N. 455 ORDINANZA 13 - 28 dicembre 2006

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Processo  penale - Applicazione della pena su richiesta delle parti -
  Modifiche  normative  -  Possibilita'  di formulare la richiesta di
  patteggiamento   nei   dibattimenti  in  corso  -  Sospensione  del
  dibattimento  qualora  l'imputato  chieda termine, non inferiore ai
  quarantacinque  giorni, per valutare l'opportunita' di formulare la
  richiesta  -  Decorrenza  del  termine  dalla prima udienza utile -
  Denunciata  violazione  dei  principi  di  ragionevolezza,  di buon
  andamento  della  pubblica  amministrazione e di ragionevole durata
  del processo - Esclusione - Manifesta infondatezza della questione.
- Legge 12 giugno 2003, n. 134, art. 5, commi 1 e 2.
- Costituzione, artt. 3, 97 e 111.
Processo  penale - Applicazione della pena su richiesta delle parti -
  Modifiche  normative  -  Inapplicabilita' della nuova disciplina in
  tema  di  patteggiamento  «allargato»  agli imputati di determinati
  reati,  nonostante  la pena edittale non sia di per se' ostativa al
  rito,  nonche'  ai  recidivi  reiterati - Denunciata violazione del
  principio  di  ragionevolezza nonche' di parita' di trattamento tra
  imputati  di  reati  di  analoga  gravita' - Esclusione - Manifesta
  infondatezza della questione.
- Cod.  proc. pen., art. 444, comma 1-bis, aggiunto dall'art. 1 della
  legge 12 giugno 2003, n. 134.
- Costituzione, art. 3.
(GU n.1 del 3-1-2007 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
  Presidente: Franco BILE;
  Giudici:  Giovanni  Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO,
Romano   VACCARELLA,  Paolo  MADDALENA,  Alfio  FINOCCHIARO,  Alfonso
QUARANTA,  Franco  GALLO,  Luigi  MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino
CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO;
ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nei    giudizi    di   legittimita'   costituzionale   dell'art. 444,
comma 1-bis,  del  codice  di  procedura penale, aggiunto dall'art. 1
della  legge 12 giugno 2003, n. 134 (Modifiche al codice di procedura
penale  in  materia  di  applicazione  della  pena su richiesta delle
parti),  e dell'articolo 5, commi 1 e 2, della stessa legge, promossi
con   ordinanze   del  25 settembre  2003  dal  Giudice  dell'udienza
preliminare  del Tribunale di Bari, del 6 aprile e del 20 giugno 2005
dal   Giudice   dell'udienza   preliminare  del  Tribunale  di  Asti,
rispettivamente  iscritte al n. 749 del registro ordinanze 2004 ed ai
numeri  347  e  478  del  registro  ordinanze 2005 e pubblicate nella
Gazzetta   Ufficiale  della  Repubblica  n. 39,  1ª  serie  speciale,
dell'anno 2004 e nn. 28 e 40, 1ª serie speciale, dell'anno 2005.
    Udito  nella  Camera di consiglio del 22 novembre 2006 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.
    Ritenuto  che  con  l'ordinanza  indicata  in epigrafe, emessa il
25 settembre  2003  e  pervenuta  alla  Corte il 7 settembre 2004, il
Giudice  dell'udienza  preliminare del Tribunale di Bari ha sollevato
questioni di legittimita' costituzionale:
        a) dell'art. 5,  commi 1  e  2,  della  legge 12 giugno 2003,
n. 134  (Modifiche  al  codice  di  procedura  penale  in  materia di
applicazione della pena su richiesta delle parti), nella parte in cui
consente  all'imputato  di  richiedere  un  termine,  non inferiore a
quarantacinque  giorni,  per  valutare l'opportunita' di formulare la
richiesta  di  applicazione  della  pena  ai  sensi dell'art. 444 del
codice  di  procedura  penale,  a decorrere dalla prima udienza utile
successiva  all'entrata in vigore della citata legge n. 134 del 2003,
anziche'  a  decorrere  dalla  stessa data di entrata in vigore della
legge, per contrasto con gli artt. 3, 97 e 111 della Costituzione;
        b) dell'art. 444,  comma 1-bis,  cod.  proc. pen., introdotto
dall'art. 1  della  legge n. 134 del 2003, nella parte in cui esclude
dal patteggiamento «allargato» - nel quale, cioe', la pena concordata
dalle parti superi due anni, soli o congiunti a pena pecuniaria - gli
imputati  di  reati  la  cui  pena  edittale  non  sarebbe di per se'
ostativa all'accesso al rito semplificato, quale, in specie, il reato
di  cui  all'art. 416-bis  del  codice  penale  (associazione di tipo
mafioso), per contrasto con l'art. 3 della Costituzione;
        che   il   giudice  a  quo  premette  di  essere  chiamato  a
pronunciarsi  sull'istanza,  proposta  dalle  difese  degli  imputati
all'udienza  del  22 settembre  2003  -  destinata  alla  discussione
nell'ambito  di un processo penale celebrato con rito abbreviato - di
sospensione  del  processo  stesso  ai  sensi dell'art. 5 della legge
n. 134  del  2003, al fine di valutare l'opportunita' di formulare la
richiesta  di  applicazione della pena di cui all'art. 444 cod. proc.
pen.;
        che,  ad avviso del rimettente, la previsione del comma 1 del
citato  art. 5  -  in  forza  della  quale  l'imputato  puo' chiedere
l'applicazione   della   pena,   alla  luce  della  nuova  disciplina
dell'istituto  introdotta  dalla  legge  n. 134  del 2003, «anche nei
processi penali in corso di dibattimento» - non varrebbe a precludere
la  proposizione  della  richiesta stessa prima della discussione nel
giudizio abbreviato;
        che,  d'altro canto - sebbene la sospensione del processo per
una  piu'  consapevole  determinazione  nella  scelta  del  rito  sia
espressamente  prevista  dal comma 2 dell'art. 5 solo in relazione al
dibattimento    -    sarebbe    possibile   recepire   la   soluzione
interpretativa,  gia' adottata da numerosi uffici giudiziari, secondo
cui il termine «dibattimento» andrebbe nel frangente inteso nel senso
piu'  ampio  di «giudizio», comprensivo anche delle udienze destinate
alla celebrazione del giudizio abbreviato;
        che,  cio'  premesso,  il  rimettente dubita, tuttavia, della
conformita'  dell'art. 5,  commi 1  e  2, della legge n. 134 del 2003
agli artt. 3, 97 e 111 Cost.;
        che la norma denunciata si porrebbe segnatamente in contrasto
con  il  principio  di ragionevolezza, in relazione a quelli di «buon
andamento  dell'amministrazione  della  giustizia»  e  di ragionevole
durata  del  processo,  nella  parte  in  cui  - prevedendo che possa
chiedersi  un  termine  «di  riflessione»  con decorrenza dalla prima
udienza  utile  successiva,  anziche' dalla stessa data di entrata in
vigore  della  novella  -  permette  agli imputati in processi la cui
prima  udienza  successiva e' fissata a notevole distanza di tempo da
tale  data,  di  ottenere  una  dilazione  di  quarantacinque  giorni
assolutamente ingiustificata;
        che  la  questione risulterebbe rilevante nel giudizio a quo,
in  quanto  l'udienza  del  22 settembre 2003 era la prima utile dopo
l'entrata  in  vigore  della  legge,  con  la conseguenza che, ove lo
spatium  deliberandi  fosse stato stabilito con riferimento alla data
di  pubblicazione  della legge nella Gazzetta Ufficiale, l'istanza di
sospensione non avrebbe potuto essere avanzata;
        che   quanto,   poi,  alla  non  manifesta  infondatezza,  il
rimettente  rileva  come la ragionevole durata del processo, prevista
dall'art. 111  Cost.  -  lungi  dal costituire un «diritto soggettivo
esclusivo»  dell'imputato,  cui  questi potrebbe rinunciare «mediante
tattiche dilatorie, abusi di diritti e facolta' previsti dalla legge»
-  configuri  un  principio «multilaterale», attinente sia alle parti
pubbliche  che  a  quelle private e rivolto anzitutto al legislatore,
impegnandolo  a  strutturare  l'organizzazione  della  giustizia e la
disciplina  del  processo  in  modo tale che possa giungersi alla sua
conclusione nel minor tempo possibile, tenuto conto della ragionevole
esplicazione delle garanzie difensive;
        che  nella  specie, per contro - non essendo ipotizzabile che
dal  29 giugno 2003 (data di entrata in vigore della legge n. 134 del
2003)  gli  imputati  nel  giudizio  a  quo  non siano stati messi in
condizione di riflettere sull'opportunita' di chiedere l'applicazione
della  pena,  mediante  colloqui  con  il  difensore  -  la  facolta'
accordata  dalla  norma  impugnata  si  tradurrebbe  in «una classica
garanzia inutile»: tale, cioe', da non produrre alcun reale vantaggio
per   l'imputato,   se   non   il  semplice  allungamento  dei  tempi
processuali;
        che  il  rimettente dubita, in pari tempo, della legittimita'
costituzionale  dell'art. 444,  comma 1-bis,  cod.  proc.  pen.,  che
esclude  dal  «patteggiamento»,  quando  la pena richiesta superi due
anni  di  pena  detentiva,  soli  o  congiunti a pena pecuniaria, gli
imputati   di   determinati   delitti   -   e  segnatamente  (secondo
l'indicazione   del   rimettente   stesso)  gli  «imputati  di  reati
associativi  mafiosi  o finalizzati allo spaccio di stupefacenti o in
tema  di  contrabbando»  -  nonche' coloro che siano stati dichiarati
delinquenti  abituali,  professionali  o  per tendenza, o recidivi ai
sensi dell'art. 99, quarto comma, cod. pen.;
        che  detta  disposizione  dovrebbe ritenersi in contrasto con
l'art. 3  Cost., quanto meno nella parte in cui preclude l'accesso al
rito  agli  imputati  del  delitto  di cui all'art. 416-bis cod. pen.
(associazione  di  tipo  mafioso),  trattandosi  di reato la cui pena
edittale  -  a  differenza di quella del reato, parimenti escluso, di
cui  all'art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle
leggi   in  materia  di  disciplina  degli  stupefacenti  e  sostanze
psicotrope,  prevenzione  cura e riabilitazione dei relativi stati di
tossicodipendenza)   -   potrebbe   consentire,   di   per   se',  il
patteggiamento «allargato»;
        che, al riguardo, non varrebbe sostenere che quella censurata
rappresenta   una   scelta   di   politica   criminale,  giustificata
dall'allarme  sociale  destato dai reati esclusi, posto che qualunque
scelta  di  politica  criminale non potrebbe comunque ridondare in un
vulnus  dell'art. 3  Cost.: vulnus ravvisabile per contro nel caso in
esame,  sia  sul  piano  del difetto di ragionevolezza, che su quello
della disparita' di trattamento di ipotesi tra loro assimilabili;
        che i soggetti cui e' riferimento nell'art. 444, comma 1-bis,
cod.   proc.   pen.   possono  infatti  accedere  tanto  al  giudizio
abbreviato, quanto al patteggiamento «minore»: con la conseguenza che
la  preclusione  risulterebbe  priva  di  razionale  giustificazione,
esprimendo  solo  una  «simbolica  volonta»  del  legislatore  di non
consentire  l'ulteriore rito semplificato a soggetti che gia' possono
ottenere «aliunde» il medesimo sconto di pena;
        che  il  denunciato  difetto  di ragionevolezza risulterebbe,
d'altra   parte,   ancor  piu'  evidente  ove  si  consideri  che  al
patteggiamento  «allargato»  possono  invece accedere gli imputati di
una  serie  di  altri  reati  di  vasto  allarme  sociale  - quali la
corruzione,  la  concussione,  la rapina e l'estorsione - la cui pena
edittale  e'  assimilabile  a  quella prevista dall'art. 416-bis cod.
pen.:  senza  considerare che l'omogeneita' della pena e' essa stessa
indice  dell'analogo  disvalore  sociale  che, nell'apprezzamento del
legislatore, connota le diverse condotte;
        che  ammettere  che possa farsi luogo ad una differenziazione
di  schemi  processuali in rapporto al tipo di reato contestato e non
ai  limiti  di  pena  edittale,  precludendone  alcuni  a determinate
categorie   di  soggetti  (i  «mafiosi»,  i  delinquenti  abituali  o
professionali, i recidivi) - operazione, questa, che parrebbe evocare
la   teoria   del  cosiddetto  «tipo  di  autore»  -  significherebbe
legittimare  irrazionali  discriminazioni  soggettive  a  parita'  di
sanzione  penale,  mediante  istituti  (i riti semplificati) che sono
finalizzati  «all'accertamento  dei  fatti  e non alla repressione di
ipotesi di reato»;
        che  la  questione  sarebbe, infine, rilevante nel giudizio a
quo  almeno  per  gli imputati del solo reato di cui all'art. 416-bis
cod. pen., i quali - nel caso di suo accoglimento - potrebbero fruire
di  una  pena  «certa»  stabilita a seguito di accordo, piuttosto che
sottoporsi  all'alea  del  giudizio  «libero»  sulla  pena,  salva la
diminuzione  di  un terzo, oltre che dei benefici di cui all'art. 445
cod. proc. pen., non previsti in rapporto al rito abbreviato;
        che  con  le  due  ordinanze indicate in epigrafe, di analogo
tenore,  il giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Asti ha
sollevato,  in  riferimento all'art. 3, primo comma, Cost., questione
di legittimita' costituzionale dell'art. 444, comma 1-bis, cod. proc.
pen., introdotto dall'art. 1 della legge n. 134 del 2003, nella parte
in cui esclude dal patteggiamento «allargato» i recidivi reiterati;
        che  il  giudice  a  quo  premette  di  essere  investito  di
procedimenti  penali nei confronti di persone imputate di vari reati,
le  quali  avevano formulato, ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen.,
richieste   di   applicazione  di  pene  superiori  ai  due  anni  di
reclusione;
        che, in un caso (ordinanza r.o. n. 347 del 2005), il pubblico
ministero  aveva negato il proprio consenso unicamente in ragione del
fatto  che  gli  imputati  richiedenti  versavano nella condizione di
recidivi  reiterati,  ai sensi dell'art. 99, quarto comma, cod. pen.;
mentre  nell'altro  (ordinanza  r.o.  n. 478 del 2005), pur avendo il
pubblico ministero prestato il consenso, l'istanza non avrebbe potuto
essere  accolta  per  la  medesima  ragione,  legata alla qualita' di
recidivo reiterato del richiedente;
        che  ad  avviso  del  giudice  a  quo,  tuttavia, l'art. 444,
comma 1-bis, cod. proc. pen., nell'escludere i recidivi reiterati dal
patteggiamento  «allargato»,  violerebbe l'art. 3, primo comma, Cost;
detta  esclusione  risulterebbe irragionevole, ponendosi in contrasto
con  la  stessa  ratio  dell'istituto dell'applicazione della pena su
richiesta  delle parti, il quale e' finalizzato non gia' ad accordare
un  beneficio  all'imputato,  ma  ad  agevolare  la  definizione  dei
processi;
        che   il  patteggiamento  costituisce,  infatti,  un  negozio
processuale   a   contenuto  predeterminato,  nel  quale  i  vantaggi
riconosciuti  all'imputato  sono compensati dalla sua accettazione di
una  pena  concordata,  con  rinuncia  al  dibattimento  e  al  grado
dell'appello:  nella  qual  ottica  e'  gia'  previsto  che  tanto il
pubblico  ministero,  nel prestare o meno il proprio consenso, quanto
il  Giudice,  nel  valutare  la  congruita'  della pena e la corretta
applicazione  delle  circostanze,  debbano tener conto della maggiore
pericolosita' sociale derivante dalla recidiva reiterata;
        che  il dubbio di costituzionalita' riuscirebbe d'altro canto
rafforzato,  quanto  al  vulnus  del  principio  di  eguaglianza, dal
confronto  con la disciplina del patteggiamento «infrabiennale» e del
giudizio abbreviato;
        che, riguardo al primo, l'unico limite all'ammissibilita' del
rito  e'  infatti  rappresentato  dall'entita'  della  pena detentiva
concordata  tra  la pubblica accusa e l'imputato (due anni): sicche',
una  volta  compiuta la scelta di ampliare fino a cinque anni la pena
che  le parti possono concordare - all'evidente scopo di incrementare
il  numero  dei  processi  definibili  con tale rito - non vi sarebbe
ragione  per vanificare siffatta finalita' deflattiva, escludendo gli
imputati recidivi reiterati;
        che  la  limitazione  in  discorso si rivelerebbe altrettanto
ingiustificata   nel   confronto   con  la  disciplina  del  giudizio
abbreviato  (che  non  la contempla), giacche' - pur nella diversita'
dei  due  riti  -  le  conseguenze  della  scelta fra l'uno e l'altro
risulterebbero  identiche  nel caso di condanna, comportando entrambi
la diminuzione di un terzo della pena ritenuta congrua;
        che,   d'altra   parte,  il  patteggiamento  «allargato»  non
comporta i benefici connessi all'applicazione della pena su richiesta
entro  il  limite  dei  due anni (esenzione dal pagamento delle spese
processuali  e dall'applicazione delle pene accessorie e delle misure
di  sicurezza,  diverse dalla confisca); onde la sentenza che applica
la  pena superiore ai due anni risulterebbe - quanto agli effetti per
l'imputato  - assai simile alla sentenza di condanna emessa a seguito
di    giudizio    abbreviato,   differenziandosene   unicamente   per
l'inefficacia   nei   giudizi  civili  e  amministrativi:  beneficio,
peraltro, indubbiamente compensato, «sul piano sinallagmatico», dalla
rinuncia al giudizio e all'appello;
        che   qualora   pure,   infine,   si  volesse  ravvisare  nel
patteggiamento  una  qualche  componente  premiale,  l'esclusione dei
recidivi  reiterati  rimarrebbe  ugualmente  irragionevole,  giacche'
l'unico  parametro sanzionatorio della pericolosita' sociale previsto
dall'ordinamento  giuridico  e'  l'entita'  della  pena,  sulla quale
soltanto  incidono  le  circostanze, qual e' la recidiva: circostanze
che,  d'altro  canto,  debbono essere «sempre ancorate ad un giudizio
sul  fatto  in  concreto»,  e  non  «ad  un  giudizio  astratto sulla
persona»,  tanto  che al giudice e' concessa la facolta' di escludere
la recidiva stessa.
    Considerato  che  le  ordinanze di rimessione sollevano questioni
identiche  od  analoghe, sicche' i relativi giudizi vanno riuniti per
essere definiti con unica pronuncia;
        che il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Bari
dubita,  anzitutto,  della  conformita'  agli artt. 3, 97 e 111 Cost.
della  disposizione transitoria di cui all'art. 5, commi 1 e 2, della
legge  n. 134  del  2003, nella parte in cui consente all'imputato di
richiedere  un  termine,  non  inferiore a quarantacinque giorni, per
valutare  l'opportunita'  di  formulare  la richiesta di applicazione
della  pena  alla luce della nuova disciplina introdotta dalla citata
legge,   con   decorrenza   dalla   prima  udienza  utile  successiva
all'entrata in vigore della novella, anziche' dalla stessa data della
sua entrata in vigore;
        che per quanto attiene al preteso contrasto con gli artt. 3 e
111 Cost., questa Corte ha gia' avuto modo di affermare che la scelta
sottesa  alla  norma  censurata  costituisce  espressione  dell'ampia
discrezionalita' di cui il legislatore gode nel regolare gli effetti,
nei  processi  in  corso,  di  nuovi  istituti  processuali  o  delle
modificazioni  apportate ad istituti gia' esistenti: discrezionalita'
il  cui  esercizio  non  e' suscettibile di sindacato sul piano della
legittimita'   costituzionale,   col   solo  limite  della  manifesta
irragionevolezza delle soluzioni adottate;
        che  lo  spatium  deliberandi  accordato  all'imputato  dalla
disposizione impugnata - ad onta della sua «inusitata ampiezza» - non
puo',   per   contro,   ritenersi   manifestamente  irrazionale,  ne'
incompatibile con il principio della ragionevole durata del processo,
dovendo  quest'ultimo  principio essere contemperato con la tutela di
altri  diritti  costituzionalmente garantiti, ad iniziare dal diritto
di  difesa, il quale trova nella richiesta di applicazione della pena
da parte dell'imputato una delle sue modalita' di esercizio (sentenza
n. 219 del 2004; ordinanze n. 91 del 2005 e n. 420 del 2004);
        che  per quanto concerne, poi, il dedotto vulnus dell'art. 97
Cost.,   e'   costante,   nella   giurisprudenza   di  questa  Corte,
l'affermazione  in  forza della quale il principio del buon andamento
si   riferisce   agli  organi  dell'amministrazione  della  giustizia
unicamente  per  i  profili  concernenti  l'ordinamento  degli uffici
giudiziari  ed  il loro funzionamento sotto l'aspetto amministrativo;
mentre  esso  non riguarda l'esercizio della funzione giurisdizionale
nel suo complesso ed i provvedimenti che ne costituiscono espressione
(ex  plurimis,  sentenze  n. 174  del 2005 e n. 5 del 2004; ordinanze
n. 44 del 2006 e n. 94 del 2004);
        che  entrambi  i  giudici rimettenti sottopongono, in secondo
luogo,  a  scrutinio di costituzionalita', con riferimento all'art. 3
Cost.,  il  regime  delle  esclusioni dall'applicazione della pena su
richiesta  delle  parti, prefigurato dall'art. 444, comma 1-bis, cod.
proc.  pen.  (aggiunto  dall'art. 1  della legge n. 134 del 2003) per
l'ipotesi  in  cui  la  pena  concordata  superi  due  anni  di  pena
detentiva,   soli   o   congiunti   a   pena  pecuniaria  (cosiddetto
patteggiamento «allargato»);
        che il giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Bari
censura,   in   particolare,  le  preclusioni  di  ordine  oggettivo,
ritenendo  irrazionale  e  foriera  di  ingiustificate  disparita' di
trattamento l'esclusione degli imputati di reati la cui pena edittale
non  sarebbe  di  per  se' ostativa all'accesso al rito semplificato,
quale,  in  specie,  il  delitto  di  cui all'art. 416-bis del codice
penale (associazione di tipo mafioso); mentre il giudice dell'udienza
preliminare  del  Tribunale  di  Asti  ravvisa una compromissione del
parametro   evocato  nelle  preclusioni  di  ordine  soggettivo,  con
riguardo segnatamente all'esclusione dei recidivi reiterati;
        che  in  ordine  a  quest'ultima la Corte si e' peraltro gia'
specificamente  espressa,  negando  la  configurabilita'  del  vulnus
denunciato (ordinanza n. 421 del 2004);
        che,  in  proposito,  si  e'  rilevato come - alla stregua di
quanto precedentemente affermato dalla Corte stessa, in sede di esame
di  una  questione  di  legittimita' costituzionale volta a censurare
l'eccessiva    ampiezza   dell'area   di   operativita'   del   nuovo
patteggiamento  «allargato»  (sentenza n. 219 del 2004) - «le cautele
adottate  dal  legislatore  nel  prevedere  le  ipotesi di esclusione
oggettiva  e  soggettiva  in  relazione alla gravita' dei reati ed ai
casi  di  pericolosita'  qualificata»,  unitamente all'esclusione «di
importanti   effetti   premiali»,   nel   caso   di  pena  concordata
ultrabiennale, rappresentino soluzioni di «riequilibrio» - certamente
riconducibile alla discrezionalita' del legislatore - della scelta di
dilatare  il  perimetro  della «giustizia negoziata», connotando tale
scelta, nel suo complesso, come non manifestamente irrazionale;
        che,  d'altra  parte,  la condizione del soggetto recidivo e'
posta   normalmente   dal   legislatore  a  base  di  un  trattamento
differenziato e meno favorevole, rispetto alla posizione del soggetto
incensurato:  costituendo  in  particolare  la  recidiva  reiterata -
considerata  sintomatica di una pericolosita' soggettiva piu' intensa
rispetto   alle   altre  forme  di  recidiva  -  elemento  impeditivo
dell'applicazione di numerosi istituti (amnistia e indulto, salvo che
la  legge  disponga  altrimenti; oblazione discrezionale; sospensione
condizionale  della  pena;  estinzione  delle pene della reclusione e
della   multa   per  decorso  del  tempo;  nonche'  -  attualmente  -
comparazione delle circostanze);
        che,  pertanto,  risulta coerente con le finalita' perseguite
in   via  generale  dall'ordinamento  penale  che  il  legislatore  -
nell'estendere  la  sfera  applicativa  del  rito alternativo - abbia
previsto  specifiche  «esclusioni  soggettive nei confronti di coloro
che,  da  un lato, hanno dimostrato un rilevante grado di capacita' a
delinquere  e,  dall'altro, sono imputati di reati che - ove si tenga
conto  della  determinazione  della pena in concreto e della speciale
diminuente di un terzo per effetto del patteggiamento - rivestono non
trascurabile gravita', tanto da comportare l'applicazione di una pena
detentiva superiore a due e sino a cinque anni»;
        che   analoghe   considerazioni   valgono  a  rendere  palese
l'infondatezza   del   dubbio   di  costituzionalita'  relativo  alle
preclusioni oggettive;
        che  quanto,  infatti,  all'assunto  del  giudice rimettente,
secondo  cui  l'esclusione dal patteggiamento «allargato» del delitto
previsto  dall'art. 416-bis cod. pen. sarebbe ingiustificata, essendo
ammessi  a  tale rito gli imputati di altri reati di notevole allarme
sociale  e puniti con pena similare, vale osservare che l'ordinamento
annovera  un'ampia  gamma  di  ipotesi  nelle  quali,  per ragioni di
politica  criminale,  il legislatore connette al titolo del reato - e
non   (o   non   soltanto)   al   livello   della   pena  edittale  -
l'applicabilita'  di  un  trattamento  sostanziale o processuale piu'
rigoroso;
        che, sul versante sostanziale, e' sufficiente far riferimento
alle  esclusioni oggettive dall'amnistia e dall'indulto, previste dai
vari provvedimenti di clemenza succedutisi nel tempo; alle esclusioni
oggettive  dalle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi (ora
peraltro  rimosse  dalla stessa legge n. 134 del 2003); ai divieti di
concessione  dei  benefici  penitenziari  ai  condannati  per  taluni
delitti;    all'inapplicabilita'   dell'espulsione,   come   sanzione
sostitutiva  o alternativa alla detenzione, allo straniero condannato
per   determinati   delitti   (art. 16,  commi 3  e  5,  del  decreto
legislativo  25 luglio  1998,  n. 286  (recante il «Testo unico delle
disposizioni  concernenti  la  disciplina  dell'immigrazione  e norme
sulla condizione dello straniero»);
        che  ancor piu' numerosi risultano, poi, i casi di diversita'
di  trattamento  processuale «in peius» legati al titolo del reato: e
cosi',   con   particolare   riferimento  proprio  ai  reati  di  cui
all'art. 51-bis  cod.  proc.  pen., richiamato dalla norma impugnata,
basti  pensare  all'art. 190-bis  cod. proc. pen., in tema di diritto
alla   prova;   agli   artt. 25-bis  e  25-ter  del  decreto-legge  8
giugno 1992,  n. 306  (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura
penale  e  provvedimenti  di  contrasto  alla  criminalita' mafiosa),
convertito,  con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356, in
tema  di  perquisizione  di  edifici e di intercettazioni preventive;
all'art. 406,  comma 5-bis, cod. proc. pen., in tema di proroga delle
indagini preliminari;
        che,  in  tali  ipotesi,  l'individuazione  delle fattispecie
criminose  da  assoggettare al trattamento piu' rigoroso - proprio in
quanto  basata  su  apprezzamenti  di  politica  criminale,  connessi
specialmente all'allarme sociale generato dai singoli reati, il quale
non  e' necessariamente correlato al mero livello della pena edittale
- resta affidata alla discrezionalita' del legislatore; e le relative
scelte  possono  venir  sindacate  dalla  Corte solo in rapporto alle
eventuali   disarmonie   del   catalogo   legislativo,  allorche'  la
sperequazione normativa tra figure omogenee di reati assuma aspetti e
dimensioni  tali  da  non  potersi  considerare  sorretta  da  alcuna
ragionevole   giustificazione   (con   riferimento   alle  esclusioni
oggettive  dall'amnistia,  ex  plurimis,  sentenza  n. 272  del 1997;
ordinanze n. 481 del 1991 e n. 436 del 1987);
        che nella specie, per contro, nessuna disarmonia di tal fatta
e'  stata  addotta  dal  rimettente,  che  ha  allegato,  come tertia
comparationis,   fattispecie  criminose  -  concussione,  corruzione,
rapina,  estorsione  -  del  tutto  eterogenee  rispetto  a quelle in
rapporto alle quali e' sancita l'esclusione;
        che, d'altro canto, appare priva di consistenza la censura di
violazione   dell'art. 3   Cost.   legata   al   raffronto   con   il
patteggiamento «infrabiennale», al quale le preclusioni censurate non
risultano estese;
        che  e'  di  tutta  evidenza,  infatti,  come  si  tratti  di
raffronto  non  significativo,  proprio alla luce del diverso livello
della  pena  concordata  nei  due  casi, avendo il legislatore inteso
escludere  dalla  «giustizia  negoziata»  gli  autori  di determinati
reati, i quali - oltre a risultare di particolare allarme sociale per
le  loro  connotazioni  intrinseche  -  si  presentino,  altresi', di
significativa  gravita'  in  concreto:  tanto  da  non  permettere di
concordare come trattamento punitivo congruo (art. 444, comma 2, cod.
proc. pen.) - tenuto conto delle circostanze e della diminuzione fino
ad  un terzo connessa al patteggiamento - una pena contenuta entro il
limite dei due anni;
        che  altrettanto evidente risulta, infine, l'inconferenza del
raffronto  con  il  giudizio  abbreviato (che parimenti non contempla
preclusioni   oggettive   e   soggettive):  trattandosi  di  istituto
nettamente  differenziato  non  solo  sul  piano  delle  connotazioni
astratte  (in  prospettiva  inversa a quella odierna, sentenza n. 135
del  1995),  ma anche su quello degli effetti pratici, come del resto
riconosce lo stesso Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di
Bari, allorche' motiva sulla rilevanza della questione;
        che,  pur  a  fronte della rilevante limitazione dei benefici
connessi al patteggiamento «allargato», quest'ultimo consente infatti
all'imputato   di  sottoporsi  ad  una  pena  certa,  preventivamente
concordata (non potendo il giudice modificare i contenuti del «patto»
intercorso  fra  le parti), che gli verra' inflitta - in applicazione
di   una   particolare   regola   di  giudizio  (l'insussistenza  dei
presupposti   per   una   pronuncia   di   proscioglimento  ai  sensi
dell'art. 129 cod. proc. pen.: in tal senso l'art. 444, comma 2, cod.
proc.  pen.)  - con una sentenza solo «equiparata» a una pronuncia di
condanna  e  priva  di  efficacia nei giudizi civili e amministrativi
(art. 445, comma 2, cod. proc. pen.);
        che,  per  contro,  con  il  giudizio  abbreviato l'imputato,
accettando   di  essere  giudicato  sulla  base  degli  atti,  lascia
inalterati  i  poteri decisori del giudice; quest'ultimo, nel caso di
condanna,  emettera' una sentenza contenente un'affermazione piena di
responsabilita', con la quale infliggera' la pena - ancorche' ridotta
di  un  terzo  - ritenuta equa dallo stesso giudicante e che potrebbe
risultare  di  gran  lunga  superiore a quella che l'imputato sarebbe
stato disposto a «negoziare»;
        che,  conclusivamente, il regime delle preclusioni, oggettive
e  soggettive,  del  patteggiamento «allargato» costituisce frutto di
scelta  discrezionale  e  di  per se' non arbitraria del legislatore;
quest'ultimo,  nell'estendere  sensibilmente l'ambito di operativita'
dell'istituto,  ha  ritenuto  di dover considerare - in un'ottica del
bilanciamento  tra contrapposti interessi - sia i caratteri oggettivi
del  reato  per  cui  si  procede, sia le condizioni soggettive degli
imputati,  espressive  di  una  pericolosita' qualificata: escludendo
che,  in  determinate  ipotesi,  pur  astrattamente  rientranti negli
ampliati  limiti  di applicabilita' dell'istituto stesso, le esigenze
di  economia  processuale  prevalgano su quella di un vaglio completo
del  fondamento  dell'accusa, destinato a sfociare in un accertamento
pieno di responsabilita' e che lasci integro il potere del giudice di
autonoma determinazione del trattamento punitivo;
        che   le   questioni  debbono  essere  dichiarate,  pertanto,
manifestamente infondate.
    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale.
                          Per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
    Riuniti i giudizi,
    Dichiara   la   manifesta   infondatezza   delle   questioni   di
legittimita'  costituzionale dell'art. 5, commi 1 e 2, della legge 12
giugno 2003,  n. 134  (Modifiche  al  codice  di  procedura penale in
materia  di  applicazione  della  pena  su  richiesta  delle parti) e
dell'art. 444,  comma 1-bis, del codice di procedura penale, aggiunto
dall'art. 1  della  citata  legge  n. 134  del  2003,  sollevate,  in
riferimento  agli  artt. 3,  97 e 111 della Costituzione, dal Giudice
dell'udienza   preliminare  del  Tribunale  di  Bari  e  dal  Giudice
dell'udienza  preliminare  del  Tribunale  di  Asti  con le ordinanze
indicate in epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 13 dicembre 2006.
                         Il Presidente: Bile
                         Il redattore: Flick
                       Il cancelliere:Di Paola
    Depositata in cancelleria il 28 dicembre 2006.
              Il direttore della cancelleria: Di Paola
06C1200