N. 69 ORDINANZA (Atto di promovimento) 15 maggio 2006
Ordinanza emessa il 15 maggio 2006 (pervenuta alla Corte costituzionale il 31 gennaio 2007) dal tribunale di Chiavari sul ricorso proposto da Tonnarelli Maurizio Patrocinio a spese dello Stato - Spese di giustizia - Revoca del decreto di ammissione al patrocinio per difetto originario di una condizione di ammissibilita' (nella specie certificazione dell'autorita' consolare) - Giudice competente a disporre la revoca - Asserita omessa attribuzione del potere di revoca anche al giudice procedente nella fase di liquidazione - Denunciata lesione dei principi di uguaglianza e ragionevolezza, di responsabilita' dei funzionari e dipendenti dello Stato e di buon andamento della pubblica amministrazione. - Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, art. 112. - Costituzione, artt. 3, 28 e 97.(GU n.10 del 7-3-2007 )
IL TRIBUNALE Visto il ricorso presentato in data 18 genniao 2006 dall'avv. Maurizio Tonnarelli del Foro di Genova, nella sua qualita' di difensore di Marku Pavlin, ammesso al patrocinio a spese dello Stato con decreto del G.i.p. presso il Tribunale di Genova in data 30 gennaio 2003, avente ad oggetto: ricorso in opposizione ex art. 99 d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, avverso il decreto pronunciato in data 22 dicembre 2005 dal Tribunale di Chiavari in composizione collegiale con il quale veniva revocato il decreto di ammissione al patrocinio a spese dello Stato; Visti gli artt. 99 d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 T.U. in materia di spese di giustizia e l'art. 29, legge n. 794/1942; Sentito il ricorrente, il quale, all'udienza 20 aprile 2006 ha insistito per l'accoglimento del ricorso, richiamando le motivazioni scritte; Rilevata la mancata costituzione dell'avvocatura dello Stato, nell'interesse dell'Amministrazione finanziaria; Premesso in fatto Con decreto in data 30 gennaio 2003 il G.i.p. del Tribunale di Genova ammetteva Marku Pavlin al patrocinio a spese dello Stato in carenza della certificazione dell'Autorita' consolare albanese prevista dall'art. 79, comma 2 del d.P.R. n. 115/2002. Il Tribunale di Chiavari, investito della domanda di liquidazione dei compensi maturati all'esito della celebrazione del processo, verificata la mancata presentazione, nei termini di legge, di detta certificazione - requisito previsto a pena di inammissibilita' della domanda - con decreto in data 22 dicembre 2005 revocava il decreto di ammissione, respingendo la relativa richiesta di liquidazione dei compensi. Con ricorso ex art. 99 d.P.R. 30 maggio 2002 depositato in data 18 gennaio 2006, l'avv. Tonnarelli eccepiva in via preliminare l'incompetenza del Tribunale di Chiavari ad effettuare la revoca, ritenendo competente in via esclusiva a provvedere sulla revoca, a norma del comma 3 dell'art. 112, il «magistrato che procede alla scadenza dei termini» previsti dall'art. 94, comma 3, d.P.R. n. 115/2002 (e dunque, nel caso di specie, il G.i.p. presso il Tribunale di Genova). Nel merito insisteva comunque nell'annullamento del provvedimento impugnato, ritenuto erroneo in fatto ed in diritto. In particolare sottolineava la mancata valutazione, da parte del Tribunale, della presenza di elementi tali da comprovare l'impossibilita' a produrre la documentazione consolare richiesta (segnatamente veniva evidenziata la nota di p.g. 8 ottobre 2003 in atti nella quale gli uff.li di p.g. delegati al compimento degli accertamenti sulla situazione patrimoniale di Vuthi Miriadije e Vuthi Suzana testualmente scrivevano «il console in occasione di un incontro avvenuto i primi mesi di quest'anno per ragioni diverse ci aveva gia' informato di non poter in alcun modo compiere accertamenti patrimoniali sui propri connazionali...» e stigmatizzata la disparita' di trattamento rispetto alle predette Vuthi, ammesse al beneficio pur in assenza della certificazione consolare, sulla base delle risultanze di p.g. descritte). Rilevava, in ogni caso, la tardivita' dell'emissione del provvedimento di revoca, intervenuto dopo la conclusione del dibattimento, rendendo in tal modo impossibile, alla parte istante, sanare (attraverso la presentazione di nuova istanza corredata della certificazione consolare richiesta) l'asserita irregolarita'. Evidenziava infine il contrasto del provvedimento impugnato con i principi direttivi della Costituzione europea nonche' della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali che sanciscono l'obbligo per gli Stati membri di garantire in modo effettivo e concreto il diritto alla difesa dei non abbienti. O s s e r v a Occorre anzitutto premettere che la presentazione, da parte del cittadino di Stati non appartenenti all'Unione europea, per redditi prodotti all'estero, della certificazione dell'autorita' consolare competente che attesti la veridicita' in ordine alle dichiarazioni contenute nell'istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato (art. 79, d.P.R. n. 115/2002) attestanti la sussistenza delle condizioni di reddito previste per l'ammissione al beneficio, e' prevista a pena di inammissibilita'. Cio' si ricava, in modo chiaro ed evidente, dalla semplice lettura delle norme di riferimento, dovendo l'interprete avere riguardo non solo al (peraltro, ad avviso dello scrivente, gia' sufficientemente chiaro) tenore letterale della norma, ma anche alla coerenza sistematica dell'impianto normativo nel suo complesso. Se cosi' e' non puo' disconoscersi la necessaria correlazione tra il primo comma dell'art. 79 (lett. a, b, c, d,), che prevede, a pena di inammissibilita', i requisiti della domanda per il cittadino italiano ed il secondo comma, nel quale, per il cittadino proveniente da uno Stato non appartenente all'Unione europea, viene richiesta, in via ulteriore, la certificazione consolare. Non vi e' infatti motivo per ritenere che quest'ultima disposizione sia sottratta al regime sanzionatorio previsto dal primo (e dal terzo, per le ulteriori - ed eventuali - integrazioni ivi previste) comma. Ne' il tenore letterale della norma, ne' la ratio della stessa (che deve essere individuata nella necessita', avvertita dal legislatore, di un primo riscontro preventivo all'autocertificazione del richiedente, valutata, da sola, insufficiente nel caso di soggetto proveniente da Paese extracomunitario, attese le intuibili difficolta' di verifica, da parte dell'Amministrazione, della veridicita' di quanto in essa contenuto) giustificano interpretazioni difformi rispetto a quella esposta. L'ulteriore disposizione dell'art. 94, comma 2, d.P.R. n. 115/2002, che prevede, nel caso di impossibilita' a produrre la documentazione richiesta ai sensi dell'art. 79, comma 2, la facolta' di sostituzione, a pena di inammissibilita' della certificazione consolare con una dichiarazione sostitutiva di certificazione, contribuisce ad ulteriormente confermare, in chiave di interpretazione sistematica, l'impostazione accolta dallo scrivente. Parrebbe infatti del tutto illogico ritenere che il legislatore abbia previsto la sanzione dell'inammissibilita' per l'ipotesi di mancata presentazione di una dichiarazione sostitutiva laddove tale previsione non fosse stata originariamente stabilita anche per la certificazione richiesta in prima istanza. Deve dunque ritenersi che la mancata presentazione, a corredo dell'istanza di ammissione della certificazione consolare (ovvero, nel caso di comprovata impossibilita', della dichiarazione sostitutiva) contestualmente o, nei casi previsti dal comma 3, dell'art. 94, entro il termine di 20 giorni dalla presentazione dell'istanza, determini l'inammissibilita' della domanda. Nel caso di specie la certificazione in questione non e' stata prodotta ne' originariamente (ai sensi dell'art. 79, comma 2), ne' entro il termine indicato dal successivo comma 3. Ne' il richiedente ha provato l'impossibilita', ex art. 79, comma 2, d.P.R. n. 115/2002, di ottenere dal Consolato Albanese la certificazione necessaria a giustificare l'ammissione al beneficio. Trattandosi di documento richiesto, come detto, a pena di inammissibilita' della domanda (e dunque di requisito formale oltreche' sostanziale), l'impossibilita' a produrlo doveva essere provata dal richiedente in modo rigoroso ed in riferimento alla sua specifica posizione. Non possono dunque, ai fini che qui interessano, ritenersi circostanze idonee a provare detta (specifica) situazione di impossibilita' quelle ricavabili dalla nota di p.g. citata dal ricorrente, relativa alle posizioni Vuthi Miradjie e Vuthi Suzana, posto che gli accertamenti in allora svolti dalla p.g. delegata presso il consolato albanese non potevano che aver rilievo limitatamente ai soggetti nei cui confronti venivano effettuati ed in relazione al periodo in cui erano svolti, non estensibili dunque automaticamente ad altri soggetti in situazione analoga (che non si trattasse di impossibilita' assoluta - e valida erga omnes - bensi' di mera difficolta' contingente, lo dimostra in ogni caso il fatto che alcuni imputati albanesi sono riusciti ad ottenere detta certificazione). Il Tribunale di Chiavari ha disposto la revoca del decreto di ammissione, in deroga a quanto disposto dal comma 3 dell'art. 112 d.P.R. n. 115/2002 (che individua nel magistrato che procede al momento della scadenza dei termini di cui ai commi precedenti - nel caso di specie il G.i.p. presso il Tribunale di Genova - l'organo investito del potere/dovere di revoca), sulla base del presupposto essere «principio fondamentale dell'ordinamento quello secondo cui la inammissibilita' di una domanda, per originaria insussistenza dei requisiti richiesti, per essa, dalla legge, e' una forma di invalidita' non suscettibile di sanatoria a meno che non sia prevista espressamente la rilevabilita' di tale sanzione processuale entro determinati limiti temporali» richiamando - ad avviso di chi scrive, impropriamente, per quanto di seguito si dira' - la normativa in tema di impugnazioni, ed in particolare gli artt. 591, comma 4 e 606 lett. c) c.p.p. Proprio i riferimenti operati dal Tribunale dimostrano infatti che, se e' vero che una causa di inammissibilita', in assenza di espressa difforme previsione normativa, non e', di regola, suscettibile di sanatoria ed e' rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, competente a rilevarla e' comunque sempre e solo il giudice titolare a decidere sull'(eventuale) impugnazione e non gia' il giudice che procede nella fase processuale in cui tale causa si e' verificata. Ne' il Tribunale poteva agire in via di «autotutela», attesa la natura giurisdizionale del procedimento relativo al patrocinio a spese dello Stato. Si e' a lungo discusso in giurisprudenza se nel decidere in ordine a tale materia il giudice eserciti una funzione amministrativa o giurisdizionale. Il dibattito e' stato tuttavia definitivamente risolto dalla Corte costituzionale nella sua ordinanza n. 144/1999 laddove si afferma che, in subjecta materia «il giudice esercita appieno la funzione giurisdizionale avente ad oggetto la sussistenza di un diritto (...) dotato di fondamento costituzionale» di tal che «i provvedimenti nei quali si esprime tale funzione hanno il regime proprio degli atti di giurisdizione, revocabili dal giudice nei limiti e sui presupposti espressamente previsti e rimuovibil negli altri casi, solo attraverso gli strumenti di impugnazione.» A tale impostazione consegue che, al di fuori dei casi tassativamente indicati dalla legge «un potere di revoca (...) non e' configurabile neppure (...) quale espressione della generale potesta' di autotutela di cui e' titolare la pubblica amministrazione». I principi sanciti dalla Corte delle Leggi sono stati recentemente fatti propri dalle sezioni unite della Cassazione che, con la sentenza n. 36168/2004, dopo aver riaffermato la natura giurisdizionale del procedimento de quo, hanno ulteriormente ribadito che la disciplina relativa al patrocinio a spese dello Stato «riconosce al giudice il potere di revocare d'ufficio il provvedimento di ammissione al beneficio nei casi e sulla base dei presupposti precisamente indicati» con cio' implicitamente riconoscendo la natura tassativa delle ipotesi previste dall'art. 112 d.P.R. cit. Il tribunale non avrebbe dunque potuto neppure rimettere la questione al G.i.p. di Genova, sulla base della competenza riconosciuta dal comma 3 dell'art. 112 d.P.R. n. 115/2002, versandosi in fattispecie al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dai commi 1 e 2 (e non ritenendosi - per le ragioni in precedenza evidenziate - detta lacuna colmabile in via interpretativa e/o analogica). Diversamente opinando si sarebbe dovuta operare, oltre tutto, una vera propria regressione di fase del procedimento, inammissibile - secondo i principi generali - in mancanza di una espressa previsione normativa in tal senso. La normativa in tema di patrocinio a spese dello Stato non offre neppure mezzi di impugnazione in grado di risolvere la situazione di «impasse» sin qui descritta. L'art. 99 d.P.R. 115/02 disciplina infatti unicamente i casi del ricorso avverso il provvedimento con cui il magistrato competente rigetta l'istanza di ammissione, mentre l'art. 113 prevede l'ipotesi del ricorso in Cassazione avverso il decreto che decide sulla richiesta di revoca proveniente dall'ufficio finanziario. Se tali premesse sono - come pare allo scrivente - corrette, in un caso quale il presente nel quale sussista un vizio ab origine dell'istanza di ammissione (tale da determinare l'inammissibilita' della stessa), non rilevato dal magistrato indicato dall'art. 112, comma 3, d.P.R. cit., il giudice competente a provvedere in ordine alla liquidazione si troverebbe - in assenza di strumenti di autotutela, poteri di revoca e strumenti di impugnazione - obbligato a procedere alla liquidazione pur in presenza di una causa di inammissibilita' della domanda. Puo' in tal modo determinarsi un danno per l'Erario anche assai grave, come nel caso di specie, in cui, stante la rilevanza dell'attivita' difensiva compiuta (in relazione alla durata ed alla complessita' della fase processuale di primo grado, con dibattimento protrattosi per circa un anno e mezzo) la richiesta di liquidazione ammonta, per la singola posizione qui esaminata, a diverse decine di migliaia di euro ( pare, al riguardo, opportuno evidenziare che, trattandosi di «maxi-processo» con 94 imputati, ed essendovi attualmente pendenti dinanzi allo scrivente altri ricorsi relativi a decine di posizioni assimilabili alla presente, l'onere complessivo a carico dell'Erario supererebbe complessivamente il milione di euro). La norma in questione appare, sulla base delle premesse sin qui evidenziate, e per le ragioni che verranno di seguito ulteriormente esposte - palesemente irragionevole, nonche' foriera di conseguenze negative per l'Erario e, piu' in generale, per il buon andamento dell'amministrazione, ponendosi dunque, ad avviso dello scrivente, in contrasto con gli artt. 3, 28 e 97 della Costituzione. Si ritiene che debba essere pertanto sollevata questione di legittimita' costituzionale dell'art. 112, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, in riferimento agli artt. 3, 28 e 97 della Costituzione, nella parte in cui tale norma non consente (anche) al giudice procedente nella fase di liquidazione la revoca del decreto di ammissione nel caso in cui rilevi una causa di inammissibilita' della domanda, anche al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dalle lett. a) b) c) d) primo e secondo comma. Sulla rilevanza della questione E' noto come il requisito della rilevanza si individui univocamente nella necessita' che la norma sospettata di incostituzionalita' debba trovare applicazione nel processo a quo. Nel caso in esame la norma denunciata assume in modo evidente, per quanto detto in precedenza, rilevanza determinante ed ineludibile in ordine al thema decidendum, ovvero nello stabilire la revocabilita' - o meno -, da parte del giudice competente a decidere sulla liquidazione, del beneficio invocato ed (in ipotesi) erroneamente concesso. E' infatti precluso al giudice procedente - pur in presenza di una causa di inammissibilita' originaria della domanda (tale dunque da determinare la non debenza della liquidazione, per carenza dei necessari presupposti legittimanti), e pur essendo tale causa di inammissibilita' conosciuta e rilevata dal giudicante - la possibilita' allo stesso di revocare il provvedimento di ammissione (erroneamente concesso da altro giudice nella fase preliminare al giudizio). Cio' determina, in concreto, una situazione di stallo non rimediabile in via interpretativa. Lo scrivente reputa infatti di doversi necessariamente muovere nell'alveo ermeneutico delimitato dalle pronunce, in precedenza citate, della Corte delle leggi e delle sezioni unite della Cassazione, che hanno affermato rispettivamente la natura giurisdizionale del procedimento relativo al patrocinio a spese dello Stato (cio' che comporta necessariamente l'esclusione, per il giudicante, della facolta' di «autotutela» riservata al procedimento di natura amministrativa) e la tassativita' delle ipotesi di revoca previste dall'art. 112 (con cio' escludendosi la possibilita' di utilizzo del criterio interpretativo analogico - che, oltretutto, qui si rivelerebbe in malam partem). Una lettura costituzionalmente corretta della norma da parte della Corte delle leggi appare dunque, nello specifico, assolutamente necessaria. Sulla non manifesta infondatezza In relazione alla dedotta violazione dell'art. 3 Cost. si rileva come la norma impugnata leda sia il principio di eguaglianza che quello di ragionevolezza. Quanto al primo profilo appare evidente la disparita' di trattamento tra l'ipotesi di cui alla lett. c) dell'art. 112, d.P.R. n. 115/2002, nella quale e' prevista la revoca del decreto di ammissione nel caso in cui non sia stata prodotta la certificazione dell'autorita' consolare nei termini previsti dall'art. 94, comma 3 (ovverosia entro il termine di 20 gg. dalla presentazione dell'istanza nel caso in cui il cittadino extracomunitario sia detenuto - o sottoposto a misura di sicurezza, o ancora custodito in luogo di cura - ) e quella di cui al presente caso, in cui la certificazione consolare (pur prevista, come detto, quale condizione di ammissibilita' dell'istanza) non sia stata presentata tout court. Per tale ultima ipotesi non e' infatti prevista la possibilita' per il giudice che procede, di revocare il decreto di ammissione. Non vi e' ragione perche' il legislatore debba aver previsto un'ipotesi di revoca nel caso di omessa presentazione della certificazione consolare in un caso circoscritto, quale quello previsto dal comma 3 dell'art. 94, e non lo abbia viceversa previsto in riferimento alla violazione della piu' generale previsione dell'art. 79, comma 2, d.P.R. n. 115/2002. Come e' noto il principio di eguaglianza e' un principio generale che condiziona tutto l'ordinamento nella sua obiettiva struttura ed e' espressione di un generale canone di coerenza dell'ordinamento normativo (Sent. Corte cost. n. 204/1982) cui la legge deve necessariamente uniformarsi, non solo sotto il profilo formale, ma anche sotto quello materiale. Da cio' consegue che la discrezionalita' del legislatore non possa essere incondizionata ma debba sempre rispondere a criteri di logicita' e coerenza. Nel caso di specie l'omessa previsione normativa qui oggetto di censura non trova alcuna giustificazione ne' sotto il profilo della coerenza sistematica che sotto quello della ratio ispiratrice. Nella norma oggetto di censura e' oltretutto ravvisabile, ad avviso dello scrivente, un ulteriore elemento di irragionevolezza laddove, al comma 3, viene previsto quale giudice competente a disporre la revoca, esclusivamente «il magisfrato che procede al momento della scadenza dei termini suddetti (con riferimento ai commi precedenti - n.d.r.) ovvero al momento in cui la comunicazione e' effettuata o, se procede la Corte di cassazione, il magistrato che ha emesso il provvedimento impugnato», omettendo viceversa di prevedere la possibilita' che il provvedimento ammissivo possa essere revocato anche dal giudice competente alla fase della liquidazione. E' ben possibile infatti - come nel caso di specie - che il giudice procedente al momento della scadenza dei termini (nel caso in esame il G.i.p. presso il Tribunale di Genova) ed il giudice competente alla fase della liquidazione (qui il Tribunale di Chiavari) non coincidano. In tal caso il secondo giudice, privo del potere di revoca (al di fuori delle ipotesi determinate dalle modificazioni delle condizioni reddituali) dovrebbe necessariamente procedere alla liquidazione, anche qualora rilevasse - come e' avvenuto nel caso che ne occupa - la presenza di una causa di inammissibilita' della domanda (vizio originario, non sanabile e tuttavia non rilevato dal primo giudice), non riconoscendogli la norma in esame alcuna competenza a delibare in subjecta materia. Il che, nuovamente, non trova alcuna giustificazione ne' sotto il profilo dell'economia processuale ne' sotto quello della coerenza sistematica della disposizione. Oltretutto, possono in tal modo determinarsi conseguenze (almeno potenzialmente) pregiudizievoli per la p.a. (come di seguito si avra' modo di evidenziare in riferimento agli ulteriori profili di illegittimita' costituzionale sollevati). Appare evidente come il legislatore, nel caso in esame, abbia posto l'interprete di fronte ad una situazione di stallo insuperabile in quanto non rimediabile (alla luce di quanto detto in precedenza) attraverso il normale esplicarsi, da parte del giudicante, di un'attivita' interpretativa coerente con i principi propri del dettato costituzionale. In relazione alla dedotta violazione dell'art. 28 Cost. si rileva quanto segue. La Corte costituzionale, con sentenza 14 marzo 1968, n. 2 ha fissato alcuni principi dai quali occorre necessariamente prendere le mosse nell'analizzare la questione oggi in esame. Anzitutto la Corte delle leggi ha affermato che l'art. 28 della Costituzione, con l'espressione funzionari e dipendenti dello Stato ha inteso riferirsi anche ai magistrati. In secondo luogo ha ritenuto che il principio generale, stabilito dall'art. 28, della responsabilita' diretta dei pubblici dipendenti - compresi i magistrati - non esclude, stante il rinvio alle leggi ordinarie, che tale responsabilita' sia «disciplinata variamente per categorie e situazioni». La peculiarita' della funzione giurisdizionale, la natura dei provvedimenti giudiziari, la stessa posizione super partes del magistrato, legittimano la previsione di «condizioni e limiti della sua responsabilita», senza peraltro mai poter giungere ad una negazione totale di essa, che si porrebbe in contrasto con l'art. 28 della Costituzione ed anche con l'art. 3, per l'irragionevole differenza di trattamento rispetto agli altri pubblici funzionari e dipendenti. Tali principi, seppure con articolati distinguo in riferimento alle peculiarita' delle questioni in allora proposte in riferimento all'art. 131, u.co. c.p.c. aggiunto dall'art. 16, secondo comma, legge 13 aprile 1988, n. 117 («Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilita' civile dei magistrati»), sono stati sostanzialmente ribaditi nella nota sentenza della Corte costituzionale 19 gennaio 1989, n. 18. In tale pronuncia viene affermato tra l'altro che «il principio dell'indipendenza e' volto a garantire l'imparzialita' del giudice, assicurandogli una posizione super partes che escluda qualsiasi, anche indiretto, interesse a decidere. A tal fine la legge deve garantire l'assenza, in equal modo di aspettative e vantaggi e di situazioni di pregiudizio preordinando gli strumenti atti a tutelare l'obiettivita' della decisione». Ancora si afferma che «l'art. 28 della Costituzione pone la regola - valida per i funzionari e i dipendenti pubblici (e quindi anche per i giudici) - della loro responsabilita' diretta per "gli atti compiuti in violazione di diritti" secondo "le leggi penali, civili ed amministrative"». Cio' premesso pare allo scrivente che la norma della cui costituzionalita' si dubita violi in modo palese i principi in precedenza enunciati. Precludendo infatti al giudice procedente - pur in presenza di una causa di inammissibilita' originaria della domanda (tale dunque da determinare la non debenza della liquidazione, per carenza dei necessari presupposti legittimanti), e pur essendo tale causa di inammissibilita' conosciuta e rilevata dal giudicante - la possibilita' allo stesso di revocare il provvedimento di ammissione (erroneamente concesso da altro giudice nella fase preliminare al giudizio) la norma impugnata, lungi dal «garantire l'assenza di situazioni di pregiudizio», finisce, al contrario, per imporre di fatto al pubblico dipendente un comportamento gravemente colposo in quanto idoneo a cagionare, consapevolmente, un danno per la pubblica amministrazione senza responsabilita' contabile del predetto (ove, viceversa, si ritenesse la responsabilita' contabile del magistrato, sarebbe ravvisabile una ulteriore, e se possibile, ancor piu' macroscopica violazione dell'art. 3 Cost. - nonche' dell'art. 101, comma 2 Cost. - appalesandosi in tal caso l'assoluta irragionevolezza di una norma che imponesse al pubblico funzionario un comportamento al contempo doveroso e tuttavia costituente fonte di responsabilita). Tali evidenti ed insanabili incongruenze non possono non incidere negativamente anche sul buon andamento dell'amministrazione della giustizia, in contrasto con l'art. 97 della Costituzione. Pur essendo ben nota allo scrivente la giurisprudenza della Corte costituzionale in subjecta materia (Sent. Corte cost. 16/1998 - in senso conforme anche sentt. 122/1997, 428/1993, 376/1993 -) secondo cui l'art. 97 Cost. non sarebbe invocabile, a proposito dell'attivita' giurisdizionale oltre i limiti riguardanti l'ordinamento degli uffici giudiziari ed il loro funzionamento sotto l'aspetto amministrativo, tuttavia occorre rilevare che, nel caso di specie, i profili di irragionevolezza della norma in esame vengono ad incidere non tanto (e non solo) sull'attivita' giurisdizionale in senso stretto, ma vanno ad interferire, come si e' visto, negativamente ed in modo significativo, su aspetti di carattere prettamente amministrativo, quale e' certamente l'accollo di oneri patrimoniali (che si assumono non dovuti) da parte dello Stato, con cio' determinando un evidente vulnus nel corretto andamento della pubblica amministrazione. La correttezza di tale impostazione puo' - ad avviso dello scrivente - desumersi dalle pronunce della Corte costituzionale 19 gennaio 1989, n. 18 e 7 maggio 1982, n. 86, nelle quali, pur sotto diversi profili, sono state riconosciute fondate questioni di legittimita' costituzionale in riferimento all'art. 97 Cost. nell'ambito di attivita' giurisdizionale, laddove la norma impugnata incidesse negativamente sul buon andamento dell'amministrazione della giustizia in senso lato. Si e' al riguardo affermato che l'art. 97 della Costituzione, nello stabilire che i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento dell'amministrazione, non ha inteso riferirsi ai soli organi della pubblica amministrazione in senso stretto, ma anche agli organi dell'amministrazione della giustizia (Corte cost. 7 maggio 1982, n. 86). Ritenuto dunque, per le ragioni suesposte, che la questione sollevata sia rilevante ai fini della decisione e non manifestamente infondata.
P. Q. M. Visto l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87; Solleva questione di legittimita' costituzionale dell'art. 112, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, in riferimento agli artt. 3, 28 e 97 della Costituzione, nella parte in cui non consente (anche) al giudice procedente nella fase di liquidazione la revoca del decreto di ammissione nel caso in cui rilevi una causa di inammissibilita' della domanda, anche al di fuori delle ipotesi tassativamente previste alle lett. a), b), c), d), primo comma e secondo comma. Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, sospendendo il giudizio in corso. Ordina che a cura della cancelleria la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere. Dispone la notificazione della presente ordinanza, a cura della cancelleria, alle parti costituite. Chiavari, addi' 15 maggio 2006 Il giudice: Carta 07C0234