
nella  duplice  direzione  del  diritto della madre di trasmettere il
proprio  cognome  al figlio e di quello del figlio di acquisire segni
di  identificazione rispetto ad entrambi i genitori, testimoniando la
continuita'  della  sua  storia  familiare anche con riferimento alla
linea  materna;  ed  ancora,  in quanto l'attribuzione, automatica ed
indefettibile,  ai  figli  del  cognome  paterno  si  risolve  in una
discriminazione  ed  in  una violazione del principio fondamentale di
uguaglianza  e  di  pari  dignita'  che,  nella  legge di riforma del
diritto  di  famiglia,  trova  espressione  sia  con  riferimento  ai
rapporti  tra  coniugi  -  i quali, ai sensi dell'art. 143 cod. civ.,
acquistano  gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri - sia con
riguardo  al  rapporto con i figli, nei cui confronti l'art. 147 cod.
civ.  impone  ai  coniugi  obblighi di identico contenuto; ed infine,
perche'  il  necessario  bilanciamento tra l'esigenza di tutela della
unita'  familiare, cui e' riconosciuta copertura costituzionale, e la
piena realizzazione del principio di uguaglianza non e' correttamente
perseguibile attraverso una norma cosi' marcatamente discriminatoria,
tenuto anche conto che l'unita' familiare si rafforza nella misura in
cui  i  rapporti  tra  i coniugi siano governati dalla solidarieta' e
dalla parita'.
    2. - La questione e' inammissibile.
    2.1.  - Questa Corte - come ricordato dal giudice rimettente - ha
gia' avuto occasione di pronunciarsi in ordine a questioni pressoche'
identiche  a  quella  attualmente  in esame, dichiarando la manifesta
inammissibilita' delle stesse.
    Con  l'ordinanza  n. 176  del  1988, fu dichiarata manifestamente
inammissibile  la  questione  di  legittimita'  costituzionale  degli
artt. 71, 72 e 73 del regio decreto n. 1238 del 1939, sollevata sotto
il  profilo  della  mancata previsione della facolta' dei genitori di
determinare  il  cognome  da  attribuire  al proprio figlio legittimo
mediante  la imposizione di entrambi i loro cognomi, e del diritto di
quest'ultimo di assumere anche il cognome materno. Nell'occasione, la
Corte  osservo' che oggetto del diritto dell'individuo alla identita'
personale, sotto il profilo del diritto al nome, non e' la scelta del
nome, ma il nome per legge attribuito, come si argomenta dall'art. 22
della  Costituzione  in  relazione all'art. 6 cod. civ; e che, quanto
all'interesse  alla  conservazione  dell'unita'  familiare,  tutelato
dall'art. 29,  secondo  comma,  della  Costituzione,  questo  sarebbe
gravemente  pregiudicato  se il cognome dei figli nati dal matrimonio
non  fosse  prestabilito  fin dal momento dell'atto costitutivo della
famiglia,  mentre  «sarebbe  possibile,  e  probabilmente consentaneo
all'evoluzione  della coscienza sociale, sostituire la regola vigente
in  ordine  alla  determinazione del nome distintivo dei membri della
famiglia  costituita  dal  matrimonio  con  un criterio diverso, piu'
rispettoso  dell'autonomia  dei  coniugi,  il  quale  concilii  i due
principi  sanciti dall'art. 29 della Costituzione, anziche' avvalersi
dell'autorizzazione   a   limitare  l'uno  in  funzione  dell'altro».
Concludeva  la  Corte  che  una tale innovazione «e' una questione di
politica  e  di  tecnica  legislativa  di  competenza  esclusiva  del
conditor iuris».
    Con  la successiva ordinanza n. 586 del 1988, chiamata a decidere
sulla  legittimita'  costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3 e
29  della  Costituzione,  degli  artt. 6,  143-bis, 236, 237, secondo
comma,  262,  secondo  comma,  cod.  civ.,  nella  parte  in  cui non
prevedono  la facolta' per la madre di trasmettere il proprio cognome
ai figli legittimi e per questi di assumere anche il cognome materno,
la  Corte,  nel  concludere  per  la manifesta inammissibilita' della
questione,  ribadi'  le  argomentazioni  contenute  nella  precedente
ordinanza   n. 176  del  1988.  Nell'occasione  si  preciso'  che  il
denunciato limite derivante dall'ordinamento vigente alla uguaglianza
dei  coniugi  non e' in contrasto con l'art. 29 della Costituzione in
quanto utilizza una regola radicata nel costume sociale come criterio
di  tutela  della unita' della famiglia fondata sul matrimonio e che,
oltre  al  sistema  preferito  dal  giudice  rimettente, si prospetta
un'altra  soluzione, che evita la «complicazione del doppio cognome»,
ponendosi pertanto un problema di scelta del sistema piu' opportuno e
delle   relative   modalita'   tecniche,  la  cui  decisione  compete
esclusivamente al legislatore.
    2.2.  - A distanza di diciotto anni dalle decisioni in precedenza
richiamate,   non  puo'  non  rimarcarsi  che  l'attuale  sistema  di
attribuzione  del  cognome  e' retaggio di una concezione patriarcale
della  famiglia,  la  quale  affonda le proprie radici nel diritto di
famiglia romanistico, e di una tramontata potesta' maritale, non piu'
coerente   con   i   principi   dell'ordinamento   e  con  il  valore
costituzionale dell'uguaglianza tra uomo e donna.
    Ne'  puo'  obliterarsi  il  vincolo  -  al quale i maggiori Stati
europei  si  sono gia' adeguati - posto dalle fonti convenzionali, e,
in  particolare, dall'art. 16, comma 1, lettera g), della Convenzione
sulla  eliminazione  di  ogni  forma di discriminazione nei confronti
della  donna,  adottata  a New York il 18 dicembre 1979, ratificata e
resa esecutiva in Italia con legge 14 marzo 1985, n. 132, che impegna
gli  Stati  contraenti  ad  adottare  tutte  le  misure  adeguate per
eliminare  la  discriminazione  nei confronti della donna in tutte le
questioni  derivanti  dal  matrimonio  e nei rapporti familiari e, in
particolare,  ad assicurare «gli stessi diritti personali al marito e
alla moglie, compresa la scelta del cognome...».
    In proposito, vanno, parimenti, richiamate le raccomandazioni del
Consiglio  d'Europa  n. 1271  del  1995  e n. 1362 del 1998, e, ancor
prima,   la   risoluzione   n. 37   del  1978,  relative  alla  piena
realizzazione  della  uguaglianza tra madre e padre nell'attribuzione
del  cognome  dei  figli,  nonche'  una serie di pronunce della Corte
europea  dei  diritti  dell'uomo,  che  vanno  nella  direzione della
eliminazione  di  ogni  discriminazione basata sul sesso nella scelta
del  cognome  (16 febbraio  2005,  affaire  Unal  Teseli  c. Turquie;
24 ottobre  1994,  affaire  Stjerna  c.  Finlande;  24 gennaio  1994,
affaire Burghartz c. Suisse).
    2.3.  -  Tuttavia, l'intervento che si invoca con la ordinanza di
rimessione  richiede  una  operazione  manipolativa  esorbitante  dai
poteri  della Corte. Ed infatti, nonostante l'attenzione prestata dal
collegio   rimettente  a  circoscrivere  il  petitum,  limitato  alla
richiesta di esclusione dell'automatismo della attribuzione al figlio
del  cognome  paterno  nelle  sole  ipotesi  in cui i coniugi abbiano
manifestato  una  concorde  diversa volonta', viene comunque lasciata
aperta  tutta  una serie di opzioni, che vanno da quella di rimettere
la  scelta  del  cognome  esclusivamente  a  detta  volonta' - con la
conseguente  necessita'  di stabilire i criteri cui l'ufficiale dello
stato  civile  dovrebbe attenersi in caso di mancato accordo - ovvero
di consentire ai coniugi che abbiano raggiunto un accordo di derogare
ad una regola pur sempre valida, a quella di richiedere che la scelta
dei  coniugi  debba  avvenire una sola volta, con effetto per tutti i
figli,  ovvero  debba  essere  espressa  all'atto  della  nascita  di
ciascuno di essi.
    Del  resto,  la  stessa eterogeneita' delle soluzioni offerte dai
diversi  disegni  di  legge presentati in materia nel corso della XIV
legislatura  (v.,  tra  gli  altri,  disegno di legge n. 1739-S., che
prevede  che  ai  figli  legittimi nati in costanza di matrimonio sia
attribuito il cognome di entrambi i genitori, e che sia riportato per
primo  quello  del padre, ed inoltre che il figlio naturale assuma il
doppio   cognome   di  chi  lo  ha  riconosciuto;  disegno  di  legge
n. 1454-S.,  secondo  il  quale,  all'atto  della  registrazione  del
figlio,  l'ufficiale di stato civile, sentiti i genitori, attribuisca
al  neonato  il  cognome del padre, ovvero quello della madre, ovvero
entrambi  nell'ordine  determinato  di  comune accordo tra i genitori
stessi,  e,  in  caso  di  mancato  accordo,  i cognomi di entrambi i
genitori in ordine alfabetico; disegno di legge n. 3133-S., che, dopo
aver  disposto che il cognome parentale e' composto dal primo cognome
di  ciascuno  dei  genitori,  prevede,  quanto all'ordine dei cognomi
stessi,  che, nel corso della celebrazione del matrimonio, gli sposi,
con  dichiarazione  resa  davanti  all'ufficiale  dello stato civile,
stabiliscono se il primo cognome della madre preceda quello del padre
o  viceversa,  e  che,  in  assenza di manifestazioni di volonta', il
cognome parentale e' composto dal primo cognome del padre e dal primo
cognome   della   madre)   testimonia  la  pluralita'  delle  opzioni
prospettabili,  la scelta tra le quali non puo' che essere rimessa al
legislatore.
    3.  -  Per  tali  ragioni, e tenuto conto del vuoto di regole che
determinerebbe  una  caducazione  della disciplina denunciata, non e'
ipotizzabile,  come  adombrato nella ordinanza di rimessione, nemmeno
una  pronuncia  che,  accogliendo  la questione di costituzionalita',
demandi  ad  un  futuro  intervento  del  legislatore  la  successiva
regolamentazione organica della materia.
                          Per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
    Dichiara    inammissibile    la    questione    di   legittimita'
costituzionale  degli  artt. 143-bis,  236,  237, secondo comma, 262,
299, terzo comma, del codice civile, e degli artt. 33 e 34 del d.P.R.
3 novembre   2000,   n. 396   (Regolamento  per  la  revisione  e  la
semplificazione   dell'ordinamento   dello   stato  civile,  a  norma
dell'articolo 2,  comma 12,  della  legge  15 maggio  1997,  n. 127),
sollevata,  in riferimento agli artt. 2, 3 e 29, secondo comma, della
Costituzione,   dalla   Corte  di  cassazione,  I  Sez.  civile,  con
l'ordinanza in epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 6 febbraio 2006.
                        Il Presidente: Marini
                      Il redattore: Finocchiaro
                       Il cancelliere:Di Paola
    Depositata in cancelleria il 16 dicembre 2006.
              Il direttore della cancelleria: Di Paola
06C0137