N. 42 ORDINANZA (Atto di promovimento) 16 giugno 2006

Ordinanza   emessa   il   16   giugno   2006  (pervenuta  alla  Corte
costituzionale  il 24 gennaio 2007) dalla Corte di appello di Bologna
nel procedimento penale a carico di Alvisi Vittorio

Processo penale - Appello - Modifiche normative - Possibilita' per il
  pubblico  ministero  di  proporre  appello  contro  le  sentenze di
  proscioglimento   soltanto   nelle  ipotesi  di  cui  all'art. 603,
  comma 2,  se  la nuova prova e' decisiva - Violazione del principio
  di  ragionevolezza  -  Violazione del principio della parita' delle
  parti - Contrasto con il principio di buon andamento della pubblica
  amministrazione  -  Lesione  del principio della ragionevole durata
  del   processo   -  Violazione  del  principio  di  obbligatorieta'
  dell'azione penale.
- Codice  di  procedura penale, art. 593, come sostituito dall'art. 1
  della legge 20 febbraio 2006, n. 46.
- Costituzione, artt. 3, 97, 111 e 112.
Processo   penale  -  Appello  -  Modifiche  normative  -  Disciplina
  transitoria - Applicabilita' della nuova disciplina ai procedimenti
  in  corso  -  Privazione  di  uno specifico mezzo di gravame per la
  parte  che  vi  aveva  riposto congruo affidamento al momento della
  impugnazione  -  Violazione  del  principio di ragionevolezza e del
  principio  del giusto processo con «parita' delle armi» - Contrasto
  con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione -
  Lesione  del  principio  della  ragionevole  durata  del processo -
  Violazione del principio di obbligatorieta' dell'azione penale.
- Legge 20 febbraio 2006, n. 46, art. 10.
- Costituzione, artt. 3, 97, 111 e 112.
(GU n.8 del 21-2-2007 )
                         LA CORTE DI APPELLO

    Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento a carico di
Alvisi Vittorio, nato a Ferrara il 24 luglio 1940.
    Con  sentenza  in data 23 gennaio 2004 il Tribunale di Ferrara ha
assolto  l'imputato  dai delitti ascrittigli di omissione di denuncia
(capo B): art. 361 c.p.) e di truffa continuata aggravata in concorso
(capo C): artt. 110, 81 capoverso, 640/secondo c.p.) perche' il fatto
non sussiste.
    Contro la sentenza di primo grado ha proposto appello il pubblico
ministero,  il quale deduce l'erroneita' della sentenza del tribunale
e  chiede  che  la  stessa  sia  riformata  dichiarandosi  «la penale
responsabilita'  dell'imputato  per  il  reato di cui al capo C) o in
alternativa  per il reato di cui al capo B), con conseguente condanna
alla pena che si riterra' di giustizia».
    Dal  9  marzo  2006  e'  in  vigore  la  legge  n. 46/2006  sulla
inappellabilita'   delle   sentenze  di  proscioglimento.  L'art. 593
c.p.p.,  come  riformulato  dalla  legge, esclude che l'imputato e il
pubblico  ministero  possano presentare appello contro le sentenze di
proscioglimento,  se  non nell'ipotesi, prevista dall'art. 603, comma
2,  di  nuova prova decisiva sopravvenuta o scoperta dopo il giudizio
di  primo  grado.  A  sua  volta,  1'art. 10  della legge n. 46/2006,
dedicato   alla  disciplina  transitoria,  dichiara  le  nuove  norme
applicabili  ai  giudizi  in  corso sin dalla entrata in vigore della
legge  e  dispone che l'appello proposto dall'imputato o dal pubblico
ministero  contro  le sentenze di proscioglimento prima della entrata
in vigore della legge, sia dichiarato inammissibile con ordinanza non
impugnabile,  con  facolta'  -  per la parte impugnante - del ricorso
contro  la  sentenza di primo grado entro quarantacinque giorni dalla
notifica del provvedimento d' inammissibilita'.
    Stando  a  queste  disposizioni,  la  Corte  dovrebbe  dichiarare
inammissibile  l'appello  proposto  dal pubblico ministero avverso la
sentenza  del  Tribunale  di  Ferrara  di  cui in premessa. Esistono,
pero', dei profili della nuova normativa che legittimano il dubbio di
contrarieta'  della stessa alla Costituzione, come meglio si dira'. E
nel  caso  in  cui il Giudice delle leggi dovesse ritenere fondata la
questione di legittimita' costituzionale e pronunciarsi nel senso che
gli  artt. 593 c.p.p., come novellato dalla legge n. 46/2006, e 10 di
quest'ultima,  sono  contrari  alla Carta fondamentale nella parte in
cui   impediscono   l'appello   del   pubblico  ministero  contro  il
proscioglimento del giudice di primo grado (anche a prescindere dalle
limitate  ipotesi  attuali), estendendo l'inappellabilita' anche alle
impugnazioni  proposte  prima  del  9 marzo 2006, allora questa Corte
potrebbe  entrare  nel  merito del gravame proposto e decidere per la
conferma  o  la  riforma  della  sentenza  del  tribunale.  Di qui la
rilevanza della questione per il presente procedimento.
    Gli aspetti che rendono non manifestamente infondata la questione
di'  costituzionalita'  dell'art. 593  c.p.p., novellato, sono - come
gia'  ritenuto  da questa Corte in analogo caso con ordinanza in data
25  maggio 2006, i cui motivi si condividono e qui si ribadiscono - i
seguenti:
        l'avere    fortemente    limitato   la   facolta'   d'appello
dell'imputato   e  del  pubblico  ministero  contro  le  sentenze  di
proscioglimento,  rimasta  in  piedi  in casi del tutto marginali, ha
fortemente  squilibrato  le opportunita' delle parti nel processo; in
altri   termini,   la  cosiddetta  parita'  delle  armi  processuali.
Difficilmente  l'imputato  ha  da dolersi del proscioglimento, che va
nel   senso   del   suo  interesse;  e'  naturale,  invece,  che  del
proscioglimento  si  dolga  il  pubblico  ministero,  che ha promosso
l'azione  penale  convinto di poter sostenere l'accusa ed ottenere la
condanna  dell'imputato.  La  lettera  della  nuova norma, che sembra
rivolgersi  indifferentemente all'una e all'altra parte del processo,
tradisce  percio' un forte ridimensionamento delle facolta' d'appello
del solo pubblico ministero.
    La  Corte  costituzionale  ha  insegnato,  in  materia  di limiti
all'appello  del  pubblico  ministero  contro  le  sentenze  emesse a
seguito  di  giudizio abbreviato, che «il principio della parita' fra
accusa e difesa non comporta necessariamente l'identita' tra i poteri
processuali  del  pubblico ministero e quelli dell'imputato e del suo
difensore».  1)  Ma  non  ha  mancato  di aggiungere che un eventuale
diverso trattamento delle facolta' processuali - e, quindi, anche del
potere  d'appello  -  del  pubblico  ministero, per essere conforme a
Costituzione,   deve   trovare   una  ragionevole  motivazione  nella
peculiare  posizione istituzionale del p.m., o nella funzione ad esso
affidata,  o  nelle  esigenze  di  una corretta amministrazione della
giustiza. 2).
    Nulla di tutto cio' si riscontra nella novella in esame, ai sensi
della  quale - diversamente dal caso di cui, all'epoca, si occupo' la
Corte  -  non  si impedisce al pubblico ministero di appellare contro
delle   sentenze   di  condanna,  bensi'  contro  delle  sentenze  di
proscioglimento.  Cio'  sembra  configurare una violazione della «par
condicio» tra le parti. Non si vede come possa rientrare nel processo
«ad  armi  pari»  la  facolta',  per  l'imputato, di proporre appello
contro  la  decisione  a  lui negativa ed il divieto, per il pubblico
ministero,  di proporre lo stesso tipo di gravame in caso di sentenza
a lui sfavorevole.
    Ne'  sembrano  ravvisabili  esigenze  di corretta amministrazione
della  giustizia,  o  fattori  legati  alla posizione o alla funzione
tipica  del pubblico ministero, che possano giustificare il diniego a
quest'ultimo  dell'appello  contro le sentenze di proscioglimento. Al
contrario, sia la funzione affidata al pubblico ministero come organo
di   giustizia,  sia  un'adeguata  amministrazione  di  quest'ultima,
dovrebbero  indurre  a garantire, attraverso strumenti congrui, e non
deboli,  il  ripristino  della  legge  violata  e  la  punizione  dei
colpevoli.
    Non si puo' dimenticare che, alla base del processo penale, vi e'
l'esigenza  dello  Stato di garantire il ripristino dei diritti della
persona offesa; diritti che non sono puramente e semplicemente quelli
relativi  al  risarcimento  del  danno cagionato dal reato, ma che si
spingono   alla  garanzia  dell'interesse  della  vittima  di  vedere
tutelata   dallo  Stato,  nella  sede  penale  a  cio'  deputata,  la
violazione  della propria sfera personale violata da una condotta che
costituisce reato.
    E'  certamente  vero  che,  nel presente caso, il danneggiato dal
reato e' il fisco e non una persona privata, ma la tutela dell'offeso
non   appare,  per  cio'  solo,  di  minore  dignita'.  Va,  infatti,
considerato  che  le disposizioni relative all'imposizione tributaria
sono, pur sempre, dettate in funzione della solidarieta' che lega tra
loro tutti i cittadini e del piu' adeguato sviluppo che lo Stato deve
offrire, a ciascun cittadino, in seno alla comunita' (artt. 53, 2 e 3
Cost.). Appare, percio', non manifestamente infondata la questione di
violazione dell'art. 111 Cost. da parte della norma in esame. La «par
condicio»  tra  le parti non si limita al contraddittorio che avviene
in  primo  grado,  ma necessariamente si estende al giudizio in grado
d'appello.  Il  contraddittorio tra le parti in condizioni di parita'
di  cui  parla  il  secondo  comma  dell'art. 111  Cost.,  non sembra
coincidere  col  contraddittorio  sulla  prova di cui al quarto comma
dello stesso articolo, ne' limitarsi ad esso. Ed, allora, restringere
i  casi d'appello solo per una parte del processo, e non per l'altra,
appare lesivo della norma costituzionale.
    La  violazione  dell'art. 111 Cost. sembra prospettarsi anche per
contrasto  della  nuova disciplina con il principio della ragionevole
durata  del  processo. L'impossibilita' di proporre appello contro le
sentenze di proscioglimento e l'allargamento dei casi del ricorso per
cassazione  mediante la possibilita', affidata alla Suprema corte, di
scrutinare  la  logicita'  della  motivazione sulla scorta degli atti
processuali,  determinera'  un  aumento  esponenziale  del  lavoro di
quest'ultima  ed,  in  caso  di accoglimento del ricorso, un regresso
alla  fase  del  primo  grado,  con  evidente  dilatazione  dei tempi
processuali,  scarsamente  compatibile con il dettato costituzionale.
Prospettandosi, altresi', il rischio, palese nel presente caso, che -
se fondata - l'istanza punitiva portata avanti dal pubblico ministero
si   trovi   frustrata   per   il  decorso  dei  termini  massimi  di
prescrizione,   certamente   calcolati   dal  legislatore  quando  il
meccanismo  processuale  prevedeva  altre  scansioni temporali ed una
diversa disciplina dei gradi del processo.
    Quest'ultimo  rilievo  permette  di  introdurre  il  ragionamento
relativo  ad  un'altra  disposizione  della  Costituzione, la cui non
manifesta  violazione  e'  prospettabile:  l'art. 112.  La  corte  e'
consapevole  che  non sempre il Giudice delle leggi ha ricollegato la
facolta'   d'appello   del   pubblico   ministero   al  principio  di
obbligatorieta'  della  azione  penale.  3) Tuttavia, vi e' un altro,
anche  se  piu' datato, indirizzo della Corte costituzionale, secondo
cui  l'esercizio  del  potere  d'appello della pubblica accusa non e'
altro che un'emanazione del principio fissato dall'art. 112 Cost. Se,
nell'interpretazione  di  cui  la Consulta e' organo sovrano, dovesse
prevalere  questo  secondo  indirizzo,  la  questione di legittimita'
costituzionale   dell'art. 593,  comma  2,  c.p.p.,  come  novellato,
sarebbe  non manifestamente infondata anche con riguardo all'art. 112
della Carta fondamentale.
    A   favore   di   questa  seconda  interpretazione  milita  anche
l'osservazione teste' accennata. La dilatazione dei tempi processuali
che  si  e'  ottenuta  con  l'abolizione della facolta' d'appello del
pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento, rende assai
verosimile  -  in  ragione  degli attuali tempi della giustizia - che
l'istanza   punitiva   dello  Stato,  anche  se  fondata,  non  trovi
soddisfazione  in  ragione  del  decorso della prescrizione. Evento -
questo  -  che  rischia di svilire l'obbligo di esercizio dell'azione
penale   da   precetto  costituzionale  a  stentorea,  quanto  vacua,
proclamazione  di  potere  destinata  a  non  avere  alcuna  concreta
incidenza nella pratica.
    La  terza  norma  costituzionale,  con la quale il nuovo art. 593
c.p.p.  sembra  confliggere, e' l'art. 3 della Carta fondamentale. Se
il  principio  di  ragionevolezza  si  sostanzia  nella necessita' di
trattamento  dei  casi simili in modo simile, e dei casi disuguali in
modo  disuguale,  si  stenta  a  comprendere perche' la norma attuale
permetta  al  pubblico  ministero - la cui funzione nel perseguimento
dei  colpevoli  e'  sempre  la  stessa  - di appellare le sentenze di
condanna  chiedendo  l'aumento  di una pena ritenuta troppo blanda, e
gl'impedisca,  invece,  di  appellare le sentenze di proscioglimento,
che ben piu' gravemente disattendono l'aspettativa di punizione dello
Stato.
    Non  sembra  manifestamente  infondata  neppure  la  questione di
legittimita'   relativa   alla   violazione  dell'articolo  97  della
Costituzione,   che   presidia   i   beni   del   buon   andamento  e
dell'imparzialita'   della   pubblica   amministrazione.   La   Corte
costituzionale  si  e'  espressa  piu'  volte  nel  senso di ritenere
applicabile questa norma anche agli organi dell'amministrazione della
giustizia.  4)  Ove  si  intenda il riferimento al «buon andamento» e
all'«imparzialita»  dell'amministrazione  in termini non solamente di
efficienza  della  macchina  giudiziaria, ma anche di assicurazione a
tutti  gl'interessati,  tra  cui  le parti lese, del piu' completo ed
imparziale perseguimento del fine di repressione dei reati, allora si
deve  ritenere  che  una  norma che lede le opportunita' del pubblico
ministero   di   emendare  l'erroneo  proscioglimento  dell'imputato,
mortificando,  nello  stesso  tempo,  le  legittime aspettative delle
persone  offese  di  vedersi  resa  giustizia  dallo  Stato, violi il
disposto della norma costituzionale indicata.
    In  ordine  all'art. 10, comma 1, della legge n. 46/2006, osserva
la  corte  che  anch'esso  sembra  violare gli artt. 3, 97, 111 e 112
Cost.,  laddove  afferma  applicabile  l'attuale  art. 593,  comma 2,
c.p.p. ai procedimenti in corso. Le ragioni di questa violazione sono
le   stesse   esposte   sopra.  Si  profila,  altresi',  un'ulteriore
disparita'   di   trattamento  sotto  il  seguente  aspetto.  Non  e'
ragionevole l'estensione della nuova disciplina al caso degli appelli
gia' proposti.
    E'  privo  di  ragionevolezza  (e,  percio', contrario all'art. 3
della  Costituzione),  oltre  che  contrario al principio del «giusto
processo» con «parita' delle armi» (e, quindi, contrario all'art. 111
della  Carta),  privare di un mezzo specifico di gravame la parte che
vi   aveva   riposto   congruo   affidamento   perche',   al  momento
dell'impugnazione, quel mezzo le era garantito dall'ordinamento.
    Si  sottrae,  cosi',  ad  uno  solo dei contendenti, mentre e' in
corso  il  con  traddittorio  processuale,  un'arma sin li' giudicata
pienamente  conforme  e  compatibile  con  il  principio  del  giusto
processo.
    Anche  i  commi  2  e  3 dell'art. 10 sembrano in contrasto con i
principi  costituzionali.  Tali  commi  -  nell'interpretazione  piu'
restrittiva  -  impongono  al  giudice  di  dichiarare, in ogni caso,
l'inammissibilita'  degli  appelli  proposti  prima  dell'entrata  in
vigore  della  legge  n. 46/2006.  L'unica  possibilita'  concessa al
ricorrente e' di proporre ricorso per cassazione entro quarantacinque
giorni dalla declaratoria d'inammissibilita' dell'appello. Le ragioni
d'incostituzionalita'   sopra   esposte   valgono  anche  per  queste
disposizioni.
          1) Cost. Corte costituzionale. sent. 363/1991.
          2)  V.  la  sentenza della Corte costituzionale di cui alla
          nota che precede.
          3)  Questa  connessione  e' stata negata, ad esempio, dalla
          sentenza della Corte costituzionale n. 280/1995.
          4) Cfr. le sentenze n. ri 18/1989 e 86/1982.
                              P. Q. M.
    Visto 1'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara,  rilevante  ai  fini  del giudizio e non manifestamente
infondata  la  questione di legittimita' costituzionale dell'art. 10,
commi 1, 2 e 3, della legge n. 46/2006, per violazione degli artt. 3,
97,  111  e  112  della  Costituzione; rilevante e non manifestamente
infondata  la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 593,
comma  2, c.p.p., come modificato dall'art. 1 della legge n. 46/2006,
nella  parte  in  cui  limita  l'appello dell'imputato e del pubblico
ministero,  contro  le sentenze di proscioglimento, alle sole ipotesi
ivi  previste,  nonche'  dalle parole «Qualora il giudice», sino alla
fine  del  comma,  per  violazione degli artt. 3, 97, 111 e 112 della
Costituzione.
    Dispone   la   trasmissione   immediata  degli  atti  alla  Corte
costituzionale e sospende il giudizio in corso.
    Ordina  che,  a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia
notificata  al  Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai
Presidenti delle due Camere del Parlamento.
        Bologna, addi' 16 giugno 2006
                      Il Presidente: Dioguardi
07C0187