N. 440 ORDINANZA (Atto di promovimento) 19 maggio 2006

Ordinanza  emessa il 19 maggio 2006 dalla Corte di appello di Palermo
nel procedimento penale a carico di Schifano Marco

Processo  penale  -  Appello  - Modifiche normative - Limitazione del
  potere  di appello del pubblico ministero alle sentenze di condanna
  - Possibilita' per il pubblico ministero di proporre appello contro
  le  sentenze  di  proscioglimento  soltanto  nelle  ipotesi  di cui
  all'art. 603,  comma 2,  se la nuova prova e' decisiva - Ricorso in
  cassazione  contro  la  sentenza  di  primo  grado - Violazione del
  principio   di   ragionevolezza   -  Ingiustificata  disparita'  di
  trattamento,  tra  pubblico  ministero  e imputato - Ingiustificata
  estensione  dei  poteri  valutativi  della  Corte  di  cassazione -
  Violazione  del  principio  dell'obbligo  di motivazione di tutti i
  provvedimenti  giurisdizionali  -  Violazione  dei  principi  della
  parita'  delle parti nel contraddittorio e della ragionevole durata
  del   processo   -  Lesione  del  principio  della  obbligatorieta'
  dell'azione penale.
- Codice  di  procedura penale, art. 593, come sostituito dall'art. 1
  della legge 20 febbraio 2006, n. 46.
- Costituzione, artt. 3, 111, commi secondo, sesto e settimo, e 112.
Processo   penale  -  Appello  -  Modifiche  normative  -  Disciplina
  transitoria   -   Inammissibilita'   dell'appello   proposto  prima
  dell'entrata  in  vigore della novella - Contrasto con il principio
  di  ragionevolezza  -  Violazione  del  principio di buon andamento
  dell'attivita'    giudiziaria    -    Violazione    del   principio
  costituzionale in tema del ricorso in cassazione.
- Legge 20 febbraio 2006, n. 46, art. 10.
- Costituzione, artt. 3, 97 e 111, comma settimo.
(GU n.1000 del 2-11-2006 )
                         LA CORTE DI APPELLO

    Riunita  in  Camera  di consiglio ha emesso la seguente ordinanza
nel  processo a carico di Schifano Marco, nato a Palermo il 25 aprile
1975,  definito  con  sentenza  emessa  dal Tribunale in composizione
monocratica  di  Sciacca  in  data  8  luglio  2005,  con la quale il
predetto  imputato  e'  stato  assolto  dal reato di violazione degli
obblighi di assistenza familiare perche' il fatto non sussiste;
    Preso  atto dell'appello ritualmente e tempestivamente interposto
avverso   la   predetta   sentenza  dal  Procuratore  generale  della
Repubblica  presso  la  Corte di appello di Palermo, che ha richiesto
l'affermazione  della colpevolezza dell'imputato in ordine al reato a
lui contestato e la condanna dello stesso alle pene di legge;
    Rilevato  che  all'udienza  del  19  maggio 2006 il procuratorere
generale  ha solvato eccezione di illegittimita' costituzionale degli
artt. 1  e 10 de1la legge 20 febbraio 2006 n. 46 per violazione degli
artt. 3  e  111,  secondo  comma  della  Costituzione;  3 e 112 della
Costituzione  in  relazione  agli artt. 73 e 74, ord. giud.; 97 della
Costituzione;  3,  111,  101  e  104 della Costituzione; 111, settimo
comma della Costituzione;
    Sentito  il  difensore  dell'imputato  che  in  data  odierna  ha
controdedotto    opponendosi   all'eccezione   sollevata   dal   p.g.
ritenendola  infondata  e  chiedendo  dichiararsi  l'inammissibilita'
dell'appello;

                            O s s e r v a

    Questa  Corte  e'  chiamata  a  pronunciarsi  sulla manifesta non
infondatezza  della  questione di compatibilita' costituzionale degli
artt.  1  e  10  della  legge  20 febbraio 2006, n. 46 che ha, tra le
altre,  modificato la disposizione di cui all art. 593 comma 1 c.p.p.
prevedendo   la  possibilita'  dell'appello  da  parte  del  pubblico
ministero e dell'imputato soltanto avverso le sentenze di condanna.
    Piu'  specificamente,  le  norme che si assumono incostituzionali
attengono,  quanto alla prima di esse (art. 593 codice di rito), alla
limitazione  del  potere  di  appello  del pubblico ministero, adesso
circoscritto   alle   sole   sentenze  di  condanna;  alla  residuale
possibilita'  di  esercitare  siffatto potere soltanto in presenza di
una  prova  decisiva  da  articolare ed assumere secondo le modalita'
indicate  nell'art. 603,  comma  2  c.p.p.;  alla declaratoria in via
preliminare  di  inammissibilita' dell'appello con ordinanza da parte
del  giudice, ove non venga disposta la rinnovazione del dibattimento
ed  alla  correlata possibilita' - per le parti - di proporre ricorso
per  cassazione  contro  la  sentenza  di  primo grado nel termine di
giorni  quarantacinque decorrente dalla notificazione della ordinanza
di inammissibilita' dell'appello.
    Quanto  alla  seconda,  la  norma  si  riferisce  alla disciplina
transitoria  che  prevede  l'applicabilita' delle disposizioni di cui
sopra  ai  procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della
novella modificatrice.
    Un primo, preliminare esame riguarda la rilevanza delle questioni
proposte:  rilevanza  nel  caso  in  esame pacificamente sussistente,
posto  che  non  essendo  state  dedotte da parte del p.m. appellante
prove  nuove  sopravvenute  nei  limiti  temporali  previsti  per  la
proposizione dell'appello e trovando applicazione - per effetto della
disciplina  transitoria  -  la previsione normativa di cui all'art. 1
della  legge  n. 46/2006,  ne  deriverebbe la necessaria pronuncia di
inammissibilita'  dell'appello ai sensi dei commi 2 e 3 dell'art. 10,
in   relazione   alla  previsione  di  carattere  generale  contenuta
nell'art. 593, comma 2 c.p.p.
    La rilevanza della questione appare evidente poiche' si tratta di
una  diversa  disciplina  del  presente  processo  conclusosi con una
sentenza  di  assoluzione  per  l'imputato  in  virtu' della quale il
pubblico  ministero  appellante,  per  un  verso vedrebbe precluso il
proprio  potere  di  appello e, per altro verso, sarebbe costretto in
tempi  peraltro  assai  ristretti,  a proporre ricorso per cassazione
avverso la sentenza di primo grado.
    Tanto  premesso,  ritiene la Corte di dovere fare una ulteriore e
preliminare  puntualizzazione, propedeutica all'esame delle eccezioni
sollevate dal procuratore generale.
    Secondo    le    indicazioni    contenute   nell'art. 134   della
Costituzione,  e'  rimessa  alla  Corte costituzionale la risoluzione
delle  questioni  di  legittimita' costituzionale di leggi (o atti ad
essa equiparati) che siano state sollevate di ufficio ovvero eccepite
da  una  delle  parti nel corso del giudizio, con l'unico, preclusivo
limite,  della  eventuale  manifesta  infondatezza  delle  questioni,
ritenuta dal giudice.
      E'  dunque  evidente  che  nel  caso  della  proposizione della
questione  di  legittimita'  costituzionale competa al giudice che ne
sia  investito  da  una delle parti, effettuare una prima valutazione
della  rilevanza  della  questione  e'  della sua eventuale manifesta
infondatezza  in  stretta sequenza temporale e logica, nel senso che,
una  volta positivamente risolto il problema concernente la rilevanza
della  questione,  dovra' essere affrontato il problema relativo alla
eventuale manifesta infondatezza di essa.
    Tale  ultimo  esame  non  implica,  tuttavia, ad avviso di questa
Corte,  un'analisi  approfondita e particolareggiata dei vari profili
di  illegittimita' prospettati, nel caso in esame, peraltro, non solo
numerosi,  ma,  soprattutto  complessi ed estremamente articolati: se
cosi'  operasse,  la  Corte  finirebbe,  con  il travalicare i propri
compiti, interferendo sui compiti propori della Corte costituzionale,
unico  Giudice  deputato - per legge costituzionale (art. 134 cit.) -
ad  esprimere il richiesto giudizio di legittimita' costituzionale di
quelle norme che si assumono violate.
    Siffatta soluzione attribuisce al giudice chiamato ad operare una
valutazione  per  cosi'  dire  «preliminare»,  il doveroso compito di
rimettere  alla  Corte  costituzionale  unicamente  la risoluzione di
quelle   questioni   che,   oltre  ad  essere  rilevanti,  non  siano
manifestamente  infondate,  intendendosi con tale ultima espressione,
l'insussistenza,  o la mera apparenza, dei dubbi di costituzionalita'
prospettati dalle parti.
    Nel  caso  in  esame,  questa  Corte,  attesi  i  profili, invero
complessi  e tra loro intimamente collegati, delle questioni proposte
dal  procuratore  generale,  ritiene  le  stesse  non  manifestamente
infondate alla luce delle seguenti considerazioni.
    Una   prima   questione   concerne   la  presunta  illegittimita'
costituzionale  dell'art.  1  della  legge in esame rispetto all'art.
111,  secondo  comma  della  Costituzione,  a  tenore  del  quale, il
processo  si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di
parita',   davanti   ad  un  giudice  terzo  e  imparziale,  con  una
ragionevole durata assicurata dalla legge.
    Ritiene  la  Corte  che  i  rilievi  prospettati  dal procuratore
generale  non  solo con riferimento all'art. 111 sopra richiamato, ma
anche con riguardo all'art. 3 della Costituzione, siano meritevoli di
considerazione,  profilandosi  -  per  un  verso - una ingiustificata
compressione della parita' delle parti nel processo, che va inteso in
una  accezione  ampia,  comprensiva  anche delle fasi successive alle
indagini  preliminari,  sino alla sua completa definizione; per altro
verso, profilandosi una irragionevole disparita' tra la posizione del
p.m.  e  quella dell'imputato, solo apparentemente superata dal nuovo
testo normativo.
    Infatti,   quanto   al  significato  da  attribuire  alla  parola
«processo»,   e'  evidente  che  la  Costituzione  intende  riferirsi
all'intero percorso che dalla notitia criminis perviene alla sentenza
definitiva, in armonia con quanto previsto all'art. 24, secondo comma
della Costituzione.
    Ora,  a  fronte  del legittimo potere riconosciuto all'imputato e
costituzionalmente   tutelato   ex  art. 24  della  Costituzione,  di
esercizio  del  proprio  diritto  di difesa in ogni stato e grado del
procedimento,  non  vi  e'  dubbio  che  anche  il p.m. e' chiamato a
esercitare la propria pretesa punitiva in ossequio al principio della
obbligatorieta'  dell'azione  penale (garantita attraverso l'art. 112
Cost.),  al  fine  di  vedere  affermata la responsabilita' penale di
colui che e' stato assoggetto al processo.
    Trattasi   di  una  pretesa  punitiva  di  rango  costituzionale,
riconoscendosi  in  capo  al p.m. la funzione di organo preposto alla
realizzazione  degli  interessi  generali  della  giustizia, come del
resto previsto dagli artt. 73 e 74 ord. giud.
    Ora,  se e' indubitabile che la previsione di limiti al potere di
impugnazione  del  p.m. non e', di per se', in contrasto con la Carta
fondamentale   (tanto   e'   vero   che,   in  tema  di  sentenze  di
proscioglimento  a  seguito  di giudizio abbreviato, tali limiti sono
stati ritenuti compatibili con il dettato costituzionale - da ultimo,
ord.  Corte costituzionale n. 421/2001), e' tuttavia da rilevare come
tra la speciale disciplina prevista in materia di giudizio abbreviato
(dettata  anche  da  evidenti ragioni di politica giudiziaria sottese
alla  premialita' del rito) e quella oggi prevista dal nuovo art. 593
c.p.p., vi siano sensibili differenze.
    Manca,   infatti,   in   quest'ultimo   caso   qualsiasi  ragione
giustificativa  per  una limitazione del potere di appello, avvertita
dallo  stesso  Presidente  della  Repubblica nel suo messaggio del 20
gennaio  2006  con  il  quale era stata rinviata alle Camere la prima
stesura della legge.
    Il  Presidente della Repubblica aveva, infatti, segnalato che «la
soppressione  dell'appello delle sentenze di proscioglimento, a causa
della  disorganicita'  della  riforma, fa si' che la stessa posizione
delle  parti  nel  processo  venga  ad  assumere  una  condizione  di
disparita'  che  supera  quella  compatibile  con la diversita' delle
funzioni svolte dalle parti stesse nel processo».
    Ne'  l'inconveniente risulta eliminato attraverso la formulazione
del  comma  2  dell'art. 593  c.p.p.  che  prevede la possibilita' di
appello  per  il  p.m.  a  condizione  che  venga  indicata una prova
sopravvenuta rispetto alla fase precedente: trattasi, infatti, di una
ipotesi  del  tutto residuale e marginale che di fatto rende la norma
sostanzialmente  identica a quella gia' oggetto dei rilievi formulati
dal Presidente della Repubblica.
    L'irragionevolezza  della  norma, peraltro, si coglie appieno la'
dove   si  consideri  che,  partendo  dalla  premessa  che  l'appello
rappresenta,una  forma  di  garanzia  contro gli errori contenuti nel
giudizio  di  primo  grado,  la limitazione di esso ad una sola delle
parti  impedisce di pervenire al risultato della decisione giusta cui
mira qualsiasi processo.
    Senza   dire  che  apparirebbero  sostanzialmente  vanificate  le
funzioni  di rilievo costituzionale del p.m. come risultano delineate
dagli artt. 73 e 74 ord. giud.
    Ritiene,   ancora,   la  Corte  di  poter  affermare,  rebus  sic
stantibus,  anche  la violazione del principio di ragionevolezza, dal
momento  che non e' dato comprendere in base a quale criterio al p.m.
e'  dato  appellare  sentenze  di  condanna,  se ritenute troppo miti
rispetto  alla  gravita'  del  fatto  e non e' dato appellare avverso
sentenze di assoluzione del tutto incoerenti rispetto alle risultanze
processuali.
    Pur  dovendosi  ribadire che, a differenza di quanto previsto per
l'imputato,  il  diritto  del  p.m.  ad una revisione di merito della
decisione   non   trovi  una  diretta  copertura  costituzionale,  e'
innegabile  che  un sistema che preveda lo svolgimento di un processo
giusto  -  tale  previsto  dalla  Costituzione all'art. 111 nella sua
interezza   -   contempli   la   possibilita'   che   anche  il  p.m.
nell'interesse  superiore  della  giustizia, veda riconosciuto il suo
potere di interloquire sempre nel processo fino alla sua conclusione,
passando  attraverso  una  revisione  critica  degli errori contenuti
nella   sentenza,   non   necessariamente  circoscritti  ai  vizi  di
legittimita' indicati nell'art. 606 c.p.p.
    Questione di non poco momento e' poi quella afferente il rapporto
-  che  si  assume  violato - tra l'art. 1 della legge in argomento e
l'art. 111, commi primo, sesto e settimo della Costituzione.
    In  conseguenza delle modifiche apportate con tale legge, risulta
notevolmente  ed  irragionevolmente  estesa  l'area  del  giudizio di
merito   della   Cassazione,   trasformata   quindi   da  giudice  di
legittimita', (anche) a giudice di merito.
    A  norma  dell'art.  111,  settimo  comma  della Costituzione, e'
sempre  ammesso ricorso avverso le sentenze ed i provvementi adottati
in  tema  di  liberta'  personale, davanti la Corte di cassazione per
violazione   di  legge:  e'  dunque  evidente  che  l'intero  sistema
processuale  si  e'  fino  a questo momento poggiato sul c.d. «doppio
giudizio  di  merito»  da  parte  di  un giudice di primo grado e, di
seguito,  di  un  giudice  di  secondo  grado,  mentre  alla Corte di
cassazione  e'  rimesso  il  delicatissimo  compito di riesaminare il
processo  solo nei casi, tassativamente determinati, di violazione di
legge.
    Tale  compito,  correlato  all'obbligo di motivazione di tutti in
provvedimenti  giurisdizionali  contemplato nel sesto comma dell'art.
111  della  Costituzione, finisce con l'essere vanificato per effetto
di una riforma che introduce tra i vizi ricorribili per cassazione il
travisamento del fatto non piu' ancorato al testo della decisione, ma
riferito a tutti i dati processuali.
    E'  da  escludere comunque un controllo di merito in via generale
per  le  sentenze  di proscioglimento, posto che non tutti gli errori
contenuti  nella  sentenza  potranno  rientrare  in una delle ipotesi
enunciate nell'art. 606 c.p.p.
    Non  e'  chi  non  veda  in  un  sistema  di tal fatta una palese
irragionevolezza  rappresentata,  oltre  che  da una ingiustificabile
estensione  dei  poteri  valutativi  della  Cassazione  con correlata
indeterminatezza  dei  criteri cui dovra' essere informato il ricorso
per  cassazione,  rimessi  esclusivamente al giudice di legittimita',
anche  da un possibile, quanto ingiustificato, allungamento dei tempi
di definizione del processo.
    Del  resto  proprio  su  tali  punti  si  e',  ancora  una volta,
incentrato  il messaggio del Capo dello Stato in sede di rinvio della
legge  alle  Camere  che,  tuttavia, sembra essere stato ignorato dal
legislatore.
    Profili  di  incostituzionalita'  sono,  ancora, rinvenibili, per
quanto  rileva  in  questa  sede,  nell'art. 10 della nuova legge che
regola la disciplina transitoria.
    Premesso  che  con  tale disciplina si e' di fatto verificata una
sostanziale abrogazione ex lege di tutti gli appelli proposti al p.m.
avverso  le  sentenze  di  proscioglimento  deliberate nell'ambito di
processi  pendenti  alla  data  di  entrata in vigore della legge, la
norma  in  esame  appare,  anzitutto, confliggere con l'art. 97 della
Costituzione,  in  quanto il rispetto del principio di buon andamento
dell'attivita'  giudiziaria  avrebbe  dovuto imporre la previsione di
norme  di  salvaguardia  delle  attivita'  processuali compiute dalle
parti  prima  dell'entrata  in  vigore  della  legge,  per evitare il
collasso dell'intero sistema processuale.
    Ancora  piu' grave appare l'inconciliabiita' della norma rispetto
al    principio   costituzionalmente   garantito   all'art. 3   della
ragionevolezza,  essendo  indiscutibile  un effetto retroattivo della
legge processuale.
    E,   seppure  va  rimarcata  la  possibilita'  ex  art. 25  della
Costituzione  di una retroattivita' delle dette norme, esclusa invece
per  le  norme  di diritto penale sostanziale, e' comunque innegabile
una  interferenza  diretta  delle  leggi  retroattive  sull'attivita'
giurisdizionale,  che  esige  la ragionevolezza della retroattivita',
certamente  non assicurata laddove la scelta legislativa che sta alla
base non abbia alcuna plausibile ragione giustificatrice.
    Non  solo  non  e'  dato rinvenire alcuna plausibile ragione alla
base  di  tale scelta, ma - come affermato nella sentenza n. 525/2000
della  Corte costituzionale - anche nella materia processuale vale la
regola  della  tutela  dell'affidamento,  la quale esige che le parti
conoscano il momento in cui sorgono oneri con effetti pregiudizievoli
e,  ancor  piu',  confidino nello svolgimento del giudizio secondo le
regole vigenti all'epoca del compimento degli atti processuali.
    In ultima analisi, il mutamento improvviso della disciplina per i
processi  in  corso,  senza  alcuna  garanzia,  di  tipo  intermedio,
dell'effetto  conservativo,  anche per consentire un'entrata a regime
della legge, appare del tutto priva di giustificazione logica.
    Si tratta, ancora una volta, di uno scardinamento del sistema che
urta  contro  diversi  principi  di  rango  costituzionale  e  che il
legislatore  ha  mostrato  di  voler evitare anche per la materia del
diritto  penale  sostanziale,  nonostante la copertura costituzionale
dell'art. 25,   secondo  comma  della  Costituzione,  in  materia  di
mutamento   dei   termini   di  prescrizione  dei  reati,  prevedendo
opportunamente  una  «moratoria»  per  i  processi  in  corso  il cui
dibattimento sia stato aperto in primo grado.
    A  conclusioni  non  dissimili  sul  piano  della  compatibilita'
costituzionale   deve   giungersi   con   riferimento   al  contenuto
dell'art. 10,  comma  2 della legge in esame che prevede la pronuncia
di  una  ordinanza  non  impugnabile di inammissibilita' dell'appello
proposto dal p.m. avverso la sentenza di proscioglimento: avendo tale
ordinanza - per il suo contenuto definitorio - natura di sentenza, va
riconosciuto   il   potere  di  ricorrere  per  Cassazione,  pena  la
violazione,   per   un  verso,  dell'art. 111,  settimo  comma  della
Costituzione  e,  per  altro  verso,  dell'art. 3 della Costituzione,
sotto l'aspetto della irragionevolezza della norma che sconvolgerebbe
l'intero sistema delle impugnazioni.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87;
    Dichiaraa  rilevante e non manifestamte infondata la questione di
legittimita'  costituzionale  degli artt. 593 c.p.p., come modificato
dall'art.  1  della  legge  n. 46/2006  e 10 della medesima legge per
violazione  degli  artt. 3, 111, commi secondo, sesto e settimo, 97 e
112  della  Costituzione  nei  termini  e  per  le ragioni esposte in
motivazione.
    Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla  Corte
costituzionale, sospendendo il giudizio in corso.
    Dispone  che la presente ordinanza venga notificata, a cura della
cancelleria  al Presidente del Consiglio dei ministri e ai Presidenti
dei due rami del Parlamento.
        Palermo, addi' 19 maggio 2006
                        Il Presidente: Luzio
06C0928