N. 200 ORDINANZA (Atto di promovimento) 13 giugno 2006

Ordinanza  emessa il 13 giugno 2006 dalla Corte di appello di Lecce -
Sezione  distaccata  di  Taranto  nel procedimento penale a carico di
Cito Giancarlo ed altri

Processo penale - Appello - Modifiche normative - Possibilita' per il
  pubblico  ministero  di  proporre  appello  contro  le  sentenze di
  proscioglimento   -   Preclusione,   salvo  nelle  ipotesi  di  cui
  all'art. 603,  comma 2,  cod.  proc.  pen.,  se  la  nuova prova e'
  decisiva  - Violazione del principio di ragionevolezza - Disparita'
  di  trattamento,  tra  l'imputato  assolto  all'esito  del giudizio
  abbreviato  e  quello  assolto  all'esito  del giudizio ordinario -
  Violazione  del  principio  della parita' delle parti - Lesione del
  principio della obbligatorieta' dell'azione penale.
- Codice  di  procedura  penale,  art. 593,  comma 2, come sostituito
  dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46.
- Costituzione, artt. 3, 111 e 112.
Processo   penale  -  Appello  -  Modifiche  normative  -  Disciplina
  transitoria   -  Inammissibilita',  dichiarata  con  ordinanza  non
  impugnabile,  dell'appello  proposto  dal pubblico ministero contro
  una  sentenza di proscioglimento prima dell'entrata in vigore della
  novella  -  Violazione del principio di ragionevolezza - Disparita'
  di  trattamento,  tra  l'imputato  assolto  all'esito  del giudizio
  abbreviato  e  quello  assolto  all'esito  del giudizio ordinario -
  Violazione  del  principio  della parita' delle parti - Lesione del
  principio della obbligatorieta' dell'azione penale.
- Legge 20 febbraio 2006, n. 46, art. 10, comma 2.
- Costituzione, artt. 3, 111 e 112.
(GU n.15 del 11-4-2007 )
                         LA CORTE DI APPELLO

    Sull'eccezione  di  illegittimita'  costituzionale dell'art. 593,
comma  2  c.p.p,  come modificato dall'art. 1 della legge 20 febbraio
2006,  n. 46,  proposta all'udienza del 3 aprile 2006 dal procuratore
generale.
    Intese  le  parti  ed  esaminata  la  memoria  difensiva prodotta
all'odierna udienza.

                          Osserva in fatto

    Con  sentenza  del  17  giugno  2004 il Tribunale di Taranto, tra
l'altro,  riqualificato  il  fatto  ascritto  all'imputato  De  Palma
Vincenzo nel delitto di cui all'art. 318 c.p., dichiarava non doversi
procedere  nei  confronti  del  predetto  in  ordine a tale reato per
estinzione  del  medesimo  per  intervenuta prescrizione ed assolveva
l'imputato  Cito Giancarlo dal reato di cui all'art. 317 c.p. perche'
il fatto non sussiste.
    Avverso  tale  sentenza,  oltre  all'imputato De Palma Vincenzo e
alla  costituita  parte  civile,  interponeva appello, fra gli altri,
l'ufficio  della Procura della Repubblica di Taranto con atto in data
29  ottobre  2004,  chiedendo che la Corte, in riforma dell'impugnata
sentenza,  affermasse  la  penale  responsabilita'  del  De Palma, in
ordine   al   delitto   di   cui  all'art. 317  c.p.  originariamente
contestatogli, sia dell'imputato Cito Giancarlo.
    All'udienza  dibattimentale  del  3  aprile  2006, il procuratore
generale,  preso  atto delle limitazioni alla facolta' di appello del
pubblico  ministero  introdotte dalla sopravvenuta modifica dell'art.
593,  comma  2  c.p.p  per effetto della previsione di cui all'art. 1
della  legge  n. 46/2006,  e  ritenute  dette  limitazioni riferibili
all'impugnazione  in  discussione nel presente procedimento, eccepiva
l'illegittimita' costituzionale della norma succitata con riferimento
agli artt. 111, 112 e 3 della Costituzione.

                         Osserva in diritto

    In  base al nuovo testo dell'art. 593 c.p.p, e' vietato l'appello
del pubblico ministero contro le sentenze di primo grado che si siano
concluse  con il proscioglimento dell'imputato con qualsiasi formula.
Per  effetto di tale modifica legislativa, il secondo comma dell'art.
593  c.p.p, nell'attuale formulazione, consente al pubblico ministero
e  all'imputato  di  appellare le sentenze di proscioglimento solo se
con  i  motivi  di  appello,  ai sensi dell'art. 603 cpv c.p.p, venga
richiesta   la   rinnovazione   dell'istruttoria  dibattimentale  per
l'assunzione  di  prove sopravvenute o scoperte solo dopo il giudizio
di   primo  grado  e  se  dette  prove  abbiano  il  carattere  delle
decisivita'.
    Da  cio'  discende,  da  un punto di vista procedurale, che se il
giudice  dell'appello  non  ammette  in  via preliminare l'assunzione
della  nuova  prova,  decisiva  per  la  riapertura  dell'istruttoria
dibattimentale,  deve  dichiarare l'inammissibilita' del gravame e le
parti,  entro il termine di quarantacinque giorni dalla notificazione
della  relativa  ordinanza,  possono  proporre ricorso per cassazione
anche avverso la sentenza di primo grado.
    A  tutto  cio' si deve aggiungere che la formulazione della nuova
norma  ha precluso la possibilita' al pubblico ministero di appellare
le   sentenze   di  proscioglimento  emesse  a  seguito  di  giudizio
abbreviato  lasciando,  di  contro,  immutato  il  testo di legge per
quanto attiene l'impugnazione delle sentenze di non luogo a procedere
contro le quali, a norma dell'art. 428 c.p.p e' esperibile unicamente
il ricorso per cassazione.
    Va,  infine,  rilevato come il nuovo testo di legge, recependo il
messaggio  di  rinvio della legge alle Camere da parte del Capo dello
Stato, ha previsto, ai sensi dell'art. 576 c.p.p, la possibilita' per
la   parte   civile   di  proporre  appello  contro  le  sentenze  di
proscioglimento ai soli effetti della responsabilita' civile.
    Orbene,  con  riferimento  a tutto quanto precedentemente esposto
sulla   vicenda  processuale,  risulta  rilevante,  ai  fini  di  una
dichiarazione di illegittimita' della norma, la questione prospettata
dal procuratore generale.
    Sicche',  applicando la nuova normativa al procedimento pendente,
devesi  di  conseguenza  affermare  che l'appello proposto dal p.m e'
soggetto   a  declaratoria  di  inammissibilita',  lasciando  al  p.m
appellante l'unico rimedio possibile quale il ricorso per cassazione,
rimedio  di natura sicuramente diversa e molto piu' limitata rispetto
a quello dell'appello.
    In  particolare, al fine di dimostrare l'assoluta rilevanza della
questione   prospettata   dalla   pubblica   accusa,   e'   opportuno
sottolineare  come  la  novella  legislativa, seppur abbia ad oggetto
l'inappellabilita'  delle  sentenza  di  proscioglimento da parte sia
dell'imputato  che  del  pubblico  ministero,  ha  di  fatto limitato
esclusivamente  il  potere della pubblica accusa di presentare motivi
di gravame avverso una sentenza di proscioglimento di primo grado.
    Al  riguardo, va ricordato come all'imputato tale preclusione era
gia'  stata inibita dalla precedente normativa allorquando gli veniva
vietato  di  appellare sentenze di proscioglimento con formula piena.
Inquadrata  nei  corretti  binari  processuali  la  questione, e' ben
evidente  che,  allo stato, l'interesse ad affrontare la questione in
sede  costituzionale  sussiste  unicamente  in  capo  all'ufficio del
pubblico  ministero,  il  quale,  come  gia'  detto, di fronte ad una
sentenza   di   proscioglimento   di  primo  grado  si  trova,  nella
grandissima maggioranza di casi, impossibilitato a proporre appello a
meno  che,  dopo il giudizio di primo grado, siano emerse nuove prove
che devono, per giunta, possedere il connotato della «decisivita» per
il giudizio.
    Ed  allora,  tale  sottrazione  di  facolta'  processuali  per la
pubblica   accusa   impone   necessariamente   un   controllo   sulla
ragionevolezza  della  previsione normativa, soprattutto, allorquando
la  limitazione  delle  summenzionate  facolta', relative alla figura
istituzionale  del  pubblico  ministero,  si  ricollegano  a principi
stabiliti dalla nostra Costituzione.
    In  primo luogo la nuova normativa, cosi' come formulata, si pone
in  contrasto  con  il  principio  della  obbligatorieta' dell'azione
penale di cui all'art. 112 della Costituzione.
    Al  riguardo,  va  ricordato  come  la giurisprudenza della Corte
costituzionale,  allorquando  ha  affrontato il problema dei rapporti
tra  potere  di impugnazione e obbligatorieta' dell'azione penale, ha
prodotto un quadro giurisprudenziale alquanto oscillante.
    Ed  infatti,  a  fronte di un primo orientamento che riteneva che
potere   d'impugnazione  fosse  «un  estrinsecazione  ed  un  aspetto
dell'azione  penale,  ovvero un atto conseguente - obbligatorio e non
discrezionale - al promuovimento dell'azione penale» (ex multis Corte
costituzionale,   sent.   177   del  1971,  98  del  1994)  la  Corte
costituzionale, in questi ultimi anni, ha stabilito che «il potere di
impugnazione     del     pubblico     ministero    non    costituisce
un'estrinsecazione   necessaria  dei  poteri  inerenti  all'esercizio
dell'azione  penale»  (cfr.  Corte  costituzionale ord. n. 347/2002 e
n. 165 del 9 maggio 2003).
    Sul  punto,  giova richiamare la posizione di quella dottrina che
ricollega l'operativita' del precetto contemplato dall'art. 112 Cost.
non  solo  al  promuovimento  dell'azione  penale  ma  anche  al  suo
proseguimento  in  un  contesto di comportamenti processuali coerenti
che coinvolge anche la sfera delle impugnazioni.
    E'  possibile  osservare,  inoltre, come l'azione penale, proprio
perche'  tesa  all'attuazione  dell'interesse  punitivo  dello  Stato
implica, logicamente e coerentemente, anche il potere di impugnazione
di   una  sentenza  che  dovesse  lasciare  totalmente  insoddisfatto
quell'interesse.
    In  altri  termini,  la  pubblica  accusa, diversamente da quanto
affermato (sent. Corte costituzionale n. 280 del 1995) in ordine alla
discrezionalita'  dei  potere  del pubblico ministero di impugnazione
desumibile   dall'istituto   della   rinuncia   e   dell'acquiescenza
all'impugnazione,  cosi' come non ha l'obbligo di esercitare l'azione
penale  nei  confronti di una notizia di reato infondata, allo stesso
modo non ha l'obbligo di impugnare una sentenza secundum legem.
    Pertanto, stando cosi' le cose, appare evidente come gli istituti
della  rinuncia  e  acquiescenza  non  possano essere riconducibili a
valutazioni    di    discrezionalita'    ma   all'ormai   consolidato
convincimento della correttezza giuridica della decisione dei giudice
di primo grado.
    Ed  allora,  ecco  che  dinanzi  ad  un  orientamento  abbastanza
oscillante  da  parte  della  Corte costituzionale, e in forza di una
parte   della   dottrina   che,  invece,  ritiene  che  il  principio
dell'obbligatorieta'  dell'azione  penale deve necessariamente essere
correlato  al  potere di impugnazione da parte del pubblico ministero
nei  confronti  di  una  sentenza  di  primo grado di assoluzione, e'
indispensabile  una  valutazione  in  merito  da  parte  della  Corte
costituzionale.
    Altro  profilo  di rilevanza costituzionale che merita un'attenta
analisi e' quello relativo al principio della parita' delle parti nel
processo   penale,   sancito   dall'art.   111  secondo  comma  della
Costituzione,  come  novellato dalla legge costituzionale 23 novembre
1999, n. 2.
    Al  riguardo  giova  precisare,  in  questa  sede, che oggetto di
analisi  da  parte  della  Corte  non  e' il principio riguardante il
contraddittorio  tra  le  parti nella formazione della prova, sancito
dal  comma  quarto della predetta norma, ma quello di stabilire se il
divieto  posto  al  pubblico  ministero  di  appellare le sentenze di
assoluzione  violi,  in  maniera ragionevole, la posizione di parita'
delle parti.
    Ed  e' sul concetto di «ragionevole» che ci si deve soffermare al
fine  di  valutare  se  la  formulazione  della  nuova  normativa  ha
compresso, in maniera netta, il potere della pubblica accusa a favore
dell'altra parte processuale.
    Orbene,  va  da  se'  che  limitare il potere di impugnazione nei
confronti  di  una  sentenza di condanna emessa a seguito di giudizio
abbreviato  e'  certamente  ragionevole,  ove si consideri che quella
sentenza,  soddisfa  la pretesa punitiva della pubblica accusa e che,
comunque, trova giustificazione «nell'obiettivo primario della rapida
e  completa  definizione  dei processi svoltisi in primo grado con il
giudizio abbreviato» (cfr. ord. Corte costizuonale n. 165 del 2003).
    Non  puo',  al  contrario, ritenersi legittimo limitare il potere
d'appello  contro  le  sentenze di assoluzione emesse a seguito di un
giudizio  ordinario, in quanto quella preclusione comporta una palese
disparita'  di trattamento che non e' costituzionalmente ammissibile,
non  trovando  ragionevole  giustificazione nella peculiare posizione
della  parte  pubblica  nella  funzione  attribuitole  o  in esigenze
connesse alla corretta amministrazione della giustizia.
    Sul  punto,  la  Corte  costituzionale  ha  gia'  avuto  modo  di
pronunciarsi  con diverse e ripetute pronunce (ex multis sentt. della
Corte costituzionale n. 190 del 1970, n. 110 del 1980 e 363 del 1991)
affermando   che  l'emanazione  di  una  norma  che  «consentisse  la
vanificazione  del  diritto  di  impugnazione  del pubblico ministero
sarebbe    censurabile    sotto   il   profilo   della   legittimita'
costituzionale» (sent. n. 155 del 1974).
    Ma  non puo' dubitarsi, a questo punto, che tali affermazioni non
solo  non  sono  state superate dal tempo ma trovano piena attualita'
nel  dettato dell'art. 111 della Costituzione, ove il principio della
parita' delle parti e' espressamente richiamato.
    Ne  consegue  che  vietare  al  pubblico  ministero  di appellare
sentenze   di   assoluzione,   equivale   ad  introdurre  nel  nostro
ordinamento una «discriminazione» priva di ogni giustificazione da un
punto  di  vista  della  ragionevolezza  e  alla  luce  dei parametri
richiamati dalla Corte costituzionale.
    Anche, dunque, per questo aspetto come per quello precedentemente
esaminato, occorre sottoporre la scelta legislativa che ha modificato
l'art.  593  c.p.p.  ad un accurato esame da parte della Consulta. E'
possibile,  infine,  ravvisare  nella nuova norma di cui all'art. 593
c.p.p.  un  contrasto  con  l'art.  3 della Costituzione in quanto il
divieto  di  appello  da  parte  del  pubblico  ministero, cosi' come
disciplinato,   determinerebbe  una  disparita'  di  trattamento  tra
l'imputato  assolto  all'esito  del  giudizio abbreviato e l'imputato
assolto  all'esito  del giudizio ordinario. E' ben noto, ormai, che a
norma  del  novellato  art. 593  c.p.p.  il  divieto  per il pubblico
ministero di appellare le sentenze di assoluzione trova una eccezione
nel  caso in cui, dopo il giudizio di primo grado, siano sopravvenute
o   scoperte  nuove  prove  decisive  a  carico  dell'imputato.  Tale
eccezione  non  e'  prevista,  invece, per le sentenze di assoluzione
pronunciate a seguito del giudizio abbreviato per le quali il divieto
di' appello e' assoluto.
    La  conseguenza  che  ne  discende e' che l'imputato del giudizio
abbreviato  godrebbe,  oltre  che  di  un  trattamento  sanzionatorio
premiale,  anche  di  un  ulteriore  beneficio  che  non puo' trovare
giustificazione  nell'obiettivo  primario  della  rapida  e  completa
definizione dei processi.
                              P. Q. M.
    Letto l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara  rilevante  e  non  manifestamente infondata la proposta
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 593, secondo comma
c.p.p., come modificato dall'art. 1 della legge n. 46 del 20 febbraio
2006  nella  parte  in  cui  limita il potere di appello del pubblico
ministero  contro  le  sentenze di assoluzione ai casi in cui dopo il
giudizio  di  primo grado siano scoperte o sopravvenute nuove prove e
sempre  che  tali  prove  siano decisive, nonche' dell'art. 10, comma
secondo  della  legge  n. 46/2006  nella  parte in cui stabilisce che
l'appello  del  pubblico  ministero,  proposto contro una sentenza di
proscioglimento  prima  dell'entrata  in  vigore  della  legge, viene
dichiarato  inammissibile con ordinanza non impugnabile per contrasto
con gli artt. 111, 112 e 3 della Costituzione.
    Dispone,  a  cura  della  cancelleria, la trasmissione degli atti
alla  Corte  costituzionale,  previa  notifica di questa ordinanza al
procuratore   generale  e  all'imputato  nonche'  al  Presidente  del
Consiglio dei ministri.
    Dispone,  infine,  la  comunicazione  della suddetta ordinanza ai
Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
    Sospende il procedimento in corso.
        Taranto, addi' 13 giugno 2006
                       Il Presidente: Trunfio
Il consigliere relatore: Massafra
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