N. 341 SENTENZA 23 - 27 ottobre 2006

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Ordinamento penitenziario - Reclami dei detenuti in materia di lavoro
  -  Competenza  esclusiva  del magistrato di sorveglianza - Giudizio
  con  rito camerale - Lesione del diritto di difesa e del diritto al
  contraddittorio - Disparita' di trattamento fra lavoratori detenuti
  e   lavoratori  non  detenuti  -  Illegittimita'  costituzionale  -
  Assorbimento delle ulteriori censure.
- Legge 26 luglio 1975, n. 354, art. 69, sesto comma, lettera a).
- Costituzione, artt. 24, secondo comma, 111, secondo comma, 3, primo
  comma  (24, primo comma, 27, primo e terzo comma, 81, quarto comma,
  97).
(GU n.1000 del 2-11-2006 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
  Presidente: Franco BILE;
  Giudici:  Giovanni  Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO,
Paolo  MADDALENA,  Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO,
Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE,
Giuseppe TESAURO;
ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 69,  sesto
comma,   lettera a),   della  legge  26 luglio  1975,  n. 354  (Norme
sull'ordinamento   penitenziario   e   sull'esecuzione  delle  misure
privative  e  limitative  della  liberta), promosso con ordinanza del
17 novembre  2005 dal Magistrato di sorveglianza di Pisa, sul reclamo
proposto  da  V.A.M.,  iscritta al n. 7 del registro ordinanze 2006 e
pubblicata  nella  Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, 1ª serie
speciale, dell'anno 2006.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  Camera  di  consiglio  del 5 luglio 2006 il giudice
relatore Gaetano Silvestri.

                          Ritenuto in fatto

    1.  -  Con  ordinanza  del  17 novembre  2005  il  Magistrato  di
sorveglianza  di Pisa ha sollevato, con riferimento agli artt. 3, 24,
primo  e secondo comma, 27, primo e terzo comma, 81, quarto comma, 97
e  111  della  Costituzione, questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 69,  sesto  comma,  lettera a), della legge 26 luglio 1975,
n. 354  (Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle
misure  privative  e  limitative  della  liberta), nella parte in cui
prevede la competenza del magistrato di sorveglianza «sui reclami dei
detenuti  e  degli  internati  concernenti  l'osservanza  delle norme
riguardanti  l'attribuzione  della qualifica lavorativa, la mercede e
la remunerazione, nonche' lo svolgimento delle attivita' di tirocinio
e di lavoro e le assicurazioni sociali».
    Avanti  al  rimettente e' stata riassunta, nelle forme risultanti
dal  combinato  disposto  degli artt. 14-ter e 69, sesto comma, della
legge n. 354 del 1975, una controversia gia' promossa da un detenuto,
presso  il  giudice  del lavoro, ai sensi dell'art. 409 del codice di
procedura  civile.  Si  trattava,  nella  specie, di domanda volta ad
ottenere  l'accertamento  della  natura  subordinata  del rapporto di
lavoro gia' intrattenuto tra il ricorrente ed un'impresa privata (con
prestazioni erogate all'interno dell'istituto penitenziario), nonche'
della  illegittimita'  del  licenziamento  intimato,  con conseguente
condanna  del  datore  di  lavoro al pagamento di somme. Il tribunale
adito,  con  sentenza del 27 aprile 2005, aveva dichiarato la propria
incompetenza,  individuando  l'odierno giudice a quo quale magistrato
di  sorveglianza  competente  a norma dell'art. 69 della citata legge
n. 354 del 1975.
    1.1.  -  Il  rimettente,  premesso che il principio applicato dal
giudice  del lavoro e' asseverato da ripetute pronunce della Corte di
cassazione,  e  costituisce  ormai  «diritto vivente», ritiene che le
caratteristiche  del  procedimento  di  sorveglianza  - per quanto lo
stesso  abbia assunto piena natura giurisdizionale con l'introduzione
dell'art. 14-ter dell'ordinamento penitenziario, ad opera dell'art. 2
della   legge   10 ottobre   1986,   n. 663   (Modifiche  alla  legge
sull'ordinamento   penitenziario  e  sulla  esecuzione  delle  misure
privative  e limitative della liberta) - non siano compatibili con le
esigenze  di  difesa  e contraddittorio tipiche delle controversie di
lavoro.
    Rileva  il  giudice  a  quo,  in  particolare,  che  la procedura
regolata dal citato art. 14-ter non prevede la partecipazione diretta
del detenuto, il quale e' rappresentato dal difensore e puo' soltanto
presentare   memorie,   mentre   la   sua   controparte,  individuata
nell'amministrazione   penitenziaria,  non  e'  presente  all'udienza
neppure  per  il  tramite  di  un  difensore, posto che tale non puo'
essere  considerato  il  pubblico ministero, il quale invece e' parte
necessaria  del  procedimento. Una disciplina siffatta implicherebbe,
per  entrambi  i soggetti del rapporto controverso, la violazione dei
principi  fissati nel primo e nel secondo comma dell'art. 24 Cost. Il
diritto  di  difesa  della parte opposta al lavoratore detenuto, poi,
sarebbe illecitamente compresso anche in quanto il solo lavoratore, a
parere  del  rimettente,  potrebbe  impugnare,  mediante  ricorso per
cassazione,  l'ordinanza  assunta  dal  magistrato di sorveglianza in
conclusione  del procedimento. Da questa stessa regola sortirebbe una
ulteriore   violazione   di  rilievo  costituzionale,  riferibile  al
principio   di  parita'  tra  le  parti  sancito  nel  secondo  comma
dell'art. 111 Cost.
    1.2. - Il giudice a quo ritiene, inoltre, che la disciplina della
competenza  territoriale  nel  procedimento di sorveglianza (art. 677
del  codice di procedura penale) sia priva di funzionalita', nel caso
di trasferimento del detenuto, rispetto alle esigenze di accertamento
dei  fatti  rilevanti  per la soluzione della controversia di lavoro,
essendo  riferita  al luogo di detenzione dell'interessato al momento
del   reclamo,  e  non  al  tempo  della  prestazione  lavorativa,  e
comportando  oltretutto  la partecipazione al giudizio di un soggetto
diverso  da  quello  coinvolto  nel  rapporto  (cioe' il responsabile
dell'istituto di detenzione del reclamante nel momento del giudizio e
non  quello  dell'istituto ove l'interessato fosse ristretto al tempo
della prestazione). In tali circostanze, secondo il giudice a quo, si
determinerebbe   una  violazione  del  principio  di  buon  andamento
dell'amministrazione,  anche  per  quanto  riguarda  l'organizzazione
degli  uffici giudiziari (art. 97 Cost.). Lo stesso parametro sarebbe
poi   violato   per   effetto  dell'attribuzione  di  una  competenza
concernente   questioni   specialistiche   ad   un   giudice  la  cui
preparazione professionale concerne materie completamente diverse.
    1.3.   -   Il   rimettente  prospetta,  ancora,  una  illegittima
discriminazione, rilevante ex art. 3 Cost., tra i lavoratori detenuti
e  quelli non assoggettati a limitazioni della liberta' personale. La
differenza   di   trattamento,  gia'  considerata  ragionevole  dalla
giurisprudenza   di   legittimita'   sulla  base  delle  peculiarita'
attribuite  al  lavoro penitenziario, sarebbe ormai incompatibile con
l'attuale  assimilazione  del  rapporto  di  lavoro  dei  detenuti al
rapporto  di  lavoro  ordinario,  che  questa  stessa  Corte  avrebbe
sancito,  intervenendo  sul diritto ad un periodo feriale retribuito,
con   la  sentenza  n. 158  del  2001.  Detta  assimilazione  sarebbe
particolarmente  significativa, a parere del giudice a quo, quando il
rapporto di lavoro viene istituito, come nella specie, con un'impresa
privata   ed  estranea  all'amministrazione  penitenziaria,  mediante
stipulazione  di  un  ordinario  contratto e con espresso rinvio alle
norme   corrispondenti  del  codice  civile  e  della  contrattazione
collettiva. Non vi sarebbe dunque ragione di assicurare al lavoratore
detenuto una tutela meno intensa di quella riconosciuta ad ogni altro
lavoratore, come ad esempio avviene attraverso la regola di immediata
esecutivita'  della  sentenza  di  primo  grado  nel  rito del lavoro
(regola  non  applicabile,  a  dire del rimettente, all'ordinanza del
magistrato di sorveglianza). Del resto, osserva il giudice a quo, non
esisterebbe  un  principio di necessaria competenza del magistrato di
sorveglianza  per  la  tutela  dei  diritti  soggettivi del detenuto,
neppure  quando la controparte sia rappresentata dall'amministrazione
penitenziaria,  come  dimostrerebbe  la  competenza  riconosciuta  al
giudice  civile per fatti che comportino responsabilita' risarcitoria
nei confronti dei detenuti.
    1.4.  - Una grave carenza di tutela - prosegue il rimettente - si
riscontra  anche  con riferimento alla posizione del datore di lavoro
coinvolto  nella  controversia, il quale, nella generalita' dei casi,
resta  completamente  estraneo al procedimento camerale celebrato dal
magistrato  di sorveglianza. La questione non potrebbe essere risolta
(come   talvolta  si  e'  fatto  dalla  giurisprudenza)  individuando
nell'amministrazione,  sempre e comunque, la controparte del detenuto
lavoratore.  In  questa  prospettiva  tutti  gli  oneri  nascenti dal
rapporto  di  lavoro,  compresi  quelli  retributivi e previdenziali,
andrebbero  riferiti  proprio  all'amministrazione,  attribuendole un
ruolo  improprio  di  interposizione  e  garanzia, e costringendola a
costose  azioni  di  recupero  dall'esito  incerto (senza che per gli
oneri  corrispondenti  sia  stata  prevista dalla legge la necessaria
copertura,  in  ossequio alla disposizione di cui all'art. 81, quarto
comma,  Cost.).  La  responsabilita'  surrogatoria, d'altra parte, si
estenderebbe  ai  casi  di infortunio e malattia professionale, anche
sotto  il  profilo  penale,  con  effetto  incompatibile,  secondo il
rimettente,  con  il  principio di personalita' della responsabilita'
penale (art. 27, primo comma, Cost.).
    Se,  dunque,  il  rapporto di lavoro del detenuto puo' riguardare
una  parte  estranea  all'amministrazione  penitenziaria,  che rimane
esclusa   dal   procedimento   di   cui   agli   artt. 14-ter   e  69
dell'Ordinamento   penitenziario,  risulta  evidente,  a  parere  del
giudice  a  quo,  l'incompatibilita'  tra  la  norma  impugnata  ed i
principi fissati nei primi due commi dell'art. 24 Cost.
    1.5.  -  Il  rimettente  ritiene,  infine, che il complesso degli
oneri  attribuiti  ai responsabili degli istituti penitenziari (oneri
che  addirittura coinciderebbero con quelli del datore di lavoro, ove
fosse  accolta  la  tesi giurisprudenziale della loro responsabilita'
surrogatoria  per  le  obbligazioni  assunte  dalle  imprese esterne)
varrebbe  a  disincentivare l'azione istituzionale mirata al recupero
dei  detenuti  attraverso il lavoro, cosi' frustrando il principio di
necessaria  funzionalita'  rieducativa  della  pena  (art. 27,  terzo
comma, Cost.).
    2.  -  Il  Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  e'  intervenuto nel
giudizio  con  atto  depositato  il 7 febbraio 2006, chiedendo che la
questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, infondata.
    Il giudice a quo avrebbe omesso, anzitutto, la necessaria ricerca
di  una  soluzione  interpretativa  utile  ad  evitare la prospettata
lesione  di interessi costituzionalmente protetti. In effetti, se con
formula  tralaticia le Sezioni unite civili della Corte suprema hanno
piu'  volte prospettato una competenza del magistrato di sorveglianza
anche  per  le  controversie  riguardanti  datori  di  lavoro diversi
dall'amministrazione     penitenziaria,    non    mancherebbero    in
giurisprudenza  affermazioni,  pur  isolate,  dell'opposto principio,
cioe'  d'una competenza attribuita, nei casi in questione, secondo le
regole del processo civile.
    In  ogni  caso,  sempre  a  parere  dell'Avvocatura  erariale, la
questione  sarebbe  infondata.  La  deroga  al  criterio  generale di
competenza  si giustificherebbe (nella prospettiva dell'art. 3 Cost.)
per   la   peculiarita'   del  lavoro  carcerario,  strumentale  alla
rieducazione  del  condannato  e comunque fortemente influenzato, nel
suo  svolgimento,  dalla  condizione  detentiva  del  lavoratore. Pur
quando intrattenuto con datori di lavoro esterni all'amministrazione,
il  rapporto  si  caratterizzerebbe  per  una disciplina particolare,
anche nelle fonti (ad esempio la regolazione per mezzo di convenzioni
tra  l'amministrazione  penitenziaria  ed  il terzo). Al procedimento
delineato  dal combinato disposto degli artt. 69 e 14-ter della legge
n. 354  del  1975,  d'altra parte, andrebbe ormai riconosciuta natura
giurisdizionale  piena,  e  dunque  utile a garantire i diritti delle
parti,   sia   pure  con  modalita'  particolari  che  riflettono  la
peculiarita' del rapporto sottostante.
    Le  doglianze riferite all'art. 97 Cost., oltre che inammissibili
perche'  relative ad una norma non impugnata (quella che determina la
competenza  territoriale  del  magistrato  di sorveglianza) e perche'
formulate  in modo generico, sarebbero anche infondate. La conduzione
del   procedimento   ad   opera   del   magistrato   investito  della
giurisdizione   nel   luogo  di  attuale  detenzione  del  lavoratore
varrebbe,  infatti,  ad  evitare  complessi  e  costosi trasferimenti
presso una sede giudiziaria diversa e, comunque, esterna al carcere.
    Per quanto attiene al contraddittorio ed al diritto di difesa del
datore  di  lavoro  coinvolto  nella controversia, l'Avvocatura dello
Stato  rileva che anche nei rapporti concernenti imprenditori privati
il   ruolo   di   controparte   del   lavoratore  sarebbe  riferibile
all'amministrazione  penitenziaria,  la  quale  puo'  partecipare  al
procedimento  mediante produzione di memorie. Se cosi' non fosse, per
altro,  il  diverso  datore  di lavoro potrebbe far valere le proprie
ragioni  in  un  giudizio  ulteriore,  cui avrebbe diritto non avendo
preso parte al procedimento avanti al magistrato di sorveglianza.
    In  un  caso  e  nell'altro, il rimettente non avrebbe dato prova
dell'eventualita'  di  costi «riflessi» a carico dell'amministrazione
penitenziaria, cosi' risultando infondata anche l'ulteriore questione
proposta ex art. 81 Cost.

                       Considerato in diritto

    1.   -  Il  Magistrato  di  sorveglianza  di  Pisa  dubita  della
legittimita'  costituzionale  dell'art. 69,  sesto comma, lettera a),
della   legge   26 luglio   1975,   n. 354   (Norme  sull'ordinamento
penitenziario  e  sull'esecuzione delle misure privative e limitative
della  liberta)  -  nella  parte  in  cui  prevede  la competenza del
magistrato  di  sorveglianza, che giudica secondo la procedura di cui
all'art. 14-ter  della stessa legge, sui reclami dei detenuti e degli
internati    concernenti   l'osservanza   delle   norme   riguardanti
l'attribuzione   della   qualifica   lavorativa,   la  mercede  e  la
remunerazione,  nonche' lo svolgimento delle attivita' di tirocinio e
di lavoro e le assicurazioni sociali - in relazione al disposto degli
artt. 3,  24,  primo  e  secondo  comma, 27, primo e terzo comma, 81,
quarto comma, 97 e 111 della Costituzione.
    2. - La questione e' fondata.
    2.1.  -  Lo  svolgimento  di  attivita'  lavorative  da parte dei
detenuti contribuisce a rendere le modalita' di espiazione della pena
conformi  al principio espresso nell'art. 27, terzo comma, Cost., che
assegna alla pena stessa la finalita' di rieducazione del condannato.
Questa  Corte  ha  precisato  che  il  lavoro dei detenuti, lungi dal
caratterizzarsi  come  fattore di aggravata afflizione, «si pone come
uno  dei  mezzi  di  recupero  della  persona, valore centrale per il
nostro sistema penitenziario non solo sotto il profilo della dignita'
individuale   ma   anche  sotto  quello  della  valorizzazione  delle
attitudini  e  delle  specifiche  capacita'  lavorative  del singolo»
(sentenza n. 158 del 2001).
    Il  legislatore  ha  enunciato con chiarezza lo stesso principio,
specificando  da  una  parte  che  «il  lavoro  penitenziario  non ha
carattere   afflittivo   ed   e'   remunerato»   e   dall'altra   che
«l'organizzazione   e   i  metodi  del  lavoro  penitenziario  devono
riflettere  quelli  del  lavoro  nella societa' libera al fine di far
acquisire  ai  soggetti  una preparazione professionale adeguata alle
normali   condizioni   lavorative  per  agevolarne  il  reinserimento
sociale»  (art. 20,  secondo  e  quarto comma, della legge n. 354 del
1975).
    Il   lavoro   dei  detenuti,  sia  che  venga  svolto  in  favore
dell'amministrazione  penitenziaria,  sia che venga effettuato - come
avviene  sempre piu' di frequente - alle dipendenze di terzi, implica
una  serie  di  diritti  e  obblighi delle parti, modulati sulla base
contrattuale  dei  singoli  rapporti instaurati. Questa Corte ha gia'
chiarito  che  dal  primato  della persona umana, proprio del vigente
ordinamento  costituzionale,  discende,  come necessaria conseguenza,
che  i  diritti  fondamentali  «trovano  nella condizione di coloro i
quali  sono  sottoposti ad una restrizione della liberta' personale i
limiti  ad essa inerenti, connessi alle finalita' che sono proprie di
tale  restrizione, ma non sono affatto annullati da tale condizione».
Posta  la indispensabile connessione tra riconoscimento dei diritti e
possibilita'  di farli valere innanzi a un giudice in un procedimento
di  natura giurisdizionale, deve essere sempre assicurato il rispetto
delle  «garanzie  procedimentali  minime  costituzionalmente  dovute,
quali  la  possibilita'  del  contraddittorio,  la  stabilita'  della
decisione  e  l'impugnabilita'  con ricorso per cassazione» (sentenza
n. 26 del 1999).
    2.2.  - Secondo i principi sopra richiamati, si possono stabilire
tre  punti  fermi  nella  materia in cui si inserisce la questione di
legittimita' costituzionale sollevata dal giudice rimettente.
    Il  primo  consiste  nella  necessaria tutela giurisdizionale dei
diritti  nascenti  dai  rapporti  di  lavoro instauratisi nell'ambito
dell'organizzazione  penitenziaria.  Tali  diritti  non sono soltanto
quelli  dei  detenuti,  ma  anche  quelli  degli  altri  soggetti del
rapporto,   quali   i   datori  di  lavoro,  che  non  devono  subire
indirettamente  menomazioni della propria sfera giuridica per il solo
fatto   di   aver   stipulato  contratti  con  persone  sottoposte  a
restrizione della liberta' personale.
    Il  secondo  punto consiste nella possibilita' che il legislatore
ponga  limiti  ai  diritti  in  questione in rapporto alla condizione
restrittiva  della liberta' personale cui e' sottoposto il lavoratore
detenuto.  La  configurazione sostanziale e la tutela giurisdizionale
dei  diritti  nascenti  dai  rapporti  di lavoro dei detenuti possono
quindi non coincidere con quelle che contrassegnano il lavoro libero,
se  cio'  risulta  necessario  per  mantenere  integre  le  modalita'
essenziali  di  esecuzione  della  pena,  e  per  assicurare,  con la
previsione  di  specifiche  modalita' di svolgimento del processo, le
corrispondenti     esigenze     organizzative    dell'amministrazione
penitenziaria. In altre parole, i diritti dei detenuti devono trovare
un  ragionevole  bilanciamento  nel  diritto della collettivita' alla
corretta esecuzione delle sanzioni penali.
    Il  terzo  punto,  derivante  dai  primi due, e' costituito dalla
illegittimita'  di ogni «irrazionale ingiustificata discriminazione»,
con  riguardo  ai diritti inerenti alle prestazioni lavorative, tra i
detenuti e gli altri cittadini (sentenza n. 49 del 1992).
    3.  -  La  questione  di legittimita' sollevata dal giudice a quo
deve  essere esaminata alla luce dei punti fermi della giurisprudenza
costituzionale fin qui citata.
    3.1. - Non v'e' dubbio che il detenuto abbia diritto a far valere
in  giudizio  le  pretese  nascenti  dalla  prestazione  di attivita'
lavorative.  E'  parimenti  certo  che  sia  il  detenuto  sia la sua
controparte abbiano diritto ad un procedimento giurisdizionale basato
sul  contraddittorio,  come  imposto dagli artt. 24, secondo comma, e
111,  secondo comma, Cost., i quali attribuiscono a tutte le parti un
nucleo minimo di garanzie.
    Se si valuta la norma impugnata nella prospettiva delle suesposte
garanzie  costituzionali,  si  deve  notare,  in  primo luogo, che la
procedura  camerale  in  essa prevista, tipica dei giudizi davanti al
magistrato  di  sorveglianza, non assicura al detenuto una difesa nei
suoi  tratti essenziali equivalente a quella offerta dall'ordinamento
a  tutti  i  lavoratori,  giacche'  e'  consentito un contraddittorio
puramente  cartolare,  che  esclude  la  diretta  partecipazione  del
lavoratore-detenuto al processo. Per altro verso, la disposizione non
assicura   adeguata   tutela   al   datore   di   lavoro,  posto  che
all'amministrazione penitenziaria e' consentita solo la presentazione
di   memorie,   e   che  il  terzo  eventualmente  interessato  quale
controparte  del  lavoratore (situazione che ricorre nel caso oggetto
del    giudizio    principale)    resta   addirittura   escluso   dal
contraddittorio,  pur  essendo destinato, in ogni caso, a rispondere,
in  via  diretta  o indiretta, della lesione dei diritti spettanti al
detenuto  lavoratore, se accertata da una decisione del magistrato di
sorveglianza.
    Il  procedimento  di  cui  all'art. 14-ter della legge n. 354 del
1975,  imposto  dall'art. 69,  sesto  comma, lettera a), per tutte le
controversie   civili   nascenti  dalle  prestazioni  lavorative  dei
detenuti,    comprime   dunque   in   modo   notevole   le   garanzie
giurisdizionali   essenziali   riconosciute   a  tutti  i  cittadini.
L'irragionevolezza  di  tale  compressione viene in rilievo anche per
l'assenza  di esigenze specifiche di limitazione legate alla corretta
esecuzione  della pena. Eventuali problemi organizzativi derivanti da
una  maggiore garanzia del contraddittorio e della difesa in giudizio
possono    essere    affrontati   e   risolti   in   modo   razionale
dall'amministrazione  penitenziaria,  senza  che  sia  indispensabile
attuare  per  legge  il  sacrificio di diritti fondamentali garantiti
dalla   Costituzione.   Il   legislatore,   nell'ambito   della   sua
discrezionalita', puo' ben prevedere forme di svolgimento dei giudizi
civili nascenti da prestazioni lavorative dei detenuti tali da essere
compatibili  con  le  esigenze  dell'organizzazione  penitenziaria  e
mantenere  integro, nel contempo, il nucleo essenziale delle garanzie
giurisdizionali delle parti.
    3.2.  -  La  disposizione  impugnata non consente interpretazioni
conformi  alla  Costituzione  per  la  perentoria chiarezza della sua
formulazione, che lega indissolubilmente la competenza del magistrato
di  sorveglianza alla procedura camerale di cui all'art. 14-ter della
legge  n. 354  del  1975,  tipica  di  questo  giudice per scelta del
legislatore.   Tale   esclusivita'  di  competenza,  con  conseguente
necessaria  applicazione  delle suddette regole processuali, e' stata
affermata  dalla  Corte  di  cassazione,  con orientamento costante e
univoco,  a  partire  dal  1999  (Sez.  Un. civ., sentenza n. 490 del
1999). E' stato escluso, in particolare, un anomalo diritto di scelta
del  detenuto,  ammesso  dalla giurisprudenza precedente, tra il rito
camerale,  previsto  dalla  norma  impugnata come diretta conseguenza
della  competenza del magistrato di sorveglianza, e il rito ordinario
previsto dall'ordinamento per le controversie individuali di lavoro.
    Questa Corte ha precisato che la scelta del legislatore in favore
del   rito   camerale   non   e'   illegittima   in   se',   ma  solo
nell'eventualita'  in  cui  non  vengano  assicurati  lo  scopo  e la
funzione  del  processo  e quindi, in primo luogo, il contraddittorio
(ex plurimis, sentenza n. 543 del 1989 e ordinanza n. 121 del 1994).
    4. - La Costituzione non impone un modello vincolante di processo
(ex  plurimis,  di  recente,  ordinanze  n. 389 del 2005 e n. 386 del
2004). Occorre pertanto «riconoscere al legislatore un'ampia potesta'
discrezionale  nella  conformazione  degli  istituti processuali, col
solo  limite  della  non  irrazionale predisposizione di strumenti di
tutela, pur se tra loro differenziati» (sentenza n. 180 del 2004). La
stessa  discrezionalita'  il  legislatore  possiede  nella disciplina
della  competenza  (sentenza  n. 206  del  2004). La norma impugnata,
tuttavia,  non  si  limita ad individuare una specifica competenza in
capo ad  un  determinato  ufficio  giudiziario, ma detta, con stretta
consequenzialita',  regole  processuali  inidonee,  se  riferite alle
controversie   di   lavoro,   ad   assicurare  un  nucleo  minimo  di
contraddittorio  e  di  difesa,  quale spetta a tutti i cittadini nei
procedimenti   giurisdizionali.   Si   deve   rilevare  pertanto  una
violazione  -  da  parte dell'art. 69, sesto comma, lettera a), della
legge  n. 354  del 1975 - degli artt. 24, secondo comma, 111, secondo
comma, e 3, primo comma, della Costituzione.
    5.  -  Restano  assorbiti  gli  altri  profili  di illegittimita'
costituzionale,    riguardanti    la    medesima   norma,   contenuti
nell'ordinanza di rimessione.
                          Per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
    Dichiara   l'illegittimita'  costituzionale  dell'art. 69,  sesto
comma,   lettera a),   della  legge  26 luglio  1975,  n. 374  (Norme
sull'ordinamento   penitenziario   e   sull'esecuzione  delle  misure
privative e limitative della liberta).
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 23 ottobre 2006.
                         Il Presidente: Bile
                       Il redattore: Silvestri
                       Il cancelliere:Di Paola
    Depositata in cancelleria il 27 ottobre 2006.
              Il direttore della cancelleria: Di Paola
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