N. 67 ORDINANZA (Atto di promovimento) 30 giugno 2006
Ordinanza emessa il 30 giugno 2006 (pervenuta alla Corte costituzionale il 31 gennaio 2007) dalla Corte di assise di appello di Messina nel procedimento penale a carico di Mascarello Felice Processo penale - Appello - Disciplina recata dalla legge n. 46/2006 - Possibilita' per il pubblico ministero di appellare contro le sentenze di proscioglimento - Esclusione (salvo che nelle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, cod. proc. pen., se la nuova prova e' decisiva) - Irragionevolezza - Contrasto con il principio di parita' delle parti - Violazione del principio di obbligatorieta' dell'azione penale. - Codice di procedura penale, art. 593, comma 2, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46. - Costituzione, artt. 3, 111, comma secondo, e 112.(GU n.9 del 28-2-2007 )
LA CORTE DI APPELLO Ha emesso la seguente ordinanza. Sciogliendo la riserva in ordine all'eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 593, secondo comma, c.p.p. come sostituito dall'art. 1, secondo comma, della legge 20 febbraio 2006 n. 46, nella parte in cui esclude la possibilita' per il pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento in assenza di sopravvenienza di nuove prove decisive, e dell'art. 10 della stessa legge, nella parte in cui sancisce l'applicazione della norma novellata anche ai procedimenti in corso, sollevata dal procuratore generale nel procedimento penale n. 1498/2004 a carico di Mascarello Felice in relazione agli artt. 3, 97, 111, secondo comma, e 112 della Costituzione; Sentito il difensore dell'imputato; O s s e r v a Con sentenza emessa in data 7 giugno 2004, il giudice monocratico del Tribunale di Mistretta assolveva Mascarello Felice dai reati di cui agli artt. 631, 632 e 633 c.p., contestati come commessi in Pettineo nel dicembre 1999, per non avere commesso il fatto. Avverso tale sentenza interponeva appello il procuratore della Repubblica di Mistretta lamentando l'erroneita' della adottata declaratoria e chiedeva che venisse pronunziata nei confronti del Mistretta sentenza di condanna in relazione a tutte le imputazioni. Fissato il giudizio di appello, all'udienza del 30 giugno 2006 il procuratore generale, preso atto dell'entrata in vigore della legge n. 46/2006 e delle limitazioni alla facolta' di appello derivanti dalla nuova formulazione dell'art. 593 c.p.p., ha sollevato la questione di legittimita' costituzionale di detta norma nei termini esposti. Orbene, rileva questa corte che l'art. 593 c.p.p. come novellato dall'art. 1 legge n. 46/2006, consente al pubblico ministero e all'imputato di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento solo allorche' con i motivi di impugnazione venga richiesta la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale ai sensi dell'art. 603 cpv. c.p.p. per l'assunzione di prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado e sempre che a dette prove sia riconosciuto il carattere della decisivita'. La norma prevede inoltre che, ove il giudice d'appello non ammetta in via preliminare la rinnovazione dell'istruttoria, il gravame deve essere dichiarato inammissibile. A questo punto alla parte appellante rimane soltanto la possibilita' di proporre ricorso per cassazione entro il termine di giorni 45 dalla notifica dell'ordinanza. L'art. 8 della legge prevede che di tale rimedio le parti possano avvalersi anche nell'ipotesi di mancata assunzione di una prova decisiva richiesta nel corso della istruzione dibattimentale e di contraddittorieta' o illogicita' della motivazione, risultanti da atti del processo specificamente indicati dal ricorrente. Preliminarmente ritiene la corte che la questione proposta dal procuratore generale sia rilevante nel presente giudizio, in quanto la legge, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 22 febbraio 2006 ed entrata in vigore il 9 marzo 2006, prescrive all'art. 10 che le nuove norme trovino applicazione anche ai procedimenti in corso, disponendo che l'atto d'appello proposto prima dell'entrata in vigore della nuova normativa sia dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile. Sussiste altresi' la necessita' che la questione sia risolta in via pregiudiziale poiche', avendo il pubblico ministero appellato la sentenza di primo grado limitandosi a censurarne il processo logico-argomentativo senza indicare nuove prove decisive per addivenire alla pronuncia di un diverso giudizio, dovrebbe essere adottata nel processo in corso ordinanza non impugnabile di inammissibilita' del gravame. Al riguardo va ribadito che compito di questa Corte di appello non e' quello di esprimere un giudizio sulla fondatezza della questione di legittimita' costituzionale, bensi' soltanto quello di valutare se i dubbi di illegittimita' costituzionale prospettati non siano «manifestamente infondati», non siano cioe' chiaramente insussistenti ovvero siano soltanto apparenti. Al di fuori di questa ipotesi la questione deve essere dichiarata «non manifestamente infondata» e va rimessa alla Corte costituzionale, alla quale compete la decisione sulla legittimita' costituzionale delle leggi e degli altri atti aventi forza di legge e quindi di stabilire se i dubbi di illegittimita' costituzionale siano fondati o meno e se siano superabili con il richiamo ad altri principi di rango costituzionale non considerati da chi la questione ha sollevato. Fatta questa premessa, reputa la corte che la questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 10 della legge 20 febbraio 2006 n. 46, che prescrive che l'ad. 593 secondo comma, c.p.p. come novellato dall'art. 1, secondo comma della stessa legge si applichi anche «ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della medesima», debba ritenersi manifestamente infondata con riferimento ad entrambi i profili prospettati dal procuratore generale. Invero, non puo' essere condivisa l'argomentazione con cui e' stata dedotta la contrarieta' della norma transitoria con l'art. 97 Cost. In proposito la Corte costituzionale ha gia' avuto modo di affermare che «il principio del buon andamento della pubblica amministrazione - pur concernendo anche gli organi dell'amministrazione della giustizia - si riferisce esclusivamente alle leggi relative all'ordinamento degli uffici giudiziari ed al loro funzionamento sotto l'aspetto amministrativo, risultando invece di per se' estraneo all'esercizio della funzione giurisdizionale» (v. sent. C.c. 26 marzo/1° aprile 2003 n. 110 e l'ordinanza n. 370/2002 in essa richiamata). Va disattesa anche l'argomentazione circa il presunto contrasto della norma transitoria con l'art. 111 Cost., essendo regola processuale ormai acquisita ed unanimemente condivisa quella della immediata operativita' delle norme di carattere processuale e, quindi, della loro applicazione ai processi in corso. Viceversa ritiene questa corte che non sia manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'ad. 593 c.p.p., come novellato dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006 n. 46, con riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost. Si ricorda che l'art. 111, secondo comma, Cost. recita che «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti in condizioni di parita', davanti ad un giudice terzo ed imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata». Il nuovo art. 593 c.p.p., con il prevedere al primo comma la possibilita' del pubblico ministero e dell'imputato di proporre appello avverso la sentenza di condanna e al secondo comma la limitazione di tale diritto di appellare avverso le sentenze di proscioglimento solamente se il pubblico ministero o l'imputato appellante abbia chiesto una prova nuova e decisiva, solo apparentemente soddisfa l'esigenza di parita' garantita dalla disposizione costituzionale, atteso che in realta' e' solo con riferimento al pubblico ministero che la limitazione di proporre gravame contro le sentenze assolutorie assume preponderanza e rilievo centrale, poiche' all'imputato era gia' inibito dalla precedente normativa appellare sentenze di proscioglimento con formula piena. Ma anche a prescindere da tale considerazione, e' evidente che la parita' che si e' voluto realizzare con la norma in parola e' soltanto apparente, avendo solo il pubblico ministero l'interesse ad impugnare le sentenze di proscioglimento. Peraltro, la soluzione adottata dal legislatore di temperare le conseguenze negative della nuova normativa con la previsione della possibilita' di articolare rilevanti e decisivi mezzi di prova appare quasi irridente: non sfugge a nessuno come sia del tutto avulsa dalla realta' la possibilita' che il pubblico ministero sia in grado di produrre, dopo la pronunzia di primo grado, una prova nuova e decisiva, capace di capovolgere la decisione assolutoria, non rinvenuta durante tutta la fase dedicata alle indagini preliminari e durante l'istruzione dibattimentale, e che cio' riesca a fare nell'arco ristrettissimo corrispondente ai termini di 15, 30 o 45 giorni concessi per l'impugnazione; non gli e' infatti consentito prendersi un maggior lasso temporale, ritardando la richiesta di rinnovazione sino alla presentazione dei motivi nuovi a norma dell'art. 585, quarto comma, c.p.p., poiche' la formulazione della richiesta di rinnovazione costituisce requisito di ammissibilita' dell'atto di proposizione di appello, che ad essa si riduce. Pertanto, va condivisa l'argomentazione del procuratore generale il quale ha rilevato che «poiche' l'ipotesi della prova a carico nuova e decisiva sopravvenuta durante la decorrenza dei termini per l'impugnazione costituisce ipotesi praticamente inattuabile, l'aggiunta effettuata dal legislatore va ritenuta tamquam non esset e la norma regredisce alla formulazione gia' censurata dal Presidente della Repubbllca nel messaggio di rinvio alle camere. E' di tutta evidenza, quindi, che il nuovo ad. 593 c.p.p., impedendo sostanzialmente al pubblico ministero l'appello in caso di esito assolutorio del giudizio di primo grado e consentendo invece all'imputato di proporre appello in caso di sentenza di condanna, ha finito con l'introdurre un rilevante squilibrio tra le parti. Vero e' che la Corte costituzionale ha avuto occasione di sottolineare che il principio della parita' nel contraddittorio non comporta necessariamente l'identita' tra i poteri processuali delle parti (v. sentenza n. 165/2003 e n. 46/2005); ma e' anche vero che della disparita' eventualmente introdotta in deroga all'equilibrio imposto dalla norma costituzionale il legislatore e' tenuto a dare una giustificazione che risponda a criteri di ragionevolezza, la quale va valutata nella prospettiva della tollerabilita' del sacrificio che la norma impone al principio del contraddittorio nella parita' delle parti rispetto ad altro interesse preminente, costituzionalmente tutelato. La disamina delle ragioni quali si evincono dai lavori preparatori non giustificano - ad avviso di questa corte - il sacrificio del principio che assicura il giusto processo. Non possono, infatti, essere invocate esigenze di accelerazione dell'iter processuale, risolvendosi la scelta legislativa nella evidente soppressione di un mezzo di impugnazione a danno di una sola parte processuale. Tale scopo il legislatore avrebbe potuto realizzare concretamente prevedendo la non impugnabilita' di tutte le sentenze (di condanna o di proscioglimento) sia da parte del pubblico ministero che da parte dell'imputato, in tal modo abolendo totalmente il giudizio di appello. Una simile scelta, infatti, condivisibile o meno, sarebbe stata compatibile con la Costituzione, la quale non garantisce un secondo grado del giudizio di merito, come evidenziato dalla Corte costituzionale con ordinanza n. 421/2001, e non avrebbe contrastato con l'art. 2 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, adottata a Strasburgo il 22 novembre 1984, tenuto conto che la previsione di un tribunale superiore, cui fa riferimento la normativa europea, prescinde dalla necessita' di un secondo giudizio di merito e resta rispettata con la previsione del ricorso per cassazione gia' presente nella Costituzione italiana (in tal senso sentenza della Corte costituzionale n. 288/1997). Non ritiene poi la corte che al fine di giustificare la scelta del legislatore si possa attribuire rilievo alla particolare posizione istituzionale del pubblico ministero all'interno del nostro ordinamento, caratterizzata dal potere-dovere di ricercare in sede di indagini anche le prove favorevoli all'imputato e di operare una valutazione obiettiva degli elementi a carico dello stesso, che potrebbe indurlo a richiedere l'archiviazione o il proscioglimento. Questi rilievi, invero, restano superati nella fase d'appello, la cui proposizione presuppone la determinazione del pubblico ministero di ottenere una sentenza di condanna nella maturata convinzione della sussistenza di congrue prove a carico dell'imputato. E' quindi lo stesso sistema che esige che il processo mantenga una posizione di equilibrato contraddittorio tra le ragioni del pubblico ministero e quelle della difesa dell'imputato, in modo che nessuna opportunita' di ricerca della verita' venga ad essere sottratta al giudizio. Un'ulteriore dimostrazione di come il legislatore abbia inteso mortificare e limitare in maniera del tutto irragionevole le funzioni della pubblica accusa si rinviene nell'art. 576, primo comma, c.p.p., come modificato dall'art. 6 della legge n. 46/2006, laddove continua ad essere riconosciuto alla parte civile il diritto di presentare appello, sia pure ai soli effetti della responsabilita' civile, anche contro le sentenze di proscioglimento; mentre analoga facolta' viene negata al pubblico ministero, portatore non di un interesse proprio bensi' di istanze di legalita' e di difesa sociale. Ma l'irrazionalita' della riforma raggiunge l'acme allorche' continua a riconoscere al pubblico ministero la possibilita' di proporre appello in caso di condanna dell'imputato, al solo scopo di ottenere una pena diversa da quella comminata. In proposito e' sufficiente richiamare le obiezioni espresse dal Presidente della Repubblica nel messaggio con cui ha rinviato alle Camere la prima versione della legge. Nell'occasione il Capo dello Stato ha rappresentato che «le asimmetrie fra accusa e difesa costituzionalmente compatibili non debbono mai tra valicare i limiti fissati dal secondo comma dell'art. 111 della Costituzione ... una ulteriore incongruenza della nuova legge sta nel fatto che il pubblico ministero totalmente soccombente non puo' proporre appello, mentre cio' gli e' consentito quando la sua soccombenza sia solo parziale, avendo ottenuto una condanna diversa da quella richiesta». Neppure manifestamente infondata s'appalesa la questione di costituzionalita' del nuovo art. 593 c.p.p. con riferimento alla dedotta violazione del principio di obbligatorieta' dell'azione penale sancito dall'art. 112 Cost. Questo Collegio non ignora che in proposito la Corte costituzionale, dopo avere affermato con la sentenza n. 177/1971 che «il potere di impugnazione del pubblico ministero costituisce una estrinsecazione ed un aspetto dell'esercizio dell'azione penale» ha modificato il proprio orientamento, ritenendo che siffatto potere non costituisce manifestazione dei poteri inerenti l'esercizio dell'azione penale (sent. C.c. n. 206/1997; sent. C.c. n. 110/2003). A tale conclusione i Giudici delle leggi sono pervenuti attraverso l'esegesi stessa dei lavori preparatori della Carta costituzionale (resoconti delle sedute della Commissione c.d. dei settantacinque e resoconti delle sedute dell'Assemblea costituente), nei quali non e' dato rinvenire la benche' minima traccia di un collegamento tra obbligo di esercitare l'azione penale e potere di impugnazione del pubblico ministero. Proseguendo in questo indirizzo la Corte costituzionale ha anche evidenziato che tutto il sistema delle impugnazioni penali, in particolare dell'appello, tanto sotto il codice abrogato quanto sotto quello vigente, depone nel senso che il potere del pubblico ministero di proporre appello avverso la sentenza di primo grado, anche se in certe situazioni ne possa apparire istituzionalmente doveroso l'esercizio, non e' riconducibile all'obbligo di esercitare l'azione penale, come comprovato dai due istituti dell'acquiescenza alla sentenza e della rinuncia al gravame senza obbligo di motivazione, che mal si concilierebbero con una costruzione dell'impugnazione quale estrinsecazione del principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale. Cio' che in questa sede viene auspicato e' che la Corte costituzionale riveda la propria giurisprudenza sul punto. Le prerogative e le attribuzioni istituzionali del pubblico ministero sono definite e precisate negli artt. 73 e 74 O.G. e sono tenute presenti e piu' o meno espressamente richiamate dagli artt. 102, 107, 108 e 112 della Carta costituzionale in materia di giustizia. E' indubbio che quando l'art. 112 Cost. enuncia che il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale faccia diretto riferimento alle funzioni a tale Organo attribuite dai richiamati artt. 73 e 74 O.G. Alla stregua di tali norme il pubblico ministero ha, tra gli altri doveri istituzionali, quelli di vegliare all'osservanza delle leggi, di assicurare la pronta e regolare amministrazione della giustizia, di promuovere la repressione dei reati. Proprio in considerazione di tali precipue funzioni l'art. 112 Cost. gli fa obbligo di esercitare l'azione penale in piena autonomia ed indipendenza da ogni altro potere (art. 104 Cost.). Nel definire tale obbligo costituzionale l'art. 74 O.G. recita che il pubblico ministero inizia ed esercita l'azione penale. E' chiaro che tale norma opera una evidente distinzione tra inizio ed esercizio dell'azione penale ed e' altrettanto chiaro che il primo termine si riferisce al momento dell'avvio dell'azione penale mentre il secondo attiene piu' propriamente al suo sviluppo durante l'intero iter processuale. Pertanto, poiche' lo stesso art. 112 Cost., cui l'art. 74 O.G. e' direttamente collegato, obbliga il pubblico ministero ad «esercitare» l'azione penale, e' quantomeno opinabile che tale dovere costituzionale sia limitato soltanto alla fase dell'avvio del procedimento e non investa invece tutto il processo, connotando e qualificando l'attivita' del pubblico ministero sino all'accertamento definitivo della verita' o comunque sino alla riparazione dell'ordine giuridico violato. Cio' e' tanto vero che il codice di rito prevede vari momenti di controllo afferenti l'esercizio dell'azione penale: basti accennare alle richieste di archiviazione non accolte o all'imputazione coatta ovvero al decreto che dispone il giudizio emesso dal giudice dell'udienza preliminare pure a fronte di una richiesta di proscioglimento avanzata dallo stesso pubblico ministero. Ne deriva che, sebbene tale potere-dovere debba essere esercitato nel rispetto delle regole dettate dalle leggi processuali, esso, appunto perche' promana direttamente dalla Costituzione e costituisce un'estensione dell'obbligo di repressione dei reati e del dovere di vigilanza sulla pronta e regolare amministrazione della giustizia, intesa come valore costituzionalmente garantito, non puo' essere limitato e compresso secondo l'arbitrio del legislatore ordinario. Al riguardo non e' fuor di luogo ricordare che la Corte costituzionale, nell'affermare la legittimita' costituzionale dell'art. 443, terzo comma, c.p.p., che preclude al pubblico ministero di appellare le sentenze di condanna pronunciate con il rito abbreviato, ha motivato il rigetto dell'eccezione di illegittimita' di tale norma affermando che comunque «la sentenza di condanna costituisce la realizzazione della pretesa punitiva fatta valere nel processo attraverso l'azione penale» (sent. C.c. n. 363/1991). Ne deriva la logica conseguenza che se la «pretesa punitiva» e' stata disattesa da una sentenza di proscioglimento, contrastano con i principi costituzionali le norme che impediscono al pubblico ministero di esercitare le sue funzioni di controllo anche con lo strumento dell'appello.
P. Q. M. Visti gli artt. 134 Cost., 1 legge costituzionale 9 febbraio 1948 n. 1, 23 e segg. legge 11 marzo 1953 n. 87; Dichiara rilevante nel presente processo e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 593, secondo comma, c.p.p., come sostituito dalla legge 20 febbraio 2006 n. 46, nella parte in cui preclude al pubblico ministero la possibilita' di appellare contro le sentenze di proscioglimento, in relazione agli artt. 3, 111, secondo comma, e 112 della Costituzione; Sospende il giudizio in corso e dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Ordina che a cura della cancelleria la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento; Fissa per il prosieguo l'udienza del 20 aprile 2007 e sospende i termini di prescrizione. Messina, addi' 30 giugno 2006 Il Presidente: Vitanza 07C0224