N. 465 ORDINANZA (Atto di promovimento) 29 maggio 2006
Ordinanza emessa il 29 maggio 2006 dalla Corte di appello di Palermo nel procedimento penale a carico di Sclafani Giuseppe Processo penale - Appello - Disciplina recata dalla legge 46/2006 - Inappellabilita' delle sentenze di proscioglimento da parte del pubblico ministero (salvo che nelle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, cod. proc. pen. se la nuova prova e' decisiva) - Inammissibilita' sopravvenuta dell'appello proposto prima dell'entrata in vigore della nuova normativa - Ingiustificata limitazione dei poteri processuali del pubblico ministero rispetto all'imputato Contrasto con il canone di ragionevolezza - Lesione del principio di parita' delle parti processuali. - Codice di procedura penale, art. 593, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46; legge 20 febbraio 2006, n. 46, art. 10. - Costituzione, artt. 3 e 111, comma secondo; Protocollo n. 7 alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, art. 2.(GU n.44 del 8-11-2006 )
LA CORTE DI APPELLO Ha pronunciato la seguente ordinanza. Decidendo sull'eccezione, formulata dal p.g. all'udienza odierna, concernente la legittimita' costituzionale dell'art. 593 c.p.p., come modificato dall'art. l, legge n. 46/2006, e dell'art. 10 della medesima legge, in relazione agli artt. 3, 111 e 112 della Costituzione, per violazione dei principi di eguaglianza, di parita' delle parti nel processo e di obbligatorieta' della azione penale; Sentito il difensore dell'imputato che ha chiesto dichiararsi irrilevanti e/o manifestamente infondate le questioni proposte; O s s e r v a Con sentenza del Tribunale di Agrigento in composizione monocratica del 16 febbraio 2005 Sclafani Giuseppe e' stato assolto «perche' il fatto non sussiste» dal reato di resistenza a p.u. Avverso la sentenza di assoluzione ha proposto appello il procuratore generale. In data 9 marzo 2006 e' entrata in vigore la legge 20 febbraio 2006, n. 46 il cui art. 1 ha modificato l'art. 593 c.p.p.. limitando la possibilita' per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento alla sola ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, c.p.p. «se la nuova prova e' decisiva». In tale residuale ipotesi il giudice, ove non disponga la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, dichiara con ordinanza l'inammissibilita' dell'appello e le parti, entro 45 giorni dalla notifica del provvedimento, possono proporre ricorso per cassazione anche contro la sentenza di primo grado. Lart. 10, nel dettare la disciplina transitoria, dispone al comma 2 che l'appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dall'imputato o dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della presente legge viene dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile» ed al comma 3 che «entro 45 giorni dalla notifica del provvedimenio di inammissibilita' di cui al comma 2 puo' essere proposto ricorso per cassazione contro le sentenze di primo grado». Ne consegue che in applicazione della legge n. 46 del 2006 la Corte, nel presente giudizio, dovrebbe emettere ordinanza di inammissibilita', dell'appello proposto dal p.m. avverso la sentenza di assoluzione degli imputati. Deve preliminarmente evidenziarsi la palese rilevanza della questione di legittimita' costituzionale proposta in quanto la normativa indicata, come gia' esposto, e' applicabile in forza della disciplina transitoria anche al presente giudizio. Il profilo di illegittimita' costituzionale dedotto dal p.g. in riferimento al ritenuto contrasto del nuovo art. 593 c.p.p. con il principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale (art. 112 Cost.) e' manifestamente infondato. La tesi del p.g. secondo cui l'obbligo di promuovere l'azione penale ricomprende anche il potere di impugnazione del pubblico ministero e' stata gia' piu' volte respinta dalla Corte costituzionale che ha escluso la violazione dell'art. 112 Cost. «non costituendo il potere di impugnazione del pubblico ministero una estrinsecazione necessaria dei poteri inerenti all'esercizio dell'azione penale» (cfr. ordinanze nn. 110 e 165 del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001). Gia' con sentenza n. 280 del 1995 la Corte ha invero affermato che «il potere di appello del pubblico ministero non puo' riportarsi all'obbligo di esercitare l'azione penale come se di tale obbligo esso fosse - nel caso in cui la sentenza di primo grado abbia disatteso in tutto o in parte le ragioni dell'accusa - una proiezione necessaria ed ineludibile», rilevando altresi' che «tutto il sistema delle impugnazioni penali, ed in particolare dell'appello ... depone nel senso he il potere del pubblico ministero di proporre appello avverso la sentenza di primo grado, anche se in certe situazioni ne possa apparire istituzionalmente doveroso l'esercizio, non e' riconducibile all'obbligo di esercitare l'azione penale». Il principio dell'obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione penale, costituzionalmente previsto e garantito, non puo' dunque invocarsi con riferimento alla proposizione, solo discrezionale, dell'appello da parte del pubblico ministero contro una sentenza che abbia ritenuto infondata la sua pretesa punitiva, specie ove si consideri che la mancata impugnazione non deve in alcun modo essere motivata e ad essa, se proposta, puo' persino rinunciarsi. Rileva invece la Corte che la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 593 in riferimento al principio di parita' delle parti (artt. 3 e 111, comma 2, prima parte Cost.) non appare manifestamente infondata nei limiti in cui il giudice ordinario deve effettuare il suo preliminare esame, senza interferire con i poteri propri della Corte di legittimita' cui e' demandato in via esclusiva il compiuto giudizio in ordine alla compatibilita' costituzionale della normativa. E' noto che la questione della limitazione del potere di appello del p.m. e' gia' stata affrontata dalla Corte costituzionale, con specifico riferimento al giudizio abbreviato. L'art. 443, comma 3 c.p.p. prevede infatti che il pubblico ministero non possa proporre appello contro le sentenze di condanna pronunciate nel giudizio abbreviato salvo che si tratti di sentenza che modifica il titolo del reato. Con l'ordinanza n. 165 del 2003 la Corte ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 443, comma 3, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 111, secondo comma, e 112 della Costituzione. La Corte costituzionale ha evidenziato, in riferimento al dedotto contrasto della disposizione impugnata con gli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost., che il principio di parita' delle parti «non comporta necessariamente l'identita' tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell'imputato», affermando tuttavia che una disparita' di trattamento puo' risultare giustificata «nei limiti della ragionevolezza, sia dalla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia». Con la conseguenza che, nel caso del giudizio abbreviato, il limite all'appello della parte pubblica continua a trovare ragionevole giustificazione nell'obiettivo primario della rapida e completa definizione dei processi svoltisi in primo grado con un rito che implica una decisione fondata, in primis, sul materiale probatorio raccolto dalla parte che subisce la limitazione denunciata, fuori delle garanzie del contraddittorio (cfr. anche ordinanza n. 347 del 2002; e, con riferimento al solo art. 111, secondo comma, Cost., ordinanza n. 421 del 2001). E' dunque la rinuncia da parte dell'imputato ad uno dei principi del giusto processo (il contraddittorio nella raccolta delle prove) a giustificare la disparita' di trattamento che l'art. 443, comma 3 c.p.p. produce privando il p.m. della facolta' di appellare la sentenza di condanna a seguito di giudizio abbreviato. Non sembra dunque che la Corte abbia finora mai affermato il principio della conformita' costituzionale di una disparita' di poteri fondata solo sulla diversa qualita' della parte (pubblico ministero o imputato), avendo invece sempre affermato il principio opposto secondo cui occorre dare conto delle ragioni che rendono razionale la differenziazione nei casi di volta in volta sottoposti al suo vaglio. E' stato pertanto affermato il principio che una disparita' di trattamento riguardo ai poteri processuali del pubblico ministero puo' essere giustificata nei limiti della ragionevolezza dalla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, dalla funzione allo stesso affidata, ovvero infine da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia. La Corte di legittimita' sin dal 1991 (cfr. n. 363 del 1991) ha ritenuto costituzionalmente compatibile una differenziazione dei poteri processuali del pubblico ministero rispetto a quelli dell'imputato e del suo difensore, sottolineando tuttavia che «in ogni caso il diverso trattamento riservato al pubblico ministero, per essere conforme a Costituzione, dovra' trovare una ragionevole motivazione» proprio nella peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, nella funzione allo stesso affidata, nelle esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia. Anche con ordinanza n. 110 del 2003 e' stato ribadito che il principio di parita' tra accusa e difesa di cui all'art. 111, comma 2 Cost., riconosciuto peraltro come «pacificamente gia' presente fra i valori costituzionali anche prima delle modifiche apportate dalla legge costituzionale n. 2 del 1999», pur non comportando necessariamente l'identita' tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli delle altre parti, e' rispettato solo se una diversita' di trattamento sia stabilita ragionevolmente nell'ambito delle scelte discrezionali del legislatore, proprio in ragione della peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero. In tal senso si e' espresso anche il Presidente della Repubblica nel messaggio con il quale il 20 gennaio 2006 ha rinviato al Parlamento la legge sull'inappellabilita' delle sentenze di proscioglimento dopo la sua prima approvazione, laddove si evidenzia come la soppressione dell'appello delle sentenze di proscioglimento «a causa della disorganicita' della riforma fa si' che la stessa posizione delle parti nel processo venga ad assumere una condizione di disparita' che supera quella compatibile con la diversita' delle funzioni svolte dalle parti stesse nel processo» e si sottolinea che «le asimmetrie tra accusa e difesa costituzionalmente compatibili non devono mai travalicare i limiti fissati dal secondo comma dell'articolo 111 della Costituzione, a norma del quale: «Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parita', davanti a giudice terzo e imparziale». Orbene, la soppressione del potere di impugnazione delle sentenze di proscioglimento da parte del p.m. introdotto dalla legge n. 46 del 2006, salva la residuale, e certamente eccezionale, ipotesi della scoperta di una prova nuova e decisiva nel limitato tempo intercorrente tra la deliberazione della sentenza e la scadenza del termine per appellare, non sembra trovare ragionevole giustificazione nei limiti richiesti dalle richiamate pronunce della Corte costituzionale. La riforma infatti sottrae solo ad una parte lo strumento del nuovo giudizio di merito per vedere riconosciuta la fondatezza della sua pretesa punitiva, violando il principio sancito dall'art. 111, comma 2 Cost. che prevede che il processo si svolga in condizione di parita' tra le parti, assicurando a ciascun soggetto processuale eguali strumenti per raggiungere gli obiettivi suoi propri, dovendo tale principio essere inteso nel senso piu' ampio con riferimento alla pronuncia conclusiva sulla propria domanda. Risulta invero oltremodo riduttivo ritenere che il principio della parita' tra le parti di cui all'art. 111 comma 2 Cost. sia previsto solo con riferimento alla fase del dibattimento ed all'acquisizione della prova, dovendo invece ritenersi che esso tuteli il diritto all'intervento dialettico delle parti in ogni fase del giudizio e dunque anche il diritto alla critica in condizioni di parita' della decisione finale del giudizio che appaia insoddisfacente per l'una o per l'altra parte. Lo squilibrio fra le parti introdotto dalla riforma non appare ragionevolmente compatibile con i criteri che la stessa Corte costituzionale ha piu' volte ribadito. Non sembra esservi infatti alcuna ragionevole giustificazione della disparita nell'attribuzione del potere di impugnazione, finora riconnessa, come nell'ipotesi gia' esaminata dalla Corte di legittimita' del giudizio abbreviato, a istituti deflattivi in cui rinunce dell'imputato producono il risultato apprezzabile della definizione piu' sollecita del processo. Giova peraltro evidenziare che l'avere lasciato esclusivamente all'imputato lo strumento di un nuovo giudizio di merito per vedere riconosciuta la propria innocenza sembra contrastare con i canoni della ragionevolezza anche in considerazione del fatto che, in un sistema nel quale «il doppio grado di giurisdizione di merito non forma oggetto di garanzia costituzionale» (cfr. ordinanza n. 421 del 2001), «non e' la doppia istanza che garantisce la completa difesa, ma piuttosto la possibilita' di prospettare al giudice ogni domanda ed ogni ragione che non siano legittimamente precluse» (cfr. ordinanza n. 316 del 2002). Si osserva che la indispensabilita' di un secondo giudizio di merito troverebbe fondamento nell'art. 2 del VII Protocollo addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, firmato a Strasburgo il 22 novembre 1984, rubricato «Diritto ad un doppio grado di giurisdizione in materia penale», che al suo primo comma sancisce il diritto di «ogni persona dichiarata rea da un tribunale di far esaminare la dichiarazione di colpevolezza o la condanna da un tribunale della giurisdizione superiore». Ma a tale osservazione si obietta fondatamente che e' proprio la medesima fonte internazionale a prevedere il riconoscimento del «diritto ad un doppio grado di giurisdizione» anche a favore della parte pubblica, se e' vero che il secondo comma del menzionato art. 2 sancisce che il diritto al secondo giudizio di merito puo' essere oggetto di eccezioni», tra l'altro, proprio nell'ipotesi in cui l'imputato «e' stato dichiarato colpevole e condannato a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento». Se dunque il legislatore consente ad una parte di sottoporre la decisione ad un controllo critico da parte di un giudice sovraordinato, tale diritto non puo' non essere assicurato anche all'altra parte, salvo che sussistano ragionevoli motivi che legittimino la disparita' di trattamento. Il contrasto con il canone della ragionevolezza emerge altresi' dal rilievo - anch'esso sottolineato nel menzionato messaggio Presidenziale del 20 gennaio 2006 («Un'ulteriore incongruenza della nuova legge sta nel fatto che il pubblico ministero totalmente soccombente non puo' proporre appello, mentre cio' gli e' consentito quando la sua soccombenza sia solo parziale, avendo ottenuto una condanna diversa da quella richiesta») - che la nuova normativa fa salvo il potere del p.m. di appellare la sentenza di condanna ad una pena ritenuta inadeguata, laddove e incontestabile il maggiore interesse della parte pubblica ad appellare la sentenza che abbia respinto l'istanza punitiva.
P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, 159 c.p.; Dichiara manifestamente infondata l'eccezione di incostituzionalita' dell'art. 593 c.p.p., come modificato dall'art. 1, legge n. 46/2006, e dell'art. 10 della medesima legge, in relazione all'art. 112 della Costituzione. Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 593 c.p.p., come modificato dall'art. 1 della legge n. 46 del 2006, e dell'art. 10 della medesima legge, in relazione agli articoli 3 e 111, comma 2, prima parte della Costituzione, nei termini di cui alla motivazione. Sospende il giudizio in corso e i termini di prescrizione del reato. Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, ordinando alla cancelleria di notificare la presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei ministri e di comunicarla ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Palermo, addi' 29 maggio 2006 Il Presidente: Dall'Acqua 06C0966