N. 589 ORDINANZA (Atto di promovimento) 6 aprile 2006

Ordinanza   emessa   il   6   aprile   2006   (pervenuta  alla  Corte
costituzionale  l'8  novembre  2006) dalla Corte di appello di Milano
nel procedimento penale a carico di Asnago Umberto

Processo penale - Appello - Modifiche normative - Giudizio abbreviato
  -  Limiti  all'appello  - Possibilita' per il pubblico ministero di
  proporre appello contro le sentenze di proscioglimento - Esclusione
  -  Inammissibilita'  dell'appello  proposto  prima  dell'entrata in
  vigore della novella - Contrasto con il principio di ragionevolezza
  - Violazione del principio di parita' delle parti.
- Codice  di  procedura penale, art. 443, come modificato dall'art. 2
  della legge 20 febbraio 2006, n. 46; legge 20 febbraio 2006, n. 46,
  art. 10, commi 1, 2 e 3.
- Costituzione, artt. 3 e 111, comma secondo.
(GU n.1 del 3-1-2007 )
                         LA CORTE DI APPELLO

    Ha pronunciato la seguente ordinanza.
    Il  presente procedimento penale pendente dinnanzi a questa Corte
ha  per  oggetto l'accertamento della penale responsabilita' di U.A.,
dirigente di societa' commerciale per i delitti di cui agli artt. 81,
660, 594 c.p., reati commessi tra l'ottobre 2003 ed il maggio 2004 in
Meda, in danno di una dipendente della stessa societa'.
    Con  sentenza  dell'11  maggio  2005  il  dirigente, all'esito di
giudizio abbreviato, venne assolto dai reati contestatigli, avendo il
Tribunale  di Monza, territorialmente competente, ritenuto sussistere
un  sostanziale  preventivo consenso della parte offesa alle condotte
poste in essere dal dirigente imputato.
    Avverso  detta  sentenza  interposero  appello il p.m. e la parte
civile.
    Ritiene  la Corte che, nella pratica impossibilita' di separare i
gravami  delle  diverse  parti  (ed  al  momento senza considerare le
implicazioni  inerenti  l'eventuale  «sopravvivenza» del solo appello
della  p.c),  e'  di  indubbia  preliminare rilevanza, ai fini stessi
dell'esame della sentenza impugnata.
    Mentre,  invero,  l'imputato  perde  il  diritto  di impugnare su
aspetti  sostanzialmente  secondari  (la diversa formula assolutoria)
della  sentenza  emessa  al  termine  del  giudizio abbreviato, ma la
conserva  per  la  questione essenziale inerente la sua colpevolezza,
potendo  appellare  la  sentenza di condanna, la parte pubblica resta
legittimata    a    proporre    appello   su   questioni   secondarie
(qualificazione  del  fatto  o quantificazione della pena), mentre ne
resta  priva  laddove  piu'  penetrante  dovrebbe essere la vigilanza
sulla  corretta  amministrazione della giustizia (il che rileva anche
sotto il profilo della irragionevolezza delle nuove disposizioni).
    In  ogni caso poi, si segnala che la mera apparenza della parita'
delle  parti si rivela agevolmente osservando che, in caso di erronea
sentenza  assolutoria nel merito, si rende configurabile solo in capo
al  pubblico ministero un interesse ad impugnare, il quale per contro
difetta nella gran parte dei casi per l'imputato.
    Non  ignora  questa  Corte  che  il  Giudice  delle  leggi  ha in
precedenza sostenuto (vedi Corte costituzionale sent. n. 363/1991) la
legittimita'  di  una limitata asimmetria nelle posizioni delle parti
proprio   con  riferimento  al  rito  abbreviato,  in  ragione  della
peculiarita' di tale giudizio e per le finalita' deflazionistiche che
il    legislatore   intese   perseguire,   ritenendo,   ad   esempio,
costituzionalmente  legittime  le  limitazioni  in  siffatto  rito al
potere di impugnazione in tema di sentenze di proscioglimento (quando
l'appello  tenda  ad  ottenere  una  diversa  formula) o di proporre,
sempre  in «abbreviato» appello incidentale quando sia stato proposto
appello  dall'imputato,  pur  sempre sostenendo che (vedi sent. Corte
costituzionale   n. 98/1994)   «la   configurazione   dei  poteri  di
impugnazione  del  pubblico  ministero  rimane  affidata  alla  legge
ordinaria  che potrebbe essere censurata per irragionevolezza solo se
i  poteri  stessi,  nel  loro complesso, dovessero risultare inidonei
all'assolvimento   dei   compiti   previsti   dall'art.   112   della
Costituzione,  vale a dire rispetto al principio dell'obbligatorieta'
dell'azione penale».
    Ed  invero, la mutilazione del piu' penetrante potere della parte
pubblica  avviene  senza  che  sia possibile individuare alcun valore
costituzionale  in  grado  di bilanciare e legittimare il sacrificio,
tanto piu' che e' stato giustamente osservato come l'esame dei lavori
preparatori  della  riforma,  che ha prodotto le norme qui esaminate,
non abbia fatto alcun riferimento alle finalita' deflazionistiche del
rito  abbreviato  o  comune  di  semplificazione processuale, ma esse
siano  da ricondurre alla convinzione che all' imputato, diversamente
che  alla  parte  pubblica,  spetti comunque, in caso di condnna, una
«seconda chance» nel merito.
    Dai  lavori preparatori della legge in esame si rileva poi che la
lesione  della  parita' di posizione delle parti in tema d'appello e'
stata  giustificata:  a)  invocando l'autorita' di una sentenza delle
sezioni  unite  della  Corte  di  cassazione  che  avrebbero posto il
problema  dell'equilibrio  tra  due interessi: quello di garantire la
liberta'  dei  cittadini  e  quello  di  garantire la sicurezza dello
Stato;  b)  e  quindi  della  condanna  penale  o  della  conferma di
assoluzione   dell'imputato,   la   valutazione  della  questione  di
legittimita'   costituzionale   proposta  dal  p.g.  in  merito  alla
paventata  inammissibilita'  del  suo  appello,  ai  sensi  e per gli
effetti  dell'art. 493, primo comma c.p.p., nella nuova formulazione,
applicabile  ai processi in corso secondo il combinato disposto degli
artt. 1 e 10 della legge 20 febbraio 2006, n. 46.
    Ha  chiesto, infatti, in via preliminare il p.g. che questa Corte
di   appello   voglia  dichiarare  non  manifestamente  infondata  la
questione di incostituzionalita' delle seguenti disposizioni:
        art.  2  della  legge n. 46/2006, modificativo dell'art. 443,
primo comma c.p.p., come segue:
          (Limiti all'appello). 1) L'imputato e il pubblico ministero
non  possono  proporre appello contro le sentenze di proscioglimento;
2)  abrogato;  3)  il  pubblico  ministero  non puo' proporre appello
contro  le  sentenze di condanna, salvo che si tratti di sentenza che
modifica  il titolo di reato; 4) il giudizio di appello si svolge con
le forme previste dall'art. 599 c.p.p.;
        art.  10  della  stessa  legge,  che,  in  tema di disciplina
transitoria, dispone che:
          1)  La  presente  legge si applica ai procedimenti in corso
alla data in entrata in vigore della medesima.
          2)    L'appello    proposto    contro   una   sentenza   di
proscioglimento  dall'imputato  o  dal pubblico ministero prima della
data  dell'entrata  in  vigore  della presente legge viene dichiarato
inammissibile con ordinanza non impugnabile.
          3)  Entro  45  giorni  dalla  notifica del provvedimento di
inammissibilita'  di  cui al comma 2 puo' essere proposto ricorso per
cassazione contro le sentenze di primo gardo.
          4)  La  disposizione di cui al comma 2 si applica anche nel
caso in cui sia annullata, su punti diversi dalla pena o dalla misura
di  sicurezza, una condanna di una corte d'assise di appello o di una
Corte di appello che abbia riformato una sentenza di assoluzione.
    Il p.g. nella specie assume la violazione:
        dell'art. 3   della  Costituzione  (sotto  il  profilo  della
irragionevolezza delle norme);
        dell'art. 111,  secondo  comma  della  Costituzione,  per cui
«ogni  processo  si  svolge  nel  contraddittorio  tra  le  parti, in
condizioni di parita».
    La Corte ritiene che la questione proposta non sia manifestamente
infondata,  anche  solo  con  riferimento alla disciplina transitoria
(art. 2  e  10  legge  n. 46/2006)  dell'appello della parte pubblica
avverso  una  sentenza  di  assoluzione,  resa al termine di giudizio
abbreviato.
    La  nuova disciplina sembra assicurare, infatti, solo una formale
coincidenza  fra  i  poteri  delle  parti,  laddove,  nella sostanza,
introduce una sostanziale disparita' di trattamento con l'esigenza di
dare applicazione ad un principio affermato nel Protocollo n. 7 della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei diritti dell'uomo, adottata a
Strasburgo  nel 1984, resa esecutiva in Italia con la legge n. 90 del
1990,  protocollo  che  all'art.  2  garantirebbe  il doppio grado di
giurisdizione in materia penale solo per gli imputati.
    In  ordine  al  punto a), si puo' osservare che la sentenza delle
sezioni  unite  della  Corte  di  legittimita'  (n. 45276/2003) ha in
realta'  auspicato  (par.  7.1.3 della motivazione) l'opportunita' di
«una  (ri)  perimetrazione  delle  opzioni  decisorie  consentite  al
giudice  d'appello, chiamato a pronunciarsi sull'appello del pubblico
ministero  avverso  la  sentenza  assolutoria  di primo grado ... nel
senso  di  qualificare  in questo caso l'appello, ove non si concluda
con la conferma dell'alternativa assolutoria, come giudizio di natura
esclusivamente rescindente cui debba seguire un rinnovato giudizio di
primo grado sul merito della responsabilita' ...».
    In ordine al punto b), si rileva che il comma 2 dello stesso art.
2 del protocollo prevede espressamente che il diritto dell'imputato a
far  riesaminare  l'affermazione di colpevolezza da una giurisdizione
superiore   e'   escluso  quando  tale  affermazione  provenga  dalla
giurisdizione  piu'  elevata o quando l'imputato sia stato dichiarato
colpevole  e  condannato  a  seguito  di  un  ricorso  avverso il suo
proscioglimento.   Inciso,   quest'ultimo,   che   espressamente   fa
riferimento    all'impugnazione    di    una    prima   sentenza   di
proscioglimento, che non puo' che provenire dalla parte pubblica.
    In  ogni  caso,  anche  a  ritenere  diversamente,  da un lato la
previsione  espressa  di  un tale diritto solo a favore dell'imputato
non  comporta  come  conseguenza la necessaria ablazione dell'analogo
potere a vantaggio di altre parti; dall'altro tale preteso diritto si
sarebbe  potuto realizzare con una completa riforma del sistema delle
impugnazioni,  piuttosto  che  con  la sottrazione totale al pubblico
ministero del potere di appellare le sentenze di proscioglimento.
    La  norma  impugnata  in  nessun  modo  quindi  puo' considerarsi
recettiva   di  un  principio  di  diritto  internazionale  volto  ad
escludere  l'appello  del  pubblico  ministero avverso le sentenze di
proscioglimento.
    Nei  lavori  preparatori  si  e'  anche  sostenuto che il giudice
d'appello  «valuta  soltanto  le  carte», a differenza del giudice di
primo  grado,  e che e' quindi incongruo consentire a tale giudice di
ribaltare una sentenza di proscioglimento.
    Tale  argomentazione  non  solo  non corrisponde a verita' per un
buon numero di processi, ma neppure spiega perche' «un giudizio sulle
carte»  di proscioglimento abbia maggior dignita' di analogo giudizio
di  condanna; con la conseguenza che - seguendo tale argomentazione -
si  dovrebbe  giungere  all'inappellabilita' di tutte le sentenze per
chiunque.
    La   evidente  disparita'  di  trattamento  e'  stata  del  resto
autorevolmente indicata dal Presidente della Repubblica nel messaggio
con il quale il 20 gennaio 2006 ha rinviato all'esame delle Camere la
legge  in questione, rilevando che «le asimmetrie tra accusa e difesa
costituzionalmente  compatibili  non  devono mai travalicare i limiti
fissati  dal  secondo  comma  dell'art  111  della  Costituzione  ...
un'ulteriore  incongruenza  della  nuova  legge  sta nel fatto che il
pubblico  ministero, totalmente soccombente, non puo proporre appello
mentre  cio'  gli  e'  consentito  quando la sua soccombenza sia solo
parziale, avendo ottenuto una condanna diversa da quella richiesta».
    Le  modifiche  apportate  dopo  il  rinvio  alle  Camere non pare
abbiano in alcun modo superato le disorganicita' denunciate.
    Anche  altri  profili  di possibile illegittimita' costituzionale
sono  ravvisabili  per  irragionevolezza  delle norme citate, laddove
esse  consentono,  come  si e' accennato sopra, al pubblico ministero
l'appello   avverso   le   sentenze   di   condanna,   onde  ottenere
evidentemente  una  piu'  grave  sanzione  - a fronte comunque di una
affermazione  di responsabilita' che lo vede parzialmente soddisfatto
come parte pubblica - ed invece gli nega la possibilita' dell'appello
per  ottenere in primo luogo l'affermazione della responsabilita' - a
fronte  di  una  sentenza  di proscioglimento, che lo vede totalmente
soccombente.  Nessun  motivo  logico pare possa giustificare una tale
asimmetria.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara   non   manifestamente   infondata   la   questione   di
1egittimita'  costituzionalita'  del  seguente articolo del codice di
procedura  penale,  modificato  dalla  legge 20 febbraio 2006, n. 46,
«Modifiche   al   codice   di   procedura   penale,   in  materia  di
inappellabilita' delle sentenze di proscioglimento», pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale 22 febbraio 2006, n. 44:
        Art. 443 del codice di procedura penale (modificato dall'art.
2  della  legge)  nella  parte  in cui esclude la possibilita' per il
pubblico ministero di appellare le sentenze di proscioglimento;
        Art.  10,  commi 1, 2, 3, della legge 20 febbraio 2006, n. 46
(disciplina  transitoria  qui  rilevante per l'applicazione del nuovo
art. 443 c.p.p.),
        Per  entrambi  in relazione agli artt. 111, secondo comma e 3
della Costituzione e per le motivazioni sopra esposte.
    Dispone  a cura della cancelleria la trasmissione degli atti alla
Corte   costituzionale,   previa  notifica  di  questa  ordinanza  al
procuratore  generale  in sede, alle parti private, al Presidente del
Consiglio dei ministri e la sua comunicazione ai presidenti delle due
Camere del Parlamento.
    Sospende il processo in corso.
        Milano, addi' 6 aprile 2006
                       Il Presidente: Silocchi
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