N. 111 ORDINANZA (Atto di promovimento) 6 aprile 2006

Ordinanza  emessa  il 6 aprile 2006 dalla Corte di appello di Bologna
nel procedimento penale a carico di Zianna Roberto ed altri

Processo penale - Appello - Modifiche normative - Possibilita' per il
  pubblico  ministero  di  proporre  appello  contro  le  sentenze di
  proscioglimento   -   Preclusione,   salvo  nelle  ipotesi  di  cui
  all'art. 603,  comma 2,  se  la nuova prova e' decisiva - Contrasto
  con il principio di ragionevolezza - Violazione del principio della
  parita'    delle    parti    -    Contrasto    con   il   principio
  dell'obbligatorieta' dell'azione penale.
- Legge 20 febbraio 2006, n. 46, artt. 1 e 10.
- Costituzione, artt. 3, 111 e 112.
(GU n.12 del 21-3-2007 )
                         LA CORTE DI APPELLO

    Ha pronunciato la seguente ordinanza.
    Letta  l'eccezione  di  illegittimita' costituzionale degli artt.
593  c.p.p.,  606,  comma  1, lettera e) c.p.p. e art. 10 della legge
n. 46/2006,  sollevata  dal  procuratore  generale  nel  procedimento
penale  contro  Zianna  Roberto,  Corsini  Andrea  e  Fantino Edilio,
osserva quanto segue in fatto e diritto.
    La   questione   prospettata   e'   sicuramente  rilevante  nella
fattispecie   poiche'  per  effetto  della  nuova  normativa  diviene
inammissibile  l'appello presentato dal p.m. e da alcune parti civili
avverso  la  sentenza  di  proscioglimento,  emessa  dal Tribunale di
Bologna - Sezione distaccata di Porretta Terme il 16 giugno 2004.
    Nel  merito  ritiene questa Corte non manifestamente infondata la
eccezione  di illegittimita' costituzionale degli articoli suindicati
per violazione degli artt. 3, 111 e 112 della Costituzione.
    L'art.   111   Cost.   precisa  che  il  processo  si  svolge  in
contraddittorio tra le parti, in condizioni di parita'.
    Tale  principio  non  comporta  necessariamente  l'identita'  dei
poteri  processuali,  ma  un  diverso  trattamento  deve  trovare una
ragionevole  motivazione  e  giustificazione alla luce e nel rispetto
delle   relative   funzioni   e   delle   esigenze  di  una  corretta
amministrazione della giustizia (vedi Corte cost. sent. 363/1991).
    La  funzione e le garanzie della parte privata sono genericamente
individuate  nel  diritto  di  difesa,  costituzionalmente  garantito
dall'art. 24, secondo comma, Cost.
    Per converso la funzione del p.m. si dovrebbe, in modo ugualmente
generico, individuare nell'accusa.
    Tale  tautologia  non  aiuta  pero'  a definire la reale funzione
dell'accusa e della difesa.
    Con   riferimento   al   p.m.  la  specifica  funzione  e'  stata
individuata  nell'esercizio obbligatorio dell'azione penale, previsto
dall'art. 112 della Costistuzione.
    Tale  funzione  non  puo'  essere  intesa  in  senso strettamente
formale  e  cioe' come mera formulazione dell'imputazione e richiesta
di  rinvio  a  giudizio,  avendo una rilevanza e una portata ben piu'
ampia,  di  cui  si  dira'; in ogni caso non esaurisce i compiti e le
funzioni del p.m.
    E'  pertanto  evidente che l'esistenza di un ragionevole criterio
che  giustifichi  una  diversa  disciplina  processuale del p.m. deve
essere  valutata  alla  luce delle sue funzioni complessive e non del
solo  esercizio  dell'azione  penale, anche se ovviamente tale ultima
funzione,  in  quanto  costituzionalmente  garantita, assume maggiore
rilevanza.
    Non bisogna pensare all'azione penale come ad una sorta di potere
autonomo    ed    insindacabile    del    p.m.,   con   la   garanzia
dell'obbligatorieta'  quale generica espressione dell'uguaglianza dei
cittadini di fronte alla legge.
    La  garanzia  e'  in  realta'  sostanziale e nasce dalla funzione
dell'azione  penale  che  e' quella di definire il conflitto sociale,
alla cui necessaria composizione secondo verita' tende il processo.
    Tale  «definizione»  non  puo'  realizzarsi  in  forma  meramente
ipotetica  e  probabilistica, ma deve fondarsi su prove gia' raccolte
dal p.m. che in effetti non puo' esercitare l'azione penale se non in
piu'  in  presenza  di  una prova certa, utilizzabile in dibattimento
(come  si  desume  dal  dovere  di  chiedere  l'archiviazione in caso
contrario).
    L'attivita'  istruttoria non e' quindi meramente discrezionale, e
a  garanzia di tale attivita' e della sua obbligatorieta' vi e' da un
lato  la  possibilita' per le altre parti di richiedere o sollecitare
singoli  atti,  ma  soprattutto  il  potere  del  giudice  di imporre
ulteriore  attivita'  d'indagine,  nel  momento in cui il p.m. chiede
l'archiviazione  della notizia di reato o nell'udienza preliminare un
rinvio  a  giudizio  non  sufficientemente  fondato  sul  piano delle
risultanze istruttorie.
    Il  giudice  a  fronte di una richiesta di archiviazione puo' poi
sostituirsi al p.m., imponendogli una imputazione, qualora ritenga la
fondatezza della notizia di reato.
    L'attivita' del p.m. precedente l'esercizio dell'azione penale ne
costituisce  il presupposto necessario e rientra quindi in senso lato
in tale funzione.
    Ugualmente  vi rientra l'attivita' successiva e in particolare il
dibattimento  quale necessario impulso e verifica dell'azione penale,
ove le parti non concordino sulla «definizione» del conflitto sociale
e non decidano di comporlo attraverso una applicazione di pena.
    Il  collegamento e' talmente pregnante da coinvolgere il giudice,
sino  al  punto  che  il  sistema  gli conferisce specifici poteri in
merito.
    Cosi'  il  giudice  qualora  ritenga  che il fatto sia diverso da
quello  contestato deve sostituirsi al p.m. nell'individuare l'esatta
imputazione  e  deve  ritrasmettergli gli atti per la formulazione di
una  imputazione  di  cui il p.m. resta solo formalmente titolare, in
quanto nel caso di specie diventa coatta.
    Ugualmente  il  giudice  deve  sostituirsi  al p.m. e alla difesa
rispetto  ad  una attivita' istruttoria necessaria e cio' si noti non
solo in forma integrativa, ma anche suppletiva.
    Tale  funzione  e' stata pacificamente ritenuta doverosa da parte
del giudice, quale espressione del principio in esame.
    Il  giudice  e' quindi terzo rispetto alle parti, ma non rispetto
al   processo   e   al  suo  principio  cardine,  costituito  appunto
dall'obbligatorieta' dell'azione penale.
    La  Corte cost. ha ritenuto che l'appello non rientri nell'ambito
del  principio in esame, stante le facoltativita' dell'esercizio e la
possibilita' di rinuncia (vedi Corte cost. sent. n. 280/1995).
    Cio'  e'  sicuramente  esatto  in senso formale e con riferimento
all'atto specifico attraverso cui si esercita l'azione penale, ma non
in una visione generale del sistema.
    Del  resto  il  concetto  di esercizio dell'azione penale, e' ben
piu' ampio di quello di attivazione della stessa.
    E'  ovvio  che  non  esiste  un dovere di impugnazione poiche' la
sentenza,  in  questo  momento  di  sintesi,  puo  costituire un'equa
composizione  del  conflitto, secondo una ricostruzione della verita'
convincente,  alla luce della motivazione, anche per chi inizialmente
credeva nelle ragioni dell'accusa o della difesa.
    Ma  di  fronte  ad una sentenza non corretta e non convincente la
funzione  del  p.m.  non  e' arbitraria, ma vincolata ad un dovere di
impugnazione,    quale   espressione   proprio   del   principio   di
obbligatorieta' di esercizio dell'azione penale.
    Tale  dovere di impugnazione per evidenti ragioni non puo' essere
garantito  da un intervento sostitutivo del giudice, come avviene per
le  carenze  istruttorie  in fase predibattimentale e dibattimentale,
per  il  mancato esercizio dell'azione penale, per la difformita' del
fatto rispetto all'impugnazione.
    Ma anche in tal caso il sistema offre una garanzia che e' sintomo
ed espressione delle doverosita' dell'impugnazione in presenza di una
sentenza  non corretta e non convincente e cioe' l'autonomo potere di
impugnazione del p.g.
    Una   volta   proposto  un  appello,  lo  stesso  poi  si  svolge
nell'evidente salvaguardia del principio in esame.
    Nei  limiti  dei  motivi  d'appello  e  quindi  del  devoluto  la
cognizione  del  giudice  e'  infatti piena nel senso che egli non e'
vincolato   alle   risultanze   istruttorie  del  primo  grado,  alla
motivazione  del giudice, alle ragioni specifiche dedotte nei motivi,
ben  potendo  integrare l'istruttoria anche d'ufficio, costituire una
propria  motivazione  a  quella  del primo giudice anche per arrivare
alle  medesime  conclusioni,  risolvere  il  devolutum  alla  luce di
proprie considerazioni, anche diverse da quelle delle parti.
    Non  e'  pensabile  che  il giudice d'appello abbia simili poteri
collegati  al  principio di obbligatorieta' dell'azione penale, senza
ritenere che anche per l'appello operi tale principio cardine.
    Si  puo'  anzi  affermare  che  la coerenza del sistema impone la
devoluzione   piena   in   sede   di  impugnazione  quale  necessaria
conseguenza  e  garanzia del principio di obbligatorieta' dell'azione
penale.
    In  effetti  cio'  che  e'  in  crisi  non e' l'appello in quanto
devoluzione  piena,  ma  il  potere  di sostituzione nel senso che si
comprende  a fatica per quale ragione la decisione dell'appello debba
essere migliore di quella del giudice di primo grado.
    Con   il   venir  meno  della  struttura  piramidale  dell'ordine
giudiziario (che originariamente vedeva al culmine della struttura il
re  quale espressione del potere assoluto) sono venuti meno molti dei
criteri  che  giustificavano  la  bonta'  della decisione del giudice
superiore  (collegialita'  o  maggior  collegialita',  selezione  dei
giudici  piu'  esperti  e  piu'  preparati),  e  l'ulteriore elemento
costituito   dal  fatto  che  il  giudice  superiore  decide  su  una
motivazione e su dei motivi d'appello, pur significativo e pregnante,
non  e'  tale  da garantire e giustificare il prevalere della seconda
decisione  sulla  prima,  anche  perche' a fronte del piu' costituito
dalla  motivazione  e  dai  motivi,  vi  e'  il meno costituito dalla
mancata percezione diretta delle prove.
    Tale  argomento  non  vale pero' solo nell'ipotesi di condanna in
appello  a  fronte  di  una  assoluzione  in  primo  grado,  ma anche
nell'ipotesi inversa.
    De  iure  condendo,  fermo  il  principio della devoluzione piena
dell'impugnazione  quale  garanzia  dell'obbligatorieta'  dell'azione
penale, si puo' eliminare il potere di sostituzione, limitatamente al
punto  della  responsabilita',  ed  agire attraverso il rinvio sino a
giungere  ad  una  «doppia conforme» che rappresenta il massimo della
garanzia per entrambe le parti.
    Quello  che non e' consentito e' risolvere il problema eliminando
l'appello per una sola delle parti.
    Qual  e'  a  questo  punto la funzione della difesa al di la' del
generico riferimento all'art. 24 Cost.?
    Di certo non e' la contrapposizione all'accusa nella tradizionale
immagine del duello (che comunque dovrebbe avvenire ad armi pari) nel
senso  che  e'  possibile che le valutazioni coincidano e soprattutto
concorrano ad una definizione comune.
    Anzi  i sistemi accusatori sono di regola, strutturati in maniera
tale  da  rendere  normale  una  simile  soluzione  ed  eventuale  il
permanere di un dissenso che porti al dibattimento.
    Nel  sistema  anglosassone  piu'  del  90% dei processi trova una
definizione   immediata  e  il  dibattimento  costituisce  un  evento
eccezionale  e  patologico  perche'  o il p.m. ha chiesto il rinvio a
giudizio  in  assenza  di  prove  idonee  o  l'imputato ha falsamente
dichiarato  la  propria  non colpevolezza, avendo invece il dovere di
dire la verita' sul punto.
    In  realta'  la funzione della difesa e' quella del bilanciamento
dell'accusa  che, come detto, puo' arrivare alla contrapposizione, ma
anche  all'accordo  e  il  diritto di difesa ha senso in funzione dei
poteri  dell'accusa:  ove  cioe' esiste un potere dell'accusa dove in
linea di massima esistere qualche potere di difesa, ancorche' diverso
e  non  contestuale, che bilanci la situazione e determini la parita'
delle parti.
    La sentenza in quanto momento di sintesi e' al di fuori da questo
schema  e  la possibilita' di impugnazione non nasce dalla necessita'
di   una   difesa   rispetto  ad  un  potere  dell'accusa,  ma  dalla
consapevolezza della fallibilita' della decisione del giudice.
    E'  tale fallibilita' che giustifica l'appello e rispetto ad essa
e  in generale alla sentenza non esiste quindi una maggiore pregnanza
del diritto di difesa rispetto all'accusa.
    Da  cio'  deriva la visione di un processo di parti portatrici di
interesse   diversi   i   cui   poteri  devono  bilanciarsi,  ma  non
necessariamente  e funzionalmente contrapposte e quindi in definitiva
portatrici di un interesse convergente quale e' appunto la necessita'
di composizione del conflitto sociale secondo verita'.
    E'  proprio questa funzione sociale comune che da' significato al
principio di parita'.
    In conclusione il sostanziale divieto d'appello da parte del p.m.
nell'ipotesi di sentenza di assoluzione viola il principio di parita'
delle parti, non esistendo alcuna valida giustificazione ad una cosi'
incisiva  e  pregnante  limitazione  dei  poteri  del p.m. rispetto a
quelli  corrispondenti dell'imputato, e viola altresi il principio di
obbligatorieta' dell'azione penale nel cui ambito deve ricomprendersi
l'obbligo  di  impugnazione  da  parte  del  p.m.  di una sentenza di
assoluzione non corretta e non convincente.
    Tale  divieto  viola  anche  il  principio  costituzionale di cui
all'art.  3  poiche'  non si comprende per quale ragione un cittadino
ingiustamente  assolto  dovrebbe essere favorito rispetto ad un altro
condannato  ad  una  pena  ingiustamente  troppo  mite,  al  punto da
permettere  l'appello  del  p.m.  nel  secondo caso ed escluderlo nel
primo,  pur  essendo  la  lesione sociale piu' grave nel primo caso e
meno nel secondo.
    Ne'  la  ragionevolezza  di  un  simile strabico sistema potrebbe
fondarsi  sulla considerazione che nel primo caso vi sarebbe comunque
il  ricorso  per  Cassazione,  perche'  questo non realizza l'effetto
devolutivo  pieno dell'appello e resterebbe comunque la disparita' di
trattamento.
    I  sostenitori  della  novella  ritengono  che in presenza di una
sentenza  di  assoluzione  in  primo  grado,  l'eventuale condanna in
appello   non   potrebbe   superare   il   ragionevole  dubbio  sulla
responsabilita' dell'imputato.
    Tale  argomento ha un difetto di prospettiva poiche' l'assenza di
dubbio  deve  riguardare  le risultanze processuali e non il processo
formativo della decisione nei vari gradi di giudizio.
    Il  dubbio  sulla  maggiore  validita'  della  sentenza d'appello
rispetto  a  quella  di primo grado e', come detto, legittimo, ma non
bisogna  confondere l'effetto devolutivo dell'appello, necessario per
dare  piena  attuazione  al  principio di obbligatorieta' dell'azione
penale, con il potere di sostituzione.
    Quest'ultimo puo' essere ritenuto non giustificato per le ragioni
anzidette  e quindi eliminato in tema di responsabilita' e sostituito
da  meccanismi di rinvio, ma con riferimento ad entrambe le parti, in
condizioni di parita'.
                              P. Q. M.
    Visto  l'art.  23  della  legge  11  marzo  1983, n. 87, dichiara
rilevante   e   non   manifestatamene   infondata   la  questione  di
legittimita' costituzionale degli artt. 1 e 10 legge 20 febbraio 2006
e 46 in relazione agli artt. 3, 111 e 112 della Costituzione.
    Sospende  il  giudizio  in  corso e dispone la trasmissione degli
atti alla Corte costituzionale.
    Ordina  alla  cancelleria di notificare l'ordinanza e la relativa
motivazione  al Presidente del Consiglio dei ministri, di comunicarla
ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
        Bologna, addi' 6 aprile 2006
                        Il Presidente: Lenzi
07C0305