N. 161 ORDINANZA (Atto di promovimento) 16 marzo 2006
Ordinanza emessa il 16 marzo 2006 dalla Corte di appello di Roma nel procedimento penale a carico di Cardenas Vargas Daniela Processo penale - Appello - Modifiche normative - Possibilita' per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento - Preclusione (salvo nelle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, se la nuova prova e' decisiva) - Violazione del principio di uguaglianza, a fronte della possibilita' per l'imputato di proporre appello contro le sentenze di condanna - Lesione del diritto di azione e di difesa - Lesione del principio di parita' tra le parti - Contrasto con il principio di obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione penale. - Legge 20 febbraio 2006, n. 46, art. 1, sostitutivo dell'art. 593 del codice di procedura penale. - Costituzione, artt. 3, 24, 111 e 112.(GU n.22 del 31-5-2006 )
LA CORTE DI APPELLO Letti gli atti del procedimento penale contro Cardenas Vargas Daniela. Rileva in fatto Con sentenza in data 18 ottobre 2004 il Tribunale di Velletri assolveva perche' il fatto non sussiste Cardenas Vargas Daniela dal reato di cui all'art. 14, comma 5-ter del decreto legislativo 286/1998 accertato in Pomezia il 6 marzo 2004. Avverso tale sentenza proponeva appello il procuratore generale presso la Corte di appello di Roma chiedendo la condanna dell'imputata. In pendenza dell'appello in data 9 marzo 2006 entrava in vigore la legge 20 febbraio 2006, n. 46, escludente la possibilita' per il pubblico ministero di proporre gravame avverso sentenze assolutorie eccezion fatta per i casi in cui ricorre l'ipotesi delineata dall'art. 603, secondo comma c.p.p. Nel corso dell'odierna udienza il procuratore generale sollevava eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 593 c.p.p. cosi' come novellato dalla legge 20 febbraio, n. 46, deducendo le seguenti considerazioni: All'ecc.ma Corte di appello di Roma Questione di legittimita' costituzionale dell'art. 593 c.p.p., novellato dalla legge 20 febbraio n 46, nella parte in cui limita l'appello del p.m. contro le sentenze di proscioglimento alle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2 c.p.p.; nonche' dell'art 10, comma 2 della stessa legge per contrasto con gli articoli 3, 111, 112 della Costituzione. 1) L'art. 593 c.p.p., novellato dalla legge 20 febbraio 2006 n 46, e' anzitutto in contrasto col principio costituzionale della parita' delle armi (art. 111 Cost.), nella parte in cui esclude il potere di appello del p.m. contro le sentenze di proscioglimento fuori delle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2 c.p.p. Rispetto alla precedente formulazione codicistica, organica ed equilibrata, dei «casi di appello», tale intervento, fortemente limitativo e praticamente ablativo del potere di impugnazione di merito da parte del p.m., appare inoltre in contrasto col parametro costituzionale della «ragionevolezza» (art. 3 Cost.). Nessuna risposta ai dubbi di costituzionalita' puo' rinvenirsi nella relazione al disegno di legge relativo. Secondo tale documento l'esclusione dell'appello trarrebbe fondamento dall'art. 2 del prot. n 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo in forza del quale chiunque venga dichiarato colpevole ha il diritto di sottoporre ad una giurisdizione superiore la condanna, ovvero la dichiarazione di colpevolezza. Un diritto simmetrico del p.m. - contro le sentenze di assoluzione - non potrebbe essere invece riconosciuto non potendosi ammettere un ulteriore controllo di merito dell'eventuale condanna in secondo grado (su appello del p.m.) che implicherebbe una disciplina manifestamente eccentrica rispetto all'attuale sistema. In sostanza, per non dare ingresso ad un altro giudizio di merito sull'eventuale condanna in secondo grado (per effetto dell'appello del p.m.), si sarebbe preferito escludere del tutto la stessa possibilita' della condanna (nel caso di gia' pronunciata assoluzione). Come e' pero' subito evidente, non sussiste alcun rapporto di consequenzialita' e coerenza tra il diritto del condannato di appellare e la preclusione per l'accusa di servirsi dello stesso rimedio in caso di proscioglimento. Del resto, lo stesso art. 2, comma 3 stabilisce esplicitamente che il diritto al doppio grado di giurisdizione di merito possa essere legittimamente limitato nel caso di infrazioni minori, ovvero di condanna pronunciata da una giurisdizione suprema, oppure in caso di condanna pronunciata a seguito del ricorso avverso il proscioglimento. Quindi, come si puo' constatare anche testualmente, l'asserito fondamento internazionalistico della preclusione dell'appello del p.m. e' argomento pretestuoso, se non del tutto surrettizio, e ogni altra considerazione sulla pretesa «disumanita» o «crudelta» dell'appello del p.m. (gia' esclusa in sede costituzionale dalla presunzione di non colpevolezza che salvaguarda, in ogni caso, la dignita' della persona) appare di maniera ed e' comunque del tutto inconsistente anche perche' l'assoluzione di primo grado non esclude affatto l'eventuale certezza oggettiva della responsabilita', che infatti puo' derivare non solo dall'improbabile sopravvenienza di una nuova prova (caso residuale previsto dal nuovo testo dell'art. 593), ma anche e soprattutto da una diversa valutazione giuridica degli stessi fatti, cosi' come accertati in primo grado. Non regge percio' neppure l'asserita insuperabilita' del dubbio, tanto piu' che nell'ordinario schema del giudizio penale, l'appello, ove ammesso, non e' che uno sviluppo ordinario del processo, ovviamente, e necessariamente, aperto ad ogni epilogo. Non senza tenere conto inoltre della maggiore autorevolezza del giudice di secondo grado che conferisce comunque un altissimo livello di attendibilita' e di veridicita' alla relativa sentenza, anche se di riforma di un'assoluzione precedente. Per mettere in luce ancor piu' l'irrazionalita' della norma, in un certo senso ablativa e comunque limitativa della «finalita' di giustizia», piu' volte sottolineata dalla Corte costituzionale (che deve costituire la meta costante, essenziale ed ineludibile di ogni processo, strettamente correlata alla ricerca di verita), non puo' non rilevarsi altresi' che rinunciare ad un grado di giurisdizione da parte di chi rappresenta lo Stato, nella sua eccezione piu' ampia, significa anche rinunciare alla «collegialita» della decisione definitiva nel merito. E cio' proprio quando il giudizio di primo grado e' ormai, per buona parte, passato ai giudici monocratici sia nei riti speciali che nel rito ordinario. A ben guardare, poi, la stortura come sopra evidenziata vulnera il valore della «certezza del diritto», presupposto e garanzia del principio di eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, stante l'atomizzazione delle decisioni monocratiche alle volte, purtroppo, eccessivamente personalizzate, che sfuggiranno al controllo del giudice d'appello in genere molto piu' distaccato ed esperto. Avuto riguardo ancora una volta al precetto costituzionale di cui all'art. 111 della Costituzione secondo il quale «il processo si svolge (o almeno si dovrebbe svolgere!) nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parita'...», come si puo' ritenere che si siano rispettati i sacrosanti principi del contraddittorio e della parita' delle armi nell'ipotesi che la sentenza di proscioglimento si basi su prove introdotte con le c.d. indagini difensive? 2) Venendo specificamente all'esame dei profili di incostituzionalita', si rileva anzitutto che il testo modificato dell'art. 593 c.p.p. rispetta solo apparentemente il principio di parita' delle parti. Infatti, pur avendo il legislatore precluso anche all'imputato l'appellabilita' delle sentenze di proscioglimento - e in cio' sta la simmetria apparente - non puo' negarsi che ne sia vulnerata e abolita quasi del tutto la funzione del p.m. che, per effetto della preclusione dell'appello, esaurisce le sue funzioni ex art. 73 O.G. con la pronuncia della requisitoria nel giudizio o nell'udienza preliminare (salvi i limitati casi di appello ancora consentiti e i casi di ricorso). Il p.m. e' cosi' ridotto al ruolo di mero promotore dell'azione penale, con scarso potere di incidere sulla vicenda processuale quando essa volga alla negazione del fondamento dell'accusa, mentre «nell'architettura della delega per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale, il ruolo del p.m. non e' quello di mero accusatore ma pur sempre di organo di giustizia (cfr. direttiva 37)» (sent. n 88 del 2001 Corte cost.). Ancora, la Corte costituzionale chiamata a risolvere numerose questioni di costituzionalita' in cui si deducevano analoghi argomenti in tema di parita' delle parti, ha costantemente affermato che «il principio di parita' tra accusa e difesa non comporta necessariamente l'identita' tra i poteri processuali del p.m. e dell'imputato potendo tale disparita' risultare giustificata, ma nei limiti della ragionevolezza, sia dalla peculiare posizione istituzionale del p.m., sia dalle funzioni ad esso affidate, sia dalle esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia (ex plurimis: Corte cost. sentenze n. 363 del 1991; n. 432 del 1992; n. 280 del 1995; ordinanze n. 421 del 2001; n. 83 del 2002; n. 347 del 2002; n. 46 del 2004). E nella sentenza concernente la legittimita' costituzionale dell'appello incidentale del p.m. (28 giugno 1995, n. 280, relatore Vassalli) la Corte scriveva: «Se di un dovere in senso lato si puo' parlare per il p.m. di fronte all'esercizio del potere d'impugnazione, tale dovere e' riconducibile a quei generali doveri che competono al p.m. in relazione alle funzioni ad esso demandate, doveri che nel vigente ordinamento (art. 73 O.G.) sono indicati con riferimento alla vigilanza sull'applicazione delle leggi e sulla pronta e regolare amministrazione della giustizia. Da questo insieme di riferimenti e' dato trarre la conclusione che quando il p.m. deve decidere se impugnare o meno una sentenza egli deve determinarsi secondo gli interessi generali della giustizia». Poco piu' avanti la stessa sentenza focalizza quale «ragion d'essere» dell'istituto dell'appello incidentale del p.m., lo «scopo di prevenire conclusioni che egli ritiene, ove fossero adottate, contrarie a giustizia». Queste proposizioni danno dunque risalto alla suprema finalita' di giustizia: 1) come consequenziale sviluppo delle funzioni di vigilanza sulla regolare - dunque esatta, non fallace - amministrazione della giustizia; 2) come ratio legis del potere di impugnazione sia principale che incidentale del p.m.; 3) come sbocco sia pure eventuale dell'obbligatorio intervento di un suo rappresentante a tutte le udienze penali (art. 74 O.G.). La «finalita' di giustizia» non e' un mero enunciato idealistico o retorico, ma un valore riaffermato in piu' occasioni con forti sottolineature per delineare il carattere peculiare che nel processo italiano ha assunto il sistema accusatorio: «Fine primario ed ineludibile del processo penale non puo' che rimanere quello della ricerca della verita» (Corte cost. 24 - 26 marzo 1993, n. 111 e ancora Corte cost. 3 giugno 1992, n. 255). E, posto che il sistema italiano non e' ispirato all'impostazione pragmatica dell'astratto modello accusatorio nel quale un esito vale l'altro, purche' correttamente ottenuto, la Corte costituzionale ha anche affermato che «ad un ordinamento improntato al principio di legalita' - che rende doverosa la punizione delle condotte penalmente sanzionate - nonche' al connesso principio di obbligatorieta' dell'azione penale non sono consone norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione (sent. n. 255 del 1992)». Queste fondamentali finalita' di giustizia sarebbero totalmente frustrate, radicalmente rinnegate, se la presenza obbligatoria del p.m., stabilita a pena di nullita' del giudizio, si riducesse ad un simulacro, ad una vana perorazione, potendo il giudice disattendere le tesi d'accusa senza esporsi a censure, se non quelle limitate alla sopravvenienza di nuove prove e a quelle del ricorso per cassazione, mentre per contro nessun limite incontra l'appello dell'imputato quando la sentenza sia a lui sfavorevole. La Corte costituzionale ha anche esaltato con parole efficaci le «funzioni del p.m.», normativamente statuite dall'art. 73 O.G., precisando che «il p.m. e' un magistrato indipendente, appartenente all'Ordine giudiziario che non fa valere interessi particolari ma agisce esclusivamente a tutela dell'interesse generale all'osservanza della legge». (cfr. sent. n 81 del 1991). E' pur vero che attraverso una radicale modificazione della struttura del processo si potrebbe legalmente sopprimere il giudizio di appello, ma se il doppio grado di giurisdizione, «tradizionale nell'ordinamento italiano» (cfr. sent. 280 del 1995 Corte cost.), pur se non e' oggetto di un diritto elevato a rango costituzionale, e' stato ancora conservato dal legislatore, la preclusione, sia pure parziale, dell'appello del p.m. contro le sentenze di proscioglimento costituisce una grave disarmonia di evidente, indifendibile incostituzionalita', censurabile in quanto priva di ragionevolezza, oltreche' in contrasto con il principio della parita' delle parti potendo, al contrario, l'imputato continuare ad appellare le sentenze a lui sfavorevoli. Nessun criterio di ragione, ne' alcuna peculiare finalita' riconosciuta dal legislatore (cfr. ordinanza n. 421 del 2001 della Corte costituzionale) giustificano infatti una disciplina che, abolendo il potere del p.m. nei sensi sopra detti, squilibra fortemente i rapporti tra accusa e difesa, svuotando di fatto le funzioni dell'accusa, e impedendo cosi' il raggiungimento di fini di giustizia. In cio' sta soprattutto la palese violazione dell'art. 111 della Costituzione. Non solo. Perche', in definitiva, appare, anche a prima vista, incontestabile l'indifendibile irrazionalita' di un sistema che riconosce al p.m. il potere di appellare contro le sentenze di condanna dell'accusato (cfr. il nuovo testo dell'art. 593 c.p.p.), evidentemente se e in quanto ritenute troppo miti rispetto alla gravita' del fatto oggetto dell'imputazione, negandogli, al contrario, quello di proporre appello contro le pronunce assolutorie, perfino se, eventualmente del tutto ingiustificate alla luce delle prove acquisite e delle circostanze di fatto e di diritto emerse dagli atti del giudizio. In sostanza al p.m. e' permesso di reagire contro gli errori veniali, marginali, ma gli si interdice di fare altrettanto contro le deviazioni giu' gravi, piu' inspiegabili, meno giustificabili. Questa purtroppo, oggi, la logica paradossale di un sistema del tutto incoerente e lesivo di principi fondamentali dettati dalla Costituzione. Ne' puo' essere un caso che, prima dell'attuale riforma, nell'impostazione originaria del codice, un limite effettivo all'appello del p.m. era previsto solo per le condanne in materia di giudizio abbreviato (v. l'art. 443 c.p.p. nel testo previgente). 3) Le prerogative peculiari e le attribuzioni istituzionali del p.m., come definite e precisate nell' art. 73 dell'Ordinamento giudiziario, sono tenute ben presenti e implicitamente richiamate dalla Carta costituzionale che, in ben cinque articoli in materia di giustizia, vi fa espresso rinvio (art. 102, 105, 106, 107, 108). Forse queste citazioni e richiami, ancorche' di tipo ricettizio, non costituzionalizzano formalmente l'Ordinamento giudiziario, ma certamente ne esaltano e ne confermano il carattere di essenziale criterio di regolazione, anche funzionale, del ruolo dei magistrati ordinari, e ne fissano i limiti di competenza materiale. Quando, dunque, la Costituzione stabilisce l'obbligo dell'esercizio dell'azione penale (art. 112) si riferisce certamente proprio al p.m. come all'organo a cui gli artt. 73 e 74 O.G. conferiscono le attribuzioni sopra ricordate, e soprattutto quella di repressione dei reati e di tutela della sicurezza collettiva dall'aggressione della criminalita'. Ne consegue che se il p.m. ha l'obbligo istituzionale di promuovere la repressione dei reati nonche' quello, pure sancito dall'O.G., di vegliare all'osservanza delle leggi e alla pronta e regolare amministrazione della giustizia, che di quell'obbligo e' l'irrinunciabile complemento e corollario, e' evidente e incontestabile l'indifendibile irrazionalita' di una disciplina che comprime sensibilmente la facolta' dell'appello, certamente momento essenziale e imprescindibile di quell'attribuzione, da intendersi soprattutto, se non esclusivamente, quale funzionale potere-dovere del magistrato. Appare quindi, non a caso, innegabile il raccordo funzionale e logico con l'art. 112 Cost. Infatti se il p.m. ha l'obbligo di esercitare l'azione penale (art. 74 O.G. e 112 Cost.), anche a tutela dell'imparzialita' e dell'obiettivita' dell'azione giudiziaria, e se ha, parimenti, l'obbligo istituzionale di promuovere la repressione dei reati, (art. 73 O.G.), non sembra possibile contestare che l'appello contro le sentenze di assoluzione di un accusato, a torto o a ragione ritenuto colpevole dal p.m., si ponga appunto come un'inequivoca, contestuale manifestazione dell'adempimento dei due doveri ricordati, direttamente e indirettamente richiamati e sottolineati dalla disposizione costituzionale. Ed infatti, se l'appello potrebbe ritenersi, di per se', almeno in astratto, non direttamente e inevitabilmente implicato dal principio costituzionale di obbligatorieta' dell'azione penale, attesa la sua rinunciabilita' e negoziabilita', tale conclusione deve necessariamente mutare se l'accusato assolto e' ritenuto, cio' malgrado, colpevole dal p.m. che, in tale situazione, ha il preciso potere-dovere, e non solo la mera facolta', di appellare, in vista dell'attribuzione ordinamentale, di cui all'art. 73 O.G. (cfr. sent. 280 del 1995 citata). Ne' occorre ribadire ancora che lo strumento processuale previsto, unico e insostituibile, appunto l'esercizio dell'azione penale, nell'unica forma ormai possibile, e' proprio quella dell'impugnazione di merito (il ricorso di legittimita' rispondendo ad altre finalita' ed esigenze di sistema). Anche per questa via si palesa quindi il contrasto della nuova normativa con il dettato costituzionale (art. 3 e art. 112 Cost. correlato all'art. 73 O.G.). Va detto, infine, che la lamentata preclusione per il p.m. appare irrazionale e illegittima anche perche', dopo avere assicurato con strumenti stringenti di controllo l'obbligo dell'esercizio dell'azione penale (richieste non accolte di archiviazione, imputazione coatta in nome del favor actionis), il sistema processuale ostacolerebbe senza alcuna giustificazione la repressione dei reati e il controllo della criminalita'. 4) Conclusivamente, non risponde al principio della «parita' delle parti» (art. 11 Cost.) e al principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) una disciplina che preclude al p.m. di proporre appello, se non in casi marginali ed estremamente improbabili, contro una sentenza assolutoria ingiusta, o anche solo ritenuta tale. Va ricordato che, ancor prima della modifica dell'art. 111 della Costituzione, la «parita' delle armi» costituiva gia' valore centrale di un sistema processuale che il legislatore volle fondato sul principio di «partecipazione dell'accusa e della difesa su basi di parita' in ogni stato e grado del procedimento» (art. 2, n. 3, l. 1987 n. 81). Questo testo normativo definisce la portata del precetto costituzionale che taluno vorrebbe circoscritto ad ambiti limitati della disciplina processuale. Va anche ribadito che dalla soppressione quasi totale dell'appello del p.m. risulta pregiudicata la stessa funzione essenziale del processo che e' appunto quella di verificare la sussistenza dei reati oggetto del giudizio e di accertare le relative responsabilita' (sent. 26 ottobre 1998, n. 361 Corte cost.). Erra dunque chi, rilevando che il potere del p.m. di proporre appello non sarebbe riconducibile tecnicamente all'esercizio dell'azione penale (art. 112 Cost.), conclude che questo potere si radicherebbe puramente e semplicemente nel dato di fatto che e' previsto dalla legge, come se si trattasse di un'opzione dipendente completamente dall'arbitrio del legislatore ordinario. Tale potere si pone invece come un' irrinunciabile estensione dell'obbligo di repressione dei reati e del dovere di vigilanza del p.m. sulla pronta e regolare amministrazione della giustizia, e quindi, in definitiva, si risolve in un'esigenza inderogabile di «Giustizia», intesa come valore supremo costituzionalmente garantito (art. 101 Cost.). Si puo' aggiungere ad abundantiam che il principio di obbligatorieta' dell'azione penale sarebbe in concreto vanificato se, fuori delle ipotesi del ricorso e dei limitati casi di appello, non fossero esperibili altri rimedi contro gli errori della sentenza di assoluzione, ancorche' palesi ed eventualmente indifendibili nel merito. Al riguardo sembra opportuno ricordare che la Corte costituzionale, affermando la legittimita' costituzionale dell'art. 443, comma 3, c.p.p. che preclude l'appello del p.m. contro le sentenze di condanna pronunciate col rito abbreviato (sent. n. 363 del 1991), giustifico' tra l'altro tale esclusione «perche' la sentenza di condanna costituisce la realizzazione della pretesa punitiva fatta valere nel processo attraverso l'azione penale». Dal che si deve consequenzialmente e razionalmente desumere che, se la «pretesa punitiva» e' stata disattesa da un proscioglimento, e' coerente con il principio di parita' delle armi e di ragionevolezza, che il p.m. eserciti, anzi, che debba esercitare le sue funzioni di controllo anche con lo strumento dell'appello, tanto piu' in quanto ancora consentito all'imputato per il caso della condanna. 5) La rilevanza della questione proposta e' incontestabile perche' dal suo accoglimento deriverebbe l'ammissibilita', esclusa dal nuovo testo legislativo, dell'appello proposto dal p.m. La Corte dovra' dunque pregiudizialmente proporre la questione medesima, soprassedendo alla declaratoria di inammissibilita', prevista dalla disposizione transitoria dell'art. 10, comma 2 della legge, vertendosi in materia di appello proposto dal p.m. prima della sua entrata in vigore. Vorra' conseguentemente disporre la sospensione del procedimento.
P. Q. M. Si conclude perche' la Corte d'Appello di Roma - nel procedimento penale contro Cardenas Vargas Daniela assolto dal tribunale di Velletri con sentenza 18 ottobre 2004 appellata dal p.m. - dichiari rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art 593 c.p.p. novellato dalla legge n. 46/2006 nella parte in cui, fuori dai casi di cui al comma 1-bis, esclude l'appello del p.m. contro le sentenze di proscioglimento; nonche' dell'art. 10 comma 2 della stessa legge, per contrasto con gli artt. 3, 111, 112 della Costituzione, come da ragioni specificamente illustrate. Voglia dare i provvedimenti conseguenti, soprassedendo alla dichiarazione di inammissibilita'. Roma, addi' 16 marzo 2006 Il sostituto procuratore generale: De Angelis Osserva in diritto Ritiene la Corte non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1 della legge n. 46/2006, e delle disposizioni ad esso correlate, nella parte in cui non consente al pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di assoluzione, se non nel caso previsto dall'art. 603, comma secondo c.p.p. La norma in esame appare invero in conflitto con gli artt. 3, 24, 111 e 112 della Costituzione. 1. - quanto al contrasto con il principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost. rileva la Corte come consentire all'imputato di proporre appello nei confronti di sentenze di condanna ma non consentire al p.m. lo speculare diritto di proporre appello avverso le sentenze di assoluzione, se non in un caso delimitato, comporti una violazione del principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. All'imputato, infatti, viene in tal modo riconosciuta una posizione di evidente favore nei confronti degli altri componenti la collettivita' che vedono cosi' fortemente limitato, nelle modalita' di espletamento, il diritto-dovere del p.m., che i loro interessi tutela, di esercitare l'azione penale. Tanto piu' ove si tenga presente che la possibilita' per l'Accusa di interporre gravame nella ipotesi prevista dall'art. 603, comma 2 c.p.p. appare poco piu' che teorica: il pubblico ministero avrebbe infatti la possibilita' di proporre appello nel caso in cui, nei ristretti limiti di tempo compresi tra la pronuncia della sentenza di primo grado e i termini per l'appello, sopravvenissero o venissero per avventura scoperte nuove prove e le stesse fossero decisive. 2. - le norme in questione si pongono altresi' in contrasto con l'art. 24 Cost. nella parte in cui stabilisce - comma 1 - che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei loro diritti ed interessi legittimi e - comma 2 - che la difesa e' un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. In effetti la norma impugnata elidendo quasi totalmente la possibilita' per il p.m. di proporre appello, nella ipotesi di assoluzione del prevenuto, non consente alla collettivita', i cui interessi sono dal p.m. medesimo rappresentati e difesi, di tutelare adeguatamente i suoi diritti di fronte, in ipotesi ad un errore nella ricostruzione del fatto o nella interpretazione del diritto che abbiano portato alla assoluzione dell'imputato. Devesi in questa sede porre in evidenza come, mentre da un canto la normativa introdotta dalla legge in questione comporti sostanzialmente, in caso di assoluzione dell'imputato, la perdita di un grado di merito della giurisdizione e cioe' di un giudizio che investe la vicenda processuale nella sua completezza, riesaminando il fatto e valutandone nuovamente le implicazioni giuridiche, dall'altro non valga a colmare tale perdita la nuova formulazione dell'art. 606 c.p.p. Quest'ultimo prevede, invero, delle modifiche di limitata portata a due motivi di ricorso, quelli elencati sotto le lettere D) ed E): tali modifiche consentono, nella nuova formulazione, di sottoporre al vaglio della Corte di cassazione, il primo, la mancata assunzione di una controprova «anche quando questa sia stata richiesta nel corso della istruzione dibattimentale» ed, il secondo, la mancanza o illogicita' della motivazione che risulti oltre che dal testo della sentenza impugnata, «anche da altri atti del processo specificatamente indicati nei motivi di gravame». 3. - va rilevato ancora il contrasto della norma impugnata con il disposto ai cui all'art. 111 Cost. Sancisce invero la predetta disposizione che «Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parita' davanti ad un giudice terzo ed imparziale ...». Appare dunque evidente come la normativa introdotta dell'art. 1, legge n. 46/2006 non consentendo al pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di assoluzione - se non nel caso sopra specificato - leda il principio costituzionale della parita' tra le parti in giudizio sancito dalla norma di cui all'art. 111 cit. non consentendo all'accusa di tutelare le sua ragioni con modalita' e poteri simmetricamente eguali a quelli di cui dispone la difesa. 4. - la norma in esame appare, infine, in contrasto con l'art. 112 Cost. L'esercizio della azione, tanto penale quanto civile, comporta il dispiegamento della azione medesima lungo i due gradi di merito ed il terzo di legittimita' previsti dalla nostra legislazione secondo un canone accettato e seguito, oltre che dal nostro, dalla maggioranza degli ordinamenti giuridici europei e piu' in generale occidentali. Invero la possibilita' di esaminare la vicenda processuale sotto entrambi i profili, fattuale e giuridico, per mezzo di due gradi di giurisdizione di merito risponde alla fondamentale esigenza di ovviare, mediante un duplice vaglio, a possibili errori nella determinazione del fatto e nella sua riconduzione ad una determinata fattispecie giuridica. Detto altrimenti un secondo grado di giudizio di merito a disposizione dell'imputato o del p.m., dell'attore o del convenuto appare consustanziale al sistema processuale vigente. Cosi' delineata la natura della azione penale, ne consegue che esclusione di fatto del p.m. dalla possibilita' di proporre appello avverso una sentenza di assoluzione dell'imputato, sancita dall'art. 1 cit., elude il principio della obbligatorieta' della azione medesima, considerata nella sua interezza, e si pone, conseguentemente, in contrasto con la norma di cui all'art. 112 della Costituzione. Posti in rilievo gli elementi che inducono a ritenere la questione di illegittimita' costituzionale in esame non manifestamente infondata, e quindi rilevante, osserva infine la Corte come il giudizio in corso non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione di detta questione: essa appare pertanto, oltre che rilevante, altresi' ammissibile. P. Q. M. Visto l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87; Solleva questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, in relazione agli artt. 3, 24, 111 e 112 Cost.; Sospende il presente procedimento; Manda alla cancelleria per la trasmissione della presente ordinanza alla Corte costituzionale agli imputati ed al p.m., al Presidente del Consiglio dei ministri ed al Presidente della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Roma, addi' 16 marzo 2006 Il Presidente: Bettiol Il consigliere: Evangelista 06C0453