N. 376 ORDINANZA (Atto di promovimento) 24 marzo 2006
Ordinanza emessa il 24 marzo 2006 dalla Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di Italiano Antonino Ambiente - Albo nazionale delle imprese esercenti servizi di smaltimento di rifiuti - Esclusione dell'obbligo di iscrizione per l'imprenditore che a titolo professionale trasporti rifiuti non pericolosi per conto proprio - Conseguente non configurabilita' per tale soggetto del reato di cui all'art. 51, comma 1, del d.lgs. n. 22/1997 - Contrasto con la direttiva 91/156/CEE e con la giurisprudenza della Corte di giustizia della Comunita' europea - Inosservanza dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario. - Decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, art. 30, comma 4, come modificato dall'art. 1, comma 19, della legge 9 dicembre 1998, n. 426. - Costituzione, artt. 11 e 117.(GU n.41 del 11-10-2006 )
LA CORTE DI CASSAZIONE Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto per Italiano Antonino, nato a Barcellona Pozzo di Gotto il 20 maggio 1961, avverso la ordinanza resa il 4 luglio 2005 dal tribunale di Messina, sezione del riesame. Visto il provvedimento denunciato e il ricorso; Udita la relazione svolta in camera di consiglio dal consigliere Pierluigi Onorato; Udito il pubblico ministero in persona del sostituto procuratore generale Guglielmo Passacantando, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso; Udito il difensore dell'indagato, avv. Giuseppe Lo Presti, che ha insistito nel ricorso; O s s e r v a Svolgimento del processo 1. - Con ordinanza del 4 luglio 2005 il tribunale di Messina, in sede di riesame, ha confermato il sequestro preventivo di un autocarro Fiat Iveco, trg. ME573983, disposto in data 10 giugno 2005 dal g.i.p. del tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto a carico del proprietario Antonino Italiano, che il 24 maggio dello stesso anno era stato fermato alla guida dell'automezzo mentre trasportava «materiale di risulta proveniente da lavori dell'edilizia». Il g.i.p. aveva ravvisato il fumus del reato di cui all'art. 51, d.lgs. n. 22/1997 a carico del guidatore, per trasporto di rifiuti senza le prescritte autorizzazioni. In particolare, aveva osservato che il trasporto di rifiuti verso una discarica abusiva rientra nell'ampio concetto di gestione della discarica, ed e' pertanto punito ai sensi del terzo comma dell'art. 51; e che - comunque - essendo l'Italiano un imprenditore edile, era ravvisabile la contravvenzione di cui al secondo comma dell'art. 51 per abusiva attivita' di smaltimento di rifiuti speciali non pericolosi. Nel confermare la misura il tribunale del riesame ha rilevato che il trasporto di rifiuti, quale possibile fase dell'attivita' di gestione, da chiunque posto in essere, deve essere autorizzato dall'autorita' competente; e che il concetto di gestione di discarica deve essere inteso in senso ampio, comprensivo di qualsiasi contributo attivo o passivo diretto a realizzare o mantenere la discarica stessa. Indubitabile era poi il periculum in mora, giacche' la libera disponibilita' dell'automezzo da parte di un imprenditore edile - quale pacificamente era l'Italiano - che produce abitualmente rifiuti poteva agevolare la commissione di altri reati della stessa specie. 2. - Il difensore dell'indagato ha proposto ricorso per cassazione, deducendo tre motivi per violazione di legge penale e per manifesta illogicita' di motivazione. Col primo denuncia violazione dell'art. 51, comma 1, in relazione all'art. 30, comma 4, del d.lgs. n. n. 22/1997, giacche' quest'ultima norma assoggetta all'obbligo d'iscrizione all'Albo nazionale delle imprese esercenti servizi di smaltimento solo quegli imprenditori che svolgono attivita' di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi o di rifiuti pericolosi. Per conseguenza non era obbligato all'iscrizione l'Italiano che trasportava rifiuti propri non pericolosi. Col secondo motivo il difensore denuncia violazione dei commi 2 e 3 dell'art. 51 predetto. Infatti, da una parte non era stato minimamente provato che l'autocarro sequestrato stava trasportando i rifiuti in una discarica abusiva (comma 3); dall'altra parte non era ravvisabile la contravvenzione di abbandono di rifiuti prevista a carico di enti o imprenditori dal comma 2, giacche' l'italiano stava agendo quale privato e non quali titolare d'impresa, essendo stato dimostrato che il suo autocarro stava trasportando rifiuti speciali provenienti dal muro di una sua abitazione. Col terzo motivo il ricorrente lamenta violazione degli artt. 12 e 15 d.lgs. n. 22/1997. Confuta l'argomento del giudice del riesame, secondo cui ai sensi delle norme predette un regolare impianto di discarica non avrebbe potuto ricevere i rifiuti trasportati dall'indagato senza il prescritto formulario d'identificazione. Aggiunge che il formulario non e' obbligatorio per il trasporto di rifiuti non eccedenti i trenta chilogrammi o i trenta litri al giorno; e che, nel caso di specie, non era stato provato il superamento di tale soglia. Motivi della decisione 3. - Dalla lettura del decreto dispositivo del sequestro preventivo e dalla impugnata ordinanza del tribunale del riesame, risulta in linea di fatto che l'autocarro sequestrato trasportava rifiuti speciali provenienti da attivita' di demolizione edilizia, ma non risulta che tali rifiuti fossero sicuramente destinati a una discarica. In linea di diritto, inoltre, l'attivita' di trasporto e deposito di rifiuti in una discarica da parte di terzi estranei alla titolarita' della discarica stessa configurerebbe solo un'operazione di smaltimento (compresa nella categoria D1 dell'Allegato B) del d.lgs. n. 22/1997), e non gia' una operazione di gestione della discarica, che invece e' stata ipotizzata in via alternativa da entrambi i giudici di merito. Sotto entrambi i profili, quindi, non puo' configurarsi il fumus del reato di cui all'art. 51, comma 3, del d.lgs. n. 22/1997 ma solo quello del reato di cui all'art. 51, comma 1, dello stesso decreto, per trasporto di rifiuti da parte di soggetto non abilitato, che e' del resto il reato che il g.i.p. aveva ravvisato, sia pure in via subordinata, nella sua ordinanza del 10 giugno 2005. Neppure puo' configurarsi il fumus del reato di cui al secondo comma del medesimo art. 51, per abbandono o deposito incontrollato di rifiuti da parte di un titolare d'impresa, non perche' l'indagato non agisce nella sua qualita' di imprenditore, bensi' perche' la sua attivita' si era limitata al trasporto senza arrivare all'abbandono o al deposito incontrollato dei rifiuti trasportati. 4. - In conclusione, il sequestro preventivo dell'autocarro col carico di rifiuti speciali, guidato da Antonino Italiano, sarebbe legittimo ai sensi dell'art. 321 c.p.p. perche' ricorrerebbe sia l'astratta configurabilita' del reato di cui all'art. 51. comma 1, d.lgs. n. 22/1997, sia il pericolo che la libera disponibilita' dell'autocarro potesse facilitare la reiterazione del reato da parte del suo proprietario. Non c'e' dubbio, infatti, che Antonino Italiano, quando fu sorpreso mentre trasportava materiali derivanti da attivita' di demolizione, era nell'esercizio della sua qualita' d'imprenditore edile. Sul punto, la tesi del ricorrente, secondo cui egli agiva invece come privato perche' trasportava rifiuti provenienti dalla demolizione di un muro della sua abitazione, e' una mera asserzione fattuale inammissibile in sede di legittimita'. Piu' in particolare, il predetto reato sarebbe integrato dal fatto che l'indagato trasportava rifiuti speciali non pericolosi senza essere iscritto nell'Albo nazionale delle imprese previsto dall'art. 30 del d.lgs. n. 22/1997. Va quindi esaminato il primo motivo di ricorso. Al riguardo bisogna osservare che il comma 4 dell'art. 30, cosi' come modificato dall'art. 1, comma 19, della legge 9 dicembre 1993, n. 426, impone l'obbligo dell'iscrizione solo per «le imprese che svolgono attivita' di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi e le imprese che raccolgono e trasportano rifiuti pericolosi» (escluse per queste ultime i trasporti inferiori a una determinata soglia quantitativa giornaliera). Poiche' non risulta che Antonino Italiano trasportasse rifiuti prodotti da terzi, ma risulta anzi che trasportava rifiuti derivanti dalla sua stessa attivita' d'imprenditore edile, egli non sarebbe obbligato alla iscrizione all'Albo nazionale e non avrebbe commesso il reato di cui al piu' volte citato art. 51, comma 1, d.lgs. n. 22/1997. 5. - Sennonche' la predetta disposizione del comma 4 dell'art. 30, cosi' come modificato dalla citata legge 426/1998, appare in contrasto con la direttiva 91/156/CEE che, nel suo art. 12, stabilisce che «gli stabilimenti o le imprese che provvedono alla raccolta o al trasporto di rifiuti a titolo professionale, o che provvedono allo smaltimento o al recupero di rifiuti per conto di terzi (commercianti o intermediari) devono essere iscritti presso le competenti autorita' qualora non siano soggetti ad autorizzazione». Invero, le imprese che provvedono professionalmente al trasporto di rifiuti, contemplate dalla direttiva, comprendono anche quelle che professionalmente trasportano rifiuti da esse stesse prodotte, che invece la disposizione di legge italiana esclude. Nel dare attuazione a questa direttiva comunitaria col d.lgs. n. 22/1997, il legislatore nazionale in un primo tempo si era perfettamente adeguato all'art. 12 della direttiva, stabilendo testualmente che «le imprese che svolgono a titolo professionale attivita' di raccolta e trasporto di rifiuti e le imprese che raccolgono e trasportano rifiuti pericolosi, anche se da esse prodotti (..) devono essere iscritte all'Albo». Ma in un secondo tempo, novellando la disposizione mediante l'art. 1, comma 19, legge 426/1998, ha violato l'art. 12, laddove ha escluso dall'obbligo d'iscrizione all'Albo nazionale l'imprenditore che a titolo professionale trasporti rifiuti (non pericolosi) per conto proprio, cioe' rifiuti da lui stesso prodotti. Questa conclusione e' ora consacrata, con effetti vincolanti per l'ordinamento italiano, dalla recente sentenza 9 giugno 2005 della Corte di Giustizia europea (Terza Sezione), che, pronunciando ex art. 226 (gia' 169) Trattato CE in una procedura d'infrazione promossa dalla Commissione della comunita' contro la Repubblica italiana, ha testualmente statuito che «la Repubblica italiana, permettendo alle imprese, in forza dell'art. 30, comma 4, del decreto legislativo 5 febbraio 1997 n. 22 (..) come modificato dall'art, 1, comma 19, della legge 9 dicembre 1998 n. 426, (.,) di esercitare la raccolta e il trasporto dei propri rifiuti non pericolosi come attivita' ordinaria e regolare senza obbligo di essere iscritte all'Albo nazionale delle imprese esercenti servizi di smaltimento rifiuti... e' venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi dell'art. 12 della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE». Poiche' non v'e' dubbio che la direttiva 91/156/CEE, e in particolare il suo art. 12, non ha efficacia diretta nell'ordinamento italiano, e poiche' la sentenza dichiarativa della Corte di giustizia europea ha la stessa immediata efficacia della disposizione comunitaria interpretata (v. per tutte Corte costituzionale, 11 luglio 1989, n. 389), il giudice italiano, che e' soggetto soltanto alla legge (art. 101. comma 2, Cost.), dovendo applicare una disposizione legislativa nazionale chiaramente incompatibile con una norma di diritto comunitario non self executing, non ha altro rimedio che sollevare questione di legittimita' costituzionale della disposizione nazionale con riferimento agli artt. 11 e 117, comma 1, Cost., al fine di sentirne dichiarare l'abrogazione. Nell'inerzia del legislatore, la dichiarazione d'incostituzionalita' da parte del giudice delle leggi e' il mezzo attraverso cui lo Stato italiano puo' dare esecuzione alla menzionata sentenza della Corte di giustizia europea. 6. - La non manifesta infondatezza della questione risulta chiaramente dalle considerazioni precedenti, essendo indiscutibile - dopo la sentenza 9 giugno 2005 della Corte lussemburghese - che lo Stato italiano, novellando il comma 4 dell'art. 30 con l'art. 1, comma 19 della legge n. 426/1998, non ha rispettato i vincoli che gli derivavano dall'ordinamento comunitario attraverso il piu' volte menzionato art. 12 della direttiva 91/156/CEE, contravvenendo cosi' agli artt. 11 e 117 della Carta fondamentale. Altrettanto evidente e' la rilevanza della questione, essendo la norma denunciata chiaramente inerente alla regiudicanda dedotta davanti a questo giudice di legittimita'. Per valutare il fumus del reato di cui alIart. 51, comma 1, d.lgs. n. 22/1997, infatti, e' necessario applicare l'art. 30, comma 4. cosi come novellato dalla predetta norma della legge 426/1998, a meno che questa sia dichiarata incostituzionale. La rilevanza diventa piu' problematica se si considera che la norma denunciata (nuovo testo dell'art. 30, comma 4), escludendo l'obbligo d'iscrizione all'Albo nazionale per gli imprenditori che esercitano la raccolta e il trasporto di rifiuti non pericolosi da essi stessi prodotti, ha modificato in senso favorevole al reo la precedente disposizione (testo originario dell'art. 30, comma 4). depenalizzando per i suddetti imprenditori non iscritti all'Albo il reato di cui all'art. 51, comma 1. Emerge cosi' il noto problema del sindacato di costituzionalita' sulle norme penali di favore, cioe' delle norme che, per determinati soggetti o ipotesi, abrogano o modificano in senso favorevole al reo precedenti norme incriminatrici. 7. - Com'e' ben noto a codesta Corte, muovendo dalla considerazione che l'eventuale accoglimento della eccezione d'illegittimita' costituzionale della norma penale piu' favorevole non potrebbe influire sull'esito del giudizio a quo per il principio d'irretroattivita' di cui all'art. 25, comma 2. Cost. e all'art. 2, comma 1, cod. pen., si e' tratta in passato la conclusione che le eccezioni d'incostituzionalita' delle norme penali di favore sono «tipicamente» irrilevanti, con la conseguenza che dette norme restano sottratte al controllo costituzionale. Ma in seguito il problema e' stato diversamente risolto, a partire dalla sentenza 148/1983, che ha argomentato la rilevanza e l'ammissibilita' delle questioni d'illegittimita' costituzionale sulle norme penali di favore in base al duplice argomento secondo cui l'accoglimento della questione: a) verrebbe comunque a incidere sulle formule di proscioglimento o sui dispositivi della sentenza penale e si rifletterebbe sullo schema argomentativo della relativa motivazione; b) avrebbe comunque un «effetto di sistema» la cui valutazione spetta ai giudici comuni e non al giudice costituzionale. E cio' perche', senza vanificare la garanzia dell'art. 25 Cost., anche le norme penali di favore devono sottostare al sindacato di costituzionalita', «a pena di istituire zone franche del tutto impreviste dalla Costituzione, all'interno delle quali la legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile». Nel caso di specie, poi, va aggiunto un ulteriore, decisivo, argomento. L'eventuale sentenza di accoglimento cagionerebbe l'abrogazione della norma denunciata con effetto ex nunc, e quindi, in forza dell'art. 25, comma 2, Cost., non potrebbe portare alla condanna dell'indagato Antonino Italiano per il fatto anteriormente commesso.. E tuttavia potrebbe portare alla conferma del sequestro preventivo dell'autocarro da lui utilizzato per il trasporto dei rifiuti, in forza della consolidata giurisprudenza secondo cui la misura cautelare di cui all'art. 321 c.p.p. ha carattere reale, in quanto prescinde dalla personale responsabilita' della persona sottoposta alle indagini (v. fra le sentenze massimate Cass. Sez. III, n. 1428 del 21 giugno 1994, Menietti, rv. 198175; Cass. Sez. II, n. 5472 del 21 dicembre 1999, P.M. in proc. Coppola, rv. 215089; Cass. Sez. III, n. 11290 del 20 marzo 2002, P.M. in proc. Di Falco). Per conseguenza, la dichiarazione di incostituzionalita' della norma denunciata avrebbe effetto immediato nel giudizio cautelare a quo senza che cio' costituisse violazione dell'art. 25, comma 2. Cost. 8. - Questo approdo ermeneutico non e' scalfito dalle numerose statuizioni di codesta Corte che hanno ribadito l'inammissibilita' del le sentenze additive contra reum per rispetto dell'art. 25, comma 2, Cost., stante la strutturale diversita' delle due ipotesi. Infatti, quando e' dedotta la questione di costituzionalita' di una norma penale di favore, la sentenza di accoglimento ha carattere ablativo della deroga oggettiva o soggettiva introdotta, con l'effetto di ripristinare la piena portata normativa di una norma incriminatrice preesistente. Al contrario, la sentenza additiva di accoglimento (che dichiara incostituzionale la norma sospettata «nella parte in cui non prevede» etc.) ha l'effetto di creare ex novo una norma incriminatrice o di ampliare la portata di una fattispecie penale esistente, usurpando in entrambi i casi una prerogativa spettante alla discrezionalita' del legislatore e violando il principio d'irretroattivita' dei reati e delle pene. (Diverso sembra il caso della sentenza 440/1995, in cui, con un meccanismo di tipo ablatorio, il Giudice delle leggi, in forze del principio di uguaglianza, ha esteso il reato di bestemmia della divinita' anche a tutela delle religioni non cattoliche, creando cosi' una nuova figura di reato, che pero' non era applicabile al fatto contestato nel processo a quo). Per diversa ragione l'approdo della sentenza n. 148/1983 non appare intaccato neppure dalla recente sent. n. 161/2004 Corte cost., la quale ha escluso la possibilita' di estendere l'ambito di applicazione della norma incriminatrice di cui all'art. 2621 cod. civ. (false comunicazioni sociali), come sostituito dall'art. 1 d.lgs. 11 aprile 2002 n. 61, attraverso la rimozione delle soglie minime di punibilita' ivi previste. Qui, infatti, la Corte ha escluso la possibilita' di ampliare o aggravare la figura di un reato gia' esistente attraverso la «demolizione» delle soglie di punibilita', sul rilievo che queste soglie integrano requisiti essenziali di tipicita' del fatto ovvero condizioni di punibilita', e cioe' sono comunque «un elemento che "delimita" l'area d'intervento della sanzione prevista dalla norma incriminatrice, e non gia' "sottrae" determinati fatti all'ambito di applicazione di altra norma, piu' generale». Tale essendo la ratio decidendi, essa non puo' essere applicata ai casi - come quello presente - in cui la norma denunciata per incostituzionalita' e' una norma penale di favore, la quale «sottrae» determinate ipotesi (nel caso specifico, il trasporto di rifiuti non pericolosi effettuato da un imprenditore per conto proprio) a una norma incriminatrice generale (derivante dal combinato disposto degli artt. 30 e 51, comma 1, d.lgs. n. 22/1997 nel loro testo originario). In altri termini, facendo cadere per incostituzionalita' la modifica che l'art. 1, comma 19. della legge 9 dicembre 1998 n. 426 ha apportato all'art. 30, comma 4, d.lgs. n. 22/1997, si ripristinerebbe la portata originaria di una norma incriminatrice gia' presente nell'ordinamento, che la novella del 1998 ha parzialmente derogato; facendo cadere le soglie di punibilita' previste nell'art. 2621 cod. civ., invece, si amplierebbe la portata penale della stessa norma al di la' dei limiti in cui il legislatore l'aveva configurata. 9. - Analogo problema si e' presentato alla Corte di giustizia europea, chiamata ex art. 234 (gia' 177) del Trattato CE a interpretare la nozione comunitaria di rifiuto, e a saggiarne la compatibilita' con quella ridefinita dal legislatore italiano attraverso l'art. 14 del d.l. 8 luglio 2002 n. 138, convertito in legge 8 agosto 2002, n. 178, posto che la ricostruzione ermeneutica operata dalla Corte stessa poteva avere effetti tali da entrare in rotta di collisione con il principio di legalita' e irretroattivita' dei reati e delle pene, che e' ritenuto parte integrante anche del diritto comunitario (C. giustizia, Sez. II, dell'11 novembre 2004, causa C457/02, Niselli). Al riguardo, la sentenza Niselli, premesso che «una direttiva non puo' avere l'effetto, di per se' e indipendentemente da una norma giuridica di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o di aggravare la responsabilita' penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni», preso atto che il fatto contestato all' imputato era stato commesso sotto il vigore delle disposizioni incriminatrici di cui al d.lgs n. 22/1997, e prima dell'entrata in vigore dell'art. 14 d.l. n. 138/2002, ha concluso che non vi era «motivo di esaminare le conseguenze che potrebbero discendere dal principio di legalita' delle pene per l'applicazione della direttiva 75/442» (parr. 29 e 30). Diverso e' il caso affrontato piu' di recente dalla stessa Corte europea, Grande Sezione, chiamata a risolvere in via pregiudiziale la questione se il trattamento sanzionatorio piu' favorevole previsto dai novellati artt. 2621 (false comunicazioni sociali) e 2622 (false comunicazioni sociali in danno dei soci o dei creditori) cod.civ. fosse o meno adeguato in relazione all'art. 6 della prima direttiva comunitaria sul diritto societario (sentenza 3.5.2005, Cause riunite C-387/02, C-391/02 e C-403/02, Berlusconi e altri). La sentenza ha osservato che il principio dell'applicazione retroattiva della pena piu' mite fa parte integrante delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e dei principi generali del diritto comunitario (parr. 68 e 69); e ha concluso che «la prima direttiva sul diritto societario non puo' essere invocata in quanto tale dalle autorita' di uno Stato membro nei confronti di imputati nell'ambito di procedimenti penali, poiche' una direttiva non puo' avere come effetto, di per se' e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la responsabilita' penale degli imputati» (par. 78 e dispositivo). Basti rilevare in proposito che, nel caso esaminato dalla corte europea, ne' gli originari artt. 2621 e 2622 cod. civ., che prevedevano un trattamento sanzionatorio piu' severo, e sotto la vigenza dei quali erano stati commessi i reati contestati, ne' i nuovi artt. 2621 e 2622 cod. civ., che hanno introdotto un trattamento penale piu' mite, costituiscono attuazione di direttive comunitarie; sicche' si comprende l'affermazione secondo cui una direttiva comunitaria, per se stessa e senza la mediazione di leggi nazionali di attuazione, non possa determinare o aggravare una responsabilita' penale nella soggetta materia. Mentre nel caso della disciplina sui rifiuti, la direttiva comunitaria e' stata trasposta nell'ordinamento nazionale attraverso il d.lgs. n. 22/1997, che ha previsto in aggiunta un sistema sanzionatorio a presidio della disciplina stessa, sicche' ne' la previsione della responsabilita' penale, ne' la sua limitazione derivano direttamente dalla direttiva comunitaria, essendo, invece, state introdotte, la prima dall'art. 51 del d.lgs. n. 22/1997, e la seconda dall'art. 1, comma 19, della legge n. 426/1998. Nella presente vicenda processuale, quindi, non puo' farsi ricorso al principio statuito nella suddetta sentenza comunitaria del 3.5.2005. proprio perche' presupposto di questo principio e' la mancanza di norme nazionali attuative della direttiva comunitaria. 10. - Infine, la rilevanza e ammissibilita' della questione di legittimita' costituzionale del testo novellato dell'art. 34. comma 4, d.lgs. n. 22/1997 trova conforto in numerose sentenze di codesta Corte, che, proprio in materia di rifiuti, hanno dichiarato la illegittimita' costituzionale di varie leggi regionali che avevano depenalizzato lo stoccaggio provvisorio non espressamente autorizzato di rifiuti tossici e nocivi (n. 306/1992; n. 437/1992; n. 194/1993) o l'accumulo temporaneo di rifiuti tossici e nocivi (sent. 213/1991), o che avevano escluso dagli impianti di smaltimento di rifiuti gli impianti di depurazione per conto terzi di rifiuti liquidi, cosi' esonerando la loro gestione dall'obbligo di autorizzazione (sent. 173/1998). In questi casi la caducazione delle norme legislative regionali per contrasto con fonti normative gerarchicamente superiori, costituzionali e comunitarie, e' perfettamente sovrapponibile alla richiesta caducazione del testo novellato del richiamato art. 30 per contrasto col diritto comunitario; ed ha gli stessi effetti sul trattamento penale degli imputati nell'ambito dei processi principali. Per tutte queste ragioni non sembra potersi dubitare della rilevanza della questione.
P. Q. M. Visti gli artt. 134 Cost. e 23 legge 11 marzo 1953 n. 87, solleva d'ufficio questione di legittimita' costituzionale dell'art. 30, comma 4, d.lgs. n. 5 febbraio 1997 n. 22, come modificato dall'art. 1, comma 19, legge 9 dicembre 1998 n. 426, per violazione degli artt. 11 e 117 della Costituzione, dichiarandola rilevante e non manifestamente infondata; Sospende il giudizio in corso e ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata all'indagato e al suo difensore, nonche' al Presidente del Consiglio dei ministri; Da altresi' mandato alla cancelleria di comunicare la presente ordinanza ai Presidenti della Camera dei deputati e del senato della Repubblica. Cosi' deciso in Roma, addi' 24 novembre 2005. Il Presidente: De Maio Il consigliere estensore: Onorato 06C0830