N. 68 ORDINANZA (Atto di promovimento) 22 dicembre 2005

Ordinanza  emessa  il  22 dicembre  2005  dal tribunale di Genova nel
procedimento  civile vertente tra Bellarte Guido contro Bagliore S.c.
a r.l. in liquidazione

Procedimento  civile - Controversie tra soci e cooperative di lavoro,
  relative  a  prestazioni  rese  dai  soci  ed attinenti all'oggetto
  sociale - Applicazione alle stesse del nuovo rito societario di cui
  al  d.lgs.  n. 5/2003 e conseguente sottrazione alla cognizione del
  giudice  del lavoro - Ingiustificato deteriore trattamento dei soci
  delle  cooperative  rispetto  agli  altri lavoratori subordinati in
  contrasto  con  la  tradizionale  equiparazione delle due categorie
  Irragionevolezza  - Incidenza sulle garanzie difensive - Violazione
  dei  principi  di tutela del lavoro e di retribuzione proporzionata
  ed adeguata.
- Legge  3 aprile  2001,  n. 142,  art. 5,  comma 2, sostituito dalla
  legge 14 febbraio 2003, n. 30, art. 9, comma 1, lett. d).
- Costituzione, artt. 3, 24, 35 e 36.
(GU n.12 del 22-3-2006 )
                            IL TRIBUNALE

    Letti gli atti osserva quanto segue.
    Il  Bellarte con ricorso ex articolo 414 c.p.c., depositato il 14
gennaio  2005  presso  la  cancelleria  della  sezione del lavoro del
Tribunale  di Genova, rivendica differenze retributive assertivamente
maturate  in  forza  dell'attivita'  di lavoro subordinato prestata a
favore della cooperativa di lavoro Bagliore S.c.r.l.
    Che  l'odierno  attore  sia stato socio lavoratore della suddetta
cooperativa, come affermato dalla convenuta, emerge sia dal fatto che
ne  e'  stato  uno  dei soci fondatori (vedi l'atto costitutivo della
Bagliore prodotto in copia), sia dalla circostanza che ha partecipato
alle  assemblee  (vedi  la  copia,  prodotta in causa, del verbale di
assemblea del 29 giugno 2001 in cui il Bellarte e' indicato quale uno
dei soci presenti).
    La  difesa  del  ricorrente sostiene che l'attivita' prestata dal
Bellarte  a  favore  della  convenuta  non  rientrerebbe,  almeno per
intiero, nell'oggetto sociale.
    L'assunto non e' fondato.
    L'atto  costitutivo  della  cooperativa  di  produzione e lavoro,
prodotto  in  copia,  indica  nell'oggetto  sociale, fra le altre, le
seguenti attivita': «.... imballaggio, stoccaggio, custodia, deposito
e  movimentazione  di  merci  e  materiali;  .......  custodia  degli
impianti,  dei  macchinari,  e degli stabili, e relativa attivita' di
vigilianza; .....».
    La  difesa  dell'attore  deduce che costui ha svolto, su incarico
della  convenuta  e  presso  l'Istituto  Grafico  Basile, le seguenti
attivita':  «....  addetto  al  controllo  dello  stabilimento,  alla
vigilanza  interna  ed  esterna  da detto stabilimento e nell'area ad
essa  attigua  (con  ispezioni  interne  ed esterne), controllo delle
entrate  e  delle  uscite da detto stabilimento, controllo timbratura
dei  dipendenti  dell'Istituto  grafico  Basile, controllo entrata ed
uscita  di  autoveicoli  e  camion,  controlli ritardi ed assenze dei
dipendenti  dell'Istituto  Basile,  nonche'  addetto  ai  compiti  di
segreteria  semplice,  alla  reception,  alla ricezione di telefonate
(che  passava  poi  ai  singoli  uffici  e/o  reparti)  nonche'  allo
smistamento  delle  telefonate  stesse,  addetto  alla  ricezione  di
documenti e di pacchi (che poi faceva pervenire agli uffici)».
    La  difesa  del  ricorrente  riconosce che talune delle attivita'
appena  elencate  rientrano  nell'oggetto  sociale (cosi' la custodia
dello  stabilimento  e  le ispezioni interne ed esterne), ma aggiunge
che le ulteriori mansioni esulerebbero dall'oggetto sociale.
    La  tesi  non  e'  condivisibile.  Il  controllo delle entrate ed
uscite  dallo  stabilimento  di  autoveicoli  e  camion,  nonche'  di
persone,  sia  estranee  all'  azienda  che  dipendenti della stessa,
attiene  ai  compiti di custodia e di vigilanza. E sono indubbiamente
accessori  a tali compiti la ricezione di telefonate e lo smistamento
delle  stesse.  Anche  la  ricezione  di  documenti  e di pacchi e lo
smistamento  degli  stessi  attiene  alla  attivita'  prevista  dallo
statuto  della convenuta il quale contempla fra l"altro «... deposito
e movimentazione di merci e materiali ...».
    Per  concludere  l'odierno  attore  ha  dedotto  un  complesso di
attivita'   svolte,  in  posizione  subordinata,  su  incarico  della
Bagliore  di  cui  e'  socio  e rientranti nell'oggetto sociale della
stessa.   Tutto   cio'   premesso   deve  valutarsi  se  la  presente
controversia  vada trattata col rito delineato per le controversie di
lavoro  dagli  articoli  413  ss  c.p.c., o col rito disciplinato dal
decreto  legislativo  n. 5/2003;  in questa seconda ipotesi, ai sensi
dell'ultimo  comma dell'articolo 1 del decreto legislativo n. 5/2003,
dovrebbe disporsi la cancellazione della causa dal ruolo.
    Giova,   per   bene  intendere  la  problematica  da  affrontare,
richiamare  la  normativa  che  si  e' succeduta sulle cooperative di
lavoro.
    L'articolo  1, comma 3 della legge n. 142/2001, che ha introdotto
una   revisione   della  legislazione  in  materia  cooperativistica,
disponeva  che  «Il socio lavoratore di cooperativa stabilisce con la
propria  adesione  o  successivamente  all'instaurazione del rapporto
associativo  un  ulteriore  e  distinto  rapporto  di lavoro in forma
autonoma  o subordinata o in qualsiasi altra forma ...»; l'articolo 9
della  successiva  legge n. 30/2003 ha abolito l'aggettivo «distinto»
lasciando  tuttavia  l'aggettivo «ulteriore». L' articolo 5, comma 2,
sempre   della   legge  n. 142/2001,  espressamente  attribuiva  alla
competenza funzionale del giudice del lavoro le controversie relative
ai  rapporti  di  lavoro fra socio e cooperativa di lavoro disponendo
quanto  segue:  «Le  controversie  relative  ai rapporti di lavoro in
qualsiasi  forma  di  cui  al comma 3 dell'articolo 1 rientrano nella
competenza  funzionale del giudice del lavoro; per il procedimento si
applicano  le  disposizioni  di  cui agli articoli 409 e seguenti del
c.p.c.  In  caso  di  controversie  sui rapporti di lavoro tra i soci
lavoratori   e   le   cooperative,   si  applicano  le  procedure  di
conciliazione   e   di   arbitrato  irrituale  previste  dai  decreti
legislativi  31 marzo  1998,  n. 80,  e  successive  modificazioni, e
29 ottobre  1998,  n. 387.  Restano  di competenza del giudice civile
ordinario le controversie tra soci e cooperative inerenti al rapporto
associativo».
    Giova  sottolineare  che  in  forza  dell'articolo  40  c.p.c. la
controversia  tra  socio  e  cooperativa,  attinente  al  rapporto di
lavoro,  attraeva  per  connessione  nella competenza del giudice del
lavoro,  e  nel  relativo  rito,  altre  controversie pendenti fra le
stesse parti e relative al rapporto associativo.
    L'articolo   5,   comma   2  della  1egge  n. 142/2001  e'  stato
integralmente  sostituito  dall'articolo  9,  lettera  d) della legge
n. 30/2003   che,   fra   l'altro,  ha  testualmente  stabilito:  «le
controversie  tra  socio  e  cooperativa  relative  alla  prestazione
mutualistica  sono di competenza del tribunale ordinario. Pertanto in
base   a  tale  ultima  disposizione  le  suddette  controversie,  se
instaurate  dopo  il  1° gennaio  2004 (vedi l'articolo 43 del d.lgs.
n. 5/2003),  devono  essere  trattate  col rito delineato dal decreto
legislativo  n. 5/2003  che  si applica tra l'altro alle controversie
relative ai rapporti societari (vedi articolo 1, comma 1, lettera a).
    La  nozione  di  «prestazione mutualistica», cui allude il citato
articolo 9 nella parte sopra trascritta, viene espressamente definita
dall' articolo 1 della legge n. 142/2001 che recita: «Le disposizioni
della  presente  legge si riferiscono alle cooperative nelle quali il
rapporto  mutualistico  abbia  ad oggetto la prestazione di attivita'
lavorative da parte del socio sulla base di previsioni di regolamento
che  definiscono l'organizzazione di lavoro dei soci». La norma, come
emerge  dal  suo  chiaro  tenore  letterale,  espressamente inserisce
nell'oggetto  del  rapporto mutualistico la attivita' lavorativa resa
dal socio lavoratore ed attinente all'oggetto sociale. Tale attivita'
riveste  quindi, per espressa disposizione del legislatore, natura di
prestazione  mutualistica, sicche' le relative controversie, in forza
dell'articolo 5, comma 2 - ora sostituito dall'articolo 9, lettera d)
della legge n. 30/2003 - sono demandate alla cognizione del tribunale
ordinario e vanno ora trattate col rito c.d. societario delineato dal
decreto  legislativo  n. 5/2003,  poiche'  rientrano nella previsione
dell'articolo 5, comma 1, lettera a) del decreto stesso.
    Parte  della  dottrina  che  si  e'  occupata  specificamente del
problema,  ed  alcune  pronunce  giurisdizionali  (vedi  tra le altre
Cassazione  sezione  del lavoro ordinanza n. 850 del 18 gennaio 2005,
in  d.l.  n. 1  del  2005)  hanno invece sostenuto che la espressione
«prestazione   mutualistica»   di   cui   sopra   non  comprenderebbe
l'attivita'  lavorativa resa dal socio della cooperativa di lavoro ed
attinente all'oggetto sociale, con la conseguenza che le controversie
attinenti   alla   suddetta  attivita'  resterebbero  demandate  alla
competenza  funzionale  del  giudice del lavoro. Si legge in un passo
della  citata  ordinanza: «Ne consegue che la norma in esame non puo'
che   operare   per   quanto   riguarda  unicamente  "le  prestazioni
mutualistiche",   cioe'   quelle  prestazioni  che  -  per  eliminare
l'intento speculativo delle societa' capitalistiche - si traducono in
prestazioni  che  la  societa'  assicura ai suoi soci in termini piu'
vantaggiosi  rispetto  ai  terzi  e  che,  a  seguito  della  riforma
introdotta    dal   decreto   legislativo   17 gennaio   2003,   n. 6
caratterizzano   a   vario  titolo  le  suddette  societa',  con  una
distinzione   -   operata   dalla  dottrina  commercialistica  -  tra
cooperative  a  mutualita'  esclusiva  e  a  mutualita'  prevalente e
cooperative  diverse»,  quindi,  sempre seguendo l'orientamento della
S.C.,  l'articolo  5, comma 2 della legge n. 142/2001, come novellato
dall'articolo  9,  lettera  d)  della  legge  n. 30/2003  deve essere
interpretato   «...   con   impossibilita'  di  estensione  ...  alle
controversie  riguardanti  i  diritti sostanziali e previdenziali dei
lavoratori ...».
    La  tesi  appena  accennata  non puo' essere condivisa perche' in
insanabile  contrasto  con  la  inequivoca  lettera  del  gia' citato
articolo  1  della  legge  n. 142/2001  il  quale,  come si e' visto,
espressamente   qualifica   oggetto   del  rapporto  mutualistico  la
prestazione   di  attivita'  lavorative  rese  dal  socio  secondo  i
regolamenti  della cooperativa. In definitiva l'esito ermeneutico cui
perviene  la giurisprudenza nel provvedimento di cui sopra si risolve
non nella interpretazione ma nello stravolgimento della lettera della
legge,   e   quindi   in   una  riscrittura,  inammissibile  in  sede
giudiziaria, della legge stessa.
    E  la  tesi  ora  criticata  e'  inaccettabile  anche perche' sui
profili  processuali  delle  controversie  fra  soci e cooperative di
lavoro in definitiva rinviene nell'articolo 9, lettera d) della legge
n. 30/2003  una disciplina identica a quella gia' dettata dal secondo
comma dell'articolo 5 della legge n. 142/2001.
    Ma   siffatto   esito   interpretativo  rende  incomprensibile  e
manifestamente  irrazionale  il  comportamento  del  legislatore  che
avrebbe  novellato  quest'ultima  norma  per  lasciarne inalterato il
senso e la portata originari; avrebbe solo modificato la preesistente
formulazione, assai chiara, con una formulazione piu' oscura.
    Deve   pertanto  concludersi  che,  ai  sensi  dell'inequivoco  e
combinato disposto dell'articolo 1, comma 1 della legge n. 142/2001 e
dell'articolo  9,  comma  1,  lettera  d)  della legge n. 30/2003, la
prestazione  lavorativa  resa  dal socio di cooperativa, ed attinente
all'oggetto sociale, confluisce nel rapporto sociale.
    Non  va  pero'  sottaciuto che la stessa normativa (appunto legge
n. 142/2001  e  legge  n. 30/2003)  in  altri suoi passi distingue il
rapporto  di lavoro in capo al socio dal rapporto societario. Infatti
il  comma 3 dell'articolo 1 della legg n. 142/2001 disponeva che: «Il
socio  lavoratore di cooperativa stabilisce con la propria adesione o
successivamente   all'instaurazione   del   rapporto  associativo  un
ulteriore  e  distinto  rapporto  di  lavoro  in forma subordinata od
autonoma  od  in  qualsiasi  altra  forma...»  e  l'articolo  9 della
successiva  legge n. 30/2003 al comma 1, lettera a) ha soppresso solo
l'aggettivo   distinto,   lasciando   l'aggettivo  ulteriore.  Infine
l'articolo 9, lettera d) della successiva legge n. 30 del 14 febbraio
2003,  apportando  modifiche  all'articolo  5 della legge n. 142/2001
dispone  fra  l'altro:  «Il  rapporto  di  lavoro  si estingue con il
recesso  o  l'esclusione  del  socio  deliberati  nel  rispetto delle
previsioni  statutarie  e in conformita' con gli articoli 2526 e 2257
del  codice  civile.», rendendo evidente che il rapporto mutualistico
non  puo'  identificarsi  col  rapporto  di lavoro del socio. In caso
contrario,  cioe'  se  fosse ravvisabile siffatta identificazione, lo
scioglimento  del  rapporto  sociale comporterebbe automaticamente la
risoluzione  del  rapporto  di  lavoro,  e  sarebbe  stata  del tutto
superflua  la  disposizione sopra trascritta dettata dall'articolo 5,
legge  n. 142/2001, come modificato dall'articolo 9, lettera d) della
legge n. 30/2003.
    La normativa che si sta esaminando sembra pertanto dire in alcuni
passi  che  nelle  cooperative  di lavoro il rapporto di lavoro ed il
rapporto  societario  che fanno capo al socio non si identificano, ma
in   altri  passi  sembra  affermare  l'esatto  contrario,  cioe'  la
identificazione dei due rapporti.
    La  apparente  incongruenza  non puo' che risolversi limitando la
portata   dell'agettivo   «ulteriore»  al  solo  ambito  del  diritto
sostanziale.
    In altri termini un minimo di coerenza, cui riportare la contorta
normativa  che  si  sta esaminando, impone di ritenere la separazione
tra  i  due  rapporti  limitata  al  solo diritto sostanziale; con la
conseguenza  di applicare all'attivita' lavorativa del socio le norme
sostanziali  in  materia  di lavoro subordinato od autonomo secondo i
casi,  salve  eventuali  deroghe  (e proprio tali deroghe saranno fra
breve  considerate).  Invece nell'ambito processuale tale separazione
viene   meno   con  la  conseguenza  che,  sulla  base  di  tutte  le
considerazioni sopra svolte, ai sensi dell'articolo 5, comma 2, della
legge  n. 142/2001 - ora sostituito dall'articolo 9, lettera d) della
legge  n. 30/2003, sono sottratte al giudice del lavoro ed attribuite
al  tribunale  ordinario  le  controversie  relative  alla  attivita'
lavorativa prestata dal socio per la cooperativa; e tali controversie
vanno  ora  trattate  col  rito c.d. societario delineato dal decreto
legislativo  n. 5/2003,  poiche',  come  si  e' gia' detto, rientrano
nella  previsione  dell'articolo  1,  comma 1, lettera a) del decreto
medesimo.
    A   questo   punto   sorgono  gravi  sospetti  di  illegittimita'
costituzionale della normativa in esame nella parte in cui sottrae le
suddette controversie alla cognizione del giudice del lavoro.
    La  accennata  questione  di illegittimita' costituzionale appare
rilevante e non manifestamente infondata.

                  Sulla non manifesta infondatezza

    Un  approfondimento  sulla non manifesta infondatezza comporta un
non breve discorso.
    Come  e'  noto  in  tema  di cooperative di lavoro un risalente e
consolidato  orientamento giurisprudenziale, ben anteriore alla legge
n. 142/2001,  escludeva  la natura subordinata della prestazione resa
dal socio d'opera; la escludeva a prescindere dall'accertamento degli
indici  elaborati  dalla  giurisprudenza  per la qualificazione di un
rapporto  come subordinato. L'esclusione conseguiva al mero fatto che
la  prestazione fosse inerente all'oggetto sociale, vale a dire fosse
teleologicamente  collegabile  con  l'oggetto  medesimo (in tal senso
Cass.  4 maggio 1983, n. 3068 in Giur. It. I, 1, 1841; Cass. 29 marzo
1989, n. 1530, in Foro It. 1989, 2181; Cass. 11 aprile 1985, n. 2390,
in Riv.It. Dir. Lav. 1985, II, 831).
    In presenza di tale collegamento teleologico si presumeva, sempre
secondo   l'orientamento   in   esame,  la  esclusione  della  natura
subordinata  della prestazione resa dal socio d'opera; la presunzione
veniva  meno  solo  nell'ipotesi di «un eventuale sovvertimento dello
schema  tipico  e  del fine mutualistico della societa» (in tal senso
specificamente  16 ottobre  1985,  n. 5090,  in Giust. Civ. 1986., I,
66).
    Come  e' stato sottolineato da parte autorevole della dottrina si
trattava di una operazione giurisprudenziale che aveva reso il lavoro
nelle   cooperative   una  specie  di  «zona  franca»  rispetto  alle
tradizionali   operazioni   espansive   della  fattispecie  delineata
dall'art. 2094  C.C..  e  quindi  rispetto alle garanzie assicurate a
tutela del lavoratore subordinato.
    L'orientamento  giurisprudenziale,  di cui si e' fatto cenno, pur
se  consolidato  non  era  condivisibile.  Innanzitutto  non appariva
chiaro  il  limite  all'operare  della  prestazione del carattere non
subordinato  del  lavoro  prestato  dal  socio  d'opera;  presunzione
esclusa nell'ipotesi di sovvertimento del fine mutualistico.
    Come  e' noto lo scopo mutualistico va ravvisato nell'intento del
gruppo  organizzato  di tornire beni o servizi direttamente ai membri
dell'organizzazione  a  condizioni  piu'  vantaggiose  di  quelle che
otterrebbero dal mercato».
    Ora nelle cooperative di lavoro il fine mutualistico va ravvisato
nell'intento di fornire ai soci occasioni di lavoro a condizioni piu'
vantaggiose  di  quelle offerte dal mercato. Consegue che l'attivita'
prestata  dai soci, qualora presenti le caratteristiche che connotano
la  subordinazione,  deve  essere  assistita da tutte quelle garanzie
poste  da norme inderogabili di legge a tutela del lavoro dipendente.
In  caso contrario lo scopo mutualistico sarebbe sovvertito in quanto
al  socio  verrebbe fornita una occasione di lavoro a condizioni meno
vantaggiose  di  quelle di mercato, sia pur di un mercato reso rigido
da  norme  inderogabili  di  legge (ad es. il socio presta la propria
attivita'  verso  una  retribuzione inferiore ai minimi stabiliti dal
C.C.N.L.  del settore, con violazione dell'art. 36 della Costituzione
secondo un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale; il socio
non usufruisce delle ferie annuali retribuite ecc...).
    Ne  consegue che il socio deduce per definizione un sovvertimento
del  fine mutualistico qualora agisca nei confronti della cooperativa
lamentando  di  aver  ricevuto  un  trattamento  deteriore rispetto a
quello  stabilito  da  norme  inderogabili  di  legge  o di contratti
collettivi.  E  si  tratta  di  una  doglianza che, come e' del tutto
evidente  (se  ne ha piena conferma scorrendo un qualsiasi repertorio
di  giurisprudenza,  e  la  presente  controversia  ne costituisce un
ulteriore  esempio),  di  solito  attiene  alla  causa  petendi della
controversia  promossa  da  un socio nei confronti di una cooperativa
cui   abbia   prestato  attivita'  caratterizzata  dagli  indici  che
connotano  la subordinazione. Sicche' quel limite alla presunzione di
non  subordinazione, che veniva dalla giurisprudenza prospettato come
eccezionale,  sarebbe  stato  di  regola  presente, vanificando cosi'
quella  operazione  giurisprudenziale  volta,  come  si  e'  visto, a
rendere  l'attivita'  prestata  dal  socio  d'opera una «zona franca»
rispetto alle garanzie dettate a tutela del lavoro subordinato.
    L'orientamento  giurisprudenziale  teste'  esaminato  era  quindi
contraddittorio, e gia' sotto questo profilo non condivisibile.
    Ed  ulteriori  pregnanti  considerazioni  ne  confermano  la  non
condivisibilita'.
    Giova   richiamare   due   importanti   decisioni   della   Corte
costituzionale  (Corte  costituzionale  sentenza del 12 gennaio 1993,
n. 121,  e  Corte  costituzionale  sentenza  del  1994,  n. 115)  che
affermano solennemente nella parte motiva il seguente principio: «...
non   sarebbe   comunque   consentito   al   legislatore   negare  la
qualificazione giuridica di rapporti di lavoro subordinato a rapporti
che   oggettivamente   abbiano   tale  natura,  ove  da  cio'  derivi
l'inapplicabilita' delle norme inderogabili previste dall'ordinamento
per  dare  attuazione ai principi, alle garanzie e ai diritti dettati
dalla Costituzione a tutela del lavoro subordinato».
    E'  evidente  che  se  nemmeno  il  legislatore  puo'  negare  la
qualifica   di   rapporti   di  lavoro  subordinato  a  rapporti  che
oggettivamente  abbiano  siffatta  natura,  a  maggior  ragione  tale
possibilita' non puo' essere attribuita all'autonomia negoziale. Come
messo  in  luce  da autorevole dottrina le menzionate decisioni della
Consulta  esprimono  un  chiaro  messaggio: la netta prevalenza della
prospettiva della effettivita' del rapporto rispetto alla prospettiva
del  contratto.  E'  un messaggio che collega alla subordinazione una
esigenza  di  tutela  che coinvolge valori fondamentali della persona
riconosciuti  a  livello  costituzionale. Tale esigenza giustifica un
complesso  di norme inderogabili (complesso che non ha l'eguale negli
altri  rapporti  di  diritto  privato,  e  che  ha indotto autorevole
dottrina a rilevare che il contratto fa nascere il rapporto di lavoro
subordinato  ma  non  lo  governa)  ed  impone adeguati strumenti per
evitarne  la  elusione. E la netta prevalenza della prospettiva della
effettivita' del rapporto sulla prospettiva del contratto, affermata,
come  si  e'  visto,  dalla  Corte  costituzionale,  vuole essere una
barriera di non poco momento a tentativi di elusione.
      La  subordinazione richiama la accennata esigenza di tutela per
almeno  due  motivi:  1)  perche'  e'  allusiva  di  una posizione di
debolezza  economica  nei  confronti  della  controparte;  2) perche'
comporta  un  assoggettamento  del  prestatore  alle  direttive ed al
controllo  della  controparte nella cui organizzazione e' stabilmente
inserito,  assoggettamento  che  per  la  sua pregnanza, almeno nella
maggior parte dei casi, non ha riscontro nelle altre obbligazioni fra
privati,  e  che proprio per tale pregnanza coinvolge direttamente la
persona  che  lavora e reclama una particolare esigenza di tutela (si
pensi, a tacere di altro, alla imponente normativa sulla sicurezza).
    Ora  entrambi  gli  accennati  motivi si ravvisano in ordine alla
prestazione di lavoro subordinato nelle cooperative.
    E'  infatti agevole rilevare sotto questo profilo la analogia fra
chi  presta  attivita'  in  forza  di  un  contratto tipico di lavoro
subordinato,  ed il socio lavoratore che presti attivita' subordinata
in  una  cooperativa  che  annoveri  un  rilevante numero di soci (ad
esempio parecchie centinaia), che sia soggetto al potere gerarchico e
disciplinare  esercitato dai membri del consiglio di amministrazione,
vincolato  all'osservanza  di un orario di lavoro, retribuito con una
somma  fissa  mensile  o  settimanale,  inquadrato  professionalmente
secondo l'inquadramento delineato dalla contrattazione collettiva del
settore.
    Non  appaiono quindi condivisibili le considerazioni svolte dalla
stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 30/1996 con la quale ha
dichiarato  infondata  la  questione  di  illegittimita' dell'art. 2,
legge  29 gennaio  1982,  n. 297  nella parte in cui non estendeva ai
soci  delle cooperative di produzione e lavoro la tutela del Fondo di
Garanzia  per  il  trattamento di fine rapporto in caso di insolvenza
della societa'. Si legge nella parte motiva della suddetta decisione:
«Per  l'applicazione  degli  altri  aspetti  della tutela del lavoro,
invece,  e  in  particolare  per  quelli concernenti la retribuzione,
assume  rilievo non tanto lo svolgimento di fatto di una attivita' di
lavoro  connotata  da  elementi  di subordinazione, quanto il tipo di
interessi  cui  l'attivita'  e'  funzionalizzata  e il corrispondente
assetto  di  situazioni  giuridiche  in cui e' inserita». Ora, sempre
secondo  la  Corte  costituzionale  in questo caso influenzata da una
esasperata  ed astratta prospettiva contrattualistica, la prestazione
resa  dal  socio  nei  confronti  di  una  cooperativa si inserirebbe
comunque in un assetto diverso da quello che caratterizza il rapporto
di  lavoro  subordinato.  E  cio'  perche' il socio sarebbe partecipe
dello  scopo dell'impresa collettiva e si vedrebbe attribuiti «poteri
e   diritti  di  concorrere  alla  formazione  della  volonta'  della
societa',  di controllo sulla gestione sociale e infine il diritto ad
una  quota degli utili». Nel discorso svolto nei passi ora trascritti
riaffiora  il  non condivisibile argomento sulla pretesa unicita', in
capo  al  datore ed al prestatore, del centro di interesse; argomento
posto  a  sostegno  del risalente orientamento giurisprudenziale che,
come  si e' visto, ha reso l'attivita' prestata (in modo subordinato)
dal  socio d'opera una «zona franca» rispetto alle garanzie dettate a
tutela del lavoratore subordinato.
    Si  tratta  di  un argomento non condivisibile perche' viziato da
astrattezza.
    Come  e' noto nell'elaborazione dei criteri idonei ad individuare
gli  estremi della subordinazione, per applicare garanzie previste da
norme  inderogabili  a  favore del lavoratore, parte autorevole della
dottrina  ha  teorizzato  il c.d. metodo tipologico da contrapporre a
quello   tradizionale  c.d.  sussuntivo.  Quest'ultimo,  fondato  sul
principio  di  identita', si limita ad esaminare isolatamente ciascun
elemento della fattispecie concreta e ad accertarne la corrispondenza
a quello previsto dalla fattispecie astratta. La norma deve ritenersi
applicabile   al  caso  concreto  qualora,  a  seguito  del  suddetto
raffronto,  ciascun  elemento  da  essa delineato sia rinvenibile nel
caso singolo.
    Il  metodo  c.d.  tipologico,  fondato  sul  diverso principio di
approssimazione,  prende  in  considerazione i vari elementi del caso
concreto   non  isolatamente,  ciascuno  di  per  se',  ma  nel  loro
complesso,  li  valuta  cioe'  per  il  senso  che  assumono nel loro
reciproco  collegamento,  in  quanto parti di un contesto unitario; e
porta cosi' ad un giudizio non di identita', ma di equivalenza.
    E  tale  metodo  tipologico  e'  stato,  consapevolmente  o meno,
adottato dalla giurisprudenza nel suo concreto operare.
    Secondo  una  consolidata giurisprudenza la sussistenza o meno in
un  caso  concreto  di  un  rapporto di lavoro subordinato si ravvisa
sulla  base dei c.d. indici o spie (prestazione nei locali del datore
con  uso  dei  suoi  strumenti,  osservanza  di  un orario di lavoro,
percezione  di  una retribuzione fissa, soggezione alle direttive del
datore    etc...);   e,   sempre   secondo   il   cennato   indirizzo
giurisprudenziale,  non  e'  necessario,  per  ravvisare  in  un caso
concreto  gli estremi del lavoro subordinato, che i suddetti indici o
spie  ricorrano  tutti  insieme, mentre, nel contempo, la presenza di
taluni  soltanto  di  essi  non  e'  incompatibile con un rapporto di
lavoro  autonomo. E' chiaro che siffatta impostazione e' in contrasto
col   metodo   c.d.  sussuntivo  che  viene  quindi  ripudiato  dalla
giurisprudenza, quanto meno nel suo concreto operare.
    Nell'ordine  di  idee  ispirato  dal  c.d.  metodo  tipologico e'
agevole  rilevare, come si e' gia' accennato, che il socio lavoratore
nell'esempio  poc'anzi prospettato (cooperativa con centinaia di soci
etc....)  si  presenta  in  una posizione analoga, secondo appunto un
giudizio  di  equivalenza,  a  quella  del lavoratore subordinato. Si
tratta  in  altri  termini  di  una  situazione  che valutata nel suo
complesso,  in  base al legame fra i vari elementi che la compongono,
si   concreta   nello  stabile  inserimento  del  lavoratore  in  una
organizzazione produttiva, stabile inserimento che, secondo una ormai
diffusa  ed autorevole opinione, configura la connotazione essenziale
del   lavoro   subordinato.   Ne'   varrebbe   obiettare   che   tale
organizzazione   presenta   il   carattere  della  alienita'  per  il
prestatore  parte  di un contratto ex articolo 2094 c.c., mentre tale
carattere  mancherebbe  per  il  socio  in  grado  di partecipare con
diritto   di   voto  alle  assemblee  sociali  ed  influenzare  cosi'
l'attivita' della cooperativa.
    Tale obiezione non sarebbe convincente.
    In  molti  casi  la  possibilita'  del  socio  di  incidere sulla
attivita'  della cooperativa sarebbe in concreto assai meno pregnante
di  quella  esercitata, in aziende di medie dimensioni, da lavoratori
fortemente     sindacalizzati,     attesa     la     ormai    diffusa
«procedimenta1izzazione» del potere direttivo dell'imprenditore.
    E'  bene  altresi'  sottolineare  che  il  risalente orientamento
giurisprudenziale,  volto ad escludere la cooperativa dall'area delle
norme  protettive  in tema di subordinazione (norme la cui osservanza
comporta, come e' noto, gravosi oneri a carico del datore di lavoro),
si   risolve   anche   in  una  alterazione  delle  condizioni  della
concorrenza,  perche'  in  definitiva  attribuisce  alle cooperative,
rispetto  agli altri datori di lavoro, una posizione privilegiata per
legge.
    Anche   sotto   questo   profilo  si  ravvisa  l'inaccettabilita'
dell'orientamento giurisprudenziale in questione.
    La  esigenza  di equiparare il socio lavoratore, che presti nelle
cooperative attivita' subordinata, al lavoratore subordinato, proprio
perche',  per  tutte  le  ragioni  esposte,  risponde  a valori della
Costituzione,   si   e'   in   concreto   affermata  nell'ordinamento
costituendo  il  filo  conduttore di una evoluzione legislativa volta
sempre  piu'  a  parificare  il socio delle cooperative di lavoro, il
quale  presti  la  propria  attivita' subordinatamente, al lavoratore
subordinato.   Si   pensi   alla  materia  dell'assicurazione  contro
l'invalidita' e la vecchiaia (art. 2, r.d. 28 agosto 1924, n. 1422, e
successive  modificazioni) e contro gli infortuni sul lavoro (art. 4,
n. 7,  d.P.R.  30  giugno  1965,  n. 1124); alle materie di orario di
lavoro   (art. 2,   r.d.   10 settembre  1923,  n. 1955),  di  riposo
domenicale e settimanale (art. 2, legge 22 febbraio 1934, n. 370), di
assegni  familiari (art. 1, d.P.R. 30 maggio 1955, n. 797), di tutela
delle lavoratrici madri (art. 1, legge 30 dicembre 1971, n. 1204); si
pensi  altresi'  all'art. 8,  d.l. 20 maggio 1993, n. 148, convertito
con  legge  19 luglio  1993, n. 236, che ha disposto la equiparazione
dei  soci  lavoratori  ai  lavoratori  dipendenti  in  relazione alla
procedura di CIGS ed a quella di mobilita', estendendo quindi ai soci
lavoratori  delle  cooperative la disciplina dettata dagli artt. 14 e
24  della  legge  n. 223/1991;  e  la  stessa legge ha esteso ai soci
lavoratori  di  cooperative  di produzione e lavoro i principi di non
discriminazione  diretta  ed  indiretta  di  cui alla legge 10 aprile
1991,  n. 125;  e  deve aggiungersi l'art. 24 della legge n. 196/1997
che  ha  espressamente  esteso  ai soci lavoratori presso le societa'
cooperative la garanzia assicurata dall'INPS in ordine al trattamento
di fine rapporto.
    E'  bene  sottolineare  che  la  estensione  alle  cooperative di
produzione e lavoro della disciplina in tema di CIGS, di mobilita' ed
in  tema  di  divieto di discriminazione e' rivelatrice di una chiara
contrapposizione  di  interessi  fra prestatore e datore, e rivela la
artificiosita'  di  quella  costruzione che ravvisa in capo a costoro
quel  preteso  centro  unitario  di  interessi  che  ha  ispirato  il
risalente  e  consolidato orientamento giurisprudenziale di cui si e'
fatto cenno.
    Attese  le  considerazioni  svolte  e'  pienamente condivisibile,
perche'  conforme  ai principi della Costituzione, ed in linea con la
accennata  evoluzione  legislativa,  di  cui ha esplicitato la logica
profonda,  quella  costruzione  dottrinale  che  ha  distinto,  nelle
cooperative  di  lavoro  e  con  riferimento  ai soci lavoratori, due
ordini di rapporti, quello sociale e quello di lavoro subordinato.
    E'  stato infatti affermato da recente ed autorevole dottrina che
la  fruizione  di  piu'  vantaggiose occasioni (che concreta lo scopo
mutualistico)  non  si  realizza  sulla base del rapporto sociale, ma
richiede  la creazione di rapporti contrattuali ulteriori rispetto al
contratto di societa'. Cosi' in una cooperativa edilizia la fruizione
di  un  alloggio  da  parte  di  un  socio  comporta la stipula di un
contratto   di  compravendita.  In  questo  ordine  di  idee  in  una
cooperativa  di  produzione  e  lavoro  viene  fornita  al  socio una
occasione  di  lavoro  subordinato  (e  si  realizza  cosi'  il  fine
mutualistico)  mediante  la  stipula di un apposito contratto tipico;
dal che discende pienamente l'applicazione al relativo rapporto delle
tutele sancite da norme inderogabili di legge a favore del lavoratore
subordinato.
    In conclusione passo dopo passo la legislazione (vedi la rassegna
di  cui  sopra)  ha  equiparato  al  rapporto di lavoro dipendente il
rapporto  del  socio  che  presti  per la cooperativa di produzione e
lavoro attivita' connotata dalla subordinazione.
    Pertanto   la   legge   n. 142/2001   che,   come  si  e'  detto,
nell'articolo  1,  comma  3 in capo al socio di cooperativa di lavoro
distingueva due ordini di rapporti, uno associativo ed uno di lavoro,
e  nell'articolo  5,  comma  2  demandava  al  giudice  del lavoro le
controversie  attinenti  al  secondo  rapporto,  aveva  in definitiva
portato  a  compimento,  e  con estrema chiarezza, la sopra delineata
evoluzione  del  preesistente  ordinamento  giuridico; evoluzione, e'
bene  ribadire,  ispirata  da  valori  costituzionali, ed esplicitata
dalla costruzione dottrinaria appena richiamata.
    Senonche'  il  legislatore  del  2003  (vedi il piu' volte citato
articolo  9,  lettera  d))  ha compiuto una netta inversione di rotta
sottraendo  al  giudice  del  lavoro,  ed  attribuendo  al  tribunale
ordinario,  le  controversie  promosse  dal  socio  di cooperative ed
attinenti  ad  attivita'  lavorative  comprese  nell'oggetto sociale.
Controversie  ora  da  trattare  col  rito  c.d. societario di cui al
decreto legislativo n. 5/2003, e successive modificazioni.
    Si  tratta  di  una  netta inversione di rotta perche' la cennata
innovazione  sul  rito  non  produce  i  suoi effetti nel solo ambito
processuale,  ma,  a  ben  guardare,  sfocia  nel diritto sostanziale
comportando una massiccia riduzione di garanzie prima riconosciute al
socio in regime di subordinazione.
    E'  opportuno  ricordare  una risalente esigenza di sorreggere ed
integrare le garanzie sostanziali riconosciute al lavoratore mediante
la   previsione   di   speciali   forme   processuali  aderenti  alle
peculiarita'  delle  situazioni  sostanziali  in materia di lavoro, e
cosi' adeguate agli specifici bisogni di tutela ad esse connaturate.
    Da  oltre  un  secolo si e' affermato nel nostro ordinamento, sia
pure  attraverso il succedersi di discipline notevolmente diverse, un
rito speciale del lavoro.
    Tale  affermazione  ha  preso  le  mosse  con  la istituzione dei
collegi  dei probiviri in forza della legge 15 giugno 1893, n. 195; e
nel periodo del fascismo la legge 3 aprile 1926, n. 563, ha istituito
la  magistratura  del  lavoro. Se successivamente la disciplina delle
controversie del lavoro e' rifluita nel codice di procedura del 1942,
l'esigenza  di  un  rito  speciale  del  lavoro  e'  stata nuovamente
realizzata con la legge 11 agosto 1973, n. 533.
    Gia'  questa  breve  disamina  dell'esperienza  legislativa mette
sull'avviso   che   il  mutamento  di  rito  introdotto  dalla  legge
n. 30/2003 non limita i suoi effetti all'ambito processuale.
    Giova  in  proposito  sottolineare  che il c.d. rito societano ex
decreto  legislativo n. 5/2003, e successive modifiche, come ha messo
in   luce   la   dottrina   che   ne   ha  fatto  oggetto  dei  primi
approfondimenti,  e'  ispirato dalla visione del processo come di «un
gioco  tra  le parti» in cui la comparsa del giudice e' lasciata alla
volonta'  di  esse  e  trasposta in teoria ad un tempo indefinito. Si
tratta   quindi,  come  ha  sottolineato  la  dottrina,  di  un  rito
tendenzialmente «paritario» privo di un qualsiasi connotato di tutela
di  una  parte debole, quindi agli antipodi dello spirito informatore
del  diritto  del lavoro mosso, come e' noto, dalla esigenza di fondo
di  tutela  del  lavoratore considerato parte debole del rapporto. Il
legislatore  del 2003 ha quindi operato in macroscopico contrasto con
la  tradizionale  tendenza  di  elaborare in relazione al diritto del
lavoro moduli processuali aderenti alle peculiarita' delle situazioni
sostanziali.
    Un  esame  specifico consente di rilevare agevolmente in tutta la
loro  portata  le  massicce riduzioni di garanzie, in danno del socio
lavoratore,  che  discendono  dal  mutamento di rito introdotto dalla
legge n.30/2003.
    Innanzitutto  il  processo  societario  comporta  maggiori costi,
soprattutto  se demandato ad arbitri (sulla devoluzione ad arbitri si
vedra'  approfonditamente  piu'  oltre), con evidente pregiudizio del
lavoratore  soprattutto  per le controversie di non rilevante entita'
economica,  e  sotto  questo  profilo  gia'  si  ravvisa un possibile
contrasto con l'articolo 24 della Costituzione.
    Inoltre  nel  rito  societario  il  giudice  e'  privo dei poteri
istruttori  di  ufficio che sono attribuiti al giudice del lavoro per
assicurare  piu'  adeguatamente  la ricerca della verita' e quindi la
tutela  della parte piu' debole che faccia fondatamente valere un suo
diritto.
    Deve  aggiungersi  che  al  socio  lavoratore  viene sottratta la
garanzia   di   cui   all'ultimo   comma   dell'articolo  429  c.p.c.
(rivalutazione  automatica  del  credito)  connaturata  al  rito  del
lavoro.
    Ed ancora.
    Se  le  controversie  fra  socio lavoratore e cooperativa vengono
trattate  col  rito  societario  i  correlativi  rapporti sostanziali
esulano  dalla  previsione  di  cui  all'articolo  409 c.p.c., con la
conseguenza  che ad essi non e' piu' applicabile l'articolo 2113 c.c.
che assicura una specifica garanzia al prestatore.
    Ma non basta.
      L'articolo  34  del decreto legislativo n. 5/2003 consente agli
atti costitutivi della cooperativa la devoluzione ad arbitri di tutte
le controversie insorgenti fra i soci ovvero tra i soci e le societa'
che  abbiano  ad  oggetto  diritti  disponibili  relativi al rapporto
sociale e specifica al comma 3 che la clausola compromissoria e' «...
vincolante  per la societa' e per tutti i soci, inclusi coloro la cui
qualita'  di  socio  e' oggetto della controversia.»; e l'articolo 36
del  predetto  decreto  dispone  che  l'arbitrato  secondo equita' va
escluso   solo   qualora  gli  arbitri:  «...  per  decidere  abbiano
conosciuto  di questioni non compromettibili, ovvero quando l'oggetto
del   giudizio   sia   costituito   dalla  validita'  delle  delibere
assembleari.». Pertanto i diritti dei soci nascenti dalla prestazione
di attivita' lavorativa resa a favore della cooperativa di produzione
e  lavoro,  e  compresa nell'oggetto sociale, sono compromettibili ad
arbitri  autorizzati a decidere secondo equita'. Sono compromettibili
perche'  caratterizzati  da  entrambi i requisiti previsti dal citato
articolo  34,  vale  a dire: 1) sono pienamente disponibili, esclusa,
come  si e' gia' visto, la applicabilita' dell'articolo 2113 c.c.; 2)
discendono da una prestazione lavorativa che, almeno sotto il profilo
processuale (vedi sopra), confluisce nel rapporto sociale.
    La accennata compromettibilita' ad arbitri autorizzati a decidere
equitativamente   costituisce   la  conseguenza  piu'  devastante  in
pregiudizio dei soci lavoratori.
    Va  ribadito che la esigenza di tutela del lavoratore considerato
parte debole del rapporto costituisce il principio di fondo su cui il
diritto  del  lavoro  nasce e si sviluppa quale ramo dell'ordinamento
dotato, rispetto al diritto civile, di una sua pur relativa autonomia
caratterizzata  da  principi  di  settore.  Ed  uno  dei  pilastri di
siffatta  tutela  e'  un apparato protettivo assicurato da norme - di
legge   o   di   contratto  collettivo  -  che  sono  unilateralmente
inderogabili  in  sede  di  autonomia individuale, vale a dire che si
sostituiscono  automaticamente  a  clausole  contrattuali difformi in
senso  peggiorativo  per  il lavoratore. Tale apparato protettivo, in
quanto  volto  a controbilanciare la disparita' di fatto fra le parti
del  rapporto  di  lavoro,  trova fondamento innanzitutto nel secondo
comma  dell'articolo 3 della Costituzione che sancisce, quale compito
della  Repubblica,  rimuovere  gli  ostacoli  di  ordine  economico e
sociale  che  limitano  di  fatto la eguaglianza dei cittadini; trova
altresi'  fondamento  negli articoli 35 e 36 che proclamano la tutela
del lavoro.
    Ora ognuno vede come sia contraddittorio disciplinare un rapporto
con   norme   inderogabili  e  nel  contempo  demandare  le  relative
controversie  ad arbitri autorizzati a decidere secondo equita', vale
a  dire  autorizzati  a  non  osservare  le  suddette  norme.  E' una
contraddizione  che  si  risolve  nella  pratica  vanificazione della
inderogabilita' e dell'esigenza di tutela ad essa sottesa.
    Vanificando  la  inderogabilita'  delle norme che disciplinano il
rapporto  di  lavoro  si colpisce al cuore lo spirito informatore del
diritto  del  lavoro,  e  di fatto si priva il socio lavoratore di un
apparato protettivo frutto di una lunga evoluzione che ha interessato
il secolo appena trascorso.
    E'  illuminante  in proposito sottolineare che anche ai probiviri
era stata demandata una giurisdizione di equita'. Ma si era nel 1893,
mancava  all'epoca  un diritto del lavoro col suo apparato protettivo
(a  parte  alcune  sparse  e  specifiche disposizioni, in particolare
sulla  tutela  dei  fanciulli), sicche' la disciplina del rapporto di
lavoro  andava  rinvenuta  nel  diritto civile. In questo contesto la
giurisdizione  di  equita'  dei  probiviri  aveva proprio lo scopo di
adeguare  il diritto civile alle peculiarita' del rapporto di lavoro,
ed  alle esigenze di tutela ad esso connaturate. Oggi invece, con una
sorta  di  paradossale inversione, viene introdotta una giurisdizione
di  equita'  potenzialmente  idonea a smantellare un ormai collaudato
apparato  protettivo  predisposto  a  tutela  del  prestatore,  ed  a
stemperare cosi' il diritto del lavoro nel diritto civile.
    Attese  le  considerazioni svolte e' agevole rilevare gli aspetti
di  illegittimita'  costituzionale che viziano l'articolo 9, comma 1,
lettera  d)  della  legge  n. 30/2003  nella  parte in cui sottrae al
giudice  del  lavoro,  e  sottopone  al  rito  ex decreto legislativo
n. 5/2003,  le  controversie  fra  soci  e  cooperative  di lavoro ed
attinenti  alle  prestazioni  lavorative  rese  dal  socio e comprese
nell'oggetto sociale.
    Si  ravvisa  un  contrasto  con  gli  articoli  24, 35 e 36 della
Costituzione,  e  con  l'articolo 3, secondo comma della Costituzione
nella  parte in cui demanda alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli
che di fatto limitano la eguaglianza dei cittadini.
    Come  si e' gia' accennato la norma che si sta esaminando apre la
strada  allo  smantellamento di un apparato di garanzie assicurate al
socio lavoratore in attuazione appunto di citati articoli 3, 24, 35 e
36 della Costituzione.
    Ora,  come ha messo in luce autorevole dottrina, la soppressione,
o  la  limitazione di garanzie gia' sancite dal legislatore ordinario
in  attuazione  di principi costituzionali si risolve in un contrasto
con  quei  principi  stessi  perche' ne sopprime, o ne limita la gia'
avvenuta attuazione.
    Detto  contrasto  potrebbe  superare  il vaglio di illegittimita'
costituzionale  solo  qualora  una situazione sopravvenuta imponga la
limitazione   delle   suddette   garanzie   a  salvaguardia,  in  una
prospettiva di bilanciamento, di altri valori costituzionali.
    Tale  conclusione trova tra l'altro un saldo fondamento normativo
nella  lettera  G)  della  parte  V  della Carta Sociale Europea che,
tradotto  in  lingua  italiana,  recita:  «I  diritti  ed  i principi
enunciati nella parte prima, quando saranno effettivamente attuati, e
l'esercizio  effettivo di tali diritti e principi come previsto nella
parte   seconda   non   potranno  essere  oggetto  restrizioni  o  di
limitazioni non specificate nelle parti I e II ad eccezione di quelle
stabilite  dalla  legge  e  che  sono  necessarie,  in  una  societa'
democratica,  per  garantire il rispetto dei diritti e delle liberta'
altrui o per proteggere l'ordine pubblico, la sicurezza nazionale, la
salute  pubblica o il buon costume». E' pur vero che la Carta Sociale
Europea  non  e'  direttamente  applicabile  nell'ordinamento interno
della Repubblica italiana, tuttavia, firmata a Strasburgo il 3 maggio
1996,  e'  stata  ratificata  dall'Italia  con legge 9 febbraio 1999,
n. 30  - Gazzetta Ufficiale 23 febbraio 1999, supplemento ordinario -
ed e' entrata in vigore il 1° settembre 1999, a seguito dello scambio
degli  strumenti  di ratifica avvenuto il 6 luglio 1999, e comunicato
in Gazzetta Ufficiale 5 ottobre 1999, n. 234.
    Pertanto  i  principi  da  essa affermati rivestono valore quanto
meno in sede interpretativa.
    Ebbene  nella  specie non si ravvisano, in relazione ad una norma
come  l'articolo  1, lettera d) della legge n. 30/2003 che disciplina
il   rito   per  la  trattazione  di  una  determinata  categoria  di
controversie,   sopravvenute   esigenze   tali   da  giustificare,  a
salvaguardia di altri valori costituzionali, e secondo il criterio di
un  ragionevole  bilanciamento,  la  pesante  riduzione, di cui si e'
detto, delle garanzie gia' riconosciute al socio lavoratore.
    Appare quindi tutt'altro che manifestamente infondato il sospetto
che  si  ponga  in  contrasto  con  gli articoli 3, 24, 35 e 36 della
Costituzione l'articolo 9, comma 1, lettera d) della legge n. 30/2003
nella  parte in cui sottrae al giudice del lavoro le controversie fra
soci  e  cooperative  e  relative  a  prestazioni  rese  dai primi ed
attinenti all'oggetto sociale.
    Ed  e'  ravvisabile un ulteriore contrasto con l'articolo 3 della
Costituzione  almeno  sotto  altri  due  profili  oltre a quello gia'
esaminato.
    Il  primo riguarda la violazione del principio di uguaglianza per
disparita' di trattamento.
    Invero  il  socio  di  cooperativa perde le tutele connaturate al
rito  del  lavoro,  e  si trova cosi' in una situazione sperequata in
relazione  non  solo  agli  altri lavoratori subordinati, ma anche ai
titolari  di  altri  rapporti,  aventi  per  oggetto  una prestazione
lavorativa,  che  presentano  solo  un fondamento associativo - senza
alcun  contratto  di  lavoro (neppure accessorio o collegato, come e'
invece per il socio di cooperativa di lavoro) - ed in ordine ai quali
la  giurisprudenza  pacificamente  riconosce la competenza funzionale
del  giudice  del  lavoro  (vedi la associazione in partecipazione, o
l'impresa   familiare).   Una   disparita'   priva   di   ragionevole
giustificazione  atteso  che  lo  stesso legislatore, come si e' gia'
visto,  nell'arco  di  diversi  anni, muovendosi secondo una costante
direzione, ha sempre piu' assimilato il socio lavoratore in regime di
dipendenza al lavoratore subordinato.
    Il  secondo  profilo  riguarda  la  violazione  del  principio di
ragionevolezza.
    Il  legislatore,  fatta una scelta di fondo deve, per esigenze di
ragionevolezza  e  di  coerenza,  ad  essa  mantenersi  fedele.  Sono
certamente  ammissibili  deroghe, purche' restino appunto tali; vi e'
un  limite oltre il quale le deroghe ad una scelta di fondo diventano
cosi'   numerose   e   massicce   da  risolversi  nella  sua  pratica
vanificazione.
    E' bene chiarire.
    La  revoca  di  una  scelta  di fondo ed una conseguente radicale
inversione   di  rotta,  sono  ammissibili  qualora  rientrino  nella
discrezionalita' del legislatore. Tuttavia una elementare esigenza di
ragionevolezza  impone che vengano attuate in modo trasparente, e non
siano operate in modo surrettizio, vale a dire attraverso deroghe che
solo  apparentemente  rispettino  una  scelta  di fondo gia' attuata,
mentre   in   realta'  la  travolgono  (in  ordine  al  principio  di
ragionevolezza   quale   limite   posto   alla  discrezionalita'  del
legislatore  vedi  Corte  costituzionale  sentenza  n. 72 e n. 87 del
1962;  n. 7  del  1965:  n. 94  del 1966; n. 103 del 1969; n. 190 del
1971; n. 9 del 1975).
    Ebbene   nel   caso  in  esame  (anche  a  prescindere  dal  gia'
sottolineato  contrasto  fra  la  inversione  di  rotta  operata  dal
legislatore  e  valori  costituzionali)  proprio  questo principio di
trasparenza viene violato.
    Come  si  e'  visto  con  l'articolo 9, comma 1, lettera d) della
legge   n. 30/2003   viene   predisposto   uno   strumento  idoneo  a
smantellare,  in  pregiudizio  del  socio  lavoratore,  un  complesso
apparato  protettivo  a  tutela del lavoro subordinato, frutto di una
evoluzione legislativa che ha trovato la sua espressione piu' alta in
norme  della  Costituzione.  Ed a siffatto smantellamento si provvede
non in modo diretto e trasparente, ma in modo obliquo, attraverso una
norma  che  apparentemente  si  occupa  di tutt'altra cosa, si occupa
cioe'  del  rito  da  applicare alle controversie tra soci e societa'
cooperative.
    Attesi  i  motivi  sopra  esposti  si  ravvisa  la  non manifesta
infondatezza   della   questione   di  illegittimita'  costituzionale
dell'articolo  9,  comma  l, lettera d) della legge n. 30/2003, nella
parte  sopra  specificata,  per contrasto con gli articoli 3, 24, 35,
36, della Costituzione.

                      Rilevanza della questione

    La  questione  e'  anche  rilevante nel presente processo perche'
incide  sui  suoi  futuri  sviluppi.  Infatti  allo  stato,  ai sensi
dell'articolo  9,  comma  1,  lettera d) della legge n. 30/2003, deve
ritenersi  applicabile  il rito societario, sicche' andrebbe disposto
il  mutamento di rito in ordine alla presente controversia instaurata
avanti  al  giudice  del  lavoro,  e  da  trattarsi  invece  col rito
delineato  dal  decreto  legislativo  n. 5/2003. Il mutamento di rito
comporterebbe,  ai  sensi  del  comma  5  dell'articolo  1 del citato
decreto   n. 5/2003,   la   cancellazione   della  causa  dal  ruolo.
L'accoglimento della questione di illegittimita' costituzionale, come
sopra  sollevata, consentirebbe invece la prosecuzione della presente
controversia  avanti  a  questo  giudice,  e col rito delineato dagli
articoli 413 ss c.p.c.
                              P. Q. M.
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
illegittimita'  costituzionale, per contrasto con gli articoli 3, 24,
35  e  36  della  Costituzione,  dell'articolo 9, comma 1, lettera d)
della  legge  n. 30/2003  nella  parte  in cui sottrae al giudice del
lavoro  le  controversie tra soci e cooperative di lavoro, relative a
prestazioni rese dai soci ed attinenti all'oggetto sociale;
    2) Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e
sospende  il  presente  giudizio  sino  alla  decisione  della  Corte
costituzionale;
    3) Ordina che la presente ordinanza, di cui e' stata data lettura
in  udienza,  sia, a cura della cancelleria, notificata al Presidente
del  Consiglio  dei  ministri,  e  sia comunicata ai Presidenti della
Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
        Genova, addi' 22 dicembre 2005
                        Il giudice: Gelonesi
06C0227