N. 437 ORDINANZA (Atto di promovimento) 12 maggio 2006

Ordinanza  emessa  il 12 maggio 2006 dalla Corte di appello di Torino
nel procedimento penale a carico di Neri Marco Italo

Processo penale - Appello - Modifiche normative - Giudizio abbreviato
  -  Limiti  all'appello  - Possibilita' per il pubblico ministero di
  proporre appello contro le sentenze di proscioglimento - Esclusione
  -  Inammissibilita'  dell'appello  proposto  prima  dell'entrata in
  vigore  della  novella  - Violazione del principio di parita' delle
  parti - Contrasto con il principio di ragionevolezza.
- Codice   di   procedura   penale,   art. 443,  comma 1,  modificato
  dall'art. 2  della legge 20 febbraio 2006, n. 46; legge 20 febbraio
  2006, n. 46, art. 10.
- Costituzione, art. 111.
(GU n.1000 del 2-11-2006 )
                         LA CORTE DI APPELLO

    Nel  procedimento  a  carico  di  Neri Marco Italo, giudicato con
sentenza  emessa  ex  art. 442 c.p.p. dal Tribunale di Alessandria in
data  24  novembre  2003  e  in  tale sede assolto dal reato ascritto
perche' il fatto non costituisce reato.
    Preso  atto  che  avverso  tale sentenza ha presentato tempestivo
appello il Procuratore generale della Repubblica di Torino, chiedendo
che  l'imputato  sia  dichiarato  colpevole e condannato alle pene di
legge, non richiedendo la riassunzione di prove ex art. 603 c.p.p. ha
emesso la seguente ordinanza.
    La  Corte  si  trova a dare applicazione alla recente legge n. 46
del  20  febbraio  2006,  entrata  in  vigore  il 9 marzo 2006 che ha
modificato  l'art. 443.1  c.p.p. nel senso di precludere in ogni caso
al p.m. l'appello avverso sentenze di proscioglimento.
    La  norma  transitoria  di  cui  all'art. 10 della predetta legge
impone al giudice, innanzi al quale pende l'appello proposto dal p.m.
prima dell'entrata in vigore della novella, di emettere ordinanza non
impugnabile con la quale dichiara l'inammissibilita' dell'appello.
    Pertanto  la  normativa  in  questione  e' direttamente rilevante
nella  presente  fase  che  vede  l'imputato assolto in primo grado a
seguito  di  giudizio abbreviato e citato a giudizio innanzi a questa
Corte a seguito di appello presentato dal p.m..
    Appare  del  tutto  evidente  la non manifesta infondatezza della
normativa in questione per violazione dell'art. 111 Cost..
    La  Costituzione enuncia i principi generali cui deve conformarsi
la  normativa  che  disciplina  il  processo in Italia, stabilendo al
comma  2 dell'art. 111, che il processo si svolge nel contraddittorio
delle  parti,  in  condizioni  di parita', davanti a giudice terzo ed
imparziale e che la legge ne assicura la ragionevole durata.
    La  condizione di parita' che deve essere riconosciuta alle parti
dalla  legge  processuale  non  puo'  intendersi  limitata  alla mera
istruzione probatoria (parita' nel contraddittorio), giacche' sarebbe
allora  ridondante la previsione specifica di cui al quarto comma del
medesimo  art. 111, e deve essere dunque intesa in senso piu' ampio e
lato.
    Per  processo  la  Costituzione intende l'intero iter che conduce
dalla  domanda  iniziale  (civile)  o dalla notizia di reato (penale)
fino  alla sentenza definitiva che appunto chiude la controversia (si
veda testualmente l'art. 24.2).
    Poiche'  nel  processo agiscono parti fisiologicamente portatrici
di interessi contrapposti, l'art. 111 Cost. disciplina dunque come la
legge  ordinaria  deve  regolamentare l'attribuzione alle parti delle
facolta'  per  far valere ed eventualmente farsi vedere accogliere le
loro  pretese.  Nel  processo  penale il p.m. e' parte ed esercita la
pretesa  punitiva  che  e'  ricollegata  al  principio costituzionale
dell'obbligatorieta'  dell'azione  penale,  pretesa  che consiste nel
vedere  affermata  la  responsabilita'  penale  di  chi, sottoposto a
regolare processo, sia riconosciuto colpevole. Nell'esercizio di tale
pretesa  e'  stata  riconosciuta  al  p.m.  la essenziale funzione di
organo  teso  a  realizzare  gli  interessi  generali della giustizia
(sent. Corte costituzionale n. 280/1995).
    L'imputato   esercita   invece   la  pretesa,  costituzionalmente
garantita  dal principio di personalita' nella responsabilita' penale
e  da  quello  di  irretroattivita'  della  legge  penale, di vedersi
riconosciuto   innocente,   attraverso   gli  strumenti  -  anch'essi
rafforzati  dalla previsione della Carta - della difesa assicurata in
ogni  stato  e  grado del procedimento anche ai non abbienti, fino al
riconoscimento del diritto alla riparazione degli errori giudiziari.
    La  legge  n. 46/2006  ha  abolito  le facolta' di appello per le
parti  a fronte delle sentenze di proscioglimento emesse a seguito di
giudizio ordinario o abbreviato: cio' significa per il p.m. non poter
piu'  impugnare decisioni che lo vedono soccombente rispetto alla sua
fondamentale  pretesa  nel  processo,  cioe' quella di vedere punito,
quale   finale  conseguenza  dell'esercizio  dell'azione  penale,  il
responsabile di un reato, tale ritenuto secondo un regolare processo.
    L'imputato  con  la riforma, invece, rimane pienamente titolare -
in  virtu' del principio costituzionale del diritto alla difesa - del
potere   di  impugnare  la  decisione  giurisdizionale  che  lo  vede
soccombente   rispetto  alla  sua  pretesa  di  vedersi  riconosciuto
innocente.
    E'  evidente  che la riforma sottrae solo ad una parte (p.m.) uno
strumento  processuale  per  vedere  affermata  nel  giudizio  la sua
fondamentale  pretesa,  che trova legittimazione costituzionale cosi'
come quella dell'imputato.
    Cio'  viola  direttamente  il  principio  sancito dall'art. 111.2
Cost.  che  prevede  che  il  processo  (in  tale  dizione ricompresi
indifferentemente  quello  civile  e  quello  penale)  si  svolga  in
condizione  di  parita' di tutte le parti, cioe' in una condizione di
diritto  che assicuri a ciascun soggetto processuale eguali strumenti
per raggiungere gli obiettivi suoi propri.
    Lo  squilibrio  fra  le  parti  creato  dalla  riforma non appare
ragionevolmente  accettabile  tenendo conto dei criteri che la stessa
Corte costituzionale ha piu' volte ribadito.
    Si  e'  detto  infatti che se e' vero che non esiste una perfetta
simmetria  ed  equivalenza  costituzionale  fra esercizio dell'azione
penale  e  diritto  alla  difesa,  e'  altrettanto  vero  che sarebbe
censurabile  sotto il profilo della ragionevolezza la legge ordinaria
che,  sbilanciando  fra di loro le facolta' attribuite alle parti del
processo,   rendesse   di   fatto   il   potere   del  p.m.  inidoneo
all'assolvimento del compito che gli assegna l'art. 112 Cost.
    Con  la legge n. 46/2006, il legislatore ha di fatto sottratto al
p.m.  il  fondamentale  strumento  del  nuovo  giudizio di merito per
vedere  riconosciuta la fondatezza della sua pretesa punitiva, mentre
ha  lasciato  tale strumento alla difesa ai fini della sua pretesa di
veder riconosciuta l'innocenza dell'imputato.
    Nella nostra Costituzione non e' prevista la indispensabilita' di
un   secondo   giudizio   di   merito;  ma,  si  e'  osservato,  essa
discenderebbe   dall'art. 2   del  VII  Protocollo  addizionale  alla
Convenzione  europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo che al
suo  primo  comma sancisce il diritto di «ogni persona dichiarata rea
da un tribunale ... di far esaminare la dichiarazione di colpevolezza
o  la  condanna  da  un  tribunale  della  giurisdizione  superiore»;
peraltro  e'  quella  stessa  fonte internazionale a prevedere che un
secondo  grado  di merito sia assicurato anche all'accusa, se e' vero
che  il secondo comma del medesimo articolo prevede esplicitamente la
condizione  di  chi  sia  stato  condannato  «a seguito di un ricorso
avverso il suo proscioglimento».
    E' pur vero che la medesima riforma restringe rispetto al passato
i  casi  di appellabilita' delle sentenze di proscioglimento da parte
dell'imputato  (nel  senso  di  escludere  oggi  l'appellabilita'  di
sentenze  di prosciglimento perche' il fatto non costituisce reato, o
perche'  non  e'  punibile  o  perche' non e' procedibile), ma e' del
tutto  evidente  che  tale  restringimento  non  opera  con la stessa
ampiezza  e radicalita' utilizzate per escludere tout court il potere
d'appello del p.m. innanzi a qualunque sentenza di proscioglimento.
    E'  altrettanto  vero  che altre riforme hanno gia' nel corso del
tempo  ristretto  le  facolta' processuali del p.m. rispetto a quelle
riconosciute all'imputato e che tali riforme hanno superato il vaglio
di  costituzionalita'  della  Corte:  e' qui il caso di richiamare la
formulazione  dell'art. 443.3  c.p.p. (che esclude la possibilita' di
appello  da  parte  del p.m. della sentenza di condanna pronunciata a
seguito   di  giudizio  abbreviato,  anche  dopo  l'eliminazione  del
presupposto  del  consenso  del  p.m.  al  rito ex legge n. 479/1999)
ritenuta  in  linea con la riforma costituzionale dell'art. 111 dalla
Corte cost. con ordinanza n. 421/2001.
    Ma  i  motivi che la Corte aveva posto a fondamento della propria
pronuncia non appaiono estensibili anche alla riforma attuale.
    Nel confermare che la Costituzione, prevedendo la parita' di p.m.
e  imputato nel processo, non intende attribuire loro necessariamente
identita'  di  poteri  processuali,  la  Corte  ha pero' ribadito che
un'eventuale  disparita'  di  trattamento  si  giustifica  e discende
ragionevolmente  dalla  peculiare  posizione istituzionale del p.m. e
dalle   esigenze   connesse   alla   corretta  amministrazione  della
giustizia,  prima  fra tutte quella costituzionalmente prevista della
ragionevole durata del processo che, proprio nel giudizio abbreviato,
trova   attuazione   nel  senso  di  semplificare  l'istruttoria  con
l'utilizzo  immediato  di  tutto il materiale probatorio raccolto dal
p.m. senza il contraddittorio cui esplicitamente l'imputato rinuncia.
Ed  e'  allora proprio la rinuncia da parte dell'imputato ad un altro
dei  principi  cardine  del giusto processo (il contraddittorio nella
raccolta  delle  prove)  a giustificare l'asimmetria che l'art. 443.3
c.p.p.  produce  nel  sottrarre  al  p.m. la facolta' di appellare la
sentenza di condanna a seguito di abbreviato.
    Alle  considerazioni gia' svolte dalla Corte puo' aggiungersi poi
la  constatazione che il restringimento delle facolta' di appello per
il  p.m.  in  caso  di  abbreviato  aveva pur sempre come presupposto
l'avvenuta  pronuncia  di  una  sentenza di condanna, che comunque e'
realizzazione del principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale.
    Totalmente  differente e' la situazione di diritto in cui si cala
la riforma di cui alla legge n. 46/2006.
    Innanzi  tutto  qui  al  p.m.  e'  sottratta  la  possibilita' di
appellare contro sentenze di proscioglimento dell'imputato, decisioni
che costituiscono la radicale negazione della pretesa punitiva da lui
impersonata per conto dello Stato. Nell'ipotesi di cui all'art. 443.3
c.p.p.,  egli  si  era  invece  solo visto frustrare nella pretesa di
vedere  accolta  la  sua  richiesta  di quantificazione della pena da
comminare  al  reo,  che non e' pretesa di rango costituzionale e che
dunque  puo'  ben  soccombere  innanzi all'esigenza costituzionale di
brevita'  del  processo.  In  secondo  luogo  la  riforma  si applica
indifferentemente  a tutti i tipi di giudizio (abbreviato o ordinario
che  siano  e  persino  contro le sentenze emesse ex art. 428 c.p.p.,
laddove   il   patrimonio   probatorio   valutabile  non  e'  neppure
definitivamente stabilizzato ed e' solo prospetticamente valutato).
    Non  vi e' alcuna giustificazione della nuova asimmetria, dunque,
riconnessa   a  istituti  deflattivi  in  cui  rinunce  dell'imputato
comportino il risultato apprezzabile della definizione piu' sollecita
del processo.
        E'    anche    vero    che    una    parte   della   dottrina
processual-penalistica  ha  da  tempo  auspicato  il  superamento del
principio  di perfetta parita' delle parti nel processo, riconoscendo
all'imputato  condannato  in primo grado sempre il diritto a veder la
sua  posizione  rivalutata  da  un  tribunale  di  seconda  istanza e
ritenendo  invece che la pretesa punitiva dello Stato, esercitata con
l'azione  penale,  possa  arrestarsi  davanti  alla sentenza di primo
grado;  lo ha fatto sottolineando come la sentenza di primo grado sia
ordinariamente  frutto  della  diretta  raccolta da parte del giudice
delle   prove  in  contraddittorio  mentre  quella  d'appello  e'  il
risultato  di  una  mera  verifica critica degli atti gia' raccolti e
tenendo  anche  in  conto  il  nuovo  precetto  costituzionale  della
ragionevole   durata   del  processo.  Tale  orientamento  troverebbe
giustificazione   nel  diverso  ruolo  esercitato  nel  processo  dal
pubblico   ministero  (parte  pubblica  dotata  di  potere)  rispetto
all'imputato  (soggetto  privato  che  subisce  il processo), secondo
quella  stessa sottolineatura che la Corte costituzionale aveva fatto
nella sua ordinanza n. 421/2001 citata.
    Senonche'  tale  auspicata  riforma  non  pare  trovare copertura
costituzionale      nell'attuale     formulazione     dell'art. 111.2
Costituzione:  non  vi  e'  dubbio,  infatti,  che qui il legislatore
costituzionale  abbia ricompreso nella dizione di parti del processo,
cui va riconosciuta in generale condizione di parita', anche il p.m.,
organo  cui  spetta  fisiologicamente  nel processo penale l'onere di
provare  il  thema decidendum; aver contestualmente previsto da parte
dello  stesso  legislatore costituzionale, nei commi 3 e 4, una serie
di   regole   di   garanzia   riguardanti   unicamente  la  posizione
dell'imputato (ragionevole durata del processo, informativa sollecita
delle  indagini,  effettivo esercizio del diritto di difesa che trova
oggi   attuazione   anche   nel   potere   di   indagine   difensiva,
inutilizzabilita'  di accuse non confermate nel contraddittorio) pare
dare  gia'  risposta  adeguata,  nel presente assetto costituzionale,
alle allegate esigenze di riequilibrio fra i diversi poteri posseduti
nel processo da p.m. e imputato.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23 legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita'  costituzionale  degli  artt. 443.1  c.p.p.  (cosi' come
modificato  dall'art. 2  della  legge  20  febbraio 2006, n. 46) e 10
della  medesima  legge  per violazione dell'art. 111 Costituzione nei
termini e per i motivi esposti.
    Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla  Corte
costituzionale,  sospende  il  giudizio  in  corso  e  i  termini  di
prescrizione del reato.
    Ordina  che  a  cura  della cancelleria la presente ordinanza sia
notificata  al Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata
al   Presidenti   della  Camera  dei  deputati  e  del  Senato  della
Repubblica.
        Torino, addi' 12 maggio 2006
                      Il Presidente: Bartolini
06C0920