N. 69 ORDINANZA (Atto di promovimento) 15 maggio 2006

Ordinanza   emessa   il   15   maggio   2006  (pervenuta  alla  Corte
costituzionale  il  31  gennaio  2007)  dal tribunale di Chiavari sul
ricorso proposto da Tonnarelli Maurizio

Patrocinio  a  spese  dello  Stato  - Spese di giustizia - Revoca del
  decreto  di  ammissione al patrocinio per difetto originario di una
  condizione   di   ammissibilita'   (nella   specie   certificazione
  dell'autorita' consolare) - Giudice competente a disporre la revoca
  -  Asserita  omessa  attribuzione  del  potere  di  revoca anche al
  giudice  procedente nella fase di liquidazione - Denunciata lesione
  dei  principi  di  uguaglianza e ragionevolezza, di responsabilita'
  dei  funzionari  e dipendenti dello Stato e di buon andamento della
  pubblica amministrazione.
- Decreto  del  Presidente  della  Repubblica 30 maggio 2002, n. 115,
  art. 112.
- Costituzione, artt. 3, 28 e 97.
(GU n.10 del 7-3-2007 )
                            IL TRIBUNALE

    Visto  il  ricorso  presentato  in data 18 genniao 2006 dall'avv.
Maurizio  Tonnarelli  del  Foro  di  Genova,  nella  sua  qualita' di
difensore  di Marku Pavlin, ammesso al patrocinio a spese dello Stato
con  decreto  del  G.i.p.  presso  il  Tribunale di Genova in data 30
gennaio  2003,  avente  ad oggetto: ricorso in opposizione ex art. 99
d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, avverso il decreto pronunciato in data
22 dicembre 2005 dal Tribunale di Chiavari in composizione collegiale
con il quale veniva revocato il decreto di ammissione al patrocinio a
spese dello Stato;
    Visti  gli artt. 99 d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 T.U. in materia
di spese di giustizia e l'art. 29, legge n. 794/1942;
    Sentito  il  ricorrente,  il quale, all'udienza 20 aprile 2006 ha
insistito  per l'accoglimento del ricorso, richiamando le motivazioni
scritte;
    Rilevata  la  mancata  costituzione  dell'avvocatura dello Stato,
nell'interesse dell'Amministrazione finanziaria;

                          Premesso in fatto

    Con  decreto  in  data 30 gennaio 2003 il G.i.p. del Tribunale di
Genova  ammetteva  Marku  Pavlin al patrocinio a spese dello Stato in
carenza   della   certificazione  dell'Autorita'  consolare  albanese
prevista dall'art. 79, comma 2 del d.P.R. n. 115/2002.
    Il Tribunale di Chiavari, investito della domanda di liquidazione
dei  compensi  maturati  all'esito  della  celebrazione del processo,
verificata  la  mancata presentazione, nei termini di legge, di detta
certificazione  - requisito previsto a pena di inammissibilita' della
domanda - con decreto in data 22 dicembre 2005 revocava il decreto di
ammissione,  respingendo  la  relativa  richiesta di liquidazione dei
compensi.
    Con  ricorso  ex art. 99 d.P.R. 30 maggio 2002 depositato in data
18  gennaio  2006,  l'avv.  Tonnarelli  eccepiva  in  via preliminare
l'incompetenza  del  Tribunale  di  Chiavari ad effettuare la revoca,
ritenendo  competente  in  via esclusiva a provvedere sulla revoca, a
norma  del  comma  3  dell'art. 112,  il «magistrato che procede alla
scadenza   dei   termini»  previsti  dall'art. 94,  comma  3,  d.P.R.
n. 115/2002  (e  dunque,  nel  caso  di  specie,  il G.i.p. presso il
Tribunale di Genova).
    Nel merito insisteva comunque nell'annullamento del provvedimento
impugnato,  ritenuto  erroneo  in fatto ed in diritto. In particolare
sottolineava  la  mancata  valutazione, da parte del Tribunale, della
presenza  di  elementi tali da comprovare l'impossibilita' a produrre
la    documentazione   consolare   richiesta   (segnatamente   veniva
evidenziata  la  nota  di p.g. 8 ottobre 2003 in atti nella quale gli
uff.li  di  p.g.  delegati  al  compimento  degli  accertamenti sulla
situazione   patrimoniale   di   Vuthi   Miriadije   e  Vuthi  Suzana
testualmente  scrivevano  «il  console  in  occasione  di un incontro
avvenuto i primi mesi di quest'anno per ragioni diverse ci aveva gia'
informato   di   non   poter  in  alcun  modo  compiere  accertamenti
patrimoniali   sui   propri   connazionali...»   e  stigmatizzata  la
disparita'  di  trattamento  rispetto alle predette Vuthi, ammesse al
beneficio  pur  in assenza della certificazione consolare, sulla base
delle risultanze di p.g. descritte).
    Rilevava,   in   ogni  caso,  la  tardivita'  dell'emissione  del
provvedimento   di   revoca,  intervenuto  dopo  la  conclusione  del
dibattimento,  rendendo  in tal modo impossibile, alla parte istante,
sanare  (attraverso la presentazione di nuova istanza corredata della
certificazione consolare richiesta) l'asserita irregolarita'.
    Evidenziava infine il contrasto del provvedimento impugnato con i
principi   direttivi   della   Costituzione   europea  nonche'  della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta'  fondamentali  che sanciscono l'obbligo per gli Stati membri
di  garantire in modo effettivo e concreto il diritto alla difesa dei
non abbienti.

                            O s s e r v a

    Occorre  anzitutto  premettere che la presentazione, da parte del
cittadino  di  Stati non appartenenti all'Unione europea, per redditi
prodotti  all'estero,  della  certificazione dell'autorita' consolare
competente  che  attesti  la veridicita' in ordine alle dichiarazioni
contenute  nell'istanza  di  ammissione  al  patrocinio a spese dello
Stato  (art. 79,  d.P.R. n. 115/2002) attestanti la sussistenza delle
condizioni  di  reddito  previste  per  l'ammissione al beneficio, e'
prevista a pena di inammissibilita'.
    Cio'  si  ricava,  in  modo  chiaro  ed  evidente, dalla semplice
lettura  delle  norme  di  riferimento,  dovendo  l'interprete  avere
riguardo  non  solo  al  (peraltro,  ad  avviso dello scrivente, gia'
sufficientemente  chiaro) tenore letterale della norma, ma anche alla
coerenza sistematica dell'impianto normativo nel suo complesso.
    Se cosi' e' non puo' disconoscersi la necessaria correlazione tra
il  primo comma dell'art. 79 (lett. a, b, c, d,), che prevede, a pena
di  inammissibilita',  i  requisiti  della  domanda  per il cittadino
italiano ed il secondo comma, nel quale, per il cittadino proveniente
da uno Stato non appartenente all'Unione europea, viene richiesta, in
via  ulteriore, la certificazione consolare. Non vi e' infatti motivo
per  ritenere  che  quest'ultima disposizione sia sottratta al regime
sanzionatorio  previsto dal primo (e dal terzo, per le ulteriori - ed
eventuali - integrazioni ivi previste) comma. Ne' il tenore letterale
della  norma,  ne' la ratio della stessa (che deve essere individuata
nella  necessita',  avvertita  dal legislatore, di un primo riscontro
preventivo all'autocertificazione del richiedente, valutata, da sola,
insufficiente   nel   caso   di   soggetto   proveniente   da   Paese
extracomunitario,  attese  le  intuibili  difficolta' di verifica, da
parte  dell'Amministrazione,  della  veridicita'  di  quanto  in essa
contenuto)  giustificano  interpretazioni  difformi rispetto a quella
esposta.  L'ulteriore  disposizione  dell'art. 94,  comma  2,  d.P.R.
n. 115/2002,  che  prevede,  nel caso di impossibilita' a produrre la
documentazione  richiesta ai sensi dell'art. 79, comma 2, la facolta'
di  sostituzione,  a  pena  di  inammissibilita' della certificazione
consolare   con  una  dichiarazione  sostitutiva  di  certificazione,
contribuisce    ad    ulteriormente    confermare,   in   chiave   di
interpretazione sistematica, l'impostazione accolta dallo scrivente.
    Parrebbe  infatti  del tutto illogico ritenere che il legislatore
abbia  previsto  la  sanzione  dell'inammissibilita' per l'ipotesi di
mancata  presentazione  di una dichiarazione sostitutiva laddove tale
previsione  non  fosse  stata  originariamente stabilita anche per la
certificazione richiesta in prima istanza.
    Deve  dunque  ritenersi  che  la mancata presentazione, a corredo
dell'istanza  di  ammissione  della certificazione consolare (ovvero,
nel   caso   di   comprovata   impossibilita',   della  dichiarazione
sostitutiva)  contestualmente  o,  nei  casi  previsti  dal  comma 3,
dell'art. 94,  entro  il  termine  di  20  giorni dalla presentazione
dell'istanza, determini l'inammissibilita' della domanda.
    Nel  caso  di  specie la certificazione in questione non e' stata
prodotta  ne'  originariamente  (ai sensi dell'art. 79, comma 2), ne'
entro il termine indicato dal successivo comma 3.
    Ne' il richiedente ha provato l'impossibilita', ex art. 79, comma
2,   d.P.R.  n. 115/2002,  di  ottenere  dal  Consolato  Albanese  la
certificazione necessaria a giustificare l'ammissione al beneficio.
    Trattandosi  di  documento  richiesto,  come  detto,  a  pena  di
inammissibilita'   della  domanda  (e  dunque  di  requisito  formale
oltreche'  sostanziale),  l'impossibilita'  a  produrlo doveva essere
provata  dal  richiedente in modo rigoroso ed in riferimento alla sua
specifica posizione.
    Non  possono  dunque,  ai  fini  che  qui  interessano, ritenersi
circostanze   idonee   a  provare  detta  (specifica)  situazione  di
impossibilita'  quelle  ricavabili  dalla  nota  di  p.g.  citata dal
ricorrente,  relativa  alle  posizioni Vuthi Miradjie e Vuthi Suzana,
posto  che  gli  accertamenti  in  allora  svolti dalla p.g. delegata
presso   il   consolato   albanese  non  potevano  che  aver  rilievo
limitatamente ai soggetti nei cui confronti venivano effettuati ed in
relazione  al  periodo  in  cui  erano svolti, non estensibili dunque
automaticamente  ad  altri soggetti in situazione analoga (che non si
trattasse  di  impossibilita' assoluta - e valida erga omnes - bensi'
di  mera  difficolta'  contingente, lo dimostra in ogni caso il fatto
che   alcuni  imputati  albanesi  sono  riusciti  ad  ottenere  detta
certificazione).
    Il  Tribunale  di  Chiavari  ha disposto la revoca del decreto di
ammissione,  in  deroga  a  quanto disposto dal comma 3 dell'art. 112
d.P.R.  n. 115/2002  (che  individua  nel  magistrato  che procede al
momento  della  scadenza dei termini di cui ai commi precedenti - nel
caso  di  specie  il  G.i.p. presso il Tribunale di Genova - l'organo
investito  del  potere/dovere  di revoca), sulla base del presupposto
essere «principio fondamentale dell'ordinamento quello secondo cui la
inammissibilita'  di  una  domanda,  per originaria insussistenza dei
requisiti   richiesti,  per  essa,  dalla  legge,  e'  una  forma  di
invalidita' non suscettibile di sanatoria a meno che non sia prevista
espressamente  la  rilevabilita'  di  tale sanzione processuale entro
determinati  limiti temporali» richiamando - ad avviso di chi scrive,
impropriamente, per quanto di seguito si dira' - la normativa in tema
di impugnazioni, ed in particolare gli artt. 591, comma 4 e 606 lett.
c) c.p.p.
    Proprio  i  riferimenti  operati dal Tribunale dimostrano infatti
che,  se  e'  vero  che  una causa di inammissibilita', in assenza di
espressa   difforme   previsione   normativa,   non  e',  di  regola,
suscettibile  di sanatoria ed e' rilevabile in ogni stato e grado del
giudizio, competente a rilevarla e' comunque sempre e solo il giudice
titolare  a  decidere  sull'(eventuale)  impugnazione  e  non gia' il
giudice  che  procede  nella fase processuale in cui tale causa si e'
verificata.
    Ne'  il  Tribunale poteva agire in via di «autotutela», attesa la
natura  giurisdizionale  del  procedimento  relativo  al patrocinio a
spese dello Stato.
    Si  e'  a  lungo  discusso  in  giurisprudenza se nel decidere in
ordine a tale materia il giudice eserciti una funzione amministrativa
o giurisdizionale.
    Il  dibattito  e'  stato  tuttavia  definitivamente risolto dalla
Corte  costituzionale  nella  sua  ordinanza  n. 144/1999  laddove si
afferma  che,  in  subjecta  materia  «il giudice esercita appieno la
funzione  giurisdizionale  avente  ad  oggetto  la  sussistenza di un
diritto  (...)  dotato  di  fondamento  costituzionale» di tal che «i
provvedimenti  nei  quali  si  esprime  tale funzione hanno il regime
proprio  degli  atti  di  giurisdizione,  revocabili  dal giudice nei
limiti  e  sui  presupposti espressamente previsti e rimuovibil negli
altri  casi,  solo  attraverso gli strumenti di impugnazione.» A tale
impostazione  consegue  che,  al  di  fuori  dei  casi tassativamente
indicati  dalla legge «un potere di revoca (...) non e' configurabile
neppure (...) quale espressione della generale potesta' di autotutela
di cui e' titolare la pubblica amministrazione».
    I   principi   sanciti   dalla   Corte  delle  Leggi  sono  stati
recentemente  fatti  propri dalle sezioni unite della Cassazione che,
con  la  sentenza  n. 36168/2004,  dopo  aver  riaffermato  la natura
giurisdizionale del procedimento de quo, hanno ulteriormente ribadito
che  la  disciplina  relativa  al  patrocinio  a  spese  dello  Stato
«riconosce   al   giudice   il   potere   di  revocare  d'ufficio  il
provvedimento  di  ammissione  al beneficio nei casi e sulla base dei
presupposti    precisamente   indicati»   con   cio'   implicitamente
riconoscendo la natura tassativa delle ipotesi previste dall'art. 112
d.P.R. cit.
    Il  tribunale  non  avrebbe  dunque  potuto  neppure rimettere la
questione   al   G.i.p.   di  Genova,  sulla  base  della  competenza
riconosciuta dal comma 3 dell'art. 112 d.P.R. n. 115/2002, versandosi
in  fattispecie al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dai
commi  1  e  2  (e  non  ritenendosi  -  per le ragioni in precedenza
evidenziate  -  detta  lacuna  colmabile  in  via  interpretativa e/o
analogica).
    Diversamente opinando si sarebbe dovuta operare, oltre tutto, una
vera  propria  regressione  di fase del procedimento, inammissibile -
secondo  i principi generali - in mancanza di una espressa previsione
normativa in tal senso.
    La  normativa in tema di patrocinio a spese dello Stato non offre
neppure  mezzi di impugnazione in grado di risolvere la situazione di
«impasse» sin qui descritta.
    L'art. 99  d.P.R. 115/02 disciplina infatti unicamente i casi del
ricorso  avverso  il  provvedimento  con cui il magistrato competente
rigetta  l'istanza di ammissione, mentre l'art. 113 prevede l'ipotesi
del  ricorso  in  Cassazione  avverso  il  decreto  che  decide sulla
richiesta di revoca proveniente dall'ufficio finanziario.
    Se  tali  premesse sono - come pare allo scrivente - corrette, in
un  caso  quale  il  presente  nel quale sussista un vizio ab origine
dell'istanza  di  ammissione  (tale da determinare l'inammissibilita'
della  stessa),  non  rilevato dal magistrato indicato dall'art. 112,
comma  3,  d.P.R.  cit., il giudice competente a provvedere in ordine
alla  liquidazione  si  troverebbe  -  in  assenza  di  strumenti  di
autotutela,  poteri di revoca e strumenti di impugnazione - obbligato
a  procedere  alla  liquidazione  pur  in  presenza  di  una causa di
inammissibilita' della domanda.
    Puo'  in  tal modo determinarsi un danno per l'Erario anche assai
grave,  come  nel  caso  di  specie,  in  cui,  stante  la  rilevanza
dell'attivita'  difensiva  compiuta (in relazione alla durata ed alla
complessita'  della fase processuale di primo grado, con dibattimento
protrattosi  per  circa un anno e mezzo) la richiesta di liquidazione
ammonta,  per la singola posizione qui esaminata, a diverse decine di
migliaia  di  euro  (  pare,  al riguardo, opportuno evidenziare che,
trattandosi   di   «maxi-processo»  con  94  imputati,  ed  essendovi
attualmente  pendenti dinanzi allo scrivente altri ricorsi relativi a
decine di posizioni assimilabili alla presente, l'onere complessivo a
carico dell'Erario supererebbe complessivamente il milione di euro).
    La  norma  in questione appare, sulla base delle premesse sin qui
evidenziate,  e  per le ragioni che verranno di seguito ulteriormente
esposte  -  palesemente irragionevole, nonche' foriera di conseguenze
negative  per  l'Erario  e,  piu'  in generale, per il buon andamento
dell'amministrazione, ponendosi dunque, ad avviso dello scrivente, in
contrasto con gli artt. 3, 28 e 97 della Costituzione.
    Si  ritiene  che  debba  essere  pertanto  sollevata questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 112,  d.P.R.  30 maggio 2002,
n. 115,  in  riferimento  agli  artt.  3, 28 e 97 della Costituzione,
nella  parte  in  cui  tale  norma  non  consente  (anche) al giudice
procedente  nella  fase  di  liquidazione  la  revoca  del decreto di
ammissione nel caso in cui rilevi una causa di inammissibilita' della
domanda,  anche  al  di  fuori  delle ipotesi tassativamente previste
dalle lett. a) b) c) d) primo e secondo comma.

                   Sulla rilevanza della questione

    E'   noto   come   il  requisito  della  rilevanza  si  individui
univocamente   nella   necessita'   che   la   norma   sospettata  di
incostituzionalita' debba trovare applicazione nel processo a quo.
    Nel  caso  in  esame la norma denunciata assume in modo evidente,
per quanto detto in precedenza, rilevanza determinante ed ineludibile
in   ordine   al   thema   decidendum,   ovvero  nello  stabilire  la
revocabilita'  - o meno -, da parte del giudice competente a decidere
sulla   liquidazione,   del   beneficio   invocato  ed  (in  ipotesi)
erroneamente concesso.
    E'  infatti  precluso  al giudice procedente - pur in presenza di
una  causa  di inammissibilita' originaria della domanda (tale dunque
da  determinare  la  non  debenza della liquidazione, per carenza dei
necessari  presupposti  legittimanti),  e  pur  essendo tale causa di
inammissibilita'   conosciuta   e   rilevata   dal  giudicante  -  la
possibilita'  allo  stesso di revocare il provvedimento di ammissione
(erroneamente  concesso  da  altro  giudice nella fase preliminare al
giudizio).
    Cio'  determina,  in  concreto,  una  situazione  di  stallo  non
rimediabile in via interpretativa.
    Lo  scrivente  reputa  infatti di doversi necessariamente muovere
nell'alveo  ermeneutico  delimitato  dalle  pronunce,  in  precedenza
citate,   della  Corte  delle  leggi  e  delle  sezioni  unite  della
Cassazione,   che   hanno   affermato   rispettivamente   la   natura
giurisdizionale del procedimento relativo al patrocinio a spese dello
Stato   (cio'  che  comporta  necessariamente  l'esclusione,  per  il
giudicante,  della facolta' di «autotutela» riservata al procedimento
di  natura  amministrativa) e la tassativita' delle ipotesi di revoca
previste  dall'art. 112  (con  cio'  escludendosi  la possibilita' di
utilizzo del criterio interpretativo analogico - che, oltretutto, qui
si  rivelerebbe  in  malam  partem).  Una  lettura costituzionalmente
corretta  della norma da parte della Corte delle leggi appare dunque,
nello specifico, assolutamente necessaria.

                  Sulla non manifesta infondatezza

    In  relazione alla dedotta violazione dell'art. 3 Cost. si rileva
come  la  norma  impugnata  leda  sia il principio di eguaglianza che
quello di ragionevolezza.
    Quanto   al  primo  profilo  appare  evidente  la  disparita'  di
trattamento  tra l'ipotesi di cui alla lett. c) dell'art. 112, d.P.R.
n. 115/2002,  nella  quale  e'  prevista  la  revoca  del  decreto di
ammissione  nel  caso in cui non sia stata prodotta la certificazione
dell'autorita'  consolare  nei termini previsti dall'art. 94, comma 3
(ovverosia   entro   il   termine   di  20  gg.  dalla  presentazione
dell'istanza  nel  caso  in  cui  il  cittadino  extracomunitario sia
detenuto  - o sottoposto a misura di sicurezza, o ancora custodito in
luogo  di  cura  -  )  e  quella  di  cui al presente caso, in cui la
certificazione  consolare (pur prevista, come detto, quale condizione
di ammissibilita' dell'istanza) non sia stata presentata tout court.
    Per  tale  ultima ipotesi non e' infatti prevista la possibilita'
per il giudice che procede, di revocare il decreto di ammissione.
    Non  vi  e'  ragione  perche'  il legislatore debba aver previsto
un'ipotesi   di   revoca  nel  caso  di  omessa  presentazione  della
certificazione  consolare  in  un  caso  circoscritto,  quale  quello
previsto  dal comma 3 dell'art. 94, e non lo abbia viceversa previsto
in   riferimento  alla  violazione  della  piu'  generale  previsione
dell'art. 79, comma 2, d.P.R. n. 115/2002.
    Come e' noto il principio di eguaglianza e' un principio generale
che  condiziona  tutto l'ordinamento nella sua obiettiva struttura ed
e'  espressione  di  un  generale canone di coerenza dell'ordinamento
normativo   (Sent.   Corte  cost.  n. 204/1982)  cui  la  legge  deve
necessariamente  uniformarsi,  non  solo sotto il profilo formale, ma
anche   sotto   quello   materiale.   Da   cio'   consegue   che   la
discrezionalita'  del  legislatore non possa essere incondizionata ma
debba sempre rispondere a criteri di logicita' e coerenza.
    Nel  caso  di specie l'omessa previsione normativa qui oggetto di
censura  non  trova alcuna giustificazione ne' sotto il profilo della
coerenza sistematica che sotto quello della ratio ispiratrice.
    Nella  norma  oggetto  di  censura  e' oltretutto ravvisabile, ad
avviso  dello  scrivente,  un  ulteriore elemento di irragionevolezza
laddove,  al  comma  3,  viene  previsto  quale  giudice competente a
disporre  la  revoca,  esclusivamente  «il  magisfrato che procede al
momento della scadenza dei termini suddetti (con riferimento ai commi
precedenti  -  n.d.r.)  ovvero  al momento in cui la comunicazione e'
effettuata o, se procede la Corte di cassazione, il magistrato che ha
emesso  il provvedimento impugnato», omettendo viceversa di prevedere
la  possibilita' che il provvedimento ammissivo possa essere revocato
anche dal giudice competente alla fase della liquidazione.
    E'  ben  possibile  infatti  -  come  nel caso di specie - che il
giudice procedente al momento della scadenza dei termini (nel caso in
esame  il  G.i.p.  presso  il  Tribunale  di  Genova)  ed  il giudice
competente   alla  fase  della  liquidazione  (qui  il  Tribunale  di
Chiavari) non coincidano.
    In tal caso il secondo giudice, privo del potere di revoca (al di
fuori  delle ipotesi determinate dalle modificazioni delle condizioni
reddituali)  dovrebbe  necessariamente  procedere  alla liquidazione,
anche  qualora  rilevasse - come e' avvenuto nel caso che ne occupa -
la  presenza  di  una  causa di inammissibilita' della domanda (vizio
originario,  non sanabile e tuttavia non rilevato dal primo giudice),
non riconoscendogli la norma in esame alcuna competenza a delibare in
subjecta materia.
    Il che, nuovamente, non trova alcuna giustificazione ne' sotto il
profilo  dell'economia  processuale  ne'  sotto quello della coerenza
sistematica  della  disposizione.  Oltretutto,  possono  in  tal modo
determinarsi  conseguenze (almeno potenzialmente) pregiudizievoli per
la  p.a. (come di seguito si avra' modo di evidenziare in riferimento
agli ulteriori profili di illegittimita' costituzionale sollevati).
    Appare  evidente  come  il  legislatore, nel caso in esame, abbia
posto l'interprete di fronte ad una situazione di stallo insuperabile
in  quanto  non rimediabile (alla luce di quanto detto in precedenza)
attraverso  il  normale  esplicarsi,  da  parte  del  giudicante,  di
un'attivita'  interpretativa  coerente  con  i  principi  propri  del
dettato costituzionale.
    In relazione alla dedotta violazione dell'art. 28 Cost. si rileva
quanto segue.
    La  Corte  costituzionale,  con  sentenza  14 marzo 1968, n. 2 ha
fissato alcuni principi dai quali occorre necessariamente prendere le
mosse nell'analizzare la questione oggi in esame.
    Anzitutto  la  Corte delle leggi ha affermato che l'art. 28 della
Costituzione,  con  l'espressione funzionari e dipendenti dello Stato
ha inteso riferirsi anche ai magistrati.
    In secondo luogo ha ritenuto che il principio generale, stabilito
dall'art. 28, della responsabilita' diretta dei pubblici dipendenti -
compresi  i  magistrati  -  non  esclude, stante il rinvio alle leggi
ordinarie,  che tale responsabilita' sia «disciplinata variamente per
categorie e situazioni».
    La  peculiarita'  della  funzione  giurisdizionale, la natura dei
provvedimenti  giudiziari,  la  stessa  posizione  super  partes  del
magistrato,  legittimano  la previsione di «condizioni e limiti della
sua  responsabilita»,  senza  peraltro  mai  poter  giungere  ad  una
negazione  totale di essa, che si porrebbe in contrasto con l'art. 28
della  Costituzione  ed  anche  con  l'art.  3,  per  l'irragionevole
differenza  di  trattamento rispetto agli altri pubblici funzionari e
dipendenti.
    Tali  principi,  seppure  con articolati distinguo in riferimento
alle  peculiarita'  delle questioni in allora proposte in riferimento
all'art.  131,  u.co.  c.p.c.  aggiunto  dall'art. 16, secondo comma,
legge  13  aprile  1988,  n. 117  («Risarcimento  dei danni cagionati
nell'esercizio  delle  funzioni  giudiziarie e responsabilita' civile
dei  magistrati»),  sono  stati  sostanzialmente  ribaditi nella nota
sentenza della Corte costituzionale 19 gennaio 1989, n. 18.
    In  tale  pronuncia viene affermato tra l'altro che «il principio
dell'indipendenza  e'  volto a garantire l'imparzialita' del giudice,
assicurandogli  una  posizione  super  partes  che escluda qualsiasi,
anche  indiretto,  interesse  a  decidere.  A  tal fine la legge deve
garantire  l'assenza,  in  equal  modo di aspettative e vantaggi e di
situazioni  di pregiudizio preordinando gli strumenti atti a tutelare
l'obiettivita' della decisione».
    Ancora  si  afferma  che  «l'art. 28  della  Costituzione pone la
regola  -  valida  per i funzionari e i dipendenti pubblici (e quindi
anche  per  i  giudici) - della loro responsabilita' diretta per "gli
atti  compiuti  in  violazione  di diritti" secondo "le leggi penali,
civili ed amministrative"».
    Cio'  premesso  pare  allo  scrivente  che  la  norma  della  cui
costituzionalita'  si  dubita  violi  in  modo  palese  i principi in
precedenza enunciati.
    Precludendo  infatti  al  giudice procedente - pur in presenza di
una  causa  di inammissibilita' originaria della domanda (tale dunque
da  determinare  la  non  debenza della liquidazione, per carenza dei
necessari  presupposti  legittimanti),  e  pur  essendo tale causa di
inammissibilita'   conosciuta   e   rilevata   dal  giudicante  -  la
possibilita'  allo  stesso di revocare il provvedimento di ammissione
(erroneamente  concesso  da  altro  giudice nella fase preliminare al
giudizio)  la  norma  impugnata,  lungi  dal  «garantire l'assenza di
situazioni  di  pregiudizio»,  finisce,  al contrario, per imporre di
fatto  al  pubblico dipendente un comportamento gravemente colposo in
quanto  idoneo a cagionare, consapevolmente, un danno per la pubblica
amministrazione  senza  responsabilita'  contabile del predetto (ove,
viceversa,  si ritenesse la responsabilita' contabile del magistrato,
sarebbe  ravvisabile  una  ulteriore,  e  se  possibile,  ancor  piu'
macroscopica  violazione  dell'art.  3 Cost. - nonche' dell'art. 101,
comma 2 Cost. - appalesandosi in tal caso l'assoluta irragionevolezza
di  una  norma che imponesse al pubblico funzionario un comportamento
al contempo doveroso e tuttavia costituente fonte di responsabilita).
    Tali evidenti ed insanabili incongruenze non possono non incidere
negativamente  anche  sul  buon  andamento dell'amministrazione della
giustizia, in contrasto con l'art. 97 della Costituzione.
    Pur essendo ben nota allo scrivente la giurisprudenza della Corte
costituzionale  in  subjecta  materia (Sent. Corte cost. 16/1998 - in
senso  conforme  anche sentt. 122/1997, 428/1993, 376/1993 -) secondo
cui   l'art.   97   Cost.   non   sarebbe   invocabile,  a  proposito
dell'attivita'    giurisdizionale    oltre   i   limiti   riguardanti
l'ordinamento  degli uffici giudiziari ed il loro funzionamento sotto
l'aspetto  amministrativo, tuttavia occorre rilevare che, nel caso di
specie, i profili di irragionevolezza della norma in esame vengono ad
incidere  non  tanto  (e  non solo) sull'attivita' giurisdizionale in
senso   stretto,   ma   vanno  ad  interferire,  come  si  e'  visto,
negativamente  ed  in  modo  significativo,  su  aspetti di carattere
prettamente  amministrativo,  quale  e' certamente l'accollo di oneri
patrimoniali  (che  si assumono non dovuti) da parte dello Stato, con
cio'  determinando  un  evidente  vulnus nel corretto andamento della
pubblica amministrazione.
    La  correttezza  di  tale  impostazione  puo'  -  ad avviso dello
scrivente  -  desumersi  dalle pronunce della Corte costituzionale 19
gennaio  1989,  n. 18  e 7 maggio 1982, n. 86, nelle quali, pur sotto
diversi   profili,  sono  state  riconosciute  fondate  questioni  di
legittimita'   costituzionale   in   riferimento  all'art.  97  Cost.
nell'ambito  di attivita' giurisdizionale, laddove la norma impugnata
incidesse negativamente sul buon andamento dell'amministrazione della
giustizia in senso lato.
    Si  e'  al  riguardo  affermato che l'art. 97 della Costituzione,
nello  stabilire  che  i  pubblici  uffici  sono  organizzati secondo
disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento
dell'amministrazione,  non  ha  inteso riferirsi ai soli organi della
pubblica  amministrazione  in  senso  stretto,  ma  anche agli organi
dell'amministrazione  della  giustizia  (Corte  cost.  7 maggio 1982,
n. 86).
    Ritenuto  dunque,  per  le  ragioni  suesposte,  che la questione
sollevata  sia rilevante ai fini della decisione e non manifestamente
infondata.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Solleva  questione  di legittimita' costituzionale dell'art. 112,
d.P.R.  30  maggio 2002, n. 115, in riferimento agli artt. 3, 28 e 97
della  Costituzione,  nella  parte  in  cui  non  consente (anche) al
giudice  procedente  nella fase di liquidazione la revoca del decreto
di  ammissione  nel  caso in cui rilevi una causa di inammissibilita'
della  domanda,  anche  al  di  fuori  delle  ipotesi  tassativamente
previste alle lett. a), b), c), d), primo comma e secondo comma.
    Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla  Corte
costituzionale, sospendendo il giudizio in corso.
    Ordina  che  a  cura  della cancelleria la presente ordinanza sia
notificata  al  Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai
Presidenti delle due Camere.
    Dispone  la  notificazione della presente ordinanza, a cura della
cancelleria, alle parti costituite.
        Chiavari, addi' 15 maggio 2006
                          Il giudice: Carta
07C0234