N. 558 ORDINANZA (Atto di promovimento) 19 luglio 2006

Ordinanza  emessa  il  19 luglio  2006  dalla  Corte  di cassazione -
sezioni  unite  penali nel procedimento penale a carico di Pellegrino
Antonio

Processo penale - Riparazione per l'ingiusta detenzione - Presupposti
  e  modalita'  della  decisione  -  Diritto  alla riparazione per la
  durata  della  custodia cautelare che risulti superiore alla misura
  della pena inflitta - Mancata previsione - Lesione del principio di
  ragionevolezza  -  Contrasto  con  la  legge di delega n. 81/1987 -
  Violazione del principio di solidarieta' e di tutela della liberta'
  personale.
- Codice di procedura penale, art. 314.
- Costituzione   artt. 2,  3,  24  e  77,  in  relazione  alla  legge
  16 febbraio 1987, n. 81, art. 2, comma 1, n. 100.
(GU n.49 del 13-12-2006 )
                   LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  su1 ricorso proposto da
Antonio   Pellegrino,   nato  il  14  marzo  1958  a  Locri,  avverso
l'ordinanza  pronunciata  il 29 aprile 2004 dalla Corte di appello di
Reggio  Calabria,  nonche'  Ministero  dell'economia,  in persona del
Ministro pro tempore;
    Visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;
    Udita   la   relazione   fatta  dal  Consigliere  dott.  Giovanni
Silvestri;
    Lette  le  conclusioni  del  Procuratore  generale  presso questa
Corte, nella persona del Sostituto dott. Vito Monetti, che ha chiesto
l'annullamento con rinvio dell'ordinanza impugnata.

                          Ritenuto in fatto

    Con  ordinanza  del 29 aprile 2004, la Corte di appello di Reggio
Calabria  accoglieva  parzialmente  la  richiesta presentata, a norma
dell'art.   314   c.p.p.,  da  Pellegrino  Antonio  per  ottenere  la
liquidazione  di  una  somma  a  titolo di riparazione per l'ingiusta
detenzione  in carcere, subita dal 23 gennaio 1986 al 22 giugno 1989,
e  condannava  il Ministero dell'economia al pagamento, in favore dei
richiedente,  di  80.000  euro  per  l'illegittima  privazione  della
liberta'  limitatamente  al  periodo dal 26 gennaio 1988 al 22 giugno
1989; la richiesta veniva, invece, rigettata relativamente al periodo
di carcerazione sofferta dal 23 gennaio 1986 al 26 gennaio 1988.
    La   Corte   territoriale   ricostruiva  la  vicenda  processuale
rilevando  che:  il 23 gennaio 1986 al Pellegrino era stata applicata
la  misura  cautelare della custodia in carcere per le imputazioni di
associazione  per delinquere di stampo mafioso, di detenzione e porto
di  armi  e, successivamente, di tentato omicidio, il 22 gennaio 1988
erano  scaduti  i  termini  massimi di custodia cautelare per i reati
concernenti  l'associazione  mafiosa  e  le  armi,  ma la custodia in
carcere era stata mantenuta in quanto l'imputato era stato condannato
alla  pena  di  quattordici anni di reclusione per i reati di tentato
omicidio e di porto e detenzione di arma;
        la  sentenza  di  appello,  che aveva ridotto la pena a dieci
anni  e  sei  mesi  di  reclusione  per  i  predetti reati, era stata
annullata  dalla Corte di cassazione e, nel giudizio di rinvio, il 23
giugno  1989  la  Corte di assise di appello aveva assolto l'imputato
dal  reato  di tentato omicidio per insufficienza di prove, mentre il
processo  proseguiva per le imputazioni relative al reato associativo
e a quello concernente le armi;
          in  data 17 giugno 1999 il Pellegrino era stato assolto dal
reato associativo e condannato a dieci mesi di reclusione per i reati
concernenti le armi;
        a  seguito di appello dell'imputato, la Corte territoriale il
7 maggio 2001 aveva pronunciato sentenza di non doversi procedere per
intervenuta  prescrizione  in  ordine  al  residuo  reato  di porto e
detenzione di armi.
    Tutto   cio'   premesso,   la   Corte  di  appello  riteneva  che
l'indennizzo  per  l'ingiusta  detenzione dovesse essere riconosciuto
unicamente  per  il  periodo  compreso tra il 26 gennaio 1988 e il 22
giugno    1989,    riguardante   la   custodia   cautelare   riferita
all'imputazione di tentato omicidio, e che, per contro, relativamente
al  periodo  dal  23  gennaio  1986  al  22 gennaio 1988 la richiesta
dovesse  essere  respinta  per  la  duplice  ragione  che la custodia
cautelare risultava legittimata dalla pluralita' di imputazioni e che
la   declaratoria   di   non   doversi   procedere   per  intervenuta
prescrizione,  pronunciata  dalla  Corte  territoriale  per  i  reati
relativi  alle  armi,  precludeva  il riconoscimento del diritto alla
riparazione,   essendo  questo  configurabile  soltanto  in  caso  di
proscioglimento  in  merito,  secondo  la  previsione del primo comma
dell'art. 314 del codice di rito.
    Avverso   l'ordinanza  ha  proposto  ricorso  per  cassazione  il
difensore  del  Pellegrino,  deducendo,  con  riferimento  al mancato
riconoscimento  del  diritto  all'equa  riparazione per il periodo di
custodia  cautelare  subita  dal  23 gennaio 1986 al 26 gennaio 1988,
violazione  de1l'art.  606,  comma 1,  lettera  c)  ed  e) c.p.p., in
relazione  all'art. 314  dello  stesso  codice  e agli art. 157 e ss.
c.p.,  sull'assunto  che  il  provvedimento  gravato era stato emesso
seguendo erroneamente la tesi favorevole ad escludere la possibilita'
di  distinguere  tra i diversi titoli detentivi allorche' la custodia
cautelare  sia stata applicata in una pluralita' di imputazioni e una
di  esse sia stata definita con sentenza di non doversi procedere per
intervenuta  prescrizione.  Il ricorrente argomentava che nel caso di
specie  la  dichiarazione  di estinzione per prescrizione del delitto
inerente  alle  armi  era  intervenuta  in  grado di appello dopo che
l'imputato   era   stato  condannato  alla  pena  di  dieci  mesi  di
reclusione:  di  talche',  poiche'  la sentenza di condanna era stata
impugnata   dal  pubblico  ministero,  per  effetto  del  divieto  di
reformatio  in pejus la pena riferibile al delitto inerente alle armi
non  avrebbe  mai  potuto  superare  la  soglia  dei  dieci  mesi  di
reclusione,  onde  il  residuo  periodo di custodia cautelare avrebbe
dovuto  imputarsi  al  delitto  per  il  quale  il  Pellegrino  aveva
riportato pronunzia definitiva di assoluzione gia' in primo grado.
    Con  memoria  depositata  il  14  novembre  2005,  il  ricorrente
produceva  copia  di  due  sentenze  di questa Corte con le quali, in
situazioni  identiche a quella dedotta nel presente procedimento, era
stato   riconosciuto  il  diritto  alla  riparazione  per  l'ingiusta
detenzione  a  favore  di  persone  che  erano  state  coimputate nel
medesimo processo svoltosi nei confronti del Pellegrino.
    La  quarta  sezione  penale  di  questa Corte, cui il ricorso era
stato assegnato, con ordinanza n. 1920 resa nella camera di consiglio
del 14 novembre 2005, rimetteva il ricorso alle sezioni unite al fine
di  evitare  contrasti  di  giurisprudenza  e  di  definire  i limiti
dell'istituto  previsto  dall'art. 314 del codice di rito, anche alla
luce delle decisioni della Corte costituzionale e della Corte europea
dei diritti dell'uomo.
    Il  Primo  Presidente  ha assegnato il ricorso alle sezioni unite
fissando  l'udienza  del  30  maggio  2006 per la trattazione a norma
dell'art. 611 c.p.p.
    Con  requisitoria  scritta  del  17  marzo  2006,  il procuratore
generale  presso  questa  Corte  chiedeva l'accoglimento del ricorso,
osservando che la pronuncia di annullamento con rinvio dell'ordinanza
impugnata  era  giustificata  dall'interpretazione  adeguatrice della
normativa  di  cui  all'art.  314  del codice di rito alla luce delle
precise  indicazioni  ricavabili  dai numerosi interventi della Corte
costituzionale.

                       Considerato in diritto

    1.  -  In  relazione  al contenuto della decisione impugnata e ai
limiti  segnati  dal  ricorso  per  cassazione,  che circoscrivono la
questione   devoluta   alla   cognizione  di  questa  Corte,  occorre
preliminarmente chiarire che la richiesta di riparazione per ingiusta
detenzione deve essere esaminata limitatamente al periodo di custodia
in  carcere di due anni, subita dal Pellegrino dal 23 gennaio 1986 al
22  gennaio 1988, data, quest'ultima, coincidente con la scadenza dei
termini  massimi  della  misura cautelare relativamente ai delitti di
associazione  di  stampo  mafioso  e  di detenzione porto illegali di
armi.  Va  precisato,  inoltre, che, a distanza di oltre undici anni,
con  sentenza del 17 giugno 1999 del Tribunale di Locri il Pellegrino
e'   stato  assolto  dal  reato  associativo  ed  e'  stato,  invece,
condannato alla pena di dieci mesi di reclusione per i reati relativi
alle  armi:  infine,  con  sentenza  del  7  maggio 2001, la Corte di
appello  di  Reggio Calabria ha riformato la condanna dichiarando non
doversi  procedere  per  questi  ultimi  reati  perche'  estinti  per
intervenuta prescrizione.
    Alla  stregua  di siffatti incontestati dati processuali e tenuto
conto  che per tutte le imputazioni coincidono i limiti massimi della
custodia  in  carcere  stabiliti  dall'art. 303  c.p.p.,  il  tema di
indagine  e  di  decisione  sul  quale  le  sezioni  unite sono state
chiamate  a  pronunciare  consiste  nello  stabilire  se  sia  o  non
configurabile il diritto alla riparazione nel caso in cui l'imputato,
sottoposto  a  detenzione  per  piu'  titoli cautelari di pari durata
massima, venga assolto da un reato con una delle formule indicate nel
primo   comma   dell'art. 314  c.p.p.  e  venga,  invece,  prosciolto
dall'altro reato perche' estinto per prescrizione.
    2.  -  Riguardo  all'ipotesi  di  processo  con  piu' imputazioni
definite  con esito diverso, sin dall'entrata in vigore del codice di
rito la giurisprudenza di legittimita' e' schierata su posizioni che,
alla luce delle disposizioni contenute nei commi 1 e 4 dell'art. 314,
individuano  il  presupposto genetico del diritto all'attribuzione di
una  somma  di  danaro  a  titolo  di  equa riparazione nel fatto che
l'interessato  sia  stato  prosciolto  con una formula liberatoria di
merito  in  relazione  all'addebito  o agli addebiti formulati con il
provvedimento   di   cautela:  con  la  conseguenza  che,  quando  il
provvedimento   coercitivo   si   fondi  su  piu'  contestazioni,  il
proscioglimento  con  formula  non  di  merito  anche da una sola tra
queste, sempreche' autonomamente idonea a legittimare la compressione
della  liberta'  personale,  impedisce  il  sorgere di detto diritto,
irrilevante   risultando   il   pieno   proscioglimento  dalle  altre
imputazioni  (Cass.,  sez.  IV  17 dicembre 1992, Ronco, rv. 193229).
Lungo  le  stesse  coordinate  interpretative e sempre in riferimento
all'ipotesi  di  processo cumulativo, non solo e' stato chiarito che,
per  escludere  il  diritto all'indennita', basta la condanna per una
delle   imputazioni   astrattamente   autonome,   a   legittimare  la
compressione  della  liberta'  personale  (Cass.,  sez. IV, 7 ottobre
2003,  Campanelli,  rv.  226730),  ma  e'  stato anche stabilito che,
qualora  la custodia cautelare risulti disposta per una pluralita' di
contestazione   in   ordine  alle  quali  tutte  sia  intervenuto  il
proscioglimento,  correttamente  viene  esclusa  la  sussistenza  del
diritto  alla  riparazione se, anche per uno soltanto degli addebiti,
la   formula  della  sentenza  assolutoria  non  riguarda  il  merito
dell'imputazione e non ricorre il caso di indebito mantenimento della
custodia  stessa  (Cass.,  sez.  IV,  13 dicembre  2002, Iuliani, rv.
226l52;  9  febbraio  1996,  Zaccaria,  rv. 204426; 22 novembre 1994,
n. 1824, Piovani).
    Simile orientamento non e contraddetto da quelle decisioni con le
quali - in relazione ad pluralita' di imputazioni di diversa gravita'
con  termini  di  custodia  cautelare di differente durata - e' stato
precisato  che,  ai fini dell'equa riparazione, il proscioglimento da
un  addebito  meno  grave,  ma  pur idoneo a legittimare il titolo di
custodia cautelare, con formula non di merito e, comunque, diversa da
una   di   quelle  evocate  dall'art. 314,  comma  1,  c.p.p.  (quale
l'estinzione  del  reato  per amnistia), comporta la detrazione dalla
durata  complessiva della detenzione cautelare del tempo, nel massimo
consentito dalla legge, riferibile al meno grave addebito, sicche' il
diritto all'indennizzo resta limitato al periodo residuo (Cass., sez.
IV,  17  dicembre  1992,  Malentacchi,  rv. 194081; 17 dicembre 1992,
Calia, rv. 194093; 17 dicembre 1992, Truppi, rv. 193231).
    Queste  ultime  sentenze  non  si discostano, a ben vedere, dalle
linee  interpretative  seguite  dall'indirizzo affermatosi in tema di
processo   cumulativo,   dato   che   la  differente  gravita'  delle
imputazioni  si  riflette sulla diversa ampiezza dei limiti di durata
previsti  per  i  distinti  titoli cautelari, sicche' l'assenza della
condizione  del  proscioglimento  nel merito preclude la liquidazione
del  ristoro  indennitario  per  l'intero periodo corrispondente alla
durata  massima  della  custodia  stabilita per il titolo meno grave,
restringendo   al  residuo  periodo  la  riparazione  dipendente  dal
proscioglimento nel merito per l'imputazione piu' grave.
    3. - Risultano, invece, divergenti dall'impianto e dallo sviluppo
argomentativo dell'indirizzo sin qui illustrato due recenti decisioni
pronunciate  dalla  quarta  sezione  penale,  la  cui peculiarita' e'
costituita  dal  fatto  che  e'  stata  riconosciuta la riparazione a
favore  di  coimputati nello stesso processo del Pellegrino, i quali,
al  pari di quest'ultimo, erano stati assolti dal reato associativo e
-  dopo  essere  stati  condannati  nel giudizio di primo grado per i
reati relativi alle armi - erano stati prosciolti da tale imputazione
per intervenuta prescrizione.
    Con  la  prima decisione, dopo avere preliminarmente riconosciuto
la  correttezza  del principio per cui il proscioglimento con formula
non   di   merito  anche  da  uno  solo  degli  addebiti  contestati,
autonomamente  idoneo a legittimare la custodia, impedisci il sorgere
del  diritto  alla  riparazione,  la  quarta  sezione ha annullato la
decisione  di rigetto della domanda di riparazione sul rilievo che il
periodo di custodia cautelare riferibile ai reati concernenti le armi
non   poteva  in  nessun  caso  superare  il  limite  di  dieci  mesi
corrispondente  all'entita' della reclusione inflitta con la condanna
pronunciata  nel  giudizio di primo grado: di talche', poiche' contro
tale   decisione  il  p.m.  non  aveva  proposto  appello,  al  reato
successivamente  dichiarato prescritto era attribuibile un periodo di
detenzione cautelare non superiore a dieci mesi e la maggiore durata,
della  custodia in carcere doveva essere riferita all'imputazione per
la  quale era intervenuta assoluzione nel merito (sent. c.c. 6 luglio
2005, n. 1451, Cinanni).
    Nella    seconda   pronunzia   la   soluzione   favorevole   alla
configurabilita'   del   diritto   alla  riparazione  rappresenta  la
conclusione   di   un  itinerario  motivazionale  nel  quale  risulta
precisato  che  «qualora  risulti  per  il  particolare svolgersi del
processo,  che il periodo, il tempo, delle limitazioni della liberta'
non  coincide  per  tutti  i  titoli-reati,  nel  senso  che  possono
distinguersi, con estrema precisione, il periodo di limitazione della
liberta'  sofferta  per  il  titolo-reato per il quale si e' avuto il
proscioglimento  per  prescrizione  e il periodo di limitazione della
liberta'  -  oltre  e, nel caso di specie, ben oltre, quella soglia -
sofferta  soltanto  per  il  titolo-reato  per il quale v'e' stato il
proscioglimento  nel  merito,  non  v'e'  nessuna  ragione ... .. per
negare  l'equa  riparazione per questo secondo periodo di limitazione
della liberta» (sent. 6, C.c. 8 luglio 2005, n. 1467, Femia).
    Il  baricentro  dell'iter  argomentativo  delle  due sentenze e',
dunque,  identificabile  nell'opinione che al titolo cautelare venuto
meno  a  seguito del proscioglimento per prescrizione non puo' essere
riferito un periodo corrispondente alla durata massima prevista dalla
legge   processuale,  ma  esclusivamente  il  periodo  di  detenzione
cautelare  pari  all'entita' della pena che sarebbe stata inflitta in
caso di condanna.
      4.  -  Le  sezioni  unite  ritengono che le due decisioni sopra
riportate  non  possano  essere  condivise,  per  la ragione che, pur
essendo  evidente  la  presenza,  nelle  rispettive  motivazioni,  di
esigenze   di   giustizia  sostanziale  e  dell'intento  di  limitare
l'operativita' della riparazione alla peculiarita' del caso di specie
senza   porre   in   discussione   i   principi   generali   recepiti
dall'elaborazione   giurisprudenziale,  esse  conducono  a  risultati
asimmetrici    rispetto    all'ambito    dell'istituto    configurato
dall'art. 314  c.p.p.,  con  conseguenze che finiscono per esorbitare
dalla  effettiva  sfera  precettiva  delle  previsioni  normative del
codice di rito.
    Il  disegno  tracciato  dal  legislatore  delegato, in attuazione
della  disposizione  di cui all'art. 2, n. 100 della legge di delega,
risulta ben definito nei suoi reali termini.
    I  primi  tre  commi  dell'art.  314  indicano  le condizioni e i
presupposti  che  integrano il fatto costitutivo del diritto all'equa
riparazione, la cui nascita e' collegata ad una pronuncia assolutoria
nel merito, sempre che non sussista una situazione di dolo o di colpa
grave  (comma  1),  o  all'accertamento,  con decisione irrevocabile,
della mancanza delle condizioni previste dagli articoli 273 e 280 per
l'applicazione  della  custodia  in  carcere (comma 2), ovvero - alle
medesime  condizioni  di  cui  ai  commi 1 e 2 - alla pronuncia di un
provvedimento  di  archiviazione  o  di  una  sentenza di non luogo a
procedere  (comma 3). Il quarto comma stabilisce, poi, che il diritto
alla riparazione e' escluso per quella parte della custodia cautelare
che  sia  computata  ai fini della determinazione della misura di una
pena, secondo la regola della fungibilita' ex art. 657 c.p.p., ovvero
per  il  periodo  in  cui le limitazioni conseguenti all'applicazione
della custodia siano state sofferte anche in forza di altro titolo.
    In  riferimento  alla  previsione  della seconda parte del quarto
comma,  il  diritto  vivente,  nell'ipotesi  di  concorrenza  di  una
pluralita'  di  titoli cautelari, ammette il diritto alla riparazione
alla  tassativa  condizione  che  tutte  le  imputazioni  siano state
definite  con un proscioglimento nel merito o che sia stata accertata
l'illegalita'  della  custodia  cautelare  a  norma del secondo comma
dell'art. 314, qualora per ciascuno di detti titoli l'art. 303 c.p.p.
preveda  pari  durata  massima.  E  la  ragione  giustificativa della
disciplina  risulta  del tutto comprensibile quando si considera che,
in  una  siffatta  situazione,  il periodo di detenzione cautelare e'
unico  ed  inscindibilmente  imputabile  ad ognuno e a tutti i titoli
custodiali  (Cass.,  sez. IV, 9 maggio 2000, Comisso, rv. 217721), di
guisa  che,  se questi hanno un identico limite massimo di durata, e'
sufficiente la mancanza di proscioglimento nel merito per uno solo di
essi  perche'  l'intera  detenzione  cautelare  debba  essere ad esso
riferita, indipendentemente dalla misura della pena che sarebbe stata
in concerto inflitta se fosse intervenuta una pronuncia di condanna.
    Inoltre, va sottolineato che la portata della disposizione di cui
al  quarto  comma  dell'art. 14  puo'  essere  compiutamente definita
soltanto  coordinandola  con  quella  contenuta  nel  primo comma, in
quanto  da  quest'ultima  traspare  inequivocamente  l'intenzione del
legislatore  di  escludere  integralmente la riparazione per ingiusta
detenzione  in  tutti  i  casi  di proscioglimento non di merito e, a
maggior  ragione, di condanna, prescindendo totalmente dall'effettiva
misura  della  pena  applicabile o in concerto applicata, quand'anche
questa  risulti largamente inferiore al periodo di custodia cautelare
effettivamente  subita.  Ritenere  il contrario - come hanno fatto le
citate  sentenze  Cinanni  e  Femia  -  significa, in buona sostanza,
riconoscere che il diritto all'indennizzo deve essere determinato non
in  riferimento  alla  durata  massima  della  misura  custodiale, ma
all'entita'  della  pena  che  sarebbe  stata  inflitta  in  caso  di
condanna,  aprendo,  cosi',  un  varco  che dilata a dismisura l'area
della   riparabilita'   e   la   estende   oltre  i  precisi  termini
tassativamente fissati dalla normativa vigente.
    La conclusione e' avvalorata dalle implicazioni insite nel dictum
delle  predette  due  decisioni  dal quale deriva che il diritto alla
riparazione  e' configurabile non solo in caso di proscioglimento non
di  merito  per  uno  dei  reati contestati, ma anche nell'ipotesi di
condanna,  giacche' il periodo di privazione della liberta' eccedente
la  misura  della  pena  in  concreto  inflitta  dovrebbe m ogni caso
imputarsi  al  concorrente  reato  per  il quale e' stata pronunciata
l'assoluzione nel merito.
    5.  -  La  dirompenza delle implicazioni delle sentenze Cinanni e
Femia  e  stata  chiaramente  avvertita  dall'ordinanza di rimessione
nella  quale  e'  stato rilevato che «l'avere l'imputato scontato una
custodia  cautelare  di  durata  maggiore alla pena inflitta, se pure
possa  considerarsi  oggettivamente ingiusto, non vale - nel presente
quadro  normativo  e  allo  stato  della  giurisprudenza - a ritenere
«ingiusta», ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 314 c.p.p., la
detenzione cautelare eccedente il limite della pena». Tuttavia, nello
stesso provvedimento e' stato osservato che alle due citate decisioni
«sottostanno  valide  ragioni  sostanziali  che  consistono  nel  non
ritenere  conforme  ad  equita'  l'impossibilita'  di riparazione per
ingiusta  detenzione in presenza di una custodia cautelare ampiamente
superiore  a  quella della pena che viene poi stabilita dal giudice».
Nella prospettiva dischiusa da tale enunciazione, sono stati indicati
molteplici  profili  che potrebbero far dubitare della compatibilita'
con  i  principi  sanciti  dalla  Carta  costituzionale  delle scelte
compiute   dal   legislatore   attraverso   la   normativa  racchiusa
nell'art. 314,  comma 1  e  4,  nella parte in cui esclude il diritto
alla riparazione per la custodia cautelare che risulti superiore alla
misura della pena inflitta, precludendo di riflesso - nell'ipotesi di
piu'  titoli  cautelari  con  pari  limiti  di  durata  massima  - la
liquidazione  dell'indennita'  in ordine all'imputazione per la quale
e'  intervenuta  assoluzione nel merito, anche se l'effettivo periodo
di  custodia  cautelare  risulti  superiore  alla  misura  della pena
inflitta (o che sarebbe stata inflitta) per l'altra imputazione se il
reato non fosse stato dichiarato prescritto.
    L'indagine relativa alla questione di legittimita' costituzionale
cosi'   prospettata   deve  essere  preceduta  dalla  verifica  della
praticabilita'   di  un'interpretazione  adeguatrice  della  predetta
disciplina  che consenta di ricostruirne la portata in sintonia con i
principi  della  Costituzione,  in modo da attribuire alla normativa,
tra i plurimi significati astrattamente possibili, quello che non sia
in contrasto con i valori costituzionali. L'operazione ermeneutica di
adeguamento  e'  stata  sollecitata  anche  dal  procuratore generale
presso  questa  Corte per sorreggere la richiesta di annullamento con
rinvio dell'ordinanza impugnata.
    Il  giudice  delle leggi ha piu' volte precisato che «in linea di
principio,  le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime
perche'   e'  possibile  darne  interpretazioni  incostituzionali  (e
qualche  giudice  ritenga  di darne), ma perche' e' impossibile darne
interpretazioni costituzionali» (sent. n. 356 del 1966), specificando
che  i  giudici  non possono abdicare all'interpretazione adeguatrice
(ord.  n. 451  del  1994)  e  che,  nell'adempimento  del  compito di
interpretare  le  norme di cui devono fare applicazione, «di fronte a
piu'  possibili  interpretazioni  di  un sistema normativo, essi sono
tenuti  a scegliere quella che risulti conforme a Costituzione» (ord.
n. 121 del 1994).
    Le  sezioni unite hanno chiarito, tuttavia, che l'interpretazione
adeguatrice,  pur  corrispondendo ad un preciso ed ineludibile dovere
del  giudice,  ha  effettive  possibilita'  di  esplicazione soltanto
quando  una  disposizione  abbia  carattere «polisenso» e da essa sia
enucleabile,  senza  manipolarne  il contenuto, una norma compatibile
con  la  Costituzione  attraverso  l'impiego  dei  canoni ermeneutici
prescritti  dagli  artt. 12  e  l4  delle disposizioni sulla legge in
generale:   di   talche',   nell'impossibilita'   di   conformare  il
significato  della  norma in termini non incostituzionali, il giudice
non   puo'   disapplicarla,   ma   deve  rimettere  la  questione  di
legittimita'  costituzionale  al  vaglio  della  Corte costituzionale
(Cass., sez. un., 31 marzo 2004, Pezzella, r.v. 227523).
    Nel caso sottoposto all'esame delle sezioni unite va riconosciuta
l'impossibilita' di impiegare il metodo dell'interpretazione secundum
constitutionem,  per  la  ragione  che  gli strumenti ermeneutici dei
quali  e'  munito  il  giudice  non  consentono di superare il limite
rappresentato  dall'univoco  senso  letterale  delle disposizioni del
primo e del quarto comma dell'art. 314, dal cui coordinamento risulta
inequivocamente  che, nell'ipotesi di pluralita' di titoli cautelari,
resta  senz'altro  precluso  il  diritto  alla riparazione attraverso
l'attribuzione  della  durata  della custodia cautelare, per la parte
eccedente  l'entita' della pena in concreto inflitta, all'imputazione
per  la  quale  e' stato pronunciato il proscioglimento con una delle
formule indicate nel primo comma dello stesso art. 314.
    Con  l'argomento  di  ordine  letterale  risultano convergenti le
ragioni  logiche  che  sorreggono  la  specifica strutturazione della
normativa,  chiaro essendo che l'esclusione della riparazione «per il
periodo  in  cui  le  limitazioni  conseguenti all'applicazione della
custodia  siano state sofferte anche in forza di altro titolo» (comma
4)  costituisce  una  diretta  conseguenza  delle  scelte di politica
legislativa  compiute  con  la  disciplina posta dal primo comma, che
postula  il  proscioglimento  nel  merito  per tutte le imputazioni e
preclude  l'indennizzabilita'  delle  differenze  tra la durata della
custodia cautelare e la minore misura della pena inflitta.
    Al riguardo mette conto sottolineare che non sembra pertinente il
riferimento   al   criterio   piu'   volte   applicato   dalla  Corte
costituzionale  secondo  cui il diritto alla riparazione si ricollega
alla  presenza  di  una  oggettiva  lesione della liberta' personale,
comunque ingiusta alla stregua di una valutazione ex post (cfr. sent.
n. 231  del  2004,  n. 284  del 2003, n. 109 del 1999), atteso che in
tutte  le  decisioni  simile  giudizio  e'  costantemente riferito al
carattere   dell'ingiustizia  derivante  dall'esito  assolutorio  del
processo  e  non  alla  durata  della  detenzione cautelare che abbia
superato l'entita' della pena.
    6.  -  Sul  tema  dell'equa  riparazione riferita alla detenzione
cautelare  relativa  a piu' imputazioni questa Corte ha gia' ritenuto
manifestamente  infondata la questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 314,   comma   4,   c.p.p.  che  esclude  il  diritto  alla
riparazione  per  ingiusta detenzione sofferta per piu' titoli almeno
uno  dei  quali  non ingiustamente applicato, rilevando che la tutela
prevista  dall'art. 24,  ultimo comma, Cost. per la riparazione degli
errori  giudiziari,  pur estensibile alla ingiusta detenzione, non e'
assoluta,  ma  soggetta  a  limiti demandati al legislatore ordinario
secondo   criteri   di  ragionevolezza,  rispettati  dalla  anzidetta
disciplina:  con  la  precisazione  che  ne' l'art. 5, comma 5, della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali ne' l'art. 9, comma 5, del Patto internazionale
per  i  diritti  civili  e politici si riferiscono alla ipotesi della
riparazione  per  la  carcerazione  legittimamente  subita da chi sia
stato  successivamente  assolto  (Cass.,  sez.  IV,  24 ottobre 2000,
Merati, rv. 217910).
    Il  riesame  della  questione  -  nell'ottica  particolare  della
maggiore  durata della custodia in carcere rispetto all'entita' della
pena applicata (o applicabile, come nel caso di specie) per una delle
imputazioni  -  permette  di formulare seri e argomentati dubbi sulla
compatibilita'   con   le   norme   costituzionali  della  disciplina
risultante  dal  combinato  disposto  del  primo  e  del quarto comma
dell'art. 314.
    Un  primo profilo di possibile incostituzionalita' va individuato
nella  violazione degli artt. 76 e 77 della Costituzione in relazione
alla  non  fedele  attuazione  della direttiva contenuta nell'art. 2,
comma 1, n. 100 della legge di delega n. 81 del 16 febbraio 1987.
    La  Corte  costituzionale  ha  piu' volte precisato che la delega
legislativa  enuncia  la  direttiva  della  riparazione dell'ingiusta
detenzione  senza  alcuna  distinzione  o limitazione circa il titolo
della  detenzione  stessa o le ragioni dell'ingiustizia (sent. n. 413
del 2004, n. 231 del 2004, n. 310 del 1996). L'ampiezza del principio
dettato  al  legislatore  delegato  non trova riscontro, pero', nella
disciplina  dei presupposti e delle condizioni previsti dal codice di
rito   per   la  nascita  del  diritto  all'indennita'  per  ingiusta
detenzione,   risultando   questo  regolato  in  ambiti  notevolmente
limitativi  e dovendo, in particolare, riconoscersi l'esistenza di un
grave   deficit   di  tutela  nelle  disposizioni  dei  commi 1  e  4
dell'art. 314,   che  indiscriminatamente  escludono  la  riparazione
nell'ipotesi  in  cui la pena effettivamente inflitta per uno di essi
risulti  inferiore alla durata della detenzione cautelare subita, pur
apparendo   quest'ultima,  per  una  parte,  ex  post  oggettivamente
ingiusta.
    Nella  stessa  prospettiva  dell'art. 2,  comma  1,  della  legge
delega,  va  rilevato  che  la  disciplina contenuta nell'art. 314 ha
disatteso  la  direttiva  che  impone  di «adeguarsi alle norme delle
convenzioni  internazionali  ratificate  dall'Italia  e  relative  ai
diritti  della persona e al processo penale»: e, poiche' tra le fonti
convenzionali  internazionali  spiccano  l'art. 5, paragrafo 5, della
Convenzione europea e l'art. 9, paragrafo 5, del Patto internazionale
relativo ai diritti civili e politici, che prevedono il diritto ad un
indennizzo  in  caso  di detenzione illegale senza alcuna limitazione
(Corte  cost.,  n. 413  del  2004  cit. e n. 231 del 2004 cit.), deve
riconoscersi  che  la  disciplina  del  codice di procedura penale si
discosta  dall'enunciato  principio direttivo nella parte in cui nega
la  riparazione  del  pregiudizio  derivato  dalla  privazione  della
liberta'  personale  per  un periodo superiore alla misura della pena
inflitta.
    Nella   medesima   ottica  dischiusa  dalle  norme  convenzionali
internazionali,  nell'ordinanza  di  rimessione alle sezioni unite e'
stato  argomentatamente  sollevato  il  quesito se possa ritenersi in
linea  con le previsioni della Convenzione europea la situazione, cui
in  sostanza  e' riconducibile il caso del Pellegrino, di un soggetto
che  si  trova  a  subire  una detenzione preventiva di lunga durata,
superiore  alla  stessa  pena  poi  stabilita  nei suoi confronti, in
quanto  giudicato a notevole distanza dal fatto commesso. Al riguardo
mette   conto  segnalare  che  l'art.  5,  1/2  3  della  Convenzione
attribuisce  ad  ogni  persona  arrestata  o  detenuta «il diritto di
essere  giudicata  in  tempo  congruo»,  sicche'  la  questione della
legittima  durata della detenzione cautelare e' strettamente connessa
a  quella  dei  ragionevoli  tempi  di definizione del processo (cfr.
Corte  eur.  dir.  uomo, 17 maggio 2005, Sardinas Albo contro Italia;
9 giugno 2005, Picaro contro Italia).
    7.  -  La  questione di legittimita' costituzionale dell'art. 314
risulta  non  manifestamente  infondata  anche quando venga esaminata
assumendo  quali  parametri  di  riferimento  gli  artt.  2,  3 e 24,
comma quarto, della Carta costituzionale.
    Dottrina  e  giurisprudenza  concordano nel riconoscere che dallo
stretto  collegamento  dell'art. 24,  comma 2,  con  gli artt. 2 e 13
della Costituzione traspare che l'ordinamento ha recepito come valori
primari ed essenziali la tutela del principio di solidarieta' e della
liberta'   personale,  alla  cui  stregua  nella  nozione  di  errore
giudiziario  devono  ricomprendersi  tutte  le  ipotesi  di  custodia
cautelare  che,  essendo  risultate  ex post obiettivamente ingiuste,
rivelano  l'erroneita'  della  misura  restrittiva adottata in quanto
lesiva  del bene della liberta' personale. Di talche' non possono non
esprimersi  seri  e  motivati  dubbi  circa  la rispondenza ai valori
tutelati   dalla   Carta   costituzionale   della   disciplina  posta
dall'art. 314,   che  subordina  il  diritto  alla  riparazione  alla
condizione  del  proscioglimento  nel  merito,  escludendolo, invece,
qualora il sacrificio della liberta' personale abbia avuto una durata
che  supera la misura della pena inflitta: e le perplessita' appaiono
ancora  piu'  giustificate  in  riferimento a quelle situazioni nelle
quali  come  nel  caso  di  specie  -  il  divario, in eccesso, della
detenzione  cautelare  rispetto  all'entita'  della  pena dipende dai
tempi non ragionevoli impiegati per la definizione del processo.
    Nel   quadro   dei  valori  costituzionali  e,  soprattutto,  del
fondamento  squisitamente  solidaristico  dell'istituto (Corte cost.,
n. 446  del  1997),  le  limitazioni del diritto all'indennizzo poste
dall'art. 314  appaiono,  quindi, in contrasto anche con il principio
di  ragionevolezza  di  cui all'art. 3 Cost., che, segnando i confini
all'interno  dei  quali devono esplicarsi le scelte discrezionali del
legislatore  ordinario,  rende censurabili dal giudice delle leggi le
norme   viziate  da  non  coerenza  e  da  non  adeguatezza  rispetto
all'obiettivo  avuto  di  mira  di  assicurare  un'equa riparazione a
restrizioni della liberta' personale obiettivamente ingiuste.
    Alla  stregua  di  tutte  le  argomentazioni sin qui svolte, deve
conclusivamente dichiararsi rilevante e non manifestamente infondata,
in  riferimento  agli  artt.  2,  3,  24  e 77 della Costituzione, la
questione  di legittimita' costituzionale dell'art. 314 c.p.p., nella
parte  in  cui  non prevede il diritto alla riparazione per la durata
della custodia cautelare che risulti superiore alla misura della pena
inflitta.
    A  norma  dell'art. 23  della  legge  11  marzo 1953, n. 87, deve
dichiararsi   la   sospensione   del  procedimento  e  deve  disporsi
l'immediata   trasmissione  degli  atti  alla  Corte  costituzionale.
Inoltre,  la  cancelleria  provvedera'  alla  notifica di copia della
presente  ordinanza  alle  parti  e  al  Presidente del Consiglio dei
ministri e alla comunicazione della stessa ai Presidenti della Camera
dei deputati e del Senato della Repubblica.
                              P. Q. M.
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 314 c.p.p., in relazione agli
artt. 2,  3,  24  e  77 della Costituzione, nella parte in cui non e'
previsto  il  diritto  alla riparazione per la custodia cautelare che
risulti superiore alla misura della pena inflitta.
    Manda alla cancelleria per gli adempimenti di rito.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella Camera di consiglio del 30 maggio
2006.
                       Il Presidente: Gemelli
06C1114