N. 108 ORDINANZA (Atto di promovimento) 10 maggio 2006

Ordinanza  emessa  il  10  maggio  2006  dal  tribunale  di  Roma nel
procedimento penale a carico di Pomes Stefano ed altri

Reati  e  pene  -  Prescrizione  - Modifiche normative comportanti un
  regime piu' favorevole in tema di termini di prescrizione dei reati
  -  Disciplina  transitoria  - Inapplicabilita' delle nuove norme ai
  processi  gia' pendenti in primo grado ove, alla data di entrata in
  vigore della novella, vi sia stata la dichiarazione di apertura del
  dibattimento -  Disparita' di trattamento tra imputati - Violazione
  del  principio  di  ragionevolezza  - Contrasto con il principio di
  necessaria   applicazione   retroattiva  della  norma  penale  piu'
  favorevole,  riconosciuto  dal  diritto  comunitario  e dal diritto
  internazionale.
- Legge 5 dicembre 2005, n. 251, art. 10, comma 3.
- Costituzione, artt. 3, 10, 11 e 117, primo comma.
(GU n.12 del 21-3-2007 )
                            IL TRIBUNALE

    Ha   emesso  la  seguente  ordinanza  di  rimessione  alla  Corte
costituzionale   di   questione  di  legittimita'  sollevata  in  via
incidentale.

                          Ritenuto in fatto

    Con   decreto   che   dispone  il  giudizio  emesso  dal  giudice
dell'udienza  preliminare  in data 13 maggio 2003 (che si allega alla
presente  ordinanza)  gli  imputati  Di  Domenico  Giorgio,  Esposito
Raffaele,  Croce  Pasquale,  Miglino Maria Pia, Miglino Nicola, Russo
Carmela,  Russo  Anna,  Truda Francesco, Duvia Orazio, Pomes Stefano,
venivano  tratti a giudizio dinanzi a questo tribunale per rispondere
delle  imputazioni  ivi  indicate.  Tale  processo veniva riunito con
quello  a carico di Fallucchi Domenico, tratto a giudizio con decreto
del g.u.p. in data 15 novembre 2000 (che si allega all'ordinanza) per
i reati ivi indicati.
    All'udienza  del 13 marzo 2006 - dopo che all'udienza del 5 marzo
2004  era  stato  aperto  il  dibattimento, ammesse le prove indicate
dalle  parti,  ed iniziata l'istruzione dibattimentale con l'esame di
testimoni ed indagati di reato connesso ai sensi dell'art. 210 c.p.p.
-  i  difensori degli imputati Duvia, Di Domenico, Russo Anna, Pomes,
Russo    Carmela,    Truda    e    Miglino   Maria   Pia   eccepivano
l'incostituzionalita'  dell'art. 10,  comma 3, legge 5 dicembre 2005,
n. 251  (c.d.  «ex Cirielli»), nella parte in cui rende inapplicabili
le piu' favorevoli norme in tema di termini di prescrizione dei reati
ai  processi  nei quali, alla data di entrata in vigore della stessa,
vi  era gia' stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, per
contrasto  con  gli  artt. 3  e  27  della  Costituzione. Il pubblico
ministero   ed   il   difensore  della  costituita  parte  civile  si
rimettevano.
    Il  tribunale  si riservava di decidere rinviando all'udienza del
12 aprile  2006.  Detta  udienza, attesa la precaria composizione del
collegio  in  quanto  uno  dei  giudici a latere era impegnato presso
l'Ufficio elettorale veniva rinviata alla data odierna.

                       Considerato in diritto

    Il tribunale ritiene di dover rimettere alla Corte costituzionale
il  giudizio sulla legittimita' costituzionale dell'art. 10, comma 3,
legge n. 251 del 2005 per violazione degli artt. 3; 117, primo comma,
10 ed 11 della Costituzione.
    Va anzitutto precisato che la questione e' rilevante nel presente
processo, in relazione ai reati di cui ai capi B (artt. 319-319-bis e
321  c.p.,  contestati  sino  al  1997),  ascritti a Pomes, Esposito,
Croce,  Russo Anna, Russo Carmela e Di Domenico; C (artt. 319-319-bis
e  321  c.p., contestati fino al 1996), ascritti a Miglino Maria Pia,
Truda,    Russo    Anna,    Russo    Carmela,   Miglino   Nicola;   E
(artt. 319-319-bis   e  321  c.p.,  contestati  fino  al  1991/1992),
ascritti a Duvia e Miglino Nicola.
    Infatti,  sulla  base  della  previgente  disciplina  relativa ai
termini di prescrizione, il tempo necessario a prescrivere un delitto
per  il quale la legge prevede una pena edittale massima compresa tra
i  cinque  ed  i  dieci  anni  di  reclusione  e'  pari a dieci anni,
suscettibile  di  aumento  sino ad un massimo complessivo di quindici
anni in caso di atti interruttivi.
    Per  determinare  il  tempo  necessario  a  prescrivere si doveva
infatti  avere  riguardo  -  ai sensi del secondo comma dell'art. 157
c.p.  -  al  massimo  della  pena stabilita per il reato tenuto conto
dell'aumento  massimo di pena stabilita per le circostanze aggravanti
e  della  diminuzione minima stabilita per le circostanze aggravanti.
In  caso  di  concorso  di  circostanze aggravanti ed attenuanti deve
applicarsi  il  giudizio  di  valenza  di  cui  all'art. 69  c.p.,  e
determinarsi   quindi  la  pena  massima  applicabile  all'esito  del
giudizio stesso (art. 157, comma 3 c.p.).
    Non   essendovi,   allo   stato,   i   presupposti  per  ritenere
immediatamente   concedibili   le  circostanze  attenuanti  generiche
prevalenti  alle  aggravanti  contestate,  e  quindi  far  operare la
disciplina  di  cui  all'art. 226, d.lgs. n. 51 del 1998, i reati per
cui  si  procede  risultano  allo  stato  puniti con pena superiore a
cinque anni di reclusione (pena per il reato di cui all'art. 319 c.p.
reclusione  fino  a  cinque  anni,  aumentata di un terzo per effetto
della  circostanza  aggravante  di  cui  all'art. 319-bis  c.p., pena
finale massima anni sei e mesi otto di reclusione).
    Pertanto,  il  termine  di  prescrizione  del  reato  come  sopra
indicato  e'  di  dieci  anni,  con  aumento  a  quindici  anni,  per
l'intervento  di atti interruttivi. Inoltre, l'art. 158, comma 1 c.p.
disponeva che in caso di reato continuato, il termine di prescrizione
inizia a decorrere al cessare della continuazione.
    Infine,  l'art. 161,  comma  2  c.p.  prevedeva  che  le cause di
sospensione  od interruzione relative ad alcuni dei reati per i quali
si procede congiuntamente hanno effetto anche per gli altri reati.
    Quindi,  sulla  base  di queste disposizioni, i reati ascritti ai
suindicati imputati non sono prescritti.
    La  nuova  disciplina  contenuta  nella  legge  n. 251  del  2005
(art. 6,  che  modifica  gli  artt. da  157  a 161 del codice penale)
prevede,  invece,  che  «La prescrizione estingue il reato decorso il
tempo  corrispondente  al massimo della pena edittale stabilita dalla
legge  e  comunque  un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di
delitto...». Per determinare il tempo necessario a prescrivere «si ha
riguardo  alla  pena  stabilita  dalla legge per il reato consumato o
tentato,  senza  tenere  conto  della  diminuzione per le circostanze
attenuanti e dell'aumento per le circostanze aggravanti salvo che per
le  aggravanti  per  le  quali la legge stabilisce una pena di specie
diversa  da  quella  ordinaria  e per quelle ad effetto speciale, nel
qual  caso  si  tiene conto dell'aumento massimo di pena previsto per
l'aggravante».
    In  caso  di atti interruttivi, il termine di prescrizione inizia
nuovamente  a  decorrere,  ma  in  nessun  caso  l'interruzione della
prescrizione  puo'  -  per  procedimenti  diversi  da quelli indicati
nell'art. 51  commi  3-bis  e  3-quater  c.p.p.. e salva l'ipotesi di
recidiva   aggravata  (nella  specie  non  contestata)  -  comportare
l'aumento di piu' di un quarto del tempo necessario a prescrivere.
    E' stata, inoltre eliminata la disposizione che prevedeva che, in
caso di continuazione dei reati, il termine di prescrizione iniziasse
a  decorrere  solo  dal  giorno  in  cui e' cessata la continuazione,
nonche'  quella  che,  in caso di procedimento unitario per reati tra
loro   connessi,   prevedeva   che  le  cause  di  sospensione  o  di
interruzione  della  prescrizione  relative ad uno dei reati connessi
avesse  effetto  anche per gli altri. Quindi il termine di decorrenza
iniziale della prescrizione coincide, anche in caso di continuazione,
con  la  consumazione  di  ciascun reato e le cause di sospensione ed
interruzione  della  prescrizione  relative ad un reato non esplicano
effetto  riguardo  agli  altri  reati connessi per i quali si proceda
congiuntamente.
    Pertanto,  sulla base della nuova disciplina, tutti i reati sopra
indicati sarebbero gia' estinti per prescrizione.
    Infatti,  non  avendo piu' rilevanza le circostanze aggravanti ad
effetto  ordinario  (quale quella indicata nell'art. 319-bis c.p. che
comporta  un  aumento della pena fino ad un terzo), tutti gli episodi
di  corruzione  propria  aggravata  si prescrivono nel termine di sei
anni,  termine  che puo' essere per l'intervento di atti interruttivi
aumentato  al  massimo a sette anni e mesi sei, decorrenti dalla data
di commissione dei singoli reati.
    Pertanto,  trattandosi  di fatti commessi al piu' tardi nell'anno
1997,  sarebbe interamente decorso il termine massimo di prescrizione
dei  reati,  e  dunque  il tribunale dovrebbe pronunciare sentenza di
improcedibilita' ai sensi degli artt. 157 e 160 c.p., e 531 c.p.p.
    Tale  pronuncia  e'  allo stato impedita proprio dalla disciplina
transitoria  contenuta  nell'art. 10  della legge n. 251, in quanto -
poiche'  alla  data  di  entrata in vigore della legge era gia' stata
dichiarata l'apertura del dibattimento - deve trovare applicazione la
previgente   normativa,   che   nel   caso   in  esame  determina  un
raddoppiamento dei termini di prescrizione rispetto alla nuova.
    Per  tali  ragioni,  la  questione  appare rilevante nel presente
giudizio.
    Quanto alla non manifesta infondatezza della questione (giacche',
ovviamente,  il  Collegio  puo'  evitare  di  rimettere  la questione
eccepita alla Corte costituzionale solo ove la ritenga manifestamente
infondata,    e    dunque   non   meritevole   dello   scrutinio   di
costituzionalita'  devoluto  al  Giudice delle leggi), deve rilevarsi
quanto segue.
    Per quanto consta, e' la prima volta che il legislatore ordinario
predispone una disciplina transitoria di natura sostanziale (giacche'
non  sembrano  esservi  dubbi  che  la  prescrizione  non e' istituto
processuale,  ma  attiene  alle  cause  di  estinzione dei reati e ha
dunque  evidente  natura  penale  sostanziale),  che  impone  di  non
applicare  retroattivamente nei giudizi in corso la disciplina penale
sopravvenuta piu' favorevole per l'imputato.
    E'  ancora  da  precisare  che  -  nonostante  taluni  autorevoli
orientamenti  della  dottrina  -  codesta  Corte ha sempre in passato
ritenuto   che   ha   rilievo   costituzionale  solo  il  divieto  di
retroattivita'  della  norma  penale incriminatrice (art. 25, secondo
comma  Cost.),  e  non  anche il principio della retroattivita' della
norma  penale piu' favorevole di cui all'art. 2, comma 3 c.p. (v., da
ultimo,  sent.  n. 80  del  1995,  che  ha  dichiarato  infondata  la
questione  di  legittimita'  costituzionale  sollevata in riferimento
all'art. 20   della   legge   n. 4   del   1929,   che  prevedeva  la
irretroattivita' delle norme penali finanziarie piu' favorevoli).
    Peraltro,  tale ultima norma derogatoria e' stata infine abrogata
dal  legislatore  con  l'art. 24  della  legge  n. 507  del  1999, di
talche',  prima  della  previsione contenuta nell'art. 10 della legge
n. 251,   non   residuavano  piu'  nel  nostro  ordinamento  casi  di
discipline   derogatorie   al   principio  generale  di  applicazione
retroattiva   della   legge   penale   piu'   favorevole,   contenuto
nell'art. 2, comma 3 c.p.
    Va  anche osservato che la Corte di cassazione ha gia' affrontato
la questione in oggetto, ritenendola manifestamente infondata.
    In  particolare, nella pronuncia piu' articolata emessa sul punto
(VI  Sezione penale, sent. n. 460 del 2005, udienza 12 dicembre 2005,
deposito 10 gennaio 2006), la S.C. ha ritenuto:
        che  il  principio  di  applicazione  retroattiva della norma
penale piu' favorevole non ha rilievo costituzionale;
        che  il  legislatore ordinario e' dunque libero di modulare e
graduare  le  modalita' di applicazione della legge penale successiva
piu'  mite,  introducendo condizioni, limiti ed eccezioni che ritenga
opportuni;
        che  tale disciplina non incorre nella violazione dell'art. 3
della  Costituzione  ove  le  soluzioni  legislative  adottate  siano
sorrette da valutazioni e giustificazioni non irragionevoli;
        che comunque - come evidenziato dalla Corte costituzionale in
alcune   sue  pronunce,  e  confermato  dagli  sviluppi  del  diritto
internazionale  e  comunitario - il principio di retroattivita' della
norma  penale  piu'  favorevole  puo'  avere riguardo solo ove vi sia
stato  un mutamento, favorevole al reo, nella valutazione sociale del
fatto tipico;
        che,  nel  caso  di specie, la soluzione legislativa adottata
nel  delineare  la  disciplina  transitoria non viola il principio di
uguaglianza,  in  quanto e' del tutto normale che la disciplina della
prescrizione possa dar luogo a diversita' di trattamento tra imputati
di  fatti  identici  o analoghi, anche commessi nello stesso momento,
per  effetto  di  una  serie  di  variabili  che  incidono  sui tempi
dell'accertamento penale;
        che, inoltre, la disciplina transitoria contenuta nella legge
n. 251 da un lato rende inapplicabili retroattivamente le nuove norme
in   tema  di  prescrizione,  laddove  siano  meno  favorevoli  delle
precedenti;  dall'altro,  prevedendo che continuino ad applicarsi nei
procedimenti  penali relativi ai fatti pregressi le vecchie norme, fa
si'  che trovino applicazione le norme che vigevano al momento in cui
il fatto di reato e' stato commesso. Pertanto non viene in alcun modo
intaccato  il  nucleo  centrale  della  garanzia  dell'istituto della
prescrizione.
    Diversi  giudici  di  merito  hanno invece sollevato la questione
relativa    alla   legittimita'   costituzionale   della   disciplina
transitoria,  rilevando  che  l'individuazione della dichiarazione di
apertura  del  dibattimento  di  primo  grado,  quale  discrimine per
l'applicazione   ultrattiva   della   disciplina  della  prescrizione
previgente  nei  casi  in cui essa sia concretamente piu' sfavorevole
per  l'imputato,  viola il principio di uguaglianza e ragionevolezza,
in  quanto  comporta la conseguenza che, per fatti meramente casuali,
vengano  applicate  norme  piu'  sfavorevoli. Non risulta che codesta
Corte  alla  data  odierna  si sia gia' pronunciata in ordine a dette
questioni.
    Ritiene questo Collegio che la sopra indicata disciplina presenti
profili  di  assai  dubbia  razionalita',  tali  da  determinare  una
possibile  lesione  del  principio di uguaglianza e ragionevolezza di
cui all'art. 3 Cost.
    In effetti, per quel che riguarda i processi per i quali sia gia'
intervenuta   una  sentenza  in  primo  grado,  puo'  sostenersi  che
l'applicazione  della  pregressa disciplina sulla prescrizione, anche
se meno favorevole, puo' trovare una giustificazione nella necessita'
di   non   «neutralizzare»   un   accertamento  giurisdizionale  gia'
effettuato sotto il vigore della precedente disciplina.
    D'altronde,  il  sistema  processuale  gia' conosce ipotesi nelle
quali  la  sopravvenuta estinzione del reato non impedisce al giudice
dell'impugnazione  di pronunciarsi su determinati capi della sentenza
(rt.  578  c.p.p.,  relativo alle pronunce sugli effetti civili della
sentenza   in   caso   di   estinzione   del  reato  per  amnistia  o
prescrizione).
    Viceversa,  avere  individuato  per  i giudizi ancora pendenti in
primo  grado  la  dichiarazione  di  apertura  del dibattimento quale
spartiacque  tra  la nuova e la vecchia disciplina della prescrizione
determina  una  selezione tra le due normative collegata a profili di
aleatorieta', non dipendenti da un atto di impulso processuale avente
obiettiva   rilevanza  (quale,  ad  esempio  l'esercizio  dell'azione
penale, momento nel quale il giudice viene investito della cognizione
del processo), ma ad un evento in parte casuale, in parte addirittura
dipendente  dalle  parti  (si pensi, ad un difetto di notifica che ne
imponga la rmnnovazione, ovvero ad un impedimento dell'imputato o del
difensore cui consegua il rinvio dell'udienza).
    A cio' si aggiunga che nelle ipotesi di concorso di persone nello
stesso  reato  e'  possibile  che  nel  medesimo  processo,  trattato
congiuntamente, sia stata disposta prima dell'entrata in vigore della
legge  n. 251  una  separazione  delle  posizioni, con rinvio per uno
degli  imputati  e  dichiarazione  di  apertura  del dibattimento per
l'altro.  Ebbene  cio'  deterrninerebbe  la  conseguenza  - del tutto
irragionevole  -  che, per colui nei cui confronti e' stato aperto il
dibattimento,  il  reato  si  potrebbe prescrivere in un tempo doppio
rispetto al coimputato che ha «beneficiato» del rinvio.
    Tale  conclusione appare in palese contrasto con il principio per
cui situazioni identiche devono essere trattate in modo uguale.
    L'avere  il  Legislatore  predisposto una disciplina che comporta
conseguenze  di  questo  tipo  non  sembra dunque conforme all'art. 3
Cost.
    Ne'  tale  possibile  lesione  verrebbe meno ove si ritenesse che
solo  la  predisposizione di una siffatta disciplina transitoria (che
ha  l'effetto  pratico  di ridurre al minimo l'immediata applicazione
dei  nuovi  e  piu'  favorevoli termini di prescrizione dei reati) ha
evitato che, sotto le mentite spoglie di una riforma del regime della
prescrizione,  il  Legislatore  adottasse una «amnistia impropria» in
violazione  della  peculiare  regola circa la maggioranza qualificata
richiesta per adottare una legge di amnistia (art. 79 Cost. a seguito
della modifica di cui alla legge cost. n. 1 del 6 marzo 1992); con la
conseguenza  che  l'eventuale  declaratoria  di  illegittimita' della
norma  transitoria  farebbe  assumere  alla  legge  n. 251 valenza di
amnistia adottata in violazione dell'art. 79 Cost.
    Infatti,   quand'anche   la   pronuncia   di  incostituzionalita'
determinasse  tale  effetto,  non  puo'  negarsi che, in una scala di
valore delle norme costituzionali, tra il principio di cui all'art. 3
Cost.  -  cosi'  come  i  principi  ricavabili dagli artt. 117, primo
comma, 10 ed 11 Cost. (di cui si trattera' tra breve) - ed il mancato
rispetto di una disciplina procedurale, dovrebbero prevalere i primi,
attinenti   ai   principi   fondamentali   del   nostro   ordinamento
costituzionale  (per  di piu' direttamente collegati all'applicazione
delle sanzioni penali).
    La  disciplina  in questione sembra violare anche altri parametri
costituzionali.
    Ritiene  infatti  questo tribunale che il principio di necessaria
applicazione   retroattiva   della   norma   penale  piu'  favorevole
(quand'anche   non   incluso   nell'art. 25   Cost.)  trovi  comunque
fondamento costituzionale, in quanto portato della civilta' giuridica
internazionale,  ed  espressamente previsto in convenzioni e trattati
internazionali.
    In  particolare,  l'art. 15  del Patto internazionale sui diritti
civili  e  politici,  adottato a New York il 16 dicembre 1966, e reso
esecutivo in Italia con la legge di ratifica 25 ottobre 1977, n. 881,
prevede  espressamente  che  «se  posteriormente alla commissione del
reato,  la  legge  prevede  l'applicazione di una pena piu' lieve, il
colpevole deve beneficiarne».
    E  non sembra priva di rilievo la circostanza che l'Italia, nella
citata  legge n. 881, ha precisato (art. 4) che tale previsione «deve
essere  interpretata  come  riferita  esclusivamente  alle  procedure
ancora  in  corso. Conseguentemente, un individuo gia' condannato con
sentenza  passata  in  giudicato  non potra' beneficiare di una legge
che,  posteriormente  alla sentenza stessa, preveda l'applicazione di
una  pena  piu'  lieve»;  e  nello stesso senso e' stata inserita una
dichiarazione  all'atto di deposito dello strumento di ratifica nella
Gazzetta Ufficiale 23 novembre 1978, n. 328.
    Infatti,   il   limite   per   l'applicazione  della  lex  mitior
rappresentato  del  passaggio in giudicato della sentenza di condanna
(norma  pure'  contenuta  nell'art. 2,  comma 3 c.p.), rappresenta un
principio  anch'esso  recepito a livello internazionale, quale idonea
garanzia  della  certezza  del  diritto e della tutela dell'autorita'
della  cosa giudicata (nello stesso senso, codesta Corte ha rigettato
una questione sollevata in riferimento alla modifica della disciplina
della  sospensione  condizionale  della pena di cui alla legge n. 220
del   1974,   con  la  quale  i  giudici  remittenti  chiedevano  una
declaratoria  che  consentisse la revoca del giudicato di condanna al
fine  di  poter concedere la sospensione della pena che non era stata
disposta nel giudizio di cognizione in quanto all'epoca la disciplina
allora vigente non lo consentiva: sentenza n. 74 del 1980).
    Peraltro,  nell'ordinamento  interno  anche  tale limite e' stato
recentemente  superato con la legge n. 85 del 24 febbraio 2006 che ha
inserito  nell'art. 2 c.p. il comma 2-bis, secondo il quale «se vi e'
stata  condanna  a  pena  detentiva  e  la  legge  posteriore prevede
esclusivamente  la  pena  pecuniaria,  la  pena detentiva inflitta si
converte  immediatamente  nella  corrispondente  pena  pecuniaria, ai
sensi dell'art. 135».
    Disposizione  identica rispetto a quella del Patto internazionale
sui  diritti  civili  e  politici e' ora contenuta anche nell'art. 49
comma  1  ultima parte della Carta dei diritti fondamentali, inserita
nell'art. II-109   del  Trattato  che  adotta  una  Costituzione  per
l'Europa (ratificato in Italia con la legge 7 aprile 2005, n. 57).
    Inoltre,  la  Corte  di giustizia della Comunita' europea, in una
recente  decisione  (Grande Sezione - Sentenza 3 maggio 2005 - Procc.
C-387/02,  C-391/02  e  C-403/02,  1/21/2  67-69),  ha  precisato che
«secondo   una   giurisprudenza   costante,  i  diritti  fondamentali
costituiscono  parte integrante dei principi generali del diritto cui
la  Corte garantisce l'osservanza. A tal fine, quest'ultima si ispira
alle  tradizioni  costituzionali  comuni  agli  Stati  membri  e alle
indicazioni  fornite dai trattati internazionali in materia di tutela
dei  diritti  dell'uomo  cui  gli  Stati  membri  hanno  cooperato  o
aderito...  Orbene,  il principio dell'applicazione retroattiva della
pena  piu'  mite fa parte delle tradizioni costituzionali degli Stati
membri.  Ne  deriva che questo principio deve essere considerato come
parte integrante dei principi generali del diritto comunitario che il
giudice  nazionale deve osservare quando applica il diritto nazionale
adottato per attuare l'ordinamento comunitario ...».
    Il  principio  di necessaria applicazione retroattiva della norma
penale  piu'  favorevole e', dunque, «norma di diritto internazionale
generalmente    riconosciuta»    cui   l'ordinamento   interno   deve
conformarsi,  ai  sensi  dell'art. 10  Cost.,  ed  e' anche principio
generale   del   diritto   comunitario  (rilevante  dunque  ai  sensi
dell'art. 11 Cost.).
    Per  di  piu',  l'art. 117,  primo comma Cost. - norma introdotta
dalla   legge   costituzionale   18 ottobre   2001,   n. 3 -  prevede
espressamente  che «La potesta' legislativa e' esercitata dallo Stato
e  dalle  regioni nel rispetto della Costituzione nonche' dai vincoli
derivanti    dal'ordinamento    comunitario    e    dagli    obblighi
internazionali».
    Pertanto,  la disciplina in oggetto appare adottata in violazione
di tali vincoli.
    Ne'  sembra  corretto  operare  distinzioni  tra norme penali che
prevedano  un  pena  piu'  mite  e  norme  penali che, modificando la
disciplina  di  istituti  di  diritto  penale  sostanziale,  come  la
prescrizione,  incidano  direttamente  sull'estinzione  dei  reati. A
maggior  ragione  queste  ultime  devono,  se  piu favorevoli, essere
applicate  retroattivamente poiche' hanno l'effetto, come nel caso di
specie,  di determinare il proscioglimento dell'imputato (e dunque la
non applicazione della pena).
    Non  e',  tuttavia,  possibile  per  questo  giudice disapplicare
direttamente  la  norma  interna  per  contrasto  con  la  disciplina
comunitaria.
    Infatti, se e' vero che l'ordinamento comunitario e l'ordinamento
statale  sono  distinti  ed al tempo stesso coordinati e le norme del
primo  vengono,  in  forza  dell'art. 11  Cost.,  a  ricevere diretta
applicazione in quest'ultimo, pur rimanendo estranee al sistema delle
fonti  statali,  e  che da cio' deriva non la caducazione della norma
interna  incompatibile  bensi' la non applicazione di quest'ultima da
parte  del  giudice  nazionale  al caso oggetto della sua cognizione,
tale  principio,  per effetto della giurisprudenza costituzionale, e'
stato  applicato  dapprima  ai  regolamenti  comunitari  (anteriori o
successivi  alla  norma  statale)  e  quindi  esteso,  a  determinate
condizioni,  alle decisioni della Corte di giustizia e alle direttive
del  Consiglio  delle comunita' (cosi', Corte cost., sent. n. 168 del
1991).
    Percio'  discipline legislative interne contrastanti con principi
di carattere generale - non consacrati cioe' in strumenti legislativi
dell'Unione  europea  dotati  di efficacia diretta ed immediata - non
sembra possano essere disapplicate dal giudice italiano.
    In tal caso, non essendo possibile che restino prive di sindacato
norme  di  legge  interne  che  confliggono con principi generali del
diritto  internazionale e dell'Unione europea, ritiene questo giudice
che  il contrasto puo' rilevare quale violazione degli artt. 10 ed 11
Cost.,  nonche'  dell'art. 117,  primo  comma  Cost.,  da  sottoporsi
percio' al Giudice delle leggi.
    Per  tali  ragioni, apparendo la questione rilevante nel presente
giudizio  e,  nei limiti suindicati, non manifestamente infondata, si
impone la rimessione della stessa a codesta Corte.
                              P. Q. M.
    Visti gli artt. 134 Cost., 23 e ss., legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 10, comma 3, legge n. 251 del
2005, per violazione degli artt. 3, 117, primo comma, 10 ed 11 Cost.
    Dispone  la  trasmissione  degli atti del procedimento alla Corte
costituzionale.
    Sospende   il  presente  giudizio  fino  all'esito  del  giudizio
incidentale di legittimita' costituzionale.
    Manda  alla  cancelleria  per  la  immediata  notificazione della
presente  ordinanza al Presidente Consiglio dei ministri, nonche' per
la  sua  comunicazione  ai Presidenti della Camera dei deputati e del
Senato della Repubblica.
    Si notifichi agli imputati non presenti in udienza.
    Ordinanza letta all'udienza del 10 maggio 2006.
                       Il Presidente: Meschini
07C0302