N. 169 ORDINANZA (Atto di promovimento) 20 marzo 2006

Ordinanza  emessa il 20 marzo 2006 dalla Corte di assise d'appello di
Venezia nel procedimento penale a carico di Minciuna Ruslan

Processo penale - Appello - Modifiche normative - Possibilita' per il
  pubblico  ministero  di  proporre  appello  contro  le  sentenze di
  proscioglimento  anche  nei  casi  diversi  da quello solo previsto
  dall'art. 593, comma 2 - Preclusione - Discriminazione tra i poteri
  attribuiti alle parti - Violazione del principio di ragionevolezza.
- Codice  di  procedura  penale,  art. 593,  commi 1  e  2, nel testo
  modificato dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46.
- Costituzione, artt. 3 e 111, comma secondo.
(GU n.24 del 14-6-2006 )
                     LA CORTE D'ASSISE D'APPELLO

    Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento a carico di
Minciuna  Ruslan  alias Postulaki Yuri, nato a Straseni (Moldavia) il
23 giugno 1980, contumace.
    1.  -  Il  Minciuna  e' accusato di avere, in concorso con altri,
ucciso  a  sprangate  un  cittadino italiano e tentato di uccidere un
cittadino  tunisino,  anche  rapinato. Con sentenza del 23 maggio - 8
luglio  2005  la  Corte  d'assise di Verona lo ha assolto da tutte le
imputazioni,   richiamando   anche   nel  dispositivo  i  criteri  di
valutazione  della  prova di cui al capoverso dell'art. 530 c.p.p. Il
pubblico  ministero,  che  ne aveva chiesto la condanna all'ergastolo
con  isolamento  diurno, ha proposto un articolato atto di apello nel
quale  oltre  che  contestare  la  logicita' delle argomentazioni del
primo   giudice,  propone  deduzioni  che  dovrebbero  sorreggere  un
apprezzamento  di  merito del tutto diverso, in particolare sul punto
centrale  del  processo,  l'attendibilita' da attribuire ai due testi
che   hanno   dichiarato   di   aver   riconosciuto  l'imputato  come
compartecipe dell'aggressione.
    Nelle  more della trattazione di questo processo in secondo grado
e' entrata in vigore la legge 20 febbraio 2006, n. 46, che ha escluso
il potere della parte pubblica di impugnare con il mezzo dell'appello
le  sentenze  di  proscioglimento,  salvo  il caso qui non pertinente
della  prova  nuova  scoperta  nel periodo che va dalla deliberazione
della   sentenza  di  primo  grado  alla  scadenza  del  termine  per
impugnare, cosi' innovando l'art. 593 c.p.p.
    Tale   legge   ha   pure  espressamente  disciplinato  il  regime
transitorio,   differentemente   da   quanto   era  accaduto  con  la
provvisoria  precedente modificazione introdotta allo stesso articolo
593  c.p.p.  dall'art. 18, legge 24 novembre 1999, n. 468, prevedendo
al  primo  comma dell'art. 10 l'applicazione anche ai procedimenti in
corso  alla  data della sua entrata in vigore, e quindi prevedendo ai
commi  2  e  3  le  modalita' della dichiarazione di inammissibilita'
degli  appelli avverso le sentenze di proscioglimento non definiti, e
una  sorta di restituzione nei termini per proporre, in tali casi, il
ricorso per cassazione.
    Oggi  questa  Corte  distrettuale  dovrebbe  pertanto  deliberare
l'ordinanza di inammissibilita' di cui al secondo comma dell'art. 10.
    La  parte  pubblica ha tempestivamente depositato memoria con cui
chiede  sia  sollevata  la  questione di legittimita' del nuovo testo
dell'art. 593  c.p.p. e della disciplina transitoria, con riferimento
agli  artt. 3,  111  e 112 Cost. Oggi le parti hanno concluso come in
atti.
    2.  -  Poiche'  la deliberazione di inammissibilita' dell'appello
costituisce certamente momento di esercizio della giurisdizione, deve
prendersi  preliminarmente  atto  della rilevanza della questione nel
presente giudizio: la sua decisione, infatti, e' idonea ad imporre la
cessazione o la prosecuzione di questo specifico processo di appello.
    3.  -  Osserva  questo  giudice  distrettuale  che vi e' gia' una
giurisprudenza  della  Corte  delle  leggi  che  consente  una  prima
«scrematura»  dei  possibili  punti  dell'argomentare  tecnico-logico
anche riproposto dalla parte pubblica nella sua memoria.
    In  sintesi,  la Corte costituzionale ha finora insegnato che «la
diversita'   dei   poteri  spettanti,  ai  fini  delle  impugnazioni,
all'imputato   ed   al  pubblico  ministero,  e'  giustificata  dalla
differente  garanzia rispettivamente loro assicurata dagli artt. 24 e
112  della  Costituzione».  E  anche se «il potere di impugnazione e'
un'estrinsecazione   ed   un   aspetto  dell'azione  penale  (la  cui
obbligatorieta'  e'  costituzionalmente  imposta  e  quindi garantita
dall'art. 112 Cost.), tuttavia e' escluso che esso debba configurarsi
in  modo  simmetrico  rispetto  al  diritto  di difesa dell'imputato»
perche'  «le  funzioni (del pubblico ministero) non sono assistite da
garanzie   di   intensita'  pari  a  quelle  assicurate  all'imputato
dall'art. 24  della  Costituzione,  il quale non riguarda l'organo di
accusa»  mentre  «solo  se  i  poteri  stessi,  nel  loro  complesso,
dovessero  risultare  inidonei  all'assolvimento dei compiti previsti
dall'art. 112  Cost.»  potrebbe essere censurata per irragionevolezza
la  configurazione  dei poteri del pubblico ministero (Sentenza n. 98
del  1994, con riferimento anche alle sentenze 177 del 1971 e 363 del
1991).
    Ancora,  la  Corte  ha  ribadito in particolare che «il potere di
appello  del  pubblico  ministero  non puo' riportarsi all'obbligo di
esercitare  l'azione  penale come se di tale obbligo esso fosse - nel
caso  in cui la sentenza di primo grado abbia disatteso in tutto o in
parte   le   ragioni  dell'accusa  -  una  proiezione  necessaria  ed
ineludibile  ...  un'estrinsecazione  e  una  conseguenza necessaria,
configurante  un  nuovo  dovere,  il  dovere  di  esercitare l'azione
penale»  (Sentenza  n. 280  del  1995,  anche  con  riferimento  alla
sentenza   177   del   1971).   Sia  solo  consentito  osservare  che
l'affermazione  e'  pienamente  condivisibile,  laddove altrimenti si
dovrebbe  necessariamente condudere per la costituzionalizzazione del
doppio  grado  di giurisdizione di merito per la sola parte pubblica,
in virtu' dell'art. 112 Cost.
    Che  pertanto  ne'  l'art. 3  ne'  l'art. 112  della Costituzione
costituiscano,  per  se',  parametri costituzionali idonei ad imporre
l'assoluta  omogeneita'  della  disciplina del potere di impugnazione
tra   la   parte   privata-imputato   e  la  parte  pubblica-p.m.  e'
affermazione/insegnamento che puo' darsi ormai per acquisito.
    Cio'  pure dopo la modifica dell'art 111 Cost., perche' la stessa
Corte    costituzionale   ha   ribadito   tale   insegnamento   anche
successivamente  a  quell'innovazione  costituzionale,  gia'  con  la
sentenza n. 115 del 2001 ma specialmente con l'ordinanza n. 421 del 3
- 21 dicembre 2001.
    Con tale ultima pronuncia il Giudice delle leggi ha espressamente
avvertito  che «l'attuale secondo comma dell'art. 111 Cost., inserito
dalla  legge  costituzionale  23  novembre  1999 n. 2 - nel conferire
veste  autonoma  ad  un  principio,  quale quello della parita' delle
parti,  pacificamente  gia'  insito  nel pregresso sistema dei valori
costituzionali - non ha inciso sulla validita' dell'affermazione, cui
si  e'  costantemente  ispirata  in  precedenza  la giurisprudenza di
questa Corte, in forza della quale il principio di parita' tra accusa
e  difesa  non  comporta  necessariamente  l'identita'  tra  i poteri
processuali  del  pubblico  ministero e quelli dell'imputato: infatti
una  disparita'  di  trattamento  puo' risultare giustificata ... sia
dalla  peculiare  posizione istituzionale del pubblico ministero, sia
dalla  funzione  allo  stesso affidata, sia da esigenze connesse alla
corretta amministrazione della giustizia».
    Cio'   vale  anche,  in  particolare,  per  determinati  casi  di
preclusione dell'appello del pubblico ministero, «nella cornice di un
sistema  nel  quale  il  doppio  grado di giurisdizione di merito non
forma  oggetto di garanzia costituzionale e il potere di impugnazione
del pubblico ministero non costituisce estrinsecazione necessaria dei
poteri inerenti all'esercizio dell'azione penale» (affermazione ormai
appunto  consolidata;  tra le altre, ordinanze n. 83 del 2002, n. 165
del 2003 e n. 46 del 2004).
    L'ordinanza  n. 421/2001  attesta  quindi  un ulteriore contenuto
dell'insegnamento  ormai  costante  della  Corte  delle  leggi  sulla
materia  del  potere  di  impugnazione,  che  merita  di  essere  ben
evidenziato:  per  nessuna delle parti del processo esiste un diritto
al   doppio  grado  di  giurisdizione  nel  merito  che  abbia  fonte
costituzionale  o internazionale e pertanto che, per se', giustifichi
ed  anzi  imponga  il  diverso  trattamento  delle  parti  (cio'  con
riferimento in particolare agli artt. 14 del Patto internazionale sui
diritti  civili e politici, di cui alla legge n. 881 del 1977; 5, 6 e
13  della  Convenzione  per  la  salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle liberta' fondamentali e all'art. 2 del suo protocollo n. 7, che
anzi prevede l'espressa possibilita' della limitazione del diritto al
doppio  grado di giurisdizione in materia penale nel caso di condanna
che segua una precedente sentenza di proscioglimento).
    Altro corollario che emerge dalla richiamata ordinanza n. 421 del
2001  e'  la  reiezione della tesi di chi sostiene che il riferimento
alla  parita'  delle  parti,  introdotto nell'art. 111 Cost., sarebbe
limitato al contraddittorio.
    Quando  infatti  la  Corte  delle  leggi insegna che il principio
introdotto nel secondo comma dell'art. 111 e' null'altro che la veste
autonoma  data al principio gia' pacificamente insito nel sistema dei
valori costituzionali (con riferimento inequivoco all'art. 3 Cost. ed
alle  sue applicazioni anche in materia procedimentale), conferma che
quel  principio  ha  ambito assolutamente generale, non limitato alla
sola  posizione  delle  parti rispetto al diritto al contraddittorio.
Del  resto,  anche  la  lettera della norma del comma 2 dell'art. 111
Cost.  conferma  che la successione delle enunciazioni e' successione
di  diritti  distinti  e  con  contenuto  differente  (il  diritto al
cortraddittorio,  il  diritto  al pari trattamento - nel limite della
ragionevolezza  gia' proprio dell'art. 3 Cost. -, il diritto ad avere
un  giudice  terzo  ed  imparziale - non solo per cio' che attiene il
contraddittorio!).
    4.  -  Puo'  quindi  esservi  un trattamento differenziato tra le
parti  processuali,  con  attribuzione  di  poteri diversi, anche per
quanto riguarda specificamente il potere di impugnare, senza che tale
diversita', per se' sola, si ponga in contrasto con la Costituzione.
       E  certamente  il  parametro  costituito  dall'art. 112  della
Costituzione  non fonda, per se stesso, un diritto costituzionalmente
garantito  o  addirittura imposto per riconoscere alla parte pubblica
il  potere  di  impugnare  sempre  e  con  ogni  mezzo  possibile, in
particolare  con  l'appello  volto ad ottenere un secondo giudizio di
merito.
    5.  -  L'insegnamento  giurisprudenziale della Corte delle leggi,
secondo   cui   e'   costituzionalmente  ammissibile  il  trattamento
differenziato  tra  le  parti processuali, con attribuzione di poteri
diversi  anche  per  quanto  riguarda  specificamente  il  potere  di
impugnare,  e' stato tuttavia fino ad oggi sempre accompagnato da una
fondamentale   precisazione   e   delimitazione:   il   limite  della
ragionevolezza con riferimento:
        alla   peculiare   posizione   istituzionale   del   pubblico
ministero;
        alla funzione a lui affidata;
        ad  esigenze  connesse  alla  corretta  amministrazione della
giustizia.
    Questi  tre  parametri  -  insegnati  per  la  prima  volta nella
sentenza  190 del 1970, quando la Corte ha chiarito che, pur agendo a
tutela   dell'interesse   generale  all'osservanza  della  legge,  il
pubblico  ministero  di  fronte  al giudice doveva essere considerato
parte,   risultando   quel  suo  interesse  comunque  dialetticamente
contrapposto  a  quello  dell'imputato - erano stati individuati come
ragioni  che  giustificavano  l'attribuzione  di  maggiori e comunque
diversi  poteri alla parte pubblica (nel caso di specie eliminando la
preclusione  allora  vigente  per  la  partecipazione  del  difensore
all'interrogatorio   dell'imputato  davanti  al  giudice  istruttore,
ritenuta non correlata ad alcuno dei tre parametri).
    Nella  giurisprudenza  successiva essi risultano richiamati anche
per   giustificare,   sempre   sul  piano  della  ragionevolezza,  la
contrazione  dei  poteri  del  pubblico  ministero  rispetto a quelli
accordati   all'imputato,   tuttavia   sempre   precisandosi  che  la
differenziazione  di  cui  volta per volta si trattava doveva trovare
giustificazione  in  un parametro/valore/contesto specifico che desse
ragionevolezza alla contingente disparita' di trattamento.
    L'esame  della  giurisprudenza  anche prima richiamata - se si e'
riusciti a ricostruirla fedelmente - impone infatti di constatare che
ogniqualvolta  la  Corte  delle  leggi  ha,  fino ad oggi, dichiarato
conforme all'art. 3 (e poi anche all'art. 111.2 Cost.) la limitazione
del   potere   di   appello   attribuito   al   pubblico   ministero,
contestualmente non solo ha richiamato in via di principio l'esigenza
della  ragionevolezza per la differenziazione, ma anche ha ogni volta
espressamente  indicato  la  ragione sistematica che nel singolo caso
giustificava quella differenziazione.
    Cio'  e'  accaduto  in  tutte  le  pronunce che hanno respinto le
questioni  reiteratamente  proposte,  afferenti  i limiti all'appello
principale ed all'appello incidentale della parte pubblica avverso le
sentenze di condanna conseguenti a giudizio abbreviato.
    In  sintesi,  la  Corte  costituzionale ha sostanzialmente sempre
affermato  che  quelle  limitazioni  erano ragionevoli posto che, per
contro,  vi  era  l'obiettivo  primario  di  una  rapida  e  completa
definizione  dei  processi  svoltisi in primo grado secondo quel rito
alternativo,  rito  che  implicava una decisione fondata, in primis e
per  scelta  dell'imputato,  sul  materiale probatorio raccolto fuori
delle  garanzie  del  contraddittorio  dalla parte che subisce poi la
limitazione (ex plurimis, ord. 421/2001).
    Non sembra esistere pertanto ad oggi un'affermazione/insegnamento
della  Corte  delle  leggi  che  possa  essere invocato per affermare
esservi   gia'   nel   sistema   il  principio  della  conformita'  a
Costituzione  di  una  disparita' di poteri basata sulla mera diversa
qualita' della parte pubblico ministero o imputato.
    Anzi, potrebbe paradossalmente concludersi che, allo stato, vi e'
l'affermazione   di   un   principio   opposto;   perche'  altrimenti
risulterebbero  superflue  e  irrilevanti  le  argomentazioni  finora
utilizzate  dalla  Corte per dare compiuto e specifico conto, appunto
volta  per  volta,  del  peculiare contesto procedimentale che, solo,
rendeva  razionale  la differenziazione sottoposta al suo contingente
esame.
    Approccio  e  fatica  motivazionale che sarebbero stati del tutto
inutili,  ove la mera diversa qualita' (l'uno imputato, l'altro parte
pubblica) avesse, per se', giustificato la disparita' di trattamento.
    6.  -  Tutto  questo spiega perche', per adempiere all'obbligo di
valutazione  che  e'  riservato  a  questo giudice di appello, quello
della  non  manifesta  infondatezza della questione proposta, occorra
verificare   la   sussistenza   di  ragioni  che  rendano  palesi  la
ragionevolezza del nuovo intervento legislativo, laddove ha eliminato
il potere di appello del pubblico ministero, al di fuori del limitato
ed  invero  eccezionale  caso di una prova nuova e decisiva che venga
scoperta  nel  limitatissimo tempo intercorrente tra la deliberazione
della  sentenza  di  proscioglimento  e  la  scadenza del termine per
impugnare.
    6.1 - Sembra a tale scopo corretto e doveroso muovere dalla fonte
costituita  dal  testo  integrale  della  relazione sulla proposta di
legge n. 4604-C, allegata al verbale della seduta 30 gennaio 2006.
    Dando  anche  conto dei rilievi sul punto contenuti nel messaggio
del  Capo  dello  Stato  alle  Camere del 20 gennaio 2006, le ragioni
giustificanti  la  nuova  disciplina  sembrano potersi riassumere nei
seguenti argomenti:
        la giurisprudenza costituzionale;
        la riconducibilita' del solo appello dell'imputato contro una
sentenza  di  condanna  ad un diritto di rilevanza costituzionale (il
diritto di difesa);
        l'impossibilita'   di   riconoscere  dignita'  costituzionale
all'eventuale  intento  di  ottenere  pervicacemente  una sentenza di
condanna  nei confronti di un soggetto gia' riconosciuto innocente al
termine di un processo regolare;
        l'introduzione,   con  la  nuova  legge,  del  principio  del
ragionevole  dubbio come impedimento della sentenza di condanna, e la
conseguente  impossibilita' di negare tale ragionevole dubbio quando,
per  lo stesso fatto e per le stesse prove, l'imputato sia gia' stato
giudicato  innocente  da  un  giudice, specialmente quando la riforma
possa  avvenire  da  parte  di  un giudice di appello che valuta solo
sugli  atti,  a  fronte  di  una sentenza di primo grado emessa da un
giudice in presenza del quale le prove si sono formate.
    La relazione spiega poi che l'eccezione relativa alla prova nuova
sopravvenuta   e'   stata   giustificata  da  «ragioni  di  giustizia
sostanziale»  mentre  il  mantenimento  del  potere  di  impugnare le
sentenze   di   condanna,   da   parte  del  pubblico  ministero,  e'
giustificato  dal fatto che pur con soccombenza parziale la questione
della colpevolezza e' risolta nel senso positivo.
    Orbene,  sui  punti  del  contenuto  attuale della giurisprudenza
costituzionale sulla questione e della mancata costituzionalizzazione
del  doppio grado di giurisdizione di merito per entrambe o anche una
sola delle parti si e' gia' detto.
    Gli  argomenti  sulla  sofferenza che il processo penale impone e
sulle implicazioni del principio dell'«oltre ogni ragionevole dubbio»
provano invece, come suol dirsi, «troppo». E' infatti ben vero che il
processo  penale  e' comunque gia' in se' una sofferenza (anche per i
notevoli  costi economici che impone); ma il sistema previsto ora dal
Legislatore  finisce  con  il  comportare  un  aumento  dei  gradi di
giudizio  ed  un aumento dei suoi costi (di sofferenza e finanziari),
laddove  rispetto  ad una serie «primo grado - appello - cassazione»,
si indica in alternativa quella «primo grado - cassazione - ulteriore
primo grado - appello - cassazione».
    E se fosse condivisibile l'assunto sugli «inevitabili» effetti di
una  prima  assoluzione  in  relazione al nuovo operare del principio
dell'«oltre  ogni  ragionevole  dubbio»,  l'unica  soluzione coerente
sarebbe  quella  di  limitare  ogni ulteriore seguito del processo al
solo  ricorso  in  cassazione  per  violazione di legge, che non puo'
essere evitato solo perche' imposto dal penultimo comma dell'art. 111
Cost.
    Il nuovo sistema, invece, mantiene integra la possibilita' di una
diversa  decisione  di  merito, sulla base delle stesse prove e per i
medesimi   fatti,   solo   modificando   come   visto   il   percorso
procedimentale.
    E'  poi  vero  che  l'attuale  struttura  del giudizio di appello
risente  dell'originaria  incapacita'  del  legislatore  del  1989 di
adeguare  questo  grado  di impugnazione di merito ai mutati principi
del  processo  in  primo grado. Oralita' ed immediatezza per il primo
grado,  tendenzialmente  «carta» per il giudice d'appello (ancorche',
va  opportunamente  evidenziato,  il  problema  si  pone  solo  per i
processi  che  in  primo  grado  sono  stati  celebrati  con  il rito
dibattimentale,  poiche'  per  quelli svoltisi con rito abbreviato il
comune   confronto   con   le   stesse  carte  processuali  priva  di
significativo  rilievo  l'osservazione, sicche' l'osservazione stessa
non ha comunque una valenza generale).
    Si tratta pero' di un'incongruenza strutturale che sussiste anche
nel  caso  di  riforma  con  accoglimento dell'appello dell'imputato,
senza che possa qui invocarsi il principio del favor rei, che attiene
solo  alla  valutazione  della prova e non anche alla possibilita' di
utilizzare   a  proprio  favore  delle  eventuali  disfunzioni  della
procedura, comuni e generalizzate.
    La  discussione  parlamentare  sulla  legge  n. 46/2006  ha  pure
sfiorato  il  dibattito  dottrinale e giurisprudenziale sull'esigenza
della  cosiddetta  «doppia  conforme»:  tesi  per cui non si potrebbe
essere  condannati  se  non  a  seguito  di  due conformi sentenze di
merito,  per dar modo all'imputato di non trovarsi «spiazzato» da una
sentenza  di  condanna  che intervenga per la prima volta in grado di
appello,  quando  pertanto  non  e'  poi piu' possibile controbattere
eventuali  nuovi  apprezzamenti  di  stretto  merito  contenuti nella
sentenza di prima condanna.
    Sul punto deve tuttavia osservarsi:
        a)  che la stessa giurisprudenza di legittimita' che ha posto
il problema ha contestualmente indicato una soluzione tendenzialmente
efficace  (le  memorie  integrative  della motivazione della sentenza
assolutoria,  anche  a  fronte degli argomenti contenuti nell'appello
della parte pubblica; il riferimento e' a Cass. S.U. 45276/2003);
        b)  che  il  nuovo ricorso per cassazione consente alla parte
l'introduzione  nel  giudizio  di  legittimita'  di  valutazioni  che
necessariamente coinvolgono apprezzamenti sull'adeguatezza del quadro
probatorio;
        c)  che  la  soluzione  propugnata  dalla  maggior  parte dei
sostenitori  della  c.d. «doppia conforme» non era tanto l'abolizione
dell'appello  del  pubblico ministero quanto piuttosto l'attribuzione
al  giudice  di appello, che condividesse la fondatezza delle censure
di   merito   contenute   nell'appello   avverso   la   sentenza   di
proscioglimento,  del  potere  di  annullare  quella  prima  sentenza
indicando  al nuovo primo giudice i criteri di valutazione probatoria
pertinenti.  Il  tutto,  si  noti,  con un contestuale indispensabile
intervento sul regime della prescrizione.
    Insomma,   in   tutti   i  casi  si  trattava  di  soluzioni  che
consentivano  la permanenza per entrambe le parti del doppio grado di
apprezzamento del merito e che, cio' che qui rileva, attestavano come
la  soluzione  dell'abolizione  del  potere  di  appello del pubblico
ministero  non  fosse  la soluzione necessitata per salvaguardare gli
interessi della parte privata ritenuti meritevoli di ulteriore tutela
nella discrezionalita' legislativa.
    Da  ultimo, nel medesimo dibattito parlamentare si e' indicata la
ritenuta   positiva   conseguenza   della  riduzione  dei  tempi  del
procedimento  penale,  affermandosi  che  l'abolizione  del  grado di
appello,  consentendo  una piu' ravvicinata conclusione del processo,
rispondesse  anche  al  principio  di  ragionevole  durata. Sul punto
tuttavia  deve  richiamarsi  l'osservazione  gia' svolta: in realta',
avendo  lasciato  al  pubblico ministero la possibilita' di ricorrere
per cassazione, e con un ricorso «allargato», i tempi complessivi del
processo  di  fatto  dovrebbero  allungarsi, specialmente nei casi di
accoglimento  del  ricorso  con  conseguente ripresa del processo dal
nuovo giudizio di primo grado.
    6.2  -  Giudica  allora  questa Corte distrettuale veneta che dal
dibattito  parlamentare non emergano ragioni sistematiche che possano
costituire   evidenti   argomenti   a   favore  della  ragionevolezza
dell'esclusione  del potere di appello del pubblico ministero avverso
le sentenze di proscioglimento.
    Ed  e'  tale  aspetto  che  induce  questa  Corte  serenissima  a
valorizzare  e  riconsiderare  il  senso  ultimo  del  messaggio  del
Presidente della Repubblica alle Camere.
    Non   e'  infatti  tanto  la  forte  contrazione  del  potere  di
impugnazione  del  pubblico  ministero,  in  se'  e per se', che pone
problemi    di    costituzionalita'.   Sono   la   disorganicita'   e
l'asistematicita'   della   riforma   approvata   che  finiscono  con
l'incidere  sulla mancanza di evidente ragionevolezza della soluzione
radicalmente  discriminatoria  adottata, impedendo di individuare con
immediata   evidenza   un   equilibrato,  ponderato  e  «ragionevole»
regolamento   degli   interessi   contrapposti.   Tali   sono  quello
dell'imputato   a   difendersi   e   non  essere  «pervicacemente»  e
inutilmente  sottoposto  al  peso del processo, ma anche quello della
collettivita'  e  della  vittima  del reato - il cui stesso potere ex
art. 572   c.p.p.   risulta  corrispondentemente  e  sintomaticamente
vanificato  -  al  perseguimento di una decisione finale che elida il
piu'  possibile  la  «forbice»  tra  verita'  processuale  e  verita'
sostanziale,  in  un contesto di ragionevole durata ed efficienza del
processo,  esso  stesso  autonomamente  bene di rango costituzionale,
come  piu'  volte insegnato dalla Corte delle leggi (per tutte, sent.
n. 353 del 1996).
    Ne'  si  ritiene di poter individuare nel contesto normativo piu'
recente   ragioni   sistematiche  a  sostegno  di  questo  differente
trattamento.   Paradossalmente   potrebbe   affermarsi  che  vi  sono
indicazioni normative in senso contrario:
        a)  con  la  legge  n. 251 del 2005, ed in particolare con le
modifiche  agli  artt. 157,  160  e  161  c.p.,  sono stati ridotti i
termini della prescrizione per numerosi reati della «fascia» con pena
temporalmente   intermedia,   il   che   riduce   obiettivamente   la
possibilita'  di giungere ad una sentenza definitiva di merito, e non
in rito, all'esito del percorso previsto ora dal Legislatore nel caso
di  un'impugnazione  del  pubblico  ministero, avverso la sentenza di
proscioglimento, che risulti fondata;
        b)  se  il  Legislatore  intendeva perseguire la regola, o la
ratio,  della  «doppia conforme», sarebbe priva di giustificazione la
permanente  possibilita' che, attraverso l'operativita' dell'art. 580
c.p.p.,  possa  tuttora  verificarsi  il  caso  di  una  condanna che
intervenga  per la prima volta in grado di appello, quando ad esempio
di due coimputati nel medesimo reato uno sia stato prosciolto e venga
fatto  oggetto  del  ricorso  in  cassazione  del pubblico ministero,
l'altro  sia stato condannato e abbia proposto appello, se il giudice
di  appello  ritenesse  fondato il motivo del ricorso originariamente
proposto  dalla  parte  pubblica.  In  tal caso, in altri termini, la
possibilita'  o  meno  di  avere una doppia pronuncia di merito sulla
condanna dipenderebbe dalle autonome scelte del coimputato; a maggior
ragione  ove  si  dovesse  ritenere tuttora possibile l'appello della
parte  civile  (o  quando,  piu' adeguatamente, questo dovesse essere
reintrodotto   dall'eventuale  dichiarazione  di  incostituzionalita'
dell'avvenuta  esclusione  del relativo potere); cio', in un contesto
processuale  complessivo  dove  la  separazione  delle  posizioni dei
coimputati,   per  scelte  meramente  procedurali  discrezionali  dei
singoli, e' ormai la regola generalizzata;
        c)  si e' abolito il potere di appello del pubblico ministero
per   le   sentenze  penali  del  giudice  di  pace  (e  tuttavia,  e
significativamente    quanto   alla   disorganicita'   dell'approccio
legislativo,  solo  a  seguito  del rilievo del Capo dello Stato), ma
contestualmente  con  altra recentissima norma (artt. 26 e 27, d.lgs.
n. 40/2006) il Legislatore ha introdotto con la modifica dell'art. 23
della legge n. 689/1981 il doppio grado di merito avverso le sentenze
del  giudice  di  pace  in materia di sanzioni amministrative, con la
conseguenza   obiettivamente  singolare,  sul  piano  della  coerenza
sistematica  e dei valori del sistema giurisdizionale, che mentre nel
caso  di  illecito  penale  la  parte pubblica (li' il p.m.) non puo'
chiedere   il  secondo  giudizio  di  merito,  cio'  puo'  fare  (qui
l'Amministrazione) nei casi di illeciti depenalizzati;
        d)  non  sembra  poi estranea al tema della ragionevolezza la
considerazione  del fatto che i processi di primo grado sono oggi per
la  maggior  parte  attribuiti  al giudice monocratico; il piu' delle
volte  in  udienza  non vi e' il pubblico ministero che ha deciso per
l'esercizio  dell'azione  penale;  spesso  giudicante  e  o  pubblico
ministero  di udienza sono magistrati onorari; nei processi per reati
di competenza della corte d'assise (dove frequentemente l'alternativa
decisionale  e'  tra l'assoluzione e la condanna a pena elevatissima)
il  rito  abbreviato  si svolge davanti ad un giudice monocratico che
giudica  sulle  carte. E' vero che si tratta di situazioni che per lo
piu'  attengono ad un contesto di fatto; ma l'efficienza del processo
(rispetto   agli   scopi   che   ad  esso  attribuiscono  i  principi
costituzionali) e' stata piu' volte riconosciuta bene costituzionale,
mentre  il  contesto  concreto  in cui la giustizia e' amministrata e
realizzata  non  pare francamente possa costituire aspetto totalmente
estraneo  alla  ragionevolezza delle scelte legislative (non parrebbe
ardito  richiamare  qui, per esemplificare il senso dell'osservazione
che   precede,  la  relazione  tra  il  primo  ed  il  secondo  comma
dell'art. 3 Cost.);
        e)  da  ultimo,  sembrerebbe  che  la  stessa recente Riforma
dell'Ordinamento  giudiziario  guardi  obiettivamente  con sfavore al
giudice  che  esercita  le funzioni in primo grado, avendogli inibito
ogni   possibilita'   di   accesso   diretto   a  qualsiasi  incarico
semidirettivo e direttivo.
    7. - Orbene, quando il parametro della valutazione di conformita'
ai   principi   ed   alle   norme   costituzionali  e'  quello  della
ragionevolezza,  individuare  il  punto  che  separa  la legittimita'
(appunto  la  conformita'  alla  Costituzione)  dall'apprezzamento di
merito  (estrinsecazione  del  potere di discrezionalita' proprio del
Legislatore)   e'   istituzionalmente   delicato   e   oggettivamente
difficile.
    Sul contenuto del giudizio di ragionevolezza ai sensi dell'art. 3
Cost.  e' certamente prezioso l'insegnamento contenuto nella sentenza
della  Corte  costituzionale n. 89 del 1996, secondo cui «la disamina
della  conformita'  di  una  norma  a quel principio deve svilupparsi
secondo   un   modello   dinamico,  incentrandosi  sul  «perche»  una
determinata  disciplina  operi,  all'interno  del tessuto egualitario
dell'ordinamento,  quella  specifica  distinzione, e quindi trarne le
debite  conclusioni in punto di corretto uso del potere normativo. Il
giudizio  di  eguaglianza,  pertanto,  ...  e'  in se' un giudizio di
ragionevolezza,  vale  a  dire un apprezzamento di conformita' tra la
regola  introdotta  e la «causa» normativa che la deve assistere: ove
la  disciplina  positiva  si discosti dalla funzione che la stessa e'
chiamata  a  svolgere  nel  sistema  e  ometta, quindi, di operare il
doveroso   bilanciamento   dei   valori  che  in  concreto  risultano
coinvolti,  sara'  la  stessa  «ragione»  della  norma  a venir meno,
introducendo  una  selezione  di  regime  giuridico  priva  di  causa
giustificativa   e,   dunque,   fondata   su  scelte  arbitrarie  che
ineluttabilmente  perturbano il canone dell'eguaglianza». E quanto in
particolare  alle  soluzioni  normative  che  introducono  differenti
trattamenti  «non  puo' quindi venire in discorso, agli effetti di un
ipotetico  contrasto  con  il  canone  della  eguaglianza,  qualsiasi
incoerenza,  disarmonia  o  contraddittorieta'  che  una  determinata
previsione  normativa  possa,  sotto  alcuni  profili  o  per  talune
conseguenze,  lasciar  trasparire,  giacche',  ove  cosi'  fosse,  al
controllo  di  legittimita'  costituzionale verrebbe impropriamente a
sovrapporsi  una verifica di opportunita', per di piu' condotta sulla
base  di  un  etereo  parametro  di  giustizia  ed  equita',  al  cui
fondamento  sta  una  composita  selezione di valori che non spetta a
questa  Corte  operare.  Norma  inopportuna  e norma illegittima sono
pertanto   due  concetti  che  non  si  sovrappongono,  dovendosi  il
sindacato  arrestare  in presenza di una riscontrata correlazione tra
precetto e scopo che consenta di rinvenire, nella "causa" o "ragione"
della  disciplina, l'espressione di una libera scelta che soltanto il
legislatore e' abilitato a compiere».
    Proprio  la  «delicatezza  istituzionale» della valutazione sulla
sussistenza  di  un  contesto di ragionevolezza, che renda conforme a
Costituzione  l'abolizione per una sola delle parti processuali della
possibilita'  di  appellare  la  sentenza  che ha respinto la propria
domanda,  tenuto  conto del principio della parita' tendenziale delle
parti  nel  processo  (principio  che  va  necessariamente inteso con
riferimento  alla pronuncia finale-conclusiva sulla propria domanda),
impone  al  giudice  ordinario  di limitarsi strettamente all'aspetto
dell'eventuale manifesta infondatezza della questione proposta.
    Giudica  in  proposito  e  conclusivamente  questa Corte d'assise
d'appello, nella pienezza della sua espressione collegiale, che:
        I)  non  si  rinvenga allo stato la possibilita' di sussumere
nella  precedente  giunsprudenza  della Corte costituzionale - tenuto
conto  dei  casi,  dei contesti procedimentali e delle argomentazioni
che  hanno sostenuto le varie decisioni - la «copertura» della scelta
fatta dal Legislatore;
        II)  non si rinvengano nelle argomentazioni addotte nel corso
del  dibattito  parlamentare  assorbenti  considerazioni univocamente
attestanti tale ragionevolezza;
        III)  non  si  rinvengano,  dall'esame intrinseco della nuova
normativa ed alla luce degli orientamenti dell'ultima legislazione in
qualche  modo  utilizzabili  come  manifestazione di scelte di valore
sistematicamente   rilevanti,   autonome   considerazioni   per   se'
manifestazione della ragionevolezza.
    E'  quindi  indispensabile  sottoporre  la  questione  alla Corte
costituzionale, perche' esprima quel giudizio sulla ragionevolezza di
questa  nuova,  diversa  e  radicale  discriminazione  tra  i  poteri
attribuiti alle parti, che la Costituzione le riserva.
    Va pertanto dichiarata, oltre che rilevante nel presente giudizio
per   quanto  prima  argomentato,  non  manifestamente  infondata  la
questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 593,  primo  e
secondo comma, nel testo introdotto dall'art. 1 della legge n. 46 del
20  febbraio  2006,  nella  parte  in  cui non consente l'appello del
pubblico   ministero  contro  le  sentenze  di  proscioglimento,  con
riferimento  agli  artt. 3  e  111.2 Cost., anche nei casi diversi da
quello solo previsto dal secondo comma.
    La  soluzione  richiesta  alla  Corte delle leggi appare priva di
alcun  contenuto  discrezionale, ed imposta dal sistema: ove la Corte
adita  dovesse  ritenere  l'irragionevolezza dell'attuale disciplina,
sembra  infatti imporsi l'integrale ripristino del precedente potere,
libero  poi  rimanendo  il  Legislatore  di intervenire con ulteriori
modifiche rispondenti a ragionevolezza sistematica.
    Valutera'  eventualmente  la  Corte  adita  le implicazioni della
proposta  questione  di legittimita' costituzionale, sulla disciplina
transitoria  di cui all'art. 10 commi 1 e 2, nella parte in cui rende
applicabile  ai  processi  in  corso  la  nuova  disciplina, ai sensi
dell'art. 27, seconda parte, legge 11 marzo 1953, n. 87.
    Devono  essere  adottati  i  provvedimenti  ordinatori  di cui al
dispositivo.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge n. 87 dell'11 marzo 1953.
    Dichiara  rilevante  nel  presente  giudizio e non manifestamente
infondata  la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 593,
primo  e secondo comma c.p.p., nel testo modificato dall'art. 1 della
legge n. 46 del 20 febbraio 2006, in riferimento agli artt. 3 e 111.2
Cost.,  nella  parte  in  cui  non  consente  l'appello  del pubblico
ministero  contro  le  sentenze  di  proscioglimento,  anche nei casi
diversi da quello solo previsto dal secondo comma.
    Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla  Corte
costituzionale.
    Sospende il presente processo.
    Ordina  che, a cura della cancelleria, l'ordinanza sia notificata
all'imputato  contumace,  al  Presidente del Consiglio dei ministri e
comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
    Letta in pubblica udienza, alla presenza del procuratore generale
e del difensore dell'imputato.
        Venezia-Mestre, aula bunker, addi' 20 marzo 2006
                        Il Presidente: Lanza
                               Il consigliere estensore: Citterio
06C0480