N. 393 SENTENZA 23 ottobre - 23 novembre 2006

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Reati   e  pene  -  Prescrizione  -  Termini  -  Modifiche  normative
  comportanti   un   regime  piu'  favorevole  al  reo  -  Disciplina
  transitoria  -  Inapplicabilita' ai processi gia' pendenti in primo
  grado ove vi sia stata l'apertura del dibattimento - Limitazione in
  modo non ragionevole del principio della retroattivita' della legge
  penale  piu'  mite  -  Ingiustificato  riferimento all'apertura del
  dibattimento - Illegittimita' costituzionale parziale.
- Legge 5 dicembre 2005, n. 251, art. 10, comma 3.
- Costituzione, art. 3.
(GU n.47 del 29-11-2006 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
  Presidente: Franco BILE;
  Giudici:  Giovanni  Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO,
Romano   VACCARELLA,  Paolo  MADDALENA,  Alfio  FINOCCHIARO,  Alfonso
QUARANTA,  Franco  GALLO,  Luigi  MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino
CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO;
ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel  giudizio  di  legittimita' costituzionale dell'art. 10, comma 3,
della  legge  5 dicembre  2005,  n. 251 (Modifiche al codice penale e
alla   legge   26 luglio  1975,  n. 354,  in  materia  di  attenuanti
generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze
di  reato  per  i recidivi, di usura e di prescrizione), promosso con
ordinanza   del   23 dicembre   2005   dal  Tribunale  di  Bari,  nel
procedimento penale a carico di R. M., iscritta al n. 61 del registro
ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 11, 1ª serie speciale, dell'anno 2006;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera di consiglio dell'11 ottobre 2006 il giudice
relatore  Giovanni  Maria  Flick,  sostituito  per la redazione della
sentenza dal giudice Alfonso Quaranta.

                          Ritenuto in fatto

    1.  - Con ordinanza del 23 dicembre 2005, il Tribunale di Bari ha
sollevato,  in  relazione all'art. 3 della Costituzione, questione di
legittimita'   costituzionale   dell'art. 10,  comma 3,  della  legge
5 dicembre  2005,  n. 251  (Modifiche  al  codice penale e alla legge
26 luglio  1975,  n. 354,  in  materia  di  attenuanti  generiche, di
recidiva,  di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per
i  recidivi,  di  usura  e  di  prescrizione),  «nella  parte  in cui
subordina  l'applicazione  delle  norme  contenute  nell'art. 6 della
medesima  legge  ai  soli  procedimenti  penali  in cui non sia stata
dichiarata l'apertura del dibattimento».
    Premette  il rimettente che, nel corso di un giudizio a carico di
persona imputata del reato di millantato credito di cui all'art. 346,
secondo  comma,  del  codice penale, il difensore dell'imputato aveva
eccepito   l'illegittimita'   costituzionale  del  predetto  art. 10,
comma 3,  della  legge  n. 251 del 2005, nella parte in cui subordina
l'applicazione   delle  norme  ivi  contenute  (ed,  in  particolare,
l'art. 6,  con  cui e' stato modificato il disposto degli artt. 157 e
160  cod. pen., relativi alla prescrizione del reato) alla condizione
della  mancata  apertura  del  dibattimento  nei  procedimenti penali
pendenti  alla data di entrata in vigore della medesima legge; che la
difesa  aveva  evidenziato  tanto  la  rilevanza  della  questione  -
considerato   che   l'applicazione  della  nuova  disciplina  avrebbe
comportato   l'immediata   declaratoria  di  prescrizione  del  reato
ascritto  all'imputato  -  quanto la non manifesta infondatezza della
stessa.
    Il  giudice  a quo reputa la questione proposta rilevante ai fini
della  decisione  e  non  manifestamente infondata. Quanto al profilo
della  rilevanza,  egli condivide l'assunto difensivo secondo cui, in
caso  di applicazione della nuova disciplina alla vicenda processuale
al suo esame, deriverebbe la pronuncia di una sentenza di non doversi
procedere  per  estinzione  del  reato  per intervenuta prescrizione,
pronuncia  «che,  invece,  alla  stregua  della disciplina originaria
dell'art. 157 cod. pen., l'imputato non potrebbe invocare».
    In   ordine   alla   non  manifesta  infondatezza,  il  Tribunale
rimettente   rileva   che   la  scelta  del  legislatore  di  rendere
applicabile la disciplina della legge n. 251 del 2005 ai procedimenti
pendenti,  in  base  al  criterio  relativo all'avvenuta apertura del
dibattimento,  «non  appare  sorretta  da  giustificazioni  di ordine
logico»,  ne'  appare  ispirata  a  finalita' tali da giustificare il
diverso trattamento cosi' riservato a diverse categorie di cittadini.
A  parere  del giudice a quo, invero, la modifica apportata al regime
della  prescrizione  dei  reati  «rappresenta  un mutamento del fatto
tipico,  esprimendo  una  differente  valutazione  del legislatore in
ordine  al disvalore del reato». In tal senso deporrebbe non soltanto
la  contrazione  dei  termini  di prescrizione per ampie categorie di
reato,  ma  anche  l'allungamento  dei  termini  medesimi  per  altre
specifiche  ipotesi  di  reato,  ritenute particolarmente allarmanti,
nonche',  soprattutto,  il tenore inequivoco dei lavori parlamentari;
e,  d'altra  parte - prosegue il rimettente - anche la giurisprudenza
di  legittimita',  secondo  costanti  tali  da  assurgere  a  diritto
vivente,  ha sempre ravvisato nella disciplina della prescrizione dei
reati  «un  elemento  del  fatto  tipico, da valutare nell'ipotesi di
successione   di  leggi  penali».  Pertanto  -  argomenta  ancora  il
rimettente  -  la scelta del legislatore di escludere la norma di cui
all'art. 6  della legge n. 251 del 2005 dal campo di applicazione del
principio  della retroattivita' della disposizione piu' favorevole al
reo  «risulta  in  contrasto  con  il  principio  di  uguaglianza dei
cittadini di fronte alla legge» ed, in ogni caso, «irragionevole», in
quanto   condiziona   l'applicabilita'   della  nuova  disciplina  al
verificarsi  di  un  evento processuale (la dichiarazione di apertura
del  dibattimento)  «assolutamente  privo  di  significato,  sotto il
profilo  della ragionevolezza, nel fissare un diverso trattamento dei
cittadini  soggetti  a procedimento penale», atteso che non risultano
perseguite,  con  tale scelta legislativa, ulteriori finalita', quali
quelle di riduzione dei tempi processuali o di deflazione dei carichi
degli uffici giudiziari.
    Pertanto  -  conclude  il  giudice  a  quo  -  pur  non potendosi
denunciare,  come  invece  dedotto  dalla  difesa, il contrasto della
disciplina censurata con l'art. 25, secondo comma, della Costituzione
-    «non   risultando   costituzionalizzato   il   principio   della
retroattivita'  della  legge  penale piu' favorevole per il reo» - la
deroga  a  tale  principio, pure consentita al legislatore ordinario,
«non risulta sorretta da una sufficiente ragione giustificativa».
    2.  - Nel giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  chiedendo  che  la  questione sia dichiarata inammissibile e,
comunque, infondata.
    La  difesa  erariale sostiene che il quesito sottoposto all'esame
della  Corte,  non  prospettando  alcuna soluzione costituzionalmente
«obbligata»   (ed,   anzi,   ammettendo  una  serie  di  possibilita'
nell'individuazione  di una diversa fase processuale quale discrimine
temporale  per  l'applicabilita'  della  nuova  disciplina in tema di
prescrizione),  risulta per cio' stesso inammissibile. In ogni caso -
conclude  l'Avvocatura  generale dello Stato - la questione si palesa
infondata, posto che, per un verso, il principio della retroattivita'
della  norma  piu'  favorevole  al  reo  «non risponde ad un precetto
costituzionale»  e  che,  per  altro verso, la scelta del legislatore
pare   comunque   ispirata  alla  ragionevolezza  nell'individuazione
dell'apertura  del  dibattimento  -  vale  a  dire,  il  segmento del
processo  «legato  all'inizio del momento del pieno contraddittorio»,
ovvero  idoneo  ad  assicurare  il  rispetto  del  principio  di «non
dispersione della prova» - quale momento rilevante per l'applicazione
delle nuove disposizioni.

                       Considerato in diritto

    1.  -  La  questione di legittimita' costituzionale sollevata dal
Tribunale   di   Bari   investe,  con  riferimento  all'art. 3  della
Costituzione, l'art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251
(Modifiche  al  codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in
materia   di  attenuanti  generiche,  di  recidiva,  di  giudizio  di
comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di
prescrizione),  «nella  parte  in  cui subordina l'applicazione delle
norme contenute nell'art. 6 della medesima legge ai soli procedimenti
penali in cui non sia stata dichiarata l'apertura del dibattimento».
    Il  giudice  rimettente  ritiene che la scelta del legislatore di
limitare   l'applicazione  delle  nuove  norme  solo  ad  alcuni  dei
procedimenti  pendenti,  in  base  al  criterio relativo all'avvenuta
apertura  del  dibattimento,  non sia «sorretta da giustificazioni di
ordine  logico»,  ne'  ispirata  a  finalita'  tali  da consentire il
diverso trattamento cosi' riservato a diverse categorie di cittadini.
    2.  -  La  norma denunciata cosi' dispone: «Se, per effetto delle
nuove  disposizioni,  i termini di prescrizione risultano piu' brevi,
le  stesse  si  applicano ai procedimenti e ai processi pendenti alla
data  di  entrata  in  vigore della presente legge, ad esclusione dei
processi   gia'   pendenti  in  primo  grado  ove  vi  sia  stata  la
dichiarazione di apertura del dibattimento, nonche' dei processi gia'
pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione».
    La questione di costituzionalita' sollevata dal Tribunale di Bari
-  e rilevante nel giudizio a quo - e' prospettata relativamente alla
parte  della  norma che dispone la non applicabilita' dei nuovi, piu'
brevi,  termini di prescrizione ai reati per i quali sia intervenuta,
in primo grado, la dichiarazione di apertura del dibattimento.
    3. - La questione e' fondata.
    4.  -  Poiche' la denunciata violazione dell'art. 3 Cost. si basa
sull'assunto  che la norma impugnata derogherebbe ingiustificatamente
al  disposto  dell'art. 2,  quarto comma, del codice penale - secondo
cui  «se  la  legge  del  tempo  in  cui  fu  commesso  il reato e le
posteriori  sono  diverse, si applica quella le cui disposizioni sono
piu'  favorevoli  al  reo,  salvo  che sia stata pronunciata sentenza
irrevocabile»  -  occorre anzitutto stabilire se tra le «disposizioni
piu'   favorevoli   al   reo»,  cui  si  riferisce  la  citata  norma
codicistica,  debbano  rientrare esclusivamente quelle concernenti in
senso  stretto  la  misura della pena, ovvero vi si possano includere
anche  le  norme  che, riguardando ulteriori e diversi profili (come,
appunto,  la  riduzione  dei  termini  di  prescrizione  del  reato),
ineriscono al complessivo trattamento riservato al reo.
    La  norma del codice penale deve essere interpretata, ed e' stata
costantemente interpretata dalla giurisprudenza di questa Corte (e da
quella di legittimita), nel senso che la locuzione «disposizioni piu'
favorevoli  al  reo»  si riferisce a tutte quelle norme che apportino
modifiche in melius alla disciplina di una fattispecie criminosa, ivi
comprese  quelle  che incidono sulla prescrizione del reato (sentenze
n. 455 e n. 85 del 1998; ordinanze n. 317 del 2000, n. 288 e n. 51 el
1999, n. 219 del 1997, n. 294 e n. 137 del 1996).
    Una conclusione, questa, coerente con la natura sostanziale della
prescrizione  (sentenza  n. 275  del  1990)  e  con l'effetto da essa
prodotto, in quanto «il decorso del tempo non si limita ad estinguere
l'azione  penale,  ma  elimina  la  punibilita' in se' e per se', nel
senso  che  costituisce una causa di rinuncia totale dello Stato alla
potesta'  punitiva»  (Cass.,  Sez.  I,  8 maggio 1998, n. 7442). Tale
effetto,   peraltro,   esprime  l'«interesse  generale  di  non  piu'
perseguire  i  reati rispetto ai quali il lungo tempo decorso dopo la
loro  commissione  abbia  fatto  venir meno, o notevolmente attenuato
(...) l'allarme della coscienza comune, ed altresi' reso difficile, a
volte,  l'acquisizione del materiale probatorio» (sentenza n. 202 del
1971; v. anche sentenza n. 254 del 1985; ordinanza n. 337 del 1999).
    Pertanto,  le  norme  sulla  prescrizione  dei  reati,  ove  piu'
favorevoli  al  reo,  rispetto  a  quelle  vigenti  al  momento della
commissione  del  fatto,  devono  conformarsi,  in linea generale, al
principio previsto dalla citata disposizione del codice penale.
    5.  - Poste queste premesse, deve essere preliminarmente ribadita
la  giurisprudenza  di  questa  Corte, costante nell'affermare che il
regime  giuridico  riservato  alla  lex mitior, e segnatamente la sua
retroattivita', non riceve nell'ordinamento la tutela privilegiata di
cui  all'art. 25,  secondo  comma,  della  Costituzione, in quanto la
garanzia costituzionale, prevista dalla citata disposizione, concerne
soltanto   il   divieto   di  applicazione  retroattiva  della  norma
incriminatrice,  nonche' di quella altrimenti piu' sfavorevole per il
reo.
    Da   cio'   discende   che  eventuali  deroghe  al  principio  di
retroattivita'  della lex mitior, ai sensi dell'art. 3 Cost., possono
essere  disposte dalla legge ordinaria quando ricorra una sufficiente
ragione giustificativa.
    6.  -  Nel presente giudizio la Corte e' investita del compito di
valutare  se la scelta compiuta dal legislatore con la norma in esame
sia  assistita  da  ragioni  che giustifichino la deroga, in tal modo
apportata, al principio piu' volte richiamato.
    L'individuazione  dei  criteri  in  base  ai quali operare questa
valutazione  non  puo'  prescindere  dal considerare adeguatamente la
circostanza  che  tale  principio  non  e'  affermato  soltanto, come
criterio  generale,  dall'art. 2 cod. pen., ma e' stato sancito sia a
livello  internazionale  sia  a livello comunitario; tale circostanza
incide  sul tipo di sindacato che questa Corte deve operare quando ad
esso la legge voglia derogare.
    6.1.  -  In  primo  luogo,  merita di essere ricordato l'art. 15,
primo  comma,  del  Patto internazionale relativo ai diritti civili e
politici  adottato  a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso
esecutivo  con legge 25 ottobre 1977, n. 881, il quale stabilisce che
«se,  posteriormente  alla  commissione  del  reato, la legge prevede
l'applicazione   di   una   pena   piu'   lieve,  il  colpevole  deve
beneficiarne»:   disposizione   alla  quale  si  collega  la  riserva
dell'Italia  nel  senso dell'applicazione limitata ai procedimenti in
corso,  e  non anche a quelli nei quali sia intervenuta una decisione
definitiva.
    In relazione a tale norma di diritto internazionale convenzionale
va  ricordata  la  forza  giuridica  che  questa  Corte ha piu' volte
riconosciuto   alle   norme   internazionali   relative   ai  diritti
fondamentali della persona (sentenze n. 62 del 1992; n. 168 del 1994;
n. 109  del  1997;  n. 270 del 1999). In particolare, a proposito del
Patto di New York, con la sentenza n. 15 del 1996 si e' affermato che
le  sue  norme  non  possono  essere  assunte  «in  quanto  tali come
parametri  nel  giudizio di costituzionalita' delle leggi» (cosicche'
«una  loro  eventuale  contraddizione  da  parte di norme legislative
interne non determinerebbe di per se' - cioe' indipendentemente dalla
mediazione   di   una   norma   della   Costituzione   -   un   vizio
d'incostituzionalita»),  ma  che  cio' «non impedisce di attribuire a
quelle  norme  grande  importanza  nella stessa interpretazione delle
corrispondenti,  ma  non  sempre  coincidenti,  norme contenute nella
Costituzione».
    Dal  suo  canto,  il comma 2 dell'art. 6 del Trattato sull'Unione
europea - nel testo risultante dal Trattato sottoscritto ad Amsterdam
il  2 ottobre  1997, ratificato con legge 16 giugno 1998, n. 209 - ha
affermato  che  «l'Unione  rispetta i diritti fondamentali quali sono
garantiti  dalla  Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre
1950,  e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli
Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario».
    La  Corte  di  giustizia delle comunita' europee, a sua volta, ha
affermato  che  tali  diritti  fondamentali sono parte integrante dei
principi  generali  del  diritto,  che  essa  garantisce  (da ultimo,
sentenze  12  giugno 2003,  C-112/2000;  10 luglio  2003, C-20/2000 e
C-64/2000).
    Di  recente  (sentenza  3 maggio  2005,  C-387/2002, C-391/2002 e
C-403/2002)  la stessa Corte - decidendo un caso nel quale il primato
del  diritto comunitario si assumeva compromesso dalla retroattivita'
di   una  disciplina  che  assicurava  al  reo  un  trattamento  piu'
favorevole  (anche  per  la  riduzione  dei  termini  di prescrizione
conseguente alla riduzione della misura della pena) - ha statuito che
delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri fa parte il
principio  dell'applicazione  retroattiva  della pena piu' mite. Tale
principio  -  secondo  la Corte di giustizia - deve essere senz'altro
osservato  dal  giudice  interno «quando applica il diritto nazionale
adottato  per  attuare  l'ordinamento  comunitario»,  ma  esso  -  si
ribadisce  - nel caso esaminato viene in rilievo nella sua valenza di
principio   generale   dell'ordinamento   comunitario,   desunto  dal
complesso  degli  ordinamenti  giuridici  nazionali  e  dei  trattati
internazionali dei quali gli Stati membri sono parti contraenti.
    6.2.  -  Il  medesimo  principio,  sancito  nell'art. 15 del gia'
citato   Patto  di  New  York,  e'  stato  esplicitamente  confermato
dall'art. 49,   comma 1,   della   Carta   dei  diritti  fondamentali
dell'Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 - la quale
viene qui richiamata, ancorche' priva tuttora di efficacia giuridica,
per  il  suo carattere espressivo di principi comuni agli ordinamenti
europei  -  secondo  cui  «se,  successivamente  alla commissione del
reato,  la  legge  prevede  l'applicazione  di  una  pena piu' lieve,
occorre applicare quest'ultima».
    6.3. - Da questi dati normativi e giurisprudenziali si ricava che
per  le  leggi in esame l'applicazione retroattiva e' la regola e che
tale  regola  e' derogabile in presenza di esigenze tali da prevalere
su  un  principio  il cui rilievo, si e' gia' osservato, non si fonda
soltanto  su  una norma, sia pure generale e di principio, del codice
penale.
    Il  livello  di rilevanza dell'interesse preservato dal principio
di  retroattivita'  della  lex  mitior  -  quale  emerge dal grado di
protezione  accordatogli  dal  diritto interno, oltre che dal diritto
internazionale  convenzionale  e  dal diritto comunitario - impone di
ritenere  che  il  valore da esso tutelato puo' essere sacrificato da
una  legge  ordinaria  solo in favore di interessi di analogo rilievo
(quali  -  a  titolo  esemplificativo  -  quelli  dell'efficienza del
processo,  della  salvaguardia dei diritti dei soggetti che, in vario
modo,  sono  destinatari della funzione giurisdizionale, e quelli che
coinvolgono  interessi o esigenze dell'intera collettivita' nazionale
connessi  a  valori costituzionali di primario rilievo; cfr. sentenze
n. 24  del  2004;  n. 10 del 1997, n. 353 e n. 171 del 1996; n. 218 e
n. 54   del   1993).   Con   la   conseguenza  che  lo  scrutinio  di
costituzionalita'  ex  art. 3  Cost.,  sulla  scelta di derogare alla
retroattivita'  di  una  norma  penale  piu'  favorevole  al reo deve
superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine
sufficiente   che   la   norma  derogatoria  non  sia  manifestamente
irragionevole.
    In  definitiva,  soltanto  nel  senso  sopraindicato puo' trovare
giustificazione   la   deroga  alla  applicazione  retroattiva  della
disposizione piu' favorevole al reo.
    In  particolare  - per quanto attiene al tema che qui rileva - la
deroga  al regime della retroattivita' deve ritenersi ammissibile nei
confronti  di  norme  che  riducano  la durata della prescrizione del
reato,  purche' tale deroga sia non solo coerente con la funzione che
l'ordinamento oggettivamente assegna all'istituto, ma anche diretta a
tutelare interessi di non minore rilevanza.
    7.  -  Alla luce delle considerazioni che precedono, la questione
di  legittimita'  costituzionale  in esame si risolve in quella della
intrinseca  ragionevolezza,  ex  art. 3 Cost., e dunque alla luce del
principio  di  eguaglianza,  della  scelta  di individuare il momento
della  dichiarazione  di  apertura  del  dibattimento come discrimine
temporale  per  l'applicazione  delle  nuove  norme  sui  termini  di
prescrizione  del reato nei processi in corso di svolgimento in primo
grado alla data di entrata in vigore della legge n. 251 del 2005.
    A  giudizio di questa Corte, la scelta effettuata dal legislatore
con  la  censurata  disposizione  transitoria  non  e'  assistita  da
ragionevolezza.
    L'apertura  del  dibattimento  non  e'  in  alcun  modo  idonea a
correlarsi  significativamente  ad  un istituto di carattere generale
come   la   prescrizione,   e  al  complesso  delle  ragioni  che  ne
costituiscono il fondamento, legato al gia' menzionato rilievo che il
decorso  del  tempo  da  un  lato  fa  diminuire l'allarme sociale, e
dall'altro  rende piu' difficile l'esercizio del diritto di difesa (e
cio'  a prescindere del tutto dalla addebitabilita' del ritardo nello
svolgimento del processo).
    Infatti, l'incombente di cui all'art. 492 del codice di procedura
penale non connota indefettibilmente tutti i processi penali di primo
grado  (in  particolare i riti alternativi - e, tra essi, il giudizio
abbreviato   -   che   hanno   la   funzione   di  «deflazionare»  il
dibattimento); ne' esso e' incluso tra quelli ai quali il legislatore
attribuisce  rilevanza  ai  fini  dell'interruzione del decorso della
prescrizione  ex  art. 160  cod. pen., il quale richiama una serie di
atti, tra cui la sentenza di condanna e il decreto di condanna, oltre
altri atti processuali anteriori.
    Del  resto,  se  e' vero che all'apertura del dibattimento questa
Corte ha talora attribuito rilievo, cio' e' avvenuto a fini del tutto
estranei  all'ambito  di operativita' della prescrizione: ad esempio,
per  individuare  il  momento  della  devoluzione,  al  giudice della
cognizione  piena  del  merito,  di tutta la gamma delle attribuzioni
giurisdizionali,  anche  cautelari  (ordinanza  n. 230  del  2005), o
quello dopo il quale il danno non puo' piu' essere utilmente riparato
(ordinanza n. 970 del 1988).
    L'opzione  compiuta dal legislatore - in relazione ai processi di
primo  grado  gia'  in  corso  -  di subordinare l'efficacia, ratione
temporis,  della  nuova  disciplina  sui  termini di prescrizione dei
reati   (quando   piu'   favorevole   per  il  reo)  all'espletamento
dell'incombente   ex  art. 492  cod.  proc.  pen.  non  si  conforma,
pertanto,  al canone della necessaria ragionevolezza. A tal fine, non
e'  pertinente  - come fa l'Avvocatura dello Stato - ne' sottolineare
la  circostanza  che  si  tratta  di  «inizio  del  momento del pieno
contraddittorio», ne' invocare il principio di «non dispersione della
prova», essendo evidente che l'apertura del dibattimento individua un
momento  prima del quale, di norma, non sono state compiute attivita'
processuali suscettibili di essere vanificate.
    In  conclusione,  la  liberta'  di  scelta, di cui il legislatore
dispone in subiecta materia, non e' stata esercitata ragionevolmente.
    8.-  Pertanto  la  norma  in esame - in quanto limita in modo non
ragionevole il principio della retroattivita' della legge penale piu'
mite - viola l'art. 3 della Costituzione.
    Essa deve essere quindi dichiarata costituzionalmente illegittima
limitatamente  alle parole «dei processi gia' pendenti in primo grado
ove  vi  sia  stata  la  dichiarazione  di apertura del dibattimento,
nonche».
                          Per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
    Dichiara  l'illegittimita'  costituzionale dell'art. 10, comma 3,
della  legge  5 dicembre  2005,  n. 251 (Modifiche al codice penale e
alla   legge   26 luglio  1975,  n. 354,  in  materia  di  attenuanti
generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze
di  reato  per i recidivi, di usura e di prescrizione), limitatamente
alle  parole  «dei  processi  gia' pendenti in primo grado ove vi sia
stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonche».
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 23 ottobre 2006.
                         Il Presidente: Bile
                       Il redattore: Quaranta
                       Il cancelliere:Di Paola
    Depositata in cancelleria il 23 novembre 2006.
              Il direttore della cancelleria: Di Paola
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