N. 161 ORDINANZA (Atto di promovimento) 16 marzo 2006

Ordinanza  emessa il 16 marzo 2006 dalla Corte di appello di Roma nel
procedimento penale a carico di Cardenas Vargas Daniela

Processo penale - Appello - Modifiche normative - Possibilita' per il
  pubblico  ministero  di  proporre  appello  contro  le  sentenze di
  proscioglimento   -   Preclusione   (salvo  nelle  ipotesi  di  cui
  all'art. 603,  comma 2, se la nuova prova e' decisiva) - Violazione
  del  principio  di  uguaglianza,  a  fronte  della possibilita' per
  l'imputato  di  proporre  appello  contro le sentenze di condanna -
  Lesione  del  diritto di azione e di difesa - Lesione del principio
  di   parita'   tra  le  parti  -  Contrasto  con  il  principio  di
  obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione penale.
- Legge  20 febbraio  2006,  n. 46, art. 1, sostitutivo dell'art. 593
  del codice di procedura penale.
- Costituzione, artt. 3, 24, 111 e 112.
(GU n.22 del 31-5-2006 )
                         LA CORTE DI APPELLO

    Letti  gli  atti  del  procedimento penale contro Cardenas Vargas
Daniela.

                           Rileva in fatto

    Con  sentenza  in  data  18 ottobre 2004 il Tribunale di Velletri
assolveva  perche'  il fatto non sussiste Cardenas Vargas Daniela dal
reato  di  cui  all'art. 14,  comma  5-ter  del  decreto  legislativo
286/1998 accertato in Pomezia il 6 marzo 2004.
    Avverso  tale  sentenza proponeva appello il procuratore generale
presso   la   Corte   di   appello  di  Roma  chiedendo  la  condanna
dell'imputata.
    In  pendenza  dell'appello in data 9 marzo 2006 entrava in vigore
la  legge  20 febbraio 2006, n. 46, escludente la possibilita' per il
pubblico  ministero  di proporre gravame avverso sentenze assolutorie
eccezion  fatta  per  i  casi  in  cui  ricorre  l'ipotesi  delineata
dall'art. 603, secondo comma c.p.p.
    Nel  corso dell'odierna udienza il procuratore generale sollevava
eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 593 c.p.p. cosi'
come  novellato dalla legge 20 febbraio, n. 46, deducendo le seguenti
considerazioni:
                                          All'ecc.ma Corte di appello
                                          di Roma
    Questione  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 593 c.p.p.,
novellato  dalla  legge  20  febbraio n 46, nella parte in cui limita
l'appello del p.m. contro le sentenze di proscioglimento alle ipotesi
di  cui  all'art. 603,  comma  2 c.p.p.; nonche' dell'art 10, comma 2
della  stessa  legge per contrasto con gli articoli 3, 111, 112 della
Costituzione.
    1)  L'art. 593  c.p.p.,  novellato dalla legge 20 febbraio 2006 n
46,  e'  anzitutto  in  contrasto  col principio costituzionale della
parita'  delle  armi  (art. 111 Cost.), nella parte in cui esclude il
potere  di  appello  del  p.m.  contro le sentenze di proscioglimento
fuori delle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2 c.p.p.
    Rispetto  alla  precedente  formulazione codicistica, organica ed
equilibrata,  dei  «casi  di  appello»,  tale  intervento, fortemente
limitativo  e  praticamente  ablativo  del  potere di impugnazione di
merito  da  parte del p.m., appare inoltre in contrasto col parametro
costituzionale della «ragionevolezza» (art. 3 Cost.).
    Nessuna  risposta  ai  dubbi di costituzionalita' puo' rinvenirsi
nella relazione al disegno di legge relativo.
    Secondo   tale   documento  l'esclusione  dell'appello  trarrebbe
fondamento  dall'art. 2  del  prot.  n  7  della  Convenzione  per la
salvaguardia  dei diritti dell'uomo in forza del quale chiunque venga
dichiarato colpevole ha il diritto di sottoporre ad una giurisdizione
superiore  la  condanna,  ovvero la dichiarazione di colpevolezza. Un
diritto simmetrico del p.m. - contro le sentenze di assoluzione - non
potrebbe  essere  invece  riconosciuto  non  potendosi  ammettere  un
ulteriore  controllo  di  merito  dell'eventuale  condanna in secondo
grado   (su  appello  del  p.m.)  che  implicherebbe  una  disciplina
manifestamente  eccentrica rispetto all'attuale sistema. In sostanza,
per  non  dare ingresso ad un altro giudizio di merito sull'eventuale
condanna  in  secondo  grado  (per effetto dell'appello del p.m.), si
sarebbe  preferito  escludere  del tutto la stessa possibilita' della
condanna (nel caso di gia' pronunciata assoluzione).
    Come  e'  pero'  subito  evidente, non sussiste alcun rapporto di
consequenzialita'  e  coerenza  tra  il  diritto  del  condannato  di
appellare  e  la  preclusione  per  l'accusa di servirsi dello stesso
rimedio in caso di proscioglimento.
    Del  resto,  lo  stesso art. 2, comma 3 stabilisce esplicitamente
che  il  diritto  al  doppio  grado  di giurisdizione di merito possa
essere  legittimamente limitato nel caso di infrazioni minori, ovvero
di  condanna pronunciata da una giurisdizione suprema, oppure in caso
di   condanna   pronunciata   a   seguito   del  ricorso  avverso  il
proscioglimento.  Quindi, come si puo' constatare anche testualmente,
l'asserito    fondamento    internazionalistico   della   preclusione
dell'appello  del  p.m.  e'  argomento  pretestuoso, se non del tutto
surrettizio, e ogni altra considerazione sulla pretesa «disumanita» o
«crudelta» dell'appello del p.m. (gia' esclusa in sede costituzionale
dalla  presunzione di non colpevolezza che salvaguarda, in ogni caso,
la dignita' della persona) appare di maniera ed e' comunque del tutto
inconsistente  anche perche' l'assoluzione di primo grado non esclude
affatto  l'eventuale  certezza  oggettiva  della responsabilita', che
infatti puo' derivare non solo dall'improbabile sopravvenienza di una
nuova  prova (caso residuale previsto dal nuovo testo dell'art. 593),
ma  anche  e  soprattutto  da una diversa valutazione giuridica degli
stessi  fatti, cosi' come accertati in primo grado. Non regge percio'
neppure   l'asserita  insuperabilita'  del  dubbio,  tanto  piu'  che
nell'ordinario  schema  del  giudizio penale, l'appello, ove ammesso,
non  e'  che  uno  sviluppo  ordinario  del  processo,  ovviamente, e
necessariamente,  aperto  ad  ogni  epilogo.  Non  senza tenere conto
inoltre della maggiore autorevolezza del giudice di secondo grado che
conferisce  comunque  un  altissimo  livello  di  attendibilita' e di
veridicita'   alla   relativa   sentenza,  anche  se  di  riforma  di
un'assoluzione precedente.
    Per  mettere  in luce ancor piu' l'irrazionalita' della norma, in
un  certo  senso  ablativa  e comunque limitativa della «finalita' di
giustizia»,  piu'  volte sottolineata dalla Corte costituzionale (che
deve  costituire  la meta costante, essenziale ed ineludibile di ogni
processo,  strettamente  correlata  alla ricerca di verita), non puo'
non rilevarsi altresi' che rinunciare ad un grado di giurisdizione da
parte  di  chi  rappresenta lo Stato, nella sua eccezione piu' ampia,
significa   anche  rinunciare  alla  «collegialita»  della  decisione
definitiva  nel  merito.  E  cio' proprio quando il giudizio di primo
grado  e'  ormai, per buona parte, passato ai giudici monocratici sia
nei  riti  speciali  che  nel rito ordinario. A ben guardare, poi, la
stortura come sopra evidenziata vulnera il valore della «certezza del
diritto»,  presupposto e garanzia del principio di eguaglianza di cui
all'art. 3 della Costituzione, stante l'atomizzazione delle decisioni
monocratiche  alle  volte,  purtroppo, eccessivamente personalizzate,
che  sfuggiranno  al  controllo del giudice d'appello in genere molto
piu' distaccato ed esperto.
    Avuto riguardo ancora una volta al precetto costituzionale di cui
all'art. 111  della  Costituzione  secondo  il  quale «il processo si
svolge  (o  almeno  si  dovrebbe svolgere!) nel contraddittorio delle
parti,  in  condizioni  di  parita'...», come si puo' ritenere che si
siano  rispettati  i  sacrosanti principi del contraddittorio e della
parita' delle armi nell'ipotesi che la sentenza di proscioglimento si
basi su prove introdotte con le c.d. indagini difensive?
    2)    Venendo    specificamente    all'esame   dei   profili   di
incostituzionalita',  si  rileva  anzitutto  che  il testo modificato
dell'art. 593  c.p.p.  rispetta  solo  apparentemente il principio di
parita'  delle  parti.  Infatti,  pur  avendo il legislatore precluso
anche all'imputato l'appellabilita' delle sentenze di proscioglimento
-  e in cio' sta la simmetria apparente - non puo' negarsi che ne sia
vulnerata  e  abolita  quasi  del tutto la funzione del p.m. che, per
effetto  della preclusione dell'appello, esaurisce le sue funzioni ex
art. 73  O.G.  con  la  pronuncia  della  requisitoria nel giudizio o
nell'udienza  preliminare  (salvi  i  limitati casi di appello ancora
consentiti e i casi di ricorso). Il p.m. e' cosi' ridotto al ruolo di
mero  promotore  dell'azione  penale,  con  scarso potere di incidere
sulla  vicenda  processuale  quando  essa  volga  alla  negazione del
fondamento  dell'accusa,  mentre  «nell'architettura della delega per
l'emanazione  del nuovo codice di procedura penale, il ruolo del p.m.
non e' quello di mero accusatore ma pur sempre di organo di giustizia
(cfr. direttiva 37)» (sent. n 88 del 2001 Corte cost.).
    Ancora,  la  Corte  costituzionale  chiamata a risolvere numerose
questioni   di   costituzionalita'  in  cui  si  deducevano  analoghi
argomenti  in tema di parita' delle parti, ha costantemente affermato
che  «il  principio  di  parita'  tra  accusa  e  difesa non comporta
necessariamente  l'identita'  tra  i  poteri  processuali  del p.m. e
dell'imputato  potendo tale disparita' risultare giustificata, ma nei
limiti   della   ragionevolezza,   sia   dalla   peculiare  posizione
istituzionale  del  p.m.,  sia  dalle  funzioni ad esso affidate, sia
dalle esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia
(ex  plurimis: Corte cost. sentenze n. 363 del 1991; n. 432 del 1992;
n. 280  del  1995;  ordinanze n. 421 del 2001; n. 83 del 2002; n. 347
del 2002; n. 46 del 2004).
    E  nella  sentenza  concernente  la  legittimita'  costituzionale
dell'appello  incidentale  del p.m. (28 giugno 1995, n. 280, relatore
Vassalli)  la  Corte scriveva: «Se di un dovere in senso lato si puo'
parlare   per   il   p.m.   di   fronte   all'esercizio   del  potere
d'impugnazione,  tale  dovere e' riconducibile a quei generali doveri
che  competono  al p.m. in relazione alle funzioni ad esso demandate,
doveri  che  nel vigente ordinamento (art. 73 O.G.) sono indicati con
riferimento  alla  vigilanza  sull'applicazione  delle  leggi e sulla
pronta  e regolare amministrazione della giustizia. Da questo insieme
di  riferimenti e' dato trarre la conclusione che quando il p.m. deve
decidere  se  impugnare  o  meno  una sentenza egli deve determinarsi
secondo gli interessi generali della giustizia».
    Poco  piu'  avanti  la  stessa  sentenza  focalizza quale «ragion
d'essere»  dell'istituto dell'appello incidentale del p.m., lo «scopo
di  prevenire  conclusioni  che  egli  ritiene, ove fossero adottate,
contrarie a giustizia».
    Queste  proposizioni  danno dunque risalto alla suprema finalita'
di giustizia:
        1)  come  consequenziale sviluppo delle funzioni di vigilanza
sulla  regolare  - dunque esatta, non fallace - amministrazione della
giustizia;
        2) come ratio legis del potere di impugnazione sia principale
che incidentale del p.m.;
        3)   come   sbocco   sia   pure  eventuale  dell'obbligatorio
intervento  di  un  suo  rappresentante  a  tutte  le  udienze penali
(art. 74 O.G.).
    La  «finalita' di giustizia» non e' un mero enunciato idealistico
o  retorico,  ma  un  valore  riaffermato in piu' occasioni con forti
sottolineature  per delineare il carattere peculiare che nel processo
italiano  ha  assunto  il  sistema  accusatorio:  «Fine  primario  ed
ineludibile  del  processo  penale non puo' che rimanere quello della
ricerca  della  verita»  (Corte  cost.  24  - 26 marzo 1993, n. 111 e
ancora Corte cost. 3 giugno 1992, n. 255).
    E, posto che il sistema italiano non e' ispirato all'impostazione
pragmatica  dell'astratto modello accusatorio nel quale un esito vale
l'altro,  purche'  correttamente ottenuto, la Corte costituzionale ha
anche  affermato  che  «ad  un ordinamento improntato al principio di
legalita' - che rende doverosa la punizione delle condotte penalmente
sanzionate   -  nonche'  al  connesso  principio  di  obbligatorieta'
dell'azione  penale non sono consone norme di metodologia processuale
che  ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del
fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione (sent.
n. 255 del 1992)».
    Queste  fondamentali  finalita' di giustizia sarebbero totalmente
frustrate,  radicalmente  rinnegate,  se la presenza obbligatoria del
p.m.,  stabilita  a pena di nullita' del giudizio, si riducesse ad un
simulacro,  ad  una vana perorazione, potendo il giudice disattendere
le tesi d'accusa senza esporsi a censure, se non quelle limitate alla
sopravvenienza  di nuove prove e a quelle del ricorso per cassazione,
mentre  per  contro  nessun  limite  incontra l'appello dell'imputato
quando la sentenza sia a lui sfavorevole.
    La  Corte costituzionale ha anche esaltato con parole efficaci le
«funzioni  del  p.m.»,  normativamente  statuite  dall'art. 73  O.G.,
precisando  che  «il p.m. e' un magistrato indipendente, appartenente
all'Ordine  giudiziario  che  non  fa valere interessi particolari ma
agisce esclusivamente a tutela dell'interesse generale all'osservanza
della legge». (cfr. sent. n 81 del 1991).
    E'  pur  vero  che  attraverso  una  radicale modificazione della
struttura  del processo si potrebbe legalmente sopprimere il giudizio
di  appello,  ma  se  il doppio grado di giurisdizione, «tradizionale
nell'ordinamento italiano» (cfr. sent. 280 del 1995 Corte cost.), pur
se  non  e'  oggetto di un diritto elevato a rango costituzionale, e'
stato  ancora  conservato  dal  legislatore, la preclusione, sia pure
parziale, dell'appello del p.m. contro le sentenze di proscioglimento
costituisce   una   grave   disarmonia   di  evidente,  indifendibile
incostituzionalita',  censurabile  in quanto priva di ragionevolezza,
oltreche'  in  contrasto  con  il principio della parita' delle parti
potendo, al contrario, l'imputato continuare ad appellare le sentenze
a lui sfavorevoli.
    Nessun  criterio  di  ragione,  ne'  alcuna  peculiare  finalita'
riconosciuta  dal  legislatore  (cfr. ordinanza n. 421 del 2001 della
Corte   costituzionale)  giustificano  infatti  una  disciplina  che,
abolendo  il  potere  del  p.m.  nei  sensi  sopra  detti,  squilibra
fortemente  i  rapporti  tra  accusa  e difesa, svuotando di fatto le
funzioni  dell'accusa, e impedendo cosi' il raggiungimento di fini di
giustizia. In cio' sta soprattutto la palese violazione dell'art. 111
della Costituzione.
    Non  solo.  Perche',  in definitiva, appare, anche a prima vista,
incontestabile  l'indifendibile  irrazionalita'  di  un  sistema  che
riconosce  al  p.m.  il  potere  di  appellare  contro le sentenze di
condanna  dell'accusato  (cfr.  il nuovo testo dell'art. 593 c.p.p.),
evidentemente  se  e  in  quanto  ritenute  troppo miti rispetto alla
gravita'   del   fatto   oggetto   dell'imputazione,  negandogli,  al
contrario, quello di proporre appello contro le pronunce assolutorie,
perfino  se,  eventualmente  del tutto ingiustificate alla luce delle
prove  acquisite  e  delle  circostanze  di fatto e di diritto emerse
dagli atti del giudizio.
    In  sostanza  al  p.m.  e'  permesso di reagire contro gli errori
veniali, marginali, ma gli si interdice di fare altrettanto contro le
deviazioni giu' gravi, piu' inspiegabili, meno giustificabili. Questa
purtroppo,  oggi,  la  logica  paradossale  di  un  sistema del tutto
incoerente   e   lesivo   di   principi  fondamentali  dettati  dalla
Costituzione.  Ne'  puo'  essere  un  caso  che,  prima  dell'attuale
riforma, nell'impostazione originaria del codice, un limite effettivo
all'appello  del p.m. era previsto solo per le condanne in materia di
giudizio abbreviato (v. l'art. 443 c.p.p. nel testo previgente).
    3)  Le  prerogative peculiari e le attribuzioni istituzionali del
p.m.,  come  definite  e  precisate  nell'  art. 73  dell'Ordinamento
giudiziario,  sono  tenute  ben  presenti e implicitamente richiamate
dalla  Carta costituzionale che, in ben cinque articoli in materia di
giustizia, vi fa espresso rinvio (art. 102, 105, 106, 107, 108).
    Forse  queste citazioni e richiami, ancorche' di tipo ricettizio,
non  costituzionalizzano  formalmente  l'Ordinamento  giudiziario, ma
certamente  ne  esaltano  e  ne confermano il carattere di essenziale
criterio  di  regolazione, anche funzionale, del ruolo dei magistrati
ordinari, e ne fissano i limiti di competenza materiale.
    Quando,    dunque,    la    Costituzione   stabilisce   l'obbligo
dell'esercizio  dell'azione penale (art. 112) si riferisce certamente
proprio  al  p.m.  come  all'organo  a  cui  gli  artt. 73  e 74 O.G.
conferiscono le attribuzioni sopra ricordate, e soprattutto quella di
repressione   dei  reati  e  di  tutela  della  sicurezza  collettiva
dall'aggressione della criminalita'.
    Ne  consegue  che  se  il  p.m.  ha  l'obbligo  istituzionale  di
promuovere  la  repressione  dei  reati  nonche' quello, pure sancito
dall'O.G.,  di  vegliare  all'osservanza  delle leggi e alla pronta e
regolare  amministrazione  della  giustizia,  che di quell'obbligo e'
l'irrinunciabile    complemento   e   corollario,   e'   evidente   e
incontestabile  l'indifendibile  irrazionalita' di una disciplina che
comprime  sensibilmente  la facolta' dell'appello, certamente momento
essenziale  e  imprescindibile  di  quell'attribuzione, da intendersi
soprattutto,  se  non  esclusivamente, quale funzionale potere-dovere
del magistrato.
    Appare  quindi,  non  a caso, innegabile il raccordo funzionale e
logico con l'art. 112 Cost.
    Infatti  se  il  p.m.  ha l'obbligo di esercitare l'azione penale
(art. 74  O.G.  e  112  Cost.),  anche  a tutela dell'imparzialita' e
dell'obiettivita'   dell'azione  giudiziaria,  e  se  ha,  parimenti,
l'obbligo  istituzionale  di  promuovere  la  repressione  dei reati,
(art. 73  O.G.), non sembra possibile contestare che l'appello contro
le  sentenze  di  assoluzione  di  un  accusato,  a torto o a ragione
ritenuto  colpevole  dal  p.m.,  si ponga appunto come un'inequivoca,
contestuale manifestazione dell'adempimento dei due doveri ricordati,
direttamente   e   indirettamente  richiamati  e  sottolineati  dalla
disposizione costituzionale.
    Ed  infatti,  se l'appello potrebbe ritenersi, di per se', almeno
in   astratto,  non  direttamente  e  inevitabilmente  implicato  dal
principio   costituzionale  di  obbligatorieta'  dell'azione  penale,
attesa la sua rinunciabilita' e negoziabilita', tale conclusione deve
necessariamente  mutare  se  l'accusato  assolto  e'  ritenuto,  cio'
malgrado,  colpevole  dal p.m. che, in tale situazione, ha il preciso
potere-dovere,  e  non  solo la mera facolta', di appellare, in vista
dell'attribuzione  ordinamentale, di cui all'art. 73 O.G. (cfr. sent.
280  del  1995  citata). Ne' occorre ribadire ancora che lo strumento
processuale  previsto,  unico  e  insostituibile, appunto l'esercizio
dell'azione  penale,  nell'unica  forma  ormai  possibile, e' proprio
quella  dell'impugnazione  di  merito  (il  ricorso  di  legittimita'
rispondendo ad altre finalita' ed esigenze di sistema).
    Anche  per  questa  via si palesa quindi il contrasto della nuova
normativa  con  il  dettato  costituzionale  (art. 3 e art. 112 Cost.
correlato all'art. 73 O.G.).
    Va detto, infine, che la lamentata preclusione per il p.m. appare
irrazionale  e  illegittima  anche perche', dopo avere assicurato con
strumenti    stringenti   di   controllo   l'obbligo   dell'esercizio
dell'azione   penale   (richieste   non   accolte  di  archiviazione,
imputazione   coatta   in   nome  del  favor  actionis),  il  sistema
processuale ostacolerebbe senza alcuna giustificazione la repressione
dei reati e il controllo della criminalita'.
    4)  Conclusivamente,  non  risponde  al  principio della «parita'
delle parti» (art. 11 Cost.) e al principio di ragionevolezza (art. 3
Cost.)  una  disciplina  che preclude al p.m. di proporre appello, se
non  in  casi  marginali  ed  estremamente  improbabili,  contro  una
sentenza assolutoria ingiusta, o anche solo ritenuta tale.
    Va  ricordato che, ancor prima della modifica dell'art. 111 della
Costituzione, la «parita' delle armi» costituiva gia' valore centrale
di  un  sistema  processuale  che  il  legislatore  volle fondato sul
principio  di  «partecipazione  dell'accusa e della difesa su basi di
parita'  in  ogni  stato  e grado del procedimento» (art. 2, n. 3, l.
1987 n. 81). Questo testo normativo definisce la portata del precetto
costituzionale  che  taluno  vorrebbe circoscritto ad ambiti limitati
della disciplina processuale.
    Va   anche   ribadito   che   dalla   soppressione  quasi  totale
dell'appello   del  p.m.  risulta  pregiudicata  la  stessa  funzione
essenziale  del  processo  che  e'  appunto  quella  di verificare la
sussistenza dei reati oggetto del giudizio e di accertare le relative
responsabilita' (sent. 26 ottobre 1998, n. 361 Corte cost.).
    Erra  dunque  chi,  rilevando  che il potere del p.m. di proporre
appello   non   sarebbe   riconducibile   tecnicamente  all'esercizio
dell'azione  penale  (art. 112  Cost.), conclude che questo potere si
radicherebbe  puramente  e  semplicemente  nel  dato  di fatto che e'
previsto  dalla  legge, come se si trattasse di un'opzione dipendente
completamente dall'arbitrio del legislatore ordinario.
    Tale  potere  si  pone  invece come un' irrinunciabile estensione
dell'obbligo  di  repressione dei reati e del dovere di vigilanza del
p.m.  sulla  pronta  e  regolare  amministrazione  della giustizia, e
quindi,  in  definitiva,  si  risolve  in un'esigenza inderogabile di
«Giustizia»,  intesa come valore supremo costituzionalmente garantito
(art. 101 Cost.).
    Si   puo'   aggiungere   ad   abundantiam  che  il  principio  di
obbligatorieta' dell'azione penale sarebbe in concreto vanificato se,
fuori  delle  ipotesi del ricorso e dei limitati casi di appello, non
fossero  esperibili  altri rimedi contro gli errori della sentenza di
assoluzione,  ancorche'  palesi  ed  eventualmente  indifendibili nel
merito.
    Al   riguardo   sembra   opportuno   ricordare   che   la   Corte
costituzionale,    affermando    la    legittimita'    costituzionale
dell'art. 443, comma 3, c.p.p. che preclude l'appello del p.m. contro
le sentenze di condanna pronunciate col rito abbreviato (sent. n. 363
del  1991),  giustifico'  tra  l'altro  tale  esclusione  «perche' la
sentenza  di  condanna  costituisce  la  realizzazione  della pretesa
punitiva  fatta  valere nel processo attraverso l'azione penale». Dal
che  si  deve  consequenzialmente e razionalmente desumere che, se la
«pretesa  punitiva»  e'  stata  disattesa  da  un proscioglimento, e'
coerente  con il principio di parita' delle armi e di ragionevolezza,
che  il  p.m. eserciti, anzi, che debba esercitare le sue funzioni di
controllo  anche  con lo strumento dell'appello, tanto piu' in quanto
ancora consentito all'imputato per il caso della condanna.
    5)  La  rilevanza  della  questione  proposta  e'  incontestabile
perche'  dal  suo  accoglimento deriverebbe l'ammissibilita', esclusa
dal  nuovo testo legislativo, dell'appello proposto dal p.m. La Corte
dovra'  dunque  pregiudizialmente  proporre  la  questione  medesima,
soprassedendo  alla  declaratoria di inammissibilita', prevista dalla
disposizione   transitoria   dell'art. 10,   comma   2  della  legge,
vertendosi  in  materia  di appello proposto dal p.m. prima della sua
entrata  in  vigore.  Vorra' conseguentemente disporre la sospensione
del procedimento.
                              P. Q. M.
    Si conclude perche' la Corte d'Appello di Roma - nel procedimento
penale  contro  Cardenas  Vargas  Daniela  assolto  dal  tribunale di
Velletri  con  sentenza 18 ottobre 2004 appellata dal p.m. - dichiari
rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita'
costituzionale  dell'art  593 c.p.p. novellato dalla legge n. 46/2006
nella  parte  in  cui,  fuori dai casi di cui al comma 1-bis, esclude
l'appello  del  p.m.  contro  le sentenze di proscioglimento; nonche'
dell'art. 10  comma  2  della  stessa  legge,  per  contrasto con gli
artt. 3,  111, 112 della Costituzione, come da ragioni specificamente
illustrate.
    Voglia  dare  i  provvedimenti  conseguenti,  soprassedendo  alla
dichiarazione di inammissibilita'.
        Roma, addi' 16 marzo 2006
            Il sostituto procuratore generale: De Angelis

                         Osserva in diritto

    Ritiene  la  Corte  non  manifestamente infondata la questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art.  1  della legge n. 46/2006, e
delle disposizioni ad esso correlate, nella parte in cui non consente
al  pubblico  ministero  di  proporre  appello avverso le sentenze di
assoluzione,  se  non  nel caso previsto dall'art. 603, comma secondo
c.p.p.
    La norma in esame appare invero in conflitto con gli artt. 3, 24,
111 e 112 della Costituzione.
    1.  -  quanto al contrasto con il principio di eguaglianza di cui
all'art. 3  Cost.  rileva  la  Corte  come consentire all'imputato di
proporre  appello  nei  confronti  di  sentenze  di  condanna  ma non
consentire  al  p.m. lo speculare diritto di proporre appello avverso
le  sentenze  di  assoluzione, se non in un caso delimitato, comporti
una  violazione  del principio di eguaglianza dei cittadini di fronte
alla legge.
    All'imputato,   infatti,  viene  in  tal  modo  riconosciuta  una
posizione  di evidente favore nei confronti degli altri componenti la
collettivita'  che  vedono cosi' fortemente limitato, nelle modalita'
di  espletamento,  il  diritto-dovere  del p.m., che i loro interessi
tutela, di esercitare l'azione penale.
    Tanto piu' ove si tenga presente che la possibilita' per l'Accusa
di  interporre  gravame nella ipotesi prevista dall'art. 603, comma 2
c.p.p.  appare  poco  piu' che teorica: il pubblico ministero avrebbe
infatti  la  possibilita'  di  proporre  appello nel caso in cui, nei
ristretti limiti di tempo compresi tra la pronuncia della sentenza di
primo  grado  e  i termini per l'appello, sopravvenissero o venissero
per avventura scoperte nuove prove e le stesse fossero decisive.
    2.  -  le norme in questione si pongono altresi' in contrasto con
l'art. 24  Cost.  nella parte in cui stabilisce - comma 1 - che tutti
possono agire in giudizio per la tutela dei loro diritti ed interessi
legittimi  e  -  comma 2 - che la difesa e' un diritto inviolabile in
ogni stato e grado del procedimento.
    In  effetti  la  norma  impugnata  elidendo  quasi  totalmente la
possibilita'  per  il  p.m.  di  proporre  appello,  nella ipotesi di
assoluzione  del  prevenuto,  non  consente alla collettivita', i cui
interessi  sono dal p.m. medesimo rappresentati e difesi, di tutelare
adeguatamente i suoi diritti di fronte, in ipotesi ad un errore nella
ricostruzione  del  fatto  o  nella  interpretazione  del diritto che
abbiano portato alla assoluzione dell'imputato.
    Devesi  in questa sede porre in evidenza come, mentre da un canto
la   normativa   introdotta   dalla   legge   in  questione  comporti
sostanzialmente,  in caso di assoluzione dell'imputato, la perdita di
un  grado  di  merito  della giurisdizione e cioe' di un giudizio che
investe la vicenda processuale nella sua completezza, riesaminando il
fatto e valutandone nuovamente le implicazioni giuridiche, dall'altro
non  valga a colmare tale perdita la nuova formulazione dell'art. 606
c.p.p.
    Quest'ultimo prevede, invero, delle modifiche di limitata portata
a  due  motivi di ricorso, quelli elencati sotto le lettere D) ed E):
tali modifiche consentono, nella nuova formulazione, di sottoporre al
vaglio  della Corte di cassazione, il primo, la mancata assunzione di
una  controprova  «anche  quando questa sia stata richiesta nel corso
della  istruzione  dibattimentale»  ed,  il  secondo,  la  mancanza o
illogicita'  della  motivazione che risulti oltre che dal testo della
sentenza    impugnata,    «anche   da   altri   atti   del   processo
specificatamente indicati nei motivi di gravame».
    3. - va rilevato ancora il contrasto della norma impugnata con il
disposto ai cui all'art. 111 Cost.
    Sancisce  invero  la  predetta disposizione che «Ogni processo si
svolge  nel  contraddittorio  tra  le parti, in condizioni di parita'
davanti ad un giudice terzo ed imparziale ...».
    Appare  dunque evidente come la normativa introdotta dell'art. 1,
legge  n. 46/2006  non  consentendo al pubblico ministero di proporre
appello  avverso  le  sentenze di assoluzione - se non nel caso sopra
specificato  -  leda il principio costituzionale della parita' tra le
parti  in  giudizio  sancito dalla norma di cui all'art. 111 cit. non
consentendo  all'accusa  di  tutelare  le sua ragioni con modalita' e
poteri simmetricamente eguali a quelli di cui dispone la difesa.
    4.  -  la  norma  in  esame  appare,  infine,  in  contrasto  con
l'art. 112 Cost.
    L'esercizio della azione, tanto penale quanto civile, comporta il
dispiegamento della azione medesima lungo i due gradi di merito ed il
terzo  di  legittimita' previsti dalla nostra legislazione secondo un
canone  accettato  e seguito, oltre che dal nostro, dalla maggioranza
degli ordinamenti giuridici europei e piu' in generale occidentali.
    Invero  la possibilita' di esaminare la vicenda processuale sotto
entrambi  i  profili, fattuale e giuridico, per mezzo di due gradi di
giurisdizione  di  merito  risponde  alla  fondamentale  esigenza  di
ovviare,  mediante  un  duplice  vaglio,  a  possibili  errori  nella
determinazione  del fatto e nella sua riconduzione ad una determinata
fattispecie giuridica.
    Detto  altrimenti  un  secondo  grado  di  giudizio  di  merito a
disposizione  dell'imputato  o  del p.m., dell'attore o del convenuto
appare consustanziale al sistema processuale vigente.
    Cosi'  delineata  la  natura della azione penale, ne consegue che
esclusione  di  fatto del p.m. dalla possibilita' di proporre appello
avverso   una   sentenza   di   assoluzione   dell'imputato,  sancita
dall'art. 1  cit.,  elude  il  principio  della obbligatorieta' della
azione   medesima,  considerata  nella  sua  interezza,  e  si  pone,
conseguentemente, in contrasto con la norma di cui all'art. 112 della
Costituzione.
    Posti  in  rilievo  gli  elementi  che  inducono  a  ritenere  la
questione    di    illegittimita'   costituzionale   in   esame   non
manifestamente infondata, e quindi rilevante, osserva infine la Corte
come il giudizio in corso non possa essere definito indipendentemente
dalla risoluzione di detta questione: essa appare pertanto, oltre che
rilevante, altresi' ammissibile.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Solleva  questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 1
della  legge  20 febbraio 2006, n. 46, in relazione agli artt. 3, 24,
111 e 112 Cost.;
    Sospende il presente procedimento;
    Manda   alla  cancelleria  per  la  trasmissione  della  presente
ordinanza  alla  Corte  costituzionale  agli  imputati ed al p.m., al
Presidente  del  Consiglio dei ministri ed al Presidente della Camera
dei deputati e del Senato della Repubblica.
        Roma, addi' 16 marzo 2006
                       Il Presidente: Bettiol
                                      Il consigliere: Evangelista
06C0453