N. 256 ORDINANZA (Atto di promovimento) 6 aprile 2006

Ordinanza  emessa  il 6 aprile 2006 dalla Corte di appello di Catania
nel procedimento penale a carico di Gangi Gaetano

Processo penale - Appello - Modifiche normative - Possibilita' per il
  pubblico  ministero  di  proporre  appello  contro  le  sentenze di
  proscioglimento  -  Preclusione  -  Contrasto  con  il principio di
  ragionevolezza  - Violazione del principio di parita' delle parti -
  Disparita'  di  trattamento tra pubblico ministero e parte civile -
  Violazione  del  principio  della ragionevole durata del processo -
  Lesione del principio di obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione
  penale.
- Codice  di  procedura  penale,  art. 593,  comma 2, come modificato
  dall'art. 1  della legge 20 febbraio 2006, n. 46; legge 20 febbraio
  2006, n. 46, art. 10.
- Costituzione, artt. 3, 111 e 112.
(GU n.34 del 23-8-2006 )
                         LA CORTE DI APPELLO

    Riunita  in  Camera  di consiglio ha emesso le seguente ordinanza
nel procedimento penale n. 3460/99 R. G. contro Gangi Gaetano, nato a
S.  Giovanni  La  Punta  l'8  agosto 1959, nei cui confronti e' stato
proposto appello dal p.m. a seguito di assoluzione in primo grado.
    1.  -  Il  procuratore  generale ha, preliminarmente, eccepito il
vizio  di  legittimita' costituzionale dell'art. 593, comma 2 c.p.p.,
come sostituito dall'art. 1, legge 20 febbraio 2006, n. 46, e art. 10
della medesima legge nella parte in cui introducono limiti e cause di
inammissibilita'   dell'atto   di  appello  avverso  le  sentenze  di
proscioglimento anche in riferimento ai processi in corso.
    Il difensore ha chiesto l'inammissibilita' dell'atto di appello.
    2. - Osserva, in antis, questa Corte che il principio del «doppio
grado  di  giurisdizione»  non  ritrae  la  sua  fonte da convenzioni
internazionali (con riferimento all'art. 2 del protocollo addizionale
n. 7  della  Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali, di Strasburgo), poiche' «non
legittima  una  interpretazione  per  cui  il riesame, ad opera di un
tribunale superiore, debba coincidere con un giudizio di merito». Ne'
lo  soccorre  la pretesa costituzionalizzazione derivante dall'art. 2
prot.   cit.,   atteso   che   il  richiamo  alle  norme  di  diritto
internazionale  generalmente conosciute - operato dall'art. 10, primo
comma  Cost.  ha riferimento non alle norme internazionali di origine
pattizia, bensi' a quelle internazionali di origine consuetudinaria.
    Erronea,  pertanto,  e' la tesi del fondamento internazionale del
principio del doppio grado di giurisdizione di merito se innervata su
di  una lettura riduttiva al primo comma della citata norma. Infatti,
dopo  avere  stabilito,  al primo comma, «che ogni persona dichiarata
rea  da un tribunale ha diritto di far esaminare la colpevolezza o la
condanna  da  un  tribunale  superiore» (prescrizione adempiuta dalla
ricorribilita'  di  tutte  le  sentenze  di  condanna in cassazione),
l'art. 2 protocollo addizionale Convenzione di Strasburgo prevede, al
secondo  comma,  quali  eccezioni le ipotesi in cui «l'interessato e'
stato  dichiarato  colpevole  e  condannato  a  seguito di un ricorso
avverso  il  suo proscioglimento». Che, poi, tale principio non formi
oggetto  di  garanzia  costituzionale, e' stato affermato dalla Corte
costituzionale  (v.  ordinanza  n. 421  del  2001),  ritenendo che lo
sostanzia  la  previsione  del  ricorso  per  Cassazione,  mezzo gia'
presente  nella  Costituzione  (v.  sentenza  Corte  cost. n. 288 del
1997).
    3. - Ritiene, quindi, la Corte di appello che sia rilevante e non
manifestamente  infondata la questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 593  c.p.p., come modificato dall'art. 1, legge 20 febbraio
2006, n. 46, e dell'art. 10 della stessa legge.
    Si sottopongono, quindi, i seguenti motivi.
    La  legge 20 febbraio 2006, n. 46, va riguardata sotto il dettato
dell'art. 3   Cost.,   principio   generale  di  eguaglianza  che  e'
espressione di un «canone di coerenza dell'ordinamento normativo» (v.
sentenza   Corte   cost.   n. 204   del  1982)  e  «condiziona  tutto
l'ordinamento nella sua obiettiva struttura» (v. sentenza Corte cost.
n. 25 del 1966).
    Il  legislatore  -  nel  rispetto di tale principio - deve tenere
presente  che  ogni  norma  giuridica,  per  la  sua stessa essenza e
funzione  (consistente  nella innovazione dell'ordinamento), comporta
un'alterazione  dei  precedenti  equilibri  e  la  creazioni di nuove
«disparita»  o  l'eliminazione  delle stesse. Ne segue un ricchissimo
filone  giurisprudenziale  (v.  sentenza Corte cost. n. 53 del 1958 e
sentenza  Corte  cost.  n. 15 del 1960) che, dall'art. 3, primo comma
della Carta, ricava un generale «principio di ragionevolezza».
    Il   giudizio   di   eguaglianza   ha  carattere  strutturalmente
relazionale    ed    e'   essenzialmente   ternario   (c.d.   tertium
comparationis),  onde  la  valutazione di legittimita' costituzionale
sul  rispetto  del  principio di eguaglianza implica che la normativa
impugnata  venga  parametrata con altre normative per stabilire se il
legislatore  abbia emanato disposizioni poco ragionevoli da ritenersi
illegittime   (v.  sentenza  Corte  cost.  n. 10  del  1980)  ovvero,
nell'individuazione  della  finalita' cui e' preordinata, se la legge
sia  provvista  di  ragionevolezza (v. sentenza Corte cost. n. 55 del
1989; sentenza Corte cost. n. 43 del 1987).
    Cio'   posto,   ricorre,   nell'art. 593  c.p.p.,  la  violazione
dell'art. 3  Cost.  dal  quale  deriva  che  qualsiasi violazione del
principio  di  uguaglianza  puo'  essere costituzionalmente legittima
soltanto  se  ricompresa  nei  limiti della ragionevolezza e la norma
processuale  de  qua  presenta  profili  di  irrazionalita'  tali  da
integrare la violazione del suddetto principio.
    La previsione dell'appellabilita' delle sentenze di condanna e la
pratica   eliminazione   della   facolta'   di  appellare  quelle  di
assoluzione  da  parte  del  pubblico  ministero  autorizza  la parte
pubblica  a proporre impugnazione quando la pretesa punitiva e' stata
accolta ed al solo fine di richiedere un aggravamento di pena, mentre
vieta   di   proseguire  nell'esercizio  dell'azione  penale  con  lo
strumento  dell'appello allorche' la pretesa punitiva dello Stato non
sia stata accolta.
    Ne'  la  suddetta  violazione  appare  superata dal comma 2 della
citata   norma,   poiche'   esso   prospetta   una   fattispecie   di
appellabilita'  delle sentenze di assoluzione assolutamente marginale
ed  inattuabile di fatto. E' carente di concretezza, in tale ipotesi,
il   ritenere  che  il  pubblico  ministero  -  successivamente  alla
pronuncia di primo grado - possa scoprire quella nuova prova decisiva
idonea  a  capovolgere  la decisione assolutoria che non fu rinvenuta
durante   la   fase  delle  indagini  preliminari  e  dell'istruzione
dibattimentale,  e  che  essa  venga  individuata nell'esiguo margine
temporale   concesso  per  l'impugnazione.  Inoltre,  il  ricorso  in
cassazione  non potra' avere analoga estensione dell'atto di appello,
poiche', mentre quest'ultimo attiene al merito, il primo attiene solo
a  determinati  profili di legittimita' tassativamente previsti dalla
nuova formulazione dell'art. 606 c.p.p.
    Inoltre,  la  limitazione  del  potere  di  appello  da parte del
pubblico  ministero  e'  illegittima  anche  nel  caso di conversione
disciplinato  dall'art. 580  c.p.p. di nuova formulazione, violandosi
il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. Infatti, anche
in  caso di conversione del ricorso in appello, il pubblico ministero
potra' proporre solo motivi che rientrino nei parametri dell'art. 606
c.p.p.,  come  modificato  dall'art.  7, legge n. 46 del 2006, mentre
l'imputato  con  il suo appello originario ha potuto proporre tutti i
motivi  di  merito.  Ne consegue che l'autorita' giudiziaria - che si
trova  a  decidere  il  ricorso  da  convertire  in  appello - dovra'
esercitare  nei  riguardi  dell'impugnazione  del  pubblico ministero
prima il giudizio rescindente e, poi, quello rescissorio, limitazione
che non riguarda l'impugnazione dell'imputato.
    4.  -  Nell'art. 593,  comma 1 c.p.p. la violazione del principio
della  parita'  delle  parti  nel processo ricorre anche ex art. 111,
secondo comma Cost.
    La  novellata  formulazione  della  norma, limitando il potere di
impugnazione  del  pubblico  ministero  e  dell'imputato  avverso  le
sentenze   di   proscioglimento,   sebbene  accordi  ad  entrambi  la
possibilita'  di  ricorrere  in  cassazione, prevede una parita' solo
apparente atteso che, in tale ipotesi, nessun interesse ha l'imputato
ad  appellare  contro  le  sentenze  di  proscioglimento,  condizione
ribadita  dall'art. 568  n. 4  c.p.p. che sancisce espressamente «per
proporre  impugnazione e' necessario avervi interesse», nonche' dalla
Corte   di  cassazione  che  ha  interpretato  in  senso  restrittivo
l'interesse  dell'imputato  ad impugnare una assoluzione ex art. 530,
comma 2 c.p.p.
    L'art. 593  c.p.p. contraddice il principio dello svolgimento del
processo  in condizioni di parita' tra le parti, poiche' l'equiparata
legittimazione del pubblico ministero e dell'imputato ad appellare le
sentenze  di  condanna,  e  la  loro  esclusione  dall'appello  delle
sentenze  di assoluzione non esclude la disparita' di trattamento ove
regoli  identicamente  parti del processo con interessi contrapposti.
Di   vero,   a  fronte  dell'interesse  preminente  dell'imputato  ad
appellare  le  sentenze  di condanna, limitato e' quello del pubblico
ministero,  e  cosa  contraria  avviene per quest'ultimo ad appellare
sentenze  di  assoluzione  ove  l'imputato  - dal previgente art. 593
c.p.p.  -  non  subiva  danno  per  carenza  di  interesse  dalla non
legittimazione  ad  appellare  le sentenze di assoluzione «perche' il
fatto non sussiste o perche' l'imputato non lo ha commesso».
    Vale  richiamare quanto affermato (v. sentenza Corte cost. n. 363
del  1991)  circa  il  limite  all'appello del pubblico ministero nel
giudizio  abbreviato,  di  cui  all'art. 443  c.p.p., secondo cui non
contrasta  con  i canoni di ragionevolezza e non incide sulla parita'
delle parti, la cui ratio risiede nel costituire il «corrispettivo» -
unitamente  alla  riduzione della pena - in funzione «premiale» della
rinuncia  al  dibattimento  da  parte dell'imputato che favorisce una
rapida  definizione  dei  processi  ed in quanto - in presenza di una
sentenza  di  condanna  -  il  pubblico ministero realizza la pretesa
punitiva  fatta valere nel processo, rimanendo integra la facolta' di
impugnazione  delle sentenze di assoluzione e di condanna pronunciate
in tale rito speciale che modifichino il titolo di reato.
    Recita,  inoltre,  l'art. 593,  comma  2 c.p.p. che il giudice di
appello  possa decidere l'impugnazione proposta contro la sentenza di
assoluzione  in  via  preliminare,  emettendo  de  plano ordinanza di
inammissibilita'  con  la  quale  viene  rigettata  la  richiesta  di
rinnovazione  contenuta  nell'atto  di appello, ma tale provvedimento
resta   estraneo  alle  categorie  processuali  dell'inammissibilita'
enucleate  dall'art. 591 c.p.p., ove l'indagine del giudice non entra
nel merito del mezzo di gravame ma si rastrema al mero e formalistico
rilievo della proposizione dell'atto al di fuori dei casi consentiti.
    Nel  caso  previsto  dall'art. 593,  comma 2 c.p.p. il giudice di
appello  valuta nel merito la sussistenza e la fondatezza della nuova
e  decisiva  prova  proposta  dall'appellante emettendo - al di fuori
dell'udienza  ed  inaudita  altera  parte  -  un provvedimento che ha
carattere decisorio di merito ed esaurisce il giudizio, in violazione
dell'art. 111,  secondo comma Cost. secondo cui il processo, in tutti
i   gradi   di   giudizio,  deve  svolgersi  secondo  la  regola  del
contraddittorio.
    5. - L'art. 111, secondo comma Cost. impone anche una parita' tra
pubblico  ministero e parte civile, e la violazione di tale principio
costituisce violazione dell'art. 3 Cost.
    La nuova normativa contrasta tali principi costituzionali.
    La   formulazione   dell'art. 576   c.p.p.   -   come  modificata
dall'art. 6  legge  n. 46  del  2006  -  ha  eliminato dal testo ogni
richiamo  e  parificazione alla disciplina del potere di impugnazione
del  pubblico  ministero,  onde,  se  la  parte  civile non decide di
proporre  direttamente  ricorso  per cassazione contro la sentenza di
primo  grado,  il  normale  mezzo  di  impugnazione di cui dispone e'
l'appello.
    Il potere di impugnazione della parte civile e' tuttora esistente
e sganciato dai limiti statuiti per il gravame di merito in ordine ai
capi   penali   della   sentenza.  Cio'  puo'  ritenersi,  anzitutto,
dall'art. 10  della  legge  n. 46  del 2006 che, mancando di disporre
riguardo  agli appelli proposti dalla parte civile prima dell'entrata
in  vigore  della  stessa,  implicitamente  conferma  che i poteri di
impugnazione della parte civile sono rimasti invariati. Ed, altresi',
dall'essere  invariata  la  previsione  che  permette l'appello della
parte  civile  contro il punto di sentenza di primo grado che attiene
alla  provvisoria  esecuzione  delle condanne in materia risarcitoria
per  mancata  pronuncia  o  per  rigetto,  cosicche' non e' possibile
sostenere  che  la  legge consenta alla parte civile di appellare con
esclusivo  riferimento  alla  provvisoria  esecuzione  e  le neghi il
potere di appellare le sentenze in ordine ai capi civili.
    6. - Ricorre,  altresi',  violazione  dell'art. 111  Cost.  e del
principio della ragionevole durata del processo.
    L'art. 10  della legge riservato agli appelli pendenti fa si' che
-  in  caso  di  accoglimento  del  ricorso  in  cassazione contro la
sentenza  di  assoluzione di primo grado - il rinvio non e' piu' alla
Corte  di  appello ma al giudice di primo grado, con reiterazione dei
gradi   di   giudizio  e  con  dilatazione  dei  tempi  assolutamente
incoerente  in  riferimento  alla  legge  5  dicembre  2005,  n. 251,
operante sulla riduzione dei termini di prescrizione.
    7. - Ricorre, poi, la violazione dell'art. 112 Cost.
    Ripercorrendo  l'esegesi  della  Corte  costituzionale  e'  stato
affermato   (v.   sentenza   n. 177  del  1971)  che  «il  potere  di
impugnazione  del  pubblico ministero costituisce una estrinsecazione
ed un aspetto dell'esercizio dell'azione penale».
    Seppure  tale  orientamento  (v. ordinanza n. 421 del 2001, cit.;
ordinanza   n. 426  del  1998;  sentenza  n. 280  del  1995)  risulti
modificato    -   ritenendo   che   quel   potere   non   costituisce
estrinsecazione   «necessaria»   dei  poteri  inerenti  all'esercizio
dell'azione  penale,  essendo possibili configurazioni «asimmetriche»
del  potere  di  impugnazione della parte pubblica e privata, nonche'
limitazione  alla  facolta'  di  appello  giustificate da particolari
contesti  processuali - va osservato che «la preclusione dell'appello
della  parte  pubblica avverso le sentenze di condanna (quando non vi
sia  stata  modifica  del  titolo  di  reato)  trova  giustificazione
nell'obiettivo  primario  di  una  rapida  e completa definizione dei
processi  svoltisi  in  primo  grado  secondo il rito abbreviato» (v.
ordinanza n. 46 del 2004; ordinanza n. 165 del 2003; ordinanza n. 347
del  2002).  Ed  e'  stato  rilevato (v. sentenza n. 98 del 1994, che
rigetta  l'eccezione di illegittimita' costituzionale delle norme che
nel  rito  abbreviato  escludono  l'appello  incidentale del pubblico
ministero)  che  «la  configurazione  dei  poteri di impugnazione del
pubblico  ministero rimane affidata alla legge ordinaria che potrebbe
essere  censurata  per  irragionevolezza solo se i poteri stessi, nel
loro  complesso,  dovessero  risultare  inidonei all'assolvimento dei
compiti previsti dall'art. 112 Cost.».
    Nella  legge  20  febbraio  2006, n. 46, si reifica la situazione
astrattamente  ipotizzata  dalla  Corte  costituzionale,  poiche'  la
soppressione  del  potere  di  appello del pubblico ministero - anche
sotto  i  segnalati  profili  di  cui  all'art. 593, comma 2 c.p.p. -
preclude la possibilita' di coltivare la pretesa punitiva dello Stato
-  per tutte le eventuali fasi del procedimento, non limitatamente al
primo  eventuale  giudizio  -  attraverso  la  richiesta  al  giudice
superiore  di riesame dei fatti affermati nella sentenza assolutoria,
anche in presenza di valutazioni di merito affatto condivisibili.
    L'obbligatorieta'  dell'azione  penale  insiste anche nel vigente
processo  penale  (v.  leggi delega n. 108 del 1974, n. 348 del 1978,
n. 81  del 1987; d.P.R. n. 477 del 1988) ove - nonostante gli stretti
legami  che  intercorrono  tra  il modello accusatorio e la filosofia
contrattualistica   dell'azione   -  resta  presente  lo  sbarramento
costituzionale   rappresentato   dall'art. 112  Cost.  e  le  istanze
deflazionistiche   del  carico  giudiziario  sono  ridotte  alla  non
rigidita' del rito attraverso l'introduzione dei riti alternativi che
prevedono  una  gamma  di semplificazioni procedurali. Nell'ambito di
processo  di  parti,  il  ruolo  del  pubblico  ministero, ampiamente
ridisegnato  quale  organo di ricerca e non di decisione, di azione e
non   di  giudizio,  rimane  organo  in  condizione  di  indipendenza
funzionale  alla  giusta  decisione  non  depotenziato  del potere di
impugnazione.
                              P. Q. M.
    Visto  l'art.  23,  lett. a), legge costituzionale 11 marzo 1953,
n. 87;
    Ritiene    non    manifestamente    infondata    l'eccezione   di
incostituzionalita'  dell'art. 593,  comma  2  c.p.p. come sostituito
dalla legge 20 febbraio 2006, n. 46 e l'art. 10 della medesima legge;
    Sospende il giudizio;
    Dispone  che  a  cura  della cancelleria gli atti siano trasmessi
alla  Corte  costituzionale,  e  che  l'ordinanza di trasmissione sia
notificata  al  Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai
Presidenti delle due Camere del Parlamento.
        Catania, addi' 6 aprile 2006
                 Il presidente estensore:Santangelo
06C0674