N. 246 ORDINANZA (Atto di promovimento) 17 marzo 2006

Ordinanza  emessa  il  17 marzo 2006 dalla Corte di appello di Torino
nel procedimento penale a carico di Arione Bruno ed altro

Processo penale - Appello - Modifiche normative - Possibilita' per il
  pubblico  ministero  di  proporre  appello  contro  le  sentenze di
  proscioglimento  -  Preclusione - Applicabilita' ai procedimenti in
  corso  -  Contrasto con il principio di ragionevolezza - Violazione
  del principio di parita' delle parti nel processo.
- Codice  di  procedura penale, art. 593, come modificato dall'art. 1
  della legge 20 febbraio 2006, n. 46; legge 20 febbraio 2006, n. 46,
  art. 10.
- Costituzione, artt. 3 e 111.
(GU n.29 del 19-7-2006 )
                         LA CORTE D'APPELLO

    Nel  procedimento  a  carico  di Arione Bruno e Terracini Davide,
giudicati  con sentenza del Tribunale di Pinerolo in data 11 febbraio
2004  e  in  tale  sede  assolti  dai  reati rispettivamente ascritti
perche' il fatto non sussiste o non costituisce reato;
    Preso  atto  che  avverso  tale sentenza ha presentato tempestivo
appello  il  Procuratore  della Repubblica di Pinerolo, chiedendo che
gli  imputati  siano  dichiarati  colpevoli dei reati loro ascritti e
condannati  alle  pene  di  legge, non richiedendo la riassunzione di
prove ex art. 603 c.p.p.
    Preso  atto che hanno presentato (in via ordinaria o incidentale)
appello anche gli imputati Arione e Terracini, chiedendo che la Corte
d'appello  modifichi  la  formula  di  proscioglimento  del fatto non
costituisce  reato con quella dell'insussistenza del fatto, anch'essi
non  richiedendo  la  riassunzione  di  prove  ex art. 603 c.p.p., ha
emesso la seguente ordinanza.
    La  Corte  si  trova a dare applicazione alla recente legge n. 46
del  20  febbraio  2006,  entrata  in  vigore  il 9 marzo 2006 che ha
modificato  l'art. 593 c.p.p. nel senso di precludere in ogni caso al
p.m.  e all'imputato l'appello avverso sentenze di proscioglimento, a
meno  di  aver  richiesto  l'assunzione  di  una prova che il giudice
reputi  decisiva  (situazione  questa  non  verificatasi nel presente
processo).
    La  norma  transitoria  di  cui  all'art. 10 della predetta legge
impone  al  giudice,  innanzi al quale pende l'appello proposto prima
dell'entrata  in  vigore  della  novella,  di  emettere ordinanza non
impugnabile con la quale dichiara l'inammissibilita' dell'appello.
    Pertanto  la  normativa  in  questione  e' direttamente rilevante
nella  presente  fase  che vede gli imputati assolti in primo grado a
seguito  di  giudizio  ordinario e citati a giudizio innanzi a questa
Corte  a  seguito di appello presentato dal p.m. e a seguito del loro
appello per ottenere una formula piu' liberatoria.
    Appare  del  tutto  evidente  la non manifesta infondatezza della
normativa   in  questione  per  violazione  dell'art. 111  Cost.  con
riferimento all'inammissibilita' dell'appello da parte del p.m.
    La  Costituzione enuncia i principi generali cui deve conformarsi
la  normativa  che  disciplina  il  processo in Italia, stabilendo al
secondo   comma   dell'art. 111,   che  il  processo  si  svolge  nel
contraddittorio  delle  parti,  in  condizioni  di parita', davanti a
giudice terzo ed imparziale e che la legge ne assicura la ragionevole
durata.
    La  condizione di parita' che deve essere riconosciuta alle parti
dalla  legge  processuale  non  puo'  intendersi  limitata  alla mera
istruzione   probatoria   (parita'   nel   contraddittorio)  ma  deve
intendersi  in senso lato e ampio, giacche' sarebbe allora ridondante
la  previsione specifica di cui al quarto comma medesimo art. 111, ed
inoltre  perche'  il  medesimo secondo comma prescrive che il giudice
sia  terzo ed imparziale e cio' non puo' evidentemente limitarsi alla
fase  dell'acquisizione  della  prova ma deve estendersi al complesso
delle  funzioni  giurisdizionali  esercitate  nel processo, prima fra
tutte quella della valutazione delle prove e della decisione.
    Per  processo  la  Costituzione intende l'intero iter che conduce
dalla  domanda  iniziale  (civile)  o dalla notizia di reato (penale)
fino alla sentenza definitiva che appunto chiude la, controversia (si
veda testualmente l'art. 24.2).
    Poiche'  nel  processo agiscono parti fisiologicamente portatrici
di interessi contrapposti, l'art. 111 Cost. disciplina dunque come la
legge  ordinaria  deve  regolamentare l'attribuzione alle parti delle
facolta'  per  far valere ed eventualmente farsi vedere accogliere le
loro  pretese. Nel processo penale il p.m. esercita, fra le altre, la
pretesa  punitiva  che  e'  ricollegata  al  principio costituzionale
dell'obbligatorieta'  dell'azione  penale,  pretesa  che consiste nel
vedere  affermata  la  responsabilita'  penale  di  chi, sottoposto a
regolare processo, sia riconosciuto colpevole. Nell'esercizio di tale
pretesa  e'  stata riconosciuta dalla Corte costituzionale al p.m. la
funzione  di  organo  teso  a realizzare gli interessi generali della
giustizia.
    L'imputato   esercita   invece   la  pretesa,  costituzionalmente
garantita  dal principio di personalita' nella responsabilita' penale
e  da  quello  di  irretroattivita'  della  legge  penale, di vedersi
riconosciuto   innocente,   attraverso   gli  strumenti  -  anch'essi
rafforzati  dalla previsione della Carta - della difesa assicurata in
ogni  stato  e  grado del procedimento anche ai non abbienti, fino al
riconoscimento del diritto alla riparazione degli errori giudiziari.
    La  legge  n. 46/2006  ha  abolito  le facolta' di appello per le
parti  a fronte delle sentenze di proscioglimento emesse a seguito di
giudizio ordinario o abbreviato: cio' significa per il p.m. non poter
piu'  impugnare decisioni che lo vedono soccombente rispetto alla sua
fondamentale  pretesa  nel  processo,  cioe' quella di vedere punito,
quale   finale  conseguenza  dell'esercizio  dell'azione  penale,  il
responsabile di un reato, tale ritenuto secondo un regolare processo.
    L'imputato  con  la riforma, invece, rimane pienamente titolare -
in  virtu' del principio costituzionale del diritto alla difesa - del
potere   di  impugnare  la  decisione  giurisdizionale  che  lo  vede
soccombente rispetto sua pretesa di vedersi riconosciuto innocente.
    E'  evidente  che la riforma sottrae solo ad una parte (p.m.) uno
strumento  processuale  per  vedere  affermata  nel  giudizio  la sua
fondamentale  pretesa,  che trova legittimazione costituzionale cosi'
come quella dell'imputato.
    Cio'  viola  direttamente  il  principio  sancito dall'art. 111.2
Cost.  che  prevede  che  il  processo  (in  tale  dizione ricompresi
indifferentemente  quello  civile  e  quello  penale)  si  svolga  in
condizione  di  parita' di tutte le parti, cioe' in una condizione di
diritto  che assicuri a ciascun soggetto processuale eguali strumenti
per raggiungere gli obiettivi suoi propri.
    Lo  squilibrio  fra  le  parti  creato  dalla  riforma non appare
ragionevolmente  accettabile  tenendo conto dei criteri che la stessa
Corte costituzionale ha piu' volte ribadito.
    Si  e'  detto  infatti che se e' vero che non esiste una perfetta
simmetria  ed  equivalenza  costituzionale  fra esercizio dell'azione
penale  e  diritto  alla  difesa,  e'  altrettanto  vero  che sarebbe
censurabile  sotto il profilo della ragionevolezza la legge ordinaria
che,  sbilanciando  fra di loro le facolta' attribuite alle parti del
processo,   rendesse   di   fatto   il   potere   del  p.m.  inidoneo
all'assolvimento del compito che gli assegna l'art. 112 Cost.
    Con  la  legge  46/2006,  il legislatore ha di fatto sottratto al
p.m.  il  fondamentale  strumento  del  nuovo  giudizio di merito per
vedere  riconosciuta la fondatezza della sua pretesa punitiva, mentre
ha  lasciato  tale strumento alla difesa ai fini della sua pretesa di
veder riconosciuta l'innocenza dell'imputato.
    Nella nostra Costituzione non e' prevista la indispensabilita' di
un   secondo   giudizio   di   merito;  ma,  si  e'  osservato,  essa
discenderebbe   dall'art. 2   del  VII  Protocollo  addizionale  alla
Convenzione  europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo che al
suo  primo  comma sancisce il diritto di «ogni persona dichiarata rea
da un tribunale ... di far esaminare la dichiarazione di colpevolezza
o  la  condanna  da  un  tribunale  della  giurisdizione  superiore»;
senonche'  e'  quella  stessa fonte internazionale a prevedere che un
secondo  grado  di merito sia fisiologicamente ammesso anche a favore
dell'accusa,  se  e'  vero che il secondo comma del medesimo articolo
prevede  esplicitaniente la condizione di chi sia stato condannato «a
seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento».
    E' pur vero che la medesima riforma restringe rispetto al passato
i  casi  di appellabilita' delle sentenze di proscioglimento da parte
dell'imputato  (nel  senso  di  escludere  oggi  l'appellabilita'  di
sentenze di proscioglimento perche' il fatto non costituisce reato, o
perche' non e' punibile o perche' non e' procedibile, fattispecie che
si  verifica  proprio nel presente processo ove entrambi gli imputati
hanno proposto appello contro la sentenza del Tribunale di Pinerolo),
ma  e'  del  tutto  evidente che tale restringimento non opera con la
stessa  ampiezza e radicalita' utilizzate per escludere tout court il
potere   d'appello   del   p.m.   innanzi  a  qualunque  sentenza  di
proscioglimento.
    E'  altrettanto  vero  che altre riforme hanno gia' nel corso del
tempo  ristretto  le  facolta' processuali del p.m. rispetto a quelle
riconosciute all'imputato e che tali riforme hanno superato il vaglio
di  costituzionalita'  della  Corte:  e' qui il caso di richiamare la
formulazione  dell'art. 443.3  c.p.p. (che esclude la possibilita' di
appello  da  parte  del p.m. della sentenza di condanna pronunciata a
seguito   di   giudizio  abbreviato  anche  dopo  l'eliminazione  del
presupposto  del  consenso  del  p.m.  al  rito ex legge n. 479/1999)
ritenuta  in  linea con la riforma costituzionale dell'art. 111 dalla
Corte cost. con ordinanza 421/2001.
    Ma  i  motivi che la Corte aveva posto a fondamento della propria
pronuncia non appaiono estensibili anche alla riforma attuale.
    Nel confermare che la Costituzione, prevedendo la parita' di p.m.
e  imputato nel processo, non intende attribuire loro necessariamente
identita'  di  poteri  processuali,  la  Corte  ha pero' ribadito che
un'eventuale  disparita'  di  trattamento  si  giustifica  e discende
ragionevolmente  dalla  peculiare  posizione  istituzionale  del p.m.
dalle   esigenze   connesse   alla   corretta  amministrazione  della
giustizia,  prima  fra tutte quella costituzionalmente prevista della
ragionevole durata del processo che, proprio nel giudizio abbreviato,
trova   attuazione   nel  senso  di  semplificare  l'istruttoria  con
l'utilizzo  immediato  di  tutto il materiale probatorio raccolto dal
p.m. senza il contraddittorio cui esplicitamente l'imputato rinuncia.
Ed  e'  allora proprio la rinuncia da parte dell'imputato ad un altro
dei  principi cardine del giusto processo - (il contraddittorio nella
raccolta  delle  prove)  a giustificare l'asimmetria che l'art. 443.3
c.p.p.  produce  nel  sottrarre  al  p.m. la facolta' di appellare la
sentenza di condanna a seguito di abbreviato.
    Alle  considerazioni gia' svolte dalla Corte puo' aggiungersi poi
la  constatazione che il restringimento delle facolta' di appello per
il  p.m.  in  caso  di  abbreviato  aveva pur sempre come presupposto
l'avvenuta  pronuncia  di  una  sentenza di condanna, che comunque e'
realizzazione del principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale.
    Totalmente  differente e' la situazione di diritto in cui si cala
la riforma di cui al legge n. 46/2006.
    Innanzi  tutto  qui  al  p.m.  e'  sottratta  la  possibilita' di
appellare contro sentenze di proscioglimento dell'imputato, decisioni
che costituiscono la radicale negazione della pretesa punitiva da lui
impersonata per conto dello Stato. Nell'ipotesi di cui all'art. 443.3
c.p.p.,  egli  si  era  invece  solo visto frustrare nella pretesa di
vedere  accolta  la  sua  richiesta  di quantificazione della pena da
comminare  al  reo,  che non e' pretesa di rango costituzionale e che
dunque  puo'  ben  soccombere  innanzi all'esigenza costituzionale di
brevita' del processo.
    In  secondo luogo la riforma si applica indifferentemente a tutti
i tipi di giudizio (abbreviato o ordinario che siano e persino contro
le   sentenze  emesse  ex  art. 428  c.p.p.,  laddove  il  patrimonio
probatorio  valutabile non e' neppure definitivamente stabilizzato ed
e' solo prospetticamente valutato).
    Non  vi e' alcuna giustificazione della nuova asimmetria, dunque,
riconnessa   a  istituti  deflattivi  in  cui  rinunce  dell'imputato
comportino   il   risultato   apprezzabile  della  definizione,  piu'
sollecita del processo.
    E' anche vero che una parte della dottrina processual-penalistica
ha  da  tempo  auspicato  il  superamento  del  principio di perfetta
parita'   delle   parti   nel   processo,  riconoscendo  ill'imputato
condannato  in primo grado sempre il diritto a veder la sua posizione
rivalutata  da un tribunale di seconda istanza e ritenendo invece che
la  pretesa  punitiva  dello  Stato,  esercitata con l'azione penale,
possa  arrestarsi  davanti  alla sentenza di primo grado; lo ha fatto
sottolineando  come  la  sentenza  di  primo grado sia ordinariamente
frutto  della  diretta  raccolta  da parte del giudice delle prove in
contraddittorio  mentre  quella d'appello e' il risultato di una mera
verifica critica degli atti gia' raccolti e tenendo anche in conto il
nuovo  precetto costituzionale della ragionevole durata del processo.
Tale   orientamento  troverebbe  giustificazione  nel  diverso  ruolo
esercitato nel processo dal pubblico ministero (parte pubblica dotata
di  potere)  rispetto  all'imputato  (soggetto privato che subisce il
processo),   secondo   quella  stessa  sottolineatura  che  la  Corte
costituzionale aveva fatto nella sua ordinanza. 421/2001 citata.
      Senonche'  tale  auspicata  riforma  non pare trovare copertura
costituzionale      nell'attuale     formulazione     dell'art. 111.2
Costituzione:  non  vi  e'  dubbio,  infatti,  che qui il legislatore
costituzionale   abbia   ricompreso  nella  direzione  di  parti  del
processo,  cui  va  riconosciuta  in  generale condizione di parita',
anche  il p.m. organo cui spetta fisiologicamente nel processo penale
l'onere di provare il thema decidendum; aver contestualmente previsto
da  parte  dello  stesso legislatore costituzionale, nei commi 3 e 4,
una  serie  di regole di garanzia riguardanti unicamente la posizione
dell'imputato (ragionevole durata del processo, infonnativa sollecita
delle  indagini,  effettivo esercizio del diritto di difesa che trova
oggi   attuazionie   anche   nel   potere   di   indagine  difensiva,
inutilizzabilita'  di accuse non confermate nel contraddittorio) pare
dare  gia'  risposta  adeguata,  nel presente assetto costituzionale,
alle allegate esigenze di riequilibrio fra i diversi poteri posseduti
nel processo da p.m. e imputato.
    Altro  argomento  che rafforza il convincimento della Corte circa
l'incostituzionalita' della nuova disciplina sta nella ingiustificata
disparita'  di  trattamento  che penalizzerebbe il p.m. nei confronti
della parte civile impedendogli il mezzo di impugnazione dell'appello
quando  invece  questo  e'  conservato  dalla  novella  per  la parte
privata:  la  riforma,  al  suo art. 6, ha soppresso l'inciso «con il
mezzo  previsto  per  il  pubblico ministero» gia' contenuto nel teto
dell'art. 576 c.p.p. e cio' non esclude la parte civile dal potere di
appello,  se  e'  vero  che  la stessa riforma non modifica l'art. 75
c.p.p.  che stabilisce il principio del trasferimento dell'azione dal
processo  civile  a  quello  penale  (conservando dunque gli istituti
processual  civilistici  fra  cui  appunto  l'appello) e non modifica
neppure  l'art. 600  c.p.p.  che  consente  alla  parte civile di far
valere  davanti  alla  Corte d'appello un subprocedimento che e' mera
anticipazione del giudizio di merito.
    D'altra  parte  la  riforma,  sopprimendo  l'inciso «con il mezzo
previsto  per  il pubblico ministero» ha inteso cosi' rispondere alla
osservazione  critica  formulata  dal Presidente della Repubblica nel
suo  rinvio  alle  Camere  del  testo  originario  che  aveva appunto
lamentato  la  compressione dei diritti della parte lesa; e dunque va
senz'altro  riconosciuto  che  il Legislatore abbia inteso conservare
con la riforma alla parte civile il potere di impugnare nel merito le
sentenze di primo grado.
    Dunque: secondo la riforma, l'organo privato d'accusa si vedrebbe
riconoscere   poteri  di  impugnazione  maggiori  rispetto  a  quelli
assegnati    all'organo   pubblico   di   accusa.   Cio'   lede   per
irragionevolezza  il  criterio  di  parita'  delle parti nel processo
giacche'   non   e'   dato   comprendere  perche'  dovrebbero  essere
maggiormente  garantiti  i  diritti  al risarcimento dei danni di una
parte   privata   rispetto   a  quelli  vantati  dalla  collettivita'
attraverso  la  pretesa  punitiva  dello Stato esercitata dal p.m. in
quanto   organo  teso  a  realizzare  gli  interessi  generali  della
giustizia.
    Infine,  e'  stato  detto  che  la  medesima,  legge  n. 46/2006,
modificando la formula di condanna con l'introduzione del presupposto
del  non  travalicamento  del  ragionevole  dubbio,  avrebbe di fatto
spostato  la  prospettiva  di azione costituzionale del p.m. il quale
oggi,  anche  in  base al principio di non colpevolezza dell'imputata
fino alla sentenza definitiva di condanna, dovrebbe prendere atto che
una  sentenza di proscioglimento pronunciata in primo grado e' di per
se'  rappresentativa  di  quel ragionevole dubbio che ne impedisce un
ribaltamento in forma di condanna.
    La  Corte non condivide tale impostazione: la stessa Costituzione
all'art. 111  stabilisce  che  tutti  i provvedimenti giurisdizionali
devono  essere  motivati,  e in cio' il nostro sistema processuale si
differenzia  nettamente  da quello anglosassone. Cio' comporta che la
portata  delle decisioni giurisdizionali non possa essere limitata al
mero  dispositivo,  ma  che  esso  valga solo in quanto supportato da
adeguata   motivazione.   Sicche'  il  significato  del  concetto  di
ragionevole  dubbio  non puo' discendere automaticamente dal semplice
dictum   della  sentenza  di  primo  grado  ma  deve  necessariamente
articolarsi  e  confrontarsi  con  l'apparato  argomentativo  che  la
sorregge.  Il  che  significa  proprio  riconoscere  piena ed attuale
dignita' alla pretesa del p.m. di vedere quell'apparato argomentativo
sottoposto  ad  un  nuovo  esame  di  merito  da  parte di un giudice
superiore.
    La  presunzione  di  non  colpevolezza  dell'imputato  e'  infine
concetto  che non confligge affatto con tale impostazione giacche' la
pretesa di essere ritenuto innocente fino al giudicato (pronunciato a
seguito  di  regolare  processo)  non sottrae affatto di per se' alla
verifica circa la condivisibilita' o meno della decisione assunta dal
giudice di primo grado.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara  rilevante e non mamfestamente infondata la questione di
legittimita'  costituzionale  degli  articoli 593  c.p.p., cosi' come
modificato  dall'art. 1  della  legge  20  febbraio 2006, n. 46) e 10
della  medesima legge per violazione degli artt. 3 e 111 Costituzione
nei termini e per i motivi esposti.
    Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla  Corte
costituzionale,  sospende  il  giudizio  in  corso  e  i  termini  di
prescrizione del reato.
    Ordina  che  a  cura  della cancelleria la presente ordinanza sia
notificata  al Presidente del Consiglio dei ninistri e sia comunicata
ai   Presidenti   della  Camera  dei  deputati  e  del  Senato  della
Repubblica.
        Torino, addi' 17 marzo 2006
                        Il Presidente: Witzel
06C0643